Stato di necessità

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In presenza di un pericolo attuale di un grave danno alla persona, il soggetto interessato può compiere, in danno di un terzo, un fatto previsto dalla legge come reato.

Ai fini della esclusione del reato, occorre che tale comportamento sia necessario per salvarsi, che sia proporzionato al pericolo e che non sia stato posto in essere e/o provocato dal soggetto agente.

Si differenzia dalla legittima difesa per il bene tutelato (solo diritti personali) e per il fatto che il danno non viene provocato all’aggressore ma a un soggetto terzo incolpevole.

L’articolo 2045 c.c. “stato di necessità” stabilisce che “quando chi ha compiuto un fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice”. Il primo comma prevede anche la fattispecie del cd. soccorso di necessità che ricorre quando l’azione lesiva di un interesse protetto proviene non dal soggetto minacciato ma da un terzo soccorritore.

La scriminante consente, quindi, a chi si trova in una situazione di grave pericolo di uscirne, anche e addirittura, commettendo reati a scapito di terzi innocenti (e non aggressori).

  • Si pensi ad esempio, a chi, per mettersi in salvo, spintona e fa cadere (cagionandogli lesioni) un’altra persona che, al pari di lui, sta figgendo da un locale invaso dalle fiamme. 
  • Ad esempio, non è punibile il naufrago che per salvarsi, colpisce un altro individuo che ha tentato di aggrapparsi al suo stesso salvagente capace di sostenere soltanto una persona. L’azione deve essere assolutamente necessaria per salvarsi da un danno grave alla persona e non a qualsiasi diritto altrui.

Ricorrendo il pericolo attuale di un danno grave alla persona (il bene della vita o della incolumità personale) e purché la situazione di pericolo non sia stata causata dallo stesso soggetto (con dolo o colpa), il soggetto può compiere in danno di un terzo un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che questa sia assolutamente necessaria per salvarsi e sia proporzionata al pericolo, e sempre che il soggetto non abbia un particolare dovere di esporsi al pericolo stesso (art. 54 c.p.).

  • Non potrebbe, ad esempio, invocare di aver agito in stato di necessità, il comandante di una nave che sacrifica la vita di un passeggero per porsi in salvo sull’unico mezzo di soccorso rimasto ovvero il personale della Guardia Costiera che durante l’opera di salvataggio, si fosse allontanato omettendo così di esporsi a qualsiasi pericolo.

Perché ricorra lo stato di necessità occorre, dunque:

  1. l’esistenza di una situazione di pericolo attuale, da cui possa derivare un danno grave alla persona la quale non lo abbia causato né sia tenuto ad esporsi;
  2. un’azione lesiva assolutamente necessaria per salvarsi e proporzionata al pericolo.

Come nella legittima difesa anche nell’ipotesi dell’art. 54 c.p. l’azione necessitata può essere determinata dall’esigenza di preservare oltre che un diritto dell’agente un diritto di un terzo.
L’art. 54, 3° comma estende l’ambito della scriminante anche all’ipotesi del costringimento psichico che si ha allorché un soggetto commette un reato perché indotto dalla altrui minaccia.  

 

 

Tale scriminante si differenzia, però, dalla legittima difesa perché:

  1. lo stato di necessità è previsto solo a salvaguardia di «diritti personali»;
  2. nello stato di necessità la reazione anziché rivolgersi nei confronti dell’aggressore riguarda un «terzo incolpevole»;
  3. infine in tale ipotesi può residuare a carico dell’Agente un «obbligo di indenizare» equamente[1] colui che sia stato danneggiato dalla sua condotta.

L’ultimo comma dell’art. 54 statuisce che, se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
Tutte le cause di giustificazione hanno perciò limiti di ammissibilità, eccedendo i quali il reato torna a sussistere.
La considerazione introduce ad un tema più generale che è quello del rapporto fra i diritti e i doveri spettanti e incombenti su chiunque svolge funzioni o servizi pubblici.
Lo svolgimento di tali funzioni e servizi dà luogo ad un complesso di «diritti privilegiati», ma, nel contempo, di «obblighi più stringenti».

  • E’ per questo motivo ad esempio, che il codice penale punisce più gravemente chi minaccia un Pubblico Ufficiale (art. 336 c.p.) rispetto a chi minaccia un qualsiasi altro cittadino (art. 612 c.p.) ovvero prevede taluni aggravamenti del reato se il fatto è commesso ai danni di un Pubblico Ufficiale (art. 61, n.9 c.p.).  

Ma è proprio per questo motivo che, all’inverso, il codice punisce più gravemente alcuni fatti se commessi dal anziché dal privato oppure prevede come reati condotte che non sono tali se tenute dal semplice cittadino.

  • Si pensi ad esempio, a quest’ultima ipotesi ai reati di abuso d’ufficio (art. 328 c.p.) ovvero, per la prima al peculato (art. 314 c.p.) e all’appropriazione indebita (art. 646 c.p.): in entrambi i casi può essersi in presenza della stessa condotta di appropriazione di beni della pubblica amministrazione. Ma nel primo caso, poiché la condotta è tenuta dal Pubblico Ufficiale , la legge punisce con una sanzione estremamente più grave.

 


[1] Si parla di «indennizzo» e non di «risarcimento», in quanto l’azione compiuta in stato di necessità è un’azione lecita. L’obbligo di risarcimento, invece, si ricollega al compimento di atti illeciti.