Provvedimenti restrittivi della libertà personale

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Una generale riconsiderazione s'impone in materia di misure restrittive e limitative della libertà personale. Secondo l'articolo 13 della Costituzione, la libertà personale è inviolabile e non è ammessa forma alcuna di detenzione, d’ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

Tuttavia, in casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente, possono essere adottati provvedimenti provvisori da Autorità diverse dal Giudice, che devono essere, però, comunicati entro 48 (quarantotto) ore all'Autorità Giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive 48 (quarantotto) ore, s’intendono revocati e privi di ogni effetto. 

Tale norma-base ha ricevuto un'articolata disciplina attuativa dal Codice di procedura penale, con connotazioni più garantiste rispetto all'abrogato Codice del  1930 e delle successive modificazioni ad esso apportate. Ma anche rispetto alla disciplina comune, inefficace dal 24 ottobre 1989, il Codice penale militare di pace, presentava in materia marcati tratti differenziali rimessi all'esame della Corte costituzionale[1]. 

Secondo l'art. 308. 1 comma, c.p.m.p., le persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria militare "devono procedere o far procedere all'arresto di chiunque è colto in flagranza di un reato militare, punibile con pena detentiva o con pena più grave". Tale norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 503 del 26 ottobre, pubblicata il 15 novembre 1989, perché in stridente ed inconciliabile contrasto con i principi generali in materia di restrizioni della libertà personale, ricavabili dall'art. 13 della Costituzione giudiziaria militare in materia di detenzione, trova nel dettato costituzionale, come sole eccezioni consentite, i casi di necessità e di urgenza, oggetto di tassativa previsione legislativa. 

A fronte di tale quadro di riferimento, l'art. 308 c.p.m.p. presentava una sfera derogatoria talmente ampia da collocarsi agli antipodi di ciò che s'intende per eccezionalità, tanto da tradursi, immotivatamente, in criterio assoluto e onnicomprensivo. 

Con il venire meno della disposizione, alla determinazione dei casi di arresto in flagranza per reati militari soccorrono gli articoli 380 e 381 c.p.p.[2], applicabili in virtù del rinvio generale sopra indicato (art. 261 c.p.m.p.), che disciplina le ipotesi in cui l'adozione dei suddetti provvedimenti provvisori, da parte della Polizia Giudiziaria è, rispettivamente, obbligatoria o facoltativa.

La nozione di "flagranza" è data dall'articolo 382 c.p.p.: è in stato di flagranza chi viene colto nell'atto di commettere un reato (flagranza in senso proprio) o chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima (casi di quasi flagranza). Nei reati permanenti (ad esempio, quelli d'assenza dal servizio), lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza.

 


[1] La Corte Costituzionale è intervenuta due volte nella materia in titolo: la prima volta, con sentenza n. 74/85, la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.m.p., che conferiva al Comandante di Corpo la potestà di adottare la c.d. “detenzione in via disciplinare” fuori dei casi di flagranza e in assenza di ordine o mandato di cattura, senza prevedere particolari limitazioni, per il Comandante stesso, in ordine alla durata del provvedimento di detenzione. La Corte, poi, è tornata sull’argomento con la sentenza n. 503/89, dichiarando l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 308, 1° comma, c.p.m.p., che imponeva all’Ufficiale di p.g.m. l’obbligo di procedere ad arresto nella flagranza di qualsiasi reato militare. E’ in stato di flagranza colui che viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero, subito dopo il reato, è inseguito dalla Polizia Giudiziaria o viene colto con cose o tracce da cui traspaia la commissione del reato (=quasi flagranza). Entrambe le sentenze poggiano sulla violazione dell’art. 13 della Costituzione. Esso afferma che l’adozione di provvedimenti cautelari di restrizione della libertà personale da parte della Polizia Giudiziaria deve aversi solo in casi di necessità ed urgenza tassativamente indicati dalla legge, fermo restando l’obbligo di comunicazione all’Autorità Giudiziaria entro 48 ore e la convalida degli stessi provvedimenti entro le successive 48 ore. Abrogato, quindi, lo specifico istituto penale militare dell’arresto in flagranza, sono le disposizioni degli artt. 380 e 381 del c.p.p. a determinare i casi di arresto obbligatorio o facoltativo, in flagranza per i reati militari commessi dai militari. Fuori dei casi di flagranza, si può applicare, ai militari autori di reati militari, il fermo di Polizia Giudiziaria, previsto dall’art. 384 c.p.p., che determina anche tutte le condizioni legittimanti il fermo stesso. 

[2] Nel caso di arresto facoltativo deve esistere la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

a)   gravità del fatto (luogo, causali, danno provocato, mezzi utilizzati, modalità dell’azione);

b)   pericolosità del soggetto (precedenti penali, condotta successiva al reato, condotta di vita individuale).