Il Diritto Internazionale Marittimo

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Con l’avvio delle conquiste coloniali del XV° secolo, il mare acquisisce crescente importanza, dovuta al ruolo di via di comunicazione privilegiata per le terre di nuova scoperta. Come non esisteva un diritto internazionale consolidato, però, non esisteva neppure un diritto marittimo che fosse rispettato ed accettato da tutti gli Stati interessati. Vigeva, dunque, la “regola del più forte”: il mare era dominio di chi aveva più mezzi, più risorse, più interessi e capacità (militari, logistiche, economiche, ecc.).
Ma le conquiste coloniali stimolarono gli appetiti di molti Stati, tanto che il principio del “
dominio sui mari” apparve presto come una barbarie che richiedeva che venisse trovata una qualche forma di limitazione almeno attraverso una regolamentazione minima di principio.
L’Olanda era uno di quegli Stati che, pur dotato di notevole capacità imprenditoriale ed economica, non aveva la forza necessaria ad imporsi laddove esisteva il potere consolidato di altre nazioni (Inghilterra in testa, ma anche Spagna, Portogallo e Francia). Furono infatti proprio studiosi olandesi (tra cui, in particolare,
Ugo Grozio) che, ai primi del 1600, si fecero portatori di una rivoluzionaria teoria del “diritto del mare”, non più basata sulla regola del “dominio dei mari” bensì sul principio del “mare libero”, cioè: il mare è di tutti e non è soggetto ad appropriazione da parte di alcuno.

 

 Ugo Crozio difende il principio della libertà dei mari

 

Tale teoria minava, in particolare, il potere marittimo dell’Inghilterra, cui il principio del dominio sui mari era stato sino ad allora favorevole. Non a caso l’inglese John Selden, qualche anno dopo Grozio ancora sosteneva e rivendicava strenuamente il principio del “dominio dei mari”, anche perché l’Inghilterra – da sempre tendente ad isolarsi dalla comunità internazionale - temeva, in virtù del principio della libertà dei mari, di trovare sotto le proprie coste l’indesiderata presenza di navi di altri Paesi.

 

John Selden difende il principio del dominio del mare

 

Tuttavia, il tentativo conservatore inglese era destinato all’insuccesso, visto il largo seguito che il principio della libertà dei mari aveva ormai conquistato. Tanto che ad esso dovette mettersi un freno, un limite che garantisse allo Stato costiero di mantenere un adeguato livello di sicurezza interna da invasioni e attacchi; il primo limite fu determinato dalla capacità di tiro delle batterie d’artiglieria costiere, ovvero della capacità di difendere le coste con le armi (infatti il limite originario di 3 miglia, quale confine marittimo entro cui lo Stato costiero poteva esercitare la propria sovranità, era stato determinato proprio dalla suddetta capacità e poi accettato dalla maggior parte degli Stati).

Soltanto nel 1800 il principio della codificazione di una “mare territoriale”, ovvero equiparato a tutti gli effetti al territorio dello Stato costiero, fece breccia nella dottrina, anche se la prassi internazionale continuò sostanzialmente ad ignorarla addirittura sino ai primi del ‘900. Con le sempre maggiori capacità di provvedere alla difesa costiera e con la maggiorata attitudine ad esercitare attività (pesca, cabotaggio, ecc.) redditizie a sempre più elevata distanza dalla costa, da parte dello Stato costiero, il principio della libertà dei mari si sgretolò nella sua assolutezza, venendo relegato sempre più al largo, lontano dalle coste. Mano a mano che nuove tecnologie consentivano di rendere economicamente possibile ed interessante sfruttare risorse rintracciate a distanza dalla costa, il limite dell’area controllabile e ritenuta essenziale agli interessi dello Stato costiero si andò difatti ampliando, anche per la spinta dei Paesi del Terzo Mondo, alla ricerca di ricchezze (o, comunque, di qualunque risorsa utile) necessarie al loro sviluppo.