I primi sforzi tesi alla codificazione del diritto marittimo da parte della Comunità internazionale si registrarono nella prima metà del XX° secolo.
La prima conferenza di codificazione, tenutasi a Ginevra nel 1930, non produsse tuttavia alcun risultato, stanti le divergenze tra gli Stati partecipanti.
La necessità di una rapida codificazione del diritto del mare si rivelò sempre più forte, tanto che sulla spinta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (che subentrò nel ruolo che era stato della Società delle Nazioni), il lavori, sebbene faticosamente, approdarono ad un risultato accettabile solamente nel 1958, a chiusura della prima Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che portò alla codificazione di quattro convenzioni (note come Convenzioni di Ginevra del 1958).
La Conferenza di Ginevra 29 aprile 1958 si concluese con l’adozione di quattro Convenzioni aventi per oggetto:
1. il mare territoriale e la zona contigua;
2. l’alto mare;
3. la pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare;
4. la piattaforma continentale.
Le suddette Convenzioni, entrate in vigore tra il 1962 e il 1966 (l’Italia ha ratificato soltanto le prime due), ancorché oggi risultino sostanzialmente superate dalla Convenzione di Montego Bay, raggiunsero risultati importanti nella codificazione del diritto del mare, sancendo in modo definitivo «il diritto allo sfruttamento della “piattaforma continentale”, definendo i poteri esercitabili dagli Stati membri nella “zona contigua” e riconoscendo agli Stati privi di litorale il diritto di accesso al litorale più vicino ed alla libera navigazione in alto mare».
Per contro, le Convenzioni di Ginevra lasciarono irrisoltie due importanti problemi:
Il diritto del mare scaturito dalle Convenzioni di Ginevra 1958 nasceva già vecchio e contrastato, specie sulle questioni della «delimitazione del mare territoriale» e dei «limiti delle zone di pesca».
Difatti, appena due anni dopo risultò necessario ed urgente porre mano ad innovare le quattro Convenzioni, attraverso la convocazione a Ginevra di una seconda Conferenza (1960) sul diritto del mare, la quale indetta per dare soluzione alle due problematiche ereditate dalla Convenzione del 1958, si concluse, tuttavia, con un pieno insuccesso.
La situazione creatasi a seguito dell’inasprirsi della cosiddetta “guerra fredda” e la conseguente paralisi delle organizzazioni internazionali, impedì per più di un decennio di ritornare a pensare ad una compiuta codificazione del diritto del mare.
Sotto la spinta delle nuove esigenze dei Paesi in via di sviluppo, fu convocata la Conferenza di Montego Bay (Giamaica), svoltasi in undici sessioni tra il 1973 e il 1982.
Tale Conferenza è stata finalizzata per la prima volta allo sviluppo progressivo – ossia alla produzione di nuove norme su materie in cui la pratica degli Stati non si era sufficientemente sviluppata – del diritto internazinale marittimo, con particolare riferimento agli istituti della «libertà dell’alto mare» e della «sovranità dello Stato costiero sui mari adiacenti».
Il notevole ritardo dell’entrata in vigore della Convenzione (ben dodici anni), fu dovuto alla mancata ratifica da parte dei Paesi industrializzati, oppostisi al sistema di sfruttamento delle risorse dell’Area Internazionale dei Fondi Marini[1] , considerata “patrimonio comune dell’umanità”, prevista nella Parte XI della Convenzione.
Per tale ragione il 29 luglio 1994 fu firmato a New York un “Accordo di attuazione” di tale Parte che, derogando ad alcune previsioni della Convenzione, accolse le osservazioni degli Stati industrializzati.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare i Unite sul diritto del mare, o UNCLOS acronimo del nome in inglese United Nations Convention on the Law of the Sea,[1] è un trattato internazionale che definisce i diritti e le responsabilità degli Stati nell'utilizzo dei mari e degli oceani, definendo linee guida che regolano le trattative, l'ambiente e la gestione delle risorse naturali.
L'UNCLOS è stata definita durante un lungo processo di negoziazione attraverso una serie di Conferenze delle Nazioni Unite iniziate nel 1973 ed è stata finalmente aperta alla firma a Montego Bay, Giamaica, il 10 dicembre 1982 . È entrata in vigore il 16 novembre 1994, un anno dopo la firma della Guyana quale sessantesimo Stato contraente.
Al momento 155 Stati hanno firmato la Convenzione. La Comunità europea ha firmato e ratificato, gli Stati Uniti hanno firmato ma il Senato americano non l'ha ancora ratificata. L'Italia ha ratificato la convenzione a mezzo della legge del 2 dicembre 1994, n. 689.[2], entrata in vigore sul piano internazionale il 16 novembre 1994 pur abrogando le Convenzioni do Ginevra, è oggi lo strumento base del diritto internazionale marittimo e fissa quattro principi fondamentali:
La Convenzione pone l’accento sulle utilizzazioni economiche dei mari e sui problemi connessi, mentre le “utilizzazioni militari” sono lasciate in ombra: insiste molto sull’uso pacifico dei mari, mentre le omissioni in tema di attività militari, le favoriscono in qualche modo o, comunque, non le penalizzano.
Ovviamente, la libertà degli Stati di svolgere attività militari di ogni tipo nel mare libero, fa salvi gli obblighi di non compiere atti che costituiscono minaccia alla pace, violazione della pace o di aggressione, nel rispetto dei principi inderogabili contenuti nella Carta delle Nazioni Unite.
Montego Bay, Giamaica, 10 dicembre 1982
[1] La Convenzione prevedeva un limite al potere di sfruttamento delle suddette risorse ritenuto inaccettabile dai suddetti Paesi con maggiori capacità tecnologiche, incompatibile con l’economia di mercato.
L'ambiente marittimo è fisicamente unico. Dal punto di vista giuridico è invece costituito da diverse parti, ciascuna soggetta a norme particolari. La "classificazione" di questi diversi spazi marittimi e la terminologia per designarli ha dato luogo a molte incertezze e difficoltà.
Tentando di sintetizzare schematicamente l'attuale situazione relativa alla regolamentazione internazionale dei mari, partendo dalla terra ferma e dirigendosi verso il largo, si possono individuare almeno «sette spazi giuridici» :
Il Diritto internazionale, pur in presenza delle attuali ripartizioni del mare in diversi ambiti spaziali, ognuno dei quali soggetto ad un proprio regime, non può trascurare quelle attività che, per loro natura, si svolgono in qualsiasi spazio marittimo. Fra di esse vi è la navigazione, marittima ed aerea, che tuttora si configura come un'attività estremamente importante (soprattutto, ma non soltanto, per le grandi potenze), in ragione degli interessi d'ordine economico-commerciale e politico-militare ad essa collegati.
Le "ragioni" che giustificano da parte dello Stato rivierasco la estensione della sua sovranità oltre la terraferma e che fanno attribuire alle acque prossime a questa un regime giuridico differente da quello dell’Alto mare ed analogo al regime rimanente del restante territorio dello Stato, possono essere indicate nelle seguenti:
Spazi marini (Convenzione di Montego Bay 1982)
La «linea di base» rappresenta il punto di partenza per la misurazione delle zone marine previste dal diritto del mare. La tipologia delle varie ipotesi previste dalla normativa internazionale in rapporto alla situazione geografica dell'area interessata è in particolare la seguente:
La linea di base «normale» (normal baseline) è la linea di bassa marea lungo la costa (come indicata dalle carte nautiche a grande scala riconosciute ufficialmente dallo Stato costiero). Essa costituisce il limite interno dal quale è misurata l'ampiezza delle acque territoriali. Peraltro, in casi particolari, come ad esempio la speciale configurazione geografica di foci a estuario o a delta dei fiumi, la presenza di atolli o barriere coralline, di scogli o rocce affioranti o l’esistenza di opere portuali permanenti, come le scogliere, consentono allo Stato rivierasco di poter allontanare dalla costa la linea di base, spostandola verso il largo.
Sono esclusi da questo regime i bassifondi o gli scogli che emergono a bassa marea, a meno che su di essi sia stata costruita una installazione fissa quale, ad esempio, un faro.
Il criterio della linea di base, individuata nella linea di bassa marea lungo la costa (art. 5 Cnudm), ha subito nel tempo deroghe così numerose da risultare oggi pressocché eroso. Attualmente, infatti, gran parte degli Stati, nei casi in cui la linea di costa risulti profondamente incavata e frastagliata, ovvero vi sia una frangia di isole lungo la costa nelle sue strette vicinanze, utilizza il sistema delle linee di base «dritte» (straight baselines) che collegano punti appropriati della costa (punti più sporgenti dei promontori costieri o delle isole litoranee), per tracciare la linea di base dalla quale si misura la larghezza del mare territoriale (ciò in attuazione dell’art. 7 Cnudm).
Sistema di linee di base rette
Sono dette linee di base «arcipelagiche» (arcipelagich baselines) le linee di base dritte congiungenti i punti più estremi delle isole e degli scogli più esterni di uno "Stato arcipelagico" intendendo come tale uno Stato costituito interamente formato da uno o più arcipelaghi e, eventualmente, da altre isole.
Le linee di base arcipelagiche, a partire dalle quali vengono misurate le acque territoriali, la zona contigua, la piattaforma continentale e la zona economica esclusiva, racchiudono al loro interno le «acque arcipelagiche». In particolare, gli Stati Arcipelago (es. Isole Filippine, Indonesia, Mauritius, Fiji e Malta), rappresentano un importante innovazione introdotto dalla Montego Bay del 1992.
Questi Paesi possono tracciare le cosiddette «linee di base arcipelagiche rette», congiungenti i punti estremi delle isole più lontane e degli scogli emergenti, a condizione che nella zona così delimitata il rapporto acqua-terra sia al massimo di 9/1 e la lunghezza delle linee tra isola e isola non superi le 100 miglia, pur essendo ammesso che il 3% del numero totale delle linee di congiunzione abbia una lunghezza non superiore a 125 miglia.
Nelle acque arcipelagiche vige, a vantaggio di navi e aeromobili stranieri, il regime del diritto di passaggio corrispondente a quello previsto per le acque territoriali, assimilabile al diritto di «passaggio in transito» attarverso gli stretti, attraverso «corridoi di transito arcipelagici» che comprendono le rotte normalmente usate per la navigazione internazionale, e che sono disciplinate dallo Stato arcipelagico attravverso la predisposizione di appositi «schemi di separazione del traffico» (COLREG 1972).
Stato Arcipelagico
Sono costituite da quegli spazi marini compresi tra la costa e le linee di base del mare territoriale. Appartengono a questa categoria:
Acque marittime interne: delimitazione
Lo Stato costiero ha, nelle acque interne, l'incontestabile diritto di disciplinare, nel modo che ritiene più opportuno, determinate materie quali la "polizia della navigazione in senso stretto", cioè assegnazione di ormeggi, movimento di navi, imbarco e sbarco di merci e passeggeri, operazioni doganali e sanitarie.
Le navi straniere devono uniformarsi e, nel caso che un comandante di nave straniera voglia esperire un'azione legale a difesa degli interessi della sua nave, lo dovrà fare secondo le norme procedurali dello Stato costiero.
Specifiche attività sono riservate ai cittadini ed alle navi nazionali. Non solo pertanto il cabotaggio e la pesca ma anche tutto ciò che la "Convenzione di Losanna del 1923", sul commercio, definisce servizi dei porti e cioè: rimorchio, pilotaggio e simili. Comunque i servizi interni, pur liberamente organizzati dallo Stato costiero, devono basarsi sul principio dell'uguaglianza di trattamento verso tutte le bandiere.
L'esercizio della "competenza giurisdizionale" è la più alta manifestazione della sovranità dello Stato costiero. Tale competenza assume naturalmente diversa pratica attuazione a seconda che sia esercitata nei riguardi di «navi da guerra» o nei confronti di «navi mercantili».
Sulle acque marittime interne, lo Stato costiero esercita in modo pieno ed incondizionato la propria sovranità, in modo identico al territorio terrestre. Le acque interne sono perciò "precluse" al cosiddetto «diritto di passaggio inoffensivo» ed il loro attraversamento comporta necessariamente l’autorizzazione dello Stato costiero, eccezion fatta per i gravi casi di pericolo o di forza maggiore.
Unica deroga a questo regime si ha laddove, per effetto del tracciamento di linee di base rette, determinate aree, precedentemente classificate come “acque territoriali”, sono invece diventate “acque interne”: in tal caso, infatti, continuerà ad essere valido il preesistente diritto di passaggio inoffensivo (art. 8.2 Cnudm).
Transito attraverso l’Arcipelago toscano e Isole Pontine
La ragione di tale regola è da ricercare nella salvaguardia degli interessi della navigazione marittima internazionale, poiché il riconoscimento della possibilità di ricorrere al sistema delle linee rette da parte degli Stati costieri non deve incidere sul diritto di utilizzare storiche vie di navigazione (è il caso, per quanto riguarda l’Italia, dell’Arcipelago toscano o delle Isole Pontine).
In virtù dell’art. 11 Cnudm., sotto il regime delle acque interne vengono a trovarsi le acque portuali.
Per quanto riguarda la disciplina relativa all'accesso e alla sosta di navi da guerra estere, in tempo di pace, è prevista dal R.D. 24 agosto 1933, n. 2423, che in sostanza stabilisce quanto segue.
Premesso che il termine nave da guerra comprende anche le «navi ausiliarie», viene precisato che tali navi, di bandiera estera, non belligeranti, possono visitare i porti italiani ed ancorarsi nel mare territoriale purché la visita sia notificata, per via diplomatica, con possibile anticipo di 7 (sette) giorni e limitata, salvo diversa autorizzazione, a non più di 3(tre) unità per ciascuno dei "tre settori" in cui, agli effetti, è diviso il litorale dello Stato: Adriatico, Ionico e Tirrenico.
Il soggiorno è limitato, di massima, ad 8 (otto) giorni salvo proroghe conseguenti a motivi di forza maggiore ed a specifiche autorizzazioni da chiedere per via diplomatica.
Le limitazioni alla sosta nei porti italiani (sia per ciò che concerne il numero delle navi autorizzate al soggiorno che per la durata della sosta) prevede il divieto di eseguire nelle acque territoriali attività militari incompatibili con il carattere inoffensivo del transito e pone l'obbligo per i sommergibili, di navigare e sostare nei porti in superficie, di non procedere ad esercitazioni subacquee.
Le unità devono occupare il posto di ancoraggio o d'ormeggio assegnato e devono partire entro 6 (sei) ore da eventuale, motivato, invito dell'Autorità marittima.
Le navi sono tenute al rispetto delle norme di polizia, di sanità e doganali ed alle regole d'uso per quanto riguarda il cerimoniale.
L'uso di apparati radio, durante la sosta, è subordinato ad autorizzazione. È vietato procedere a rilievi del terreno, ad operazioni di scandaglio nonché, salvo autorizzazioni, ad esercitazioni di tiro, di lancio di siluri, di posa di mine; gli aerei imbarcati non possono levarsi in volo. È vietato inviare a terra picchetti armati o far circolare imbarcazioni armate. ed eseguire sentenze capitali nelle acque interne e territoriali.
La vigilanza sulla osservanza di tali disposizioni spetta alle Autorità militari ed a quelle portuali. L'Autorità militare marittima, in caso di inosservanza, farà esplicito richiamo e, qualora la nave o le navi persistano nel loro atteggiamento, inoltrerà al comando delle suddette navi, una formale protesta, informando telegraficamente il Ministero della Difesa.
Le unità militari o mercantili italiane che rilevino la violazione da parte di navi straniere delle prescrizioni suddette devono darne notizia alle autorità competenti.
Le violazioni da segnalare possono riguardare anche l'inosservanza dei principi generali che regolano il transito inoffensivo i quali consentono il passaggio di navi straniere nelle acque territoriali a condizione che sia «continuo e rapido», escludendo la sosta e l'ormeggio, a meno che non costituiscano normali avvenimenti nel corso della navigazione o siano necessari per forza maggiore.
Per quanto concerne le navi mercantili, l’Italia, che è parte contraente della Convenzione di Ginevra del 1923 sul regime internazionale dei porti marittimi[1], impone, a condizioni di reciprocità, alle navi private di ogni altro Stato contraente il trattamento riservato alle proprie navi, o quello accordato alla nazione più favorita, tranne il caso di avvenimenti gravi concernenti la sua sicurezza o interessi vitali.
[1] Il principale limite che lo Stato costiero incontra, quindi, all'interno delle proprie acque interne risiede appunto nel principio della c.d. «libertà di accesso», proclamato all'art. 2 dello Statuto di Ginevra.
La principale eccezione al criterio generale della linea di bassa marea è quella relativa alle “baie” (art. 10 Cnudm): infatti, in virtù di un’antica norma consuetudinaria, codificata dalla Convenzione di Montego Bay ed ancor prima dalla Convenzione di Ginevra sul mare territoriale, in presenza di una insenatura che penetri profondamente nella costa, lo Stato costiero può tracciare una "linea di base retta" congiungente i punti di entrata naturali, a condizione che siano osservati due requisiti geometrici (=
Regola del Semicerchio ):
Baie giuridiche Baia non giuridica
Rispettando questi criteri geometrici, si è in presenza di una baia in senso giuridico c.d «baia giuridica», sicché le acque che si trovano all’interno di essa sono considerate acque interne.
Qualora il segmento di chiusura sia "maggiore di 24 miglia", gli Stati sono autorizzati a tracciare una linea di base di tale misura all’interno della baia, in modo da racchiudere la massima superficie possibile di acque.
La Convenzione di Montego Bay 1982 stabilisce che le disposizioni precedenti non si applicano alle cosiddette «baie storiche».
La nozione di baia storica non è codificata in Diritto internazionale[1] . In assenza di una specifica norma positiva, per delineare il concetto di baia storica è dunque necessario rifarsi alla teoria ed alla prassi del Diritto internazionale marittimo che annovera svariati esempi di baie considerate storiche, quali la Baia canadese di Hudson (50 miglia di apertura), la Baia sovietica di Pietro il Grande (103 miglia di apertura), le baie del Mediterraneo: Golfo di Taranto (60 miglia di apertura) e Golfo della Sirte (306 miglia di apertura, in Libia).
Il termine di baia storica fu adoperato per la prima volta nel corso della riunione dell' «Istitut de Droit International», nel marzo del 1894 a Parigi, in cui fu riconosciuta come legittima la pretesa di sovranità su una baia purché fondata su un uso continuo e secolare della zona interessata.
Baie storiche (Pietro il Grande, Taranto, Sirte)
La dottrina più recente ravvisa il vero fondamento di questo eccezionale istituto, non soltanto in un generico riferimento a «titoli storici», ma anche nella sussistenza di particolari caratteristiche «fisico-geografiche» alle quali si accompagni l'elemento dell'effettivo esercizio nel tempo di una esclusiva potestà di governo da parte di un solo Stato, si da lasciar constatare la sussistenza di stabili e continui vincoli di intimità tra le acque della baia e il territorio dello Stato costiero affinché su tali acque si irradi, con la stessa intensità che sul mare territoriale, la sovranità del medesimo.
Pertanto, perché possa affermarsi la storicità di una baia occorre dimostrare la presenza dei seguenti requisiti [1]:
La prassi internazionale è nel senso di un eccessivo ricorso alla chiusura delle insenature da parte degli Stati costieri, per il tangibile vantaggio strategico, politico ed economico che deriva dall’estensione tanto considerevole delle proprie acque interne.
La letteratura internazionalista sulla materia è ricca di spunti sulla legittimità o meno di numerose baie definite storiche dagli stati rivieraschi; casi controversi che meritano interesse per il nostro studio sono le chiusure del Golfo della Sirte e del Golfo di Taranto.
La Libia ha chiuso il Golfo della Sirte il 10 ottobre 1973, tracciando una linea di base tra Bengasi e Misurata di ben 307 miglia, inglobando così circa 22.000 miglia quadrate di acque interne, per giunta senza nessuno dei criteri di una baia giuridica. L’abnorme provvedimento legislativo dello Stato nordafricano, in cui si invocarono non meglio precisati diritti di sovranità esercitati senza alcun contrasto durante lunghi periodi della storia, oltre ad esigenze di sicurezza della Nazione, colse di sorpresa le potenze occidentali e segnatamente gli Stati Uniti che ritennero l’iniziativa della Libia un tentativo di appropriarsi illegittimamente di una vasta zona di mare internazionale (non riscontrandosi nel golfo della Sirte i requisiti dell’esercizio dell’autorità remoto, effettivo, notorio e continuo).
La mancata revoca delle pretese storiche sulla Sirte provocò una tensione internazionale culminata anche in scontri aeronavali USA-Libia il 23/24 marzo 1986; successivamente gli Stati Uniti hanno a più riprese esercitato i loro diritti di navigazione, transitando nel golfo con una squadra navale o persino svolgendo esercitazioni militari.
Il D.P.R. n° 816 del 26 Aprile 1977 sulle linee di base del mare territoriale italiano ha qualificato “baia storica” il golfo di Taranto, e ne ha previsto la chiusura con una linea tracciata da S. Maria di Leuca a Punta Alice. Il golfo di Taranto, a differenza della Sirte, rientra pienamente in tutti i criteri previsti per la qualificazione di una insenatura come baia giuridica, esclusa ovviamente l’esorbitante lunghezza della linea di chiusura (60 miglia invece delle 24 miglia previste dalla regola del semicerchio delle baie giuridiche).
L’Italia vantava infatti titoli storici (risalenti al Regno delle due Sicilie e ad epoche ben più remote) che dimostrano l’esclusività del potere statale nell’ambito del “Golfo di Taranto“ a vari fini (militari, doganali, di pesca, ecc.).
Golfo di Taranto: baia storica
Il provvedimento normativo ha comunque il merito di aver cristallizzato l’esistenza dell’esercizio della sovranità dell’Italia sulle acque del Golfo, che, mentre hanno una scarsa valenza come via di comunicazione internazionale, rappresentano il punto focale della difesa marittima della Nazione.
Per questi motivi è ormai pacifica l’acquiescenza degli Stati, rafforzata dall’accordo italo-greco del 24 agosto 1977 di delimitazione della piattaforma continentale, in cui viene pacificamente usato il criterio della linea equidistante le rispettive linee di base, tenendo conto del segmento di chiusura del golfo di Taranto.
[1] La normativa vigente (Ginevra 1958, art.7 - n.7 e Cnudm, art. 10 - n.6) prevede infatti che le baie storiche costituiscono una eccezione al principio per cui lo Stato costiero ha il diritto di sottoporre al regime delle acque interne una insenatura nel caso in cui:
[2] L'elaborazione del regime giuridico delle baie storiche si è sviluppata ad opera della dottrina e della giurisprudenza degli Stati Uniti; la posizione statunitense sulla materia è stata espressa in varie sedi ufficiali, in particolare, nell'ambito della sentenza del 1975 della Suprema Corte degli Stati Uniti concernente la pretesa dell'Alaska sulla Baia di Kook.
Procedendo dalle acque interne verso il largo, si entra nel mare territoriale, in cui la sovranità dello Stato costiero è esclusiva ed “originale” nel senso che esiste sin dall’origine e, quindi, non necessità di una preventiva proclamazione, estesa anche allo spazio aereo sovrastante ed al fondo e sottofondo marino, con i limiti previsti dalla Convenzione di Montego Bay 1982 (Cnudm).
Il mare territoriale, stabilito dalla Cnudm, è di «12 miglia» misurate dalle linee di base: l’Italia, con Legge 14 Agosto 1974, n. 359, ha esteso fino a tale distanza il precedente limite di 6 miglia.
Acque territoriali: delimitazione
► Nel mare territoriale lo stato rivierasco esercita la propria sovranità con i segueti limiti:
Le "navi mercantili" e "da guerra" di tutti gli Stati, seppur privi di litorale, possono transitare nel mare territoriale di un altro Stato, a condizione che il passaggio sia “continuo” e “rapido”. Sono tuttavia consentiti la fermata e l’ancoraggio se dovuti a forza maggiore od a condizioni di difficoltà, ovvero se finalizzate a prestare soccorso.
L’art. 19 della Cnudm, dopo aver definito come inoffensivo il passaggio (passagium innoxium) che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine ed alla sicurezza dello Stato costiero, offre una elencazione, meramente esemplificativa, delle attività che lo rendono pregiudizievole per i suddetti valori.
Nel mare territoriale, i “sommergibili” ed altri veicoli subacquei devono navigare "in superficie" ed esibire la bandiera nazionale.
Le navi straniere a “propulsione nucleare” e le navi adibite al trasporto di materiali nucleari o di altre "sostanze intrinsecamente pericolose o nocive", nell'esercitare il diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale debbono avere a bordo i documenti prescritti ed osservare le specifiche misure di sicurezza previste per tale tipo di navi dagli accordi internazionali.
Durante il passaggio, le navi straniere devono attenersi alle leggi e regolamenti emanati dallo Stato costiero in materia di passaggio inoffensivo. Lo Stato, inoltre, può deliberare, in determinate zone del mare territoriale, “sospensioni temporanee” del diritto di passaggio inoffensivo, purché ciò sia necessario per la protezione della sua sicurezza o per lo svolgimeno di esercitazioni con armi (art. 25 Cnudm)
Secondo la normativa italiana, la competenza ad interdire con «Ordinanza» (artt. 59 Reg. Cod. nav. e 83 Cod. nav.), sia alle navi straniere che alle navi italiane, il transito e la sosta in determinate zone del mare territoriale spetta alla Autorità marittima.
In pareticolare, l'art. 83 Cod.nav. (così come modificato dalla Legge 7 Marzo 2001, n° 51, pubblicata sulla G.U. n° 61 del 14 Marzo 2001), sul transito o la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, prevede che “Il Ministro dei Trasporti può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il Ministro dell’Ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”.
Sanzioni penali sono previste per la mancata osservanza dei divieti di navigazione (art. 1102, Cod. nav.).
La sospensione non deve essere discriminatoria tra bandiere diverse e deve essere adeguatamente publicizzata (art. 9 R.D. 2423/1933).
Le navi da guerra e le navi di Stato utilizzate a fini non commerciali godono di regola, della piena "immunità dalla giurisdizione" dello Stato costiero, sia nelle acque interne, porti compresi, che nel mare territoriale (c.d. «extraterritorialità»). Esse, infatti, sono considerate territorio dello Stato di bandiera.
Secondo un’antica prassi consuetudinaria internazionale, cristallizzata nelle «Stockolm Rules», in porto nessuna Autorità, giudiziaria o di polizia, può salire a bordo di una nave da guerra senza l’autorizzazione del Comandante, né può esercitare alcun atto di polizia giudiziaria, come il sequestro, l’arresto o il fermo ovvero altro tipo di azione legale o di procedimento giudiziario.
Le navi da guerra devono tuttavia rispettare le leggi ed i regolamenti locali, particolarmente quelli che riguardano la navigazione, l’ancoraggio e la polizia sanitaria in vigore nei porti nei quali vengano ammesse o nelle acque territoriali ove transitino. Il rispetto di tali norme si impone sia perché lo Stato costiero conserva comunque la facoltà di ingiungere alla nave da guerra di lasciare immediatamente il porto o le sue acque territoriali, ma soprattutto perché vi è un’immedesimazione totale tra la nave da guerra e lo Stato di bandiera, e pertanto, sul piano dell’ordinamento internazionale, è come se fosse lo stesso Stato a perpetrare un’attività illegittima.
L’immunità assoluta della nave da guerra si estende all’equipaggio per i reati commessi a bordo o nel territorio dello Stato ospite, qualora siano collegabili con lo svolgimento di un’attività istituzionale [1].
Il problema della rinuncia all’esercizio della giurisdizione si pone con forza, invece, per le "navi mercantili". Il diritto convenzionale di Montego Bay e, ancor prima, quello di Ginevra sanciscono che lo Stato costiero «non dovrebbe». esercitare la propria giurisdizione penale su nave straniera in transito nel mare territoriale in relazione ad un reato commesso a bordo della nave durante il passaggio, se non richiesta dallo Stato di bandiera, a meno che non si tratti di crimini che si estendano allo Stato costiero o crimini che disturbino la pace o l’ordine dello Stato o, ancora, crimini di narcotraffico.
La formulazione in termini condizionali sembra configurare una semplice esortazione e non già un vero e proprio obbligo e mette in discussione un principio – quello del dovere di astensione dall’esercizio della giurisdizione dello Stato costiero in ordine a fatti interni della nave – che sembra ormai acquisito al diritto internazionale consuetudinario.
[1] La prassi internazionale dimostra che spesso lo Stato territoriale, per comprensibili motivi politico-diplomatici, preferisce rinunciare alla propria giurisdizione penale anche per i reati commessi a terra che non hanno alcuna attinenza con il bordo e, pertanto, teoricamente non coperti da immunità.
L’Italia, con il D.P.R. 26 Aprile 1977, n° 816, ha adottato un «sistema di linee di base» articolato in 38 segmenti complessivi, che ha portato ad una notevole semplificazione del margine esterno del mare territoriale, passato ad uno sviluppo lineare inferiore a 5000 km, rispetto ad uno sviluppo costiero effettivo di 7418 km. L’iniziativa legislativa ha determinato la "chiusura", oltre che del Golfo di Taranto come baia storica, dell’Arcipelago Toscano, delle Isole Pontine e dei Golfi di Napoli e Salerno con le Isole dell’Arcipelago campano, del Golfo di Squillace, di Manfredonia e delle Isole Tremiti con linee congiungenti Peschici, e del Golfo di Venezia.
Le linee di base dritte e le linee di chiusura delle baie naturali e storiche, per la determinazione delle linee di base a partire dalle quali è misurata la larghezza del mare territoriale italiano, sono riportate nella «Carta Nautica n.330/LB», annessa al citato D.P.R.
Sistema di linea di base italiana (Carta nautica n. 330 LB)
La delimitazione delle acque territoriali tra l'Italia ed i Paesi confinanti è stata attuata con:
Convenzione di Parigi 1986
Un cenno merita la questione relativa agli «stretti internazionali» [1] che mettono in comunicazione due parti di alto mare o due zone economiche esclusive ovvero una zona economica esclusiva ed una zona di alto mare.
Qui la Convenzione di Montego Bay ha introdotto la nozione di «passaggio in transito», la quale comporta un rilevante ampliamento dei diritti rispetto al passaggio inoffensivo, vale a dire:
L’art. 39 della Convenzione di Montego Bay non contiene alcuna previsione sanzionatoria a carico delle unità che violino gli obblighi di “passaggio in transito” negli stretti internazionali, effettuando, ad esempio, nel caso di navi da guerra, manovre militari o esercitazioni a fuoco, né prevede alcun diritto di uso della forza dello Stato costiero, oltre i normali mezzi diplomatici, nei confronti della nave in transito responsabile di violazioni.
Regime: transito inoffensivo non sospendibile “Stretto di Messina”
Parte della dottrina ritiene eccezionalmente possibile l’uso della forza soltanto nei casi di gravissime violazioni delle regole del passaggio in transito negli stretti, quando siano addirittura in gioco gli interessi essenziali dello Stato costiero.
Del diritto di passaggio in transito negli stretti godono tutte le navi e gli aeromobili (si è invece visto che non esiste un diritto di sorvolare il mare territoriale). I mezzi in transito sono peraltro obbligati ad astenersi da ogni attività diversa dal transito continuo e rapido, secondo il loro modo normale di navigazione[2] (salvi i casi di forza maggiore o di pericolo) e, a maggior ragione, ad astenersi dal ricorrere alla minaccia o all'impiego della forza contro la sovranità, l'integrità territoriale, o l'indipendenza politica degli Stati rivieraschi.
È pure fatto obbligo di osservare i regolamenti e le pratiche internazionali generalmente accettati in materia di sicurezza della navigazione e di prevenzione dell'inquinamento.
Gli Stati rivieraschi possono, quando la sicurezza delle navi negli stretti lo esiga, designare delle vie di circolazione e prescrivere dei dispositivi di separazione del traffico, che siano conformi alla regolamentazione internazionale competente (IMO).
[1] La nozione attualmente vigente si basa su un elemento funzionale ed uno geografico. Sono infatti considerati «stretti internazionali» le vie d'acqua usate per la navigazione internazionale, interamente coperte dalle acque territoriali dei paesi rivierashi, che mettono in comunicazione due parti dell'alto mare (es. Bocche di Bonifacio, Stretto di Messina), o una parte dell'alto mare con le acque territoriali di uno Stato straniero. Rientrano in questa categoria anche gli stretti che collegano, tra di loro o con l'alto mare o il mare territoriale, parti di ZEE. Secondo la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia l'elemento geografico è preponderante, ai fini dell'identificazione degli stretti internazionali, rispetto al criterio funzionale del volume del traffico mercantile che passa attraverso la zona o dell'importanza della via d'acqua dal punto di vista delle rotte marine internazionali. I canali artificiali non rientrano nella nozione di stretti.
[2] Il diritto di passare secondo il normale modo di navigazione è interpretato da diversi Stati come comprendente il diritto di far transitare negli stretti i sommergibili in immersione (diversamente da quanto avviene per il passaggio inoffensivo nel mare territoriale).
In conformità a quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite del diritto del mare nonché dall’accordo di applicazione della Parte XI della convenzione stessa fatto a New York il 29 luglio 1994, è stata promulgata la Legge 8 febbraio 2006, n. 61 (pubblicata sulla G.U. n. 52 del 03.03.2006) che ha previsto la istituzione di ”Zone di Protezione Ecologica”, oltre le 24 miglia marine dalle linee di base del mare territoriale italiano.
Alla istituzione delle citate zone si provvede con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro degli affari estreri, sentito il Ministro per i beni culturali e le attività culturali. Il decreto di istituzione deve essere notificato, a cura del Ministro degli affari esteri, agli Stati il cui territorio è adiacente al territorio dell’Italia o lo fronteggia.
Nel provvedimento (con il quale si è posto l'obiettivo di prevenire scarichi di sostanze inquinanti in acque internazionali, ma comunque in prossimità delle coste italiane), si è stabilito che all'interno delle istituite zone di protezione, l'Italia esercita la propria giurisdizione in materia di protezione e di preservazione dell'ambiente marino, compreso il patrimonio archeologico e storico, conformemente a quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e dalla Convenzione UNESCO adottata a Parigi il 2 novembre 2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo.
L’italia ha ratificato la Convenzione con Legge 23 ottobre 2009, n. 157.
Nelle zona di protezione ecologica si applicano le norme del diritto italiano, del diritto dell’Unione europea e dei trattati internazionali in vigore per l’Italia in materia di prevenzione e repressione di tutte le tipologie di inquinamento marino:
Si applicano, inoltre, le norme in materia di protezione dei mammiferi, della biodiversità e del patrimonio archeologico e storico.
In particolare, l’art. 5 della Legge 23 ottobre 2009, n. 157 stabilisce che:
Nella descrizione del progetto e nel programma di documentazione, previsti dall’Allegato della Convenzione (Regole 10, 26 e 27), devono essere indicate le coordinate geografiche del sito, con la sua possibile estensione, o il luogo dove un rinvenimento è stato effettuato.
L’Autorità marittima competente trasmette senza indugio le denunce o le richieste di autorizzazione pervenute al suddetto Dicastero, che rilascia o nega l’autorizzazione entro il termine di 60 (sessanta) giorni. La predetta Autorità provvede, altresì, ad inviare copia delle denunce e delle richieste di autorizazione anche al Ministero degli affari esteri e, se esse riguardano navi da guerra o di Stato, anche al Ministero della difesa.
I cittadini italiani o il comandante di una nave nazionale che ritrovano oggetti ascrivibili al patrimonio culturale subacqueo, localizzati nella “zona economica esclusiva” o sulla “piattaforma continentale” di un altro Stato parte (art. 9, paragrafo 1 lett. b - Convenzione) o che intendono impegnarsi in interventi sul patrimonio culturale subacqueo ivi localizzati, devono farne denuncia, alla competente Autorità consolare italiana, rispettivamente, entro 3 (tre) giorni dal ritrovamento, anche mediante comunicazione trasmessa via radio o con mezzi elettronici o almeno 3 (tre) mesi prima dell’inizio dell’attività.
L’Autorità consolare trasmette, nel più breve tempo possibile, le informazioni ricevute all’Autotità competente dello Stato nelle cui “zone” è avvenuto il ritrovamento o sono programmate le attività, nonché al Ministero degli affari esteri italiano.
Qualora la piattaforma continentale italiana si sovrappone con la piattaforma di un altro Stato è non è ancora intervenuto un accordo di delimitazione, si applicano soltanto ai ritrovamenti e alle attività localizzati, rispettivamente, entro e oltre la linea mediana o di equidistanza.
Quando il ritrovamento è effettuato da una nave militare italiana, le informazioni in ordine al ritrovamento di oggetti ascrivibili al patrimonio culturale subacqueo, sono fornite tenuto conto della necessità di non compromettere le capacità operative della nave ovvero lo svolgimento di operazioni che sono o che possono essere affidate alla nave stessa.
Il Ministero degli affari esteri notifica le informazioni ricevute dalle Autorità marittime e da quelle consolari alla Direzione generale dell’UNESCO e comunica allo Stato parte nella cui ZEE o sulla piattaforma continentale si trova il patrimonio culturale subacqueo la dichiarazione prevista dall’art. 9, paragrafo 5 della citatata Convenzione.
I cittadini italiani o il comandante di una nave nazionale che ritrovano oggetti ascrivibili al patrimonio culturale subacqueo, localizzati nella “Area internazionale dei fondi marini” o nel relativo sottosuolo o che intendono impegnarsi in interventi sul patrimonio culturale subacqueo ivi localizzato, devono farne denuncia, al Ministero degli affari esteri, rispettivamente, entro 3 (tre) giorni dal ritrovamento, anche mediante comunicazione trasmessa via radio o con mezzi elettronici o almeno 3 (tre) mesi prima dell’inizio dell’attività.
Il Ministero degli affari esteri trasmette, nel più breve tempo possibile, tali informazioni al Ministro per i beni e le attività culturali e, se il bene in questione è una nave di Stato o da guerra, al Ministero della difesa.
Il Ministero degli affari esteri notifica al Direttore generale dell’UNESCO e agli Stato che possono vantare un legame verificabile, in particolare culturale, storico o archeologico, l’avvenuta “confisca” degli oggetti ascrivibili al patrimonio culturale subacqueo in quanto recuperati in modo non conforme alla Convenzione.
L’articolo 10, nn. 1, 2, 4, 5 e 6 della Legge n. 157/2099 prevede la pena dell’arresto fino a 1 anno e dell’ammenda da € 310 a € 3.099, per le seguenti fattispecie:
L’articolo 10, n. 7 della citata Legge punisce, altresì, con la pena della reclusione fino a 2 anni e con la multa da € 50 a € 500, chi introduce o commercia nel territorio dello Stato beni del patrimonio culturale subacqueo recuperati mediante un intervento non autorizzato a norma della Convenzione.
Si applica, infine, la sanzione amministrativa pecuniaria da € 250 a € 2.500, nel caso in cui la denuncia, all’Autorità marittima o consolare oppure al Ministero degli affari esteri, sia presentata dopo il termine di 3 (tre) giorni dall’avvenuto ritrovamento di oggetti ascrivibili al patrimonio culturale subacqueo (art. 10, n. 3 L. 157/2009).
Restano ferme, in quanto applicabili, le sanzioni penali e amministrative previste dal citato codice di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
[1] La disposizione non si applica nel caso in cui, ai sensi dell’art. 10, paragrafo 5, lettea b) della Convenzione, si sia convenuto che l’autorizzazione all’intervento non sia rilasciata dall’Italia.
La fascia contigua, o anche «zona contigua» (evidenziata nella figura col colore viola), è uno spazio di mare, adiacente al mare territoriale, che si estende per un limite massimo di 24 miglia marine dalla linea di base della costa; quindi per 12 miglia marine oltre il limite delle acque territoriali. A differenza di queste ultime essa non fornisce diritti sovrani allo stato costiero, ma solo diritti di controllo sulle navi in transito, tesi a prevenire o reprimere infrazioni alle sue leggi doganali, fiscali, sanitarie o di immigrazione.
A differenza del mare territoriale, essa sussiste solo in quanto previamente proclamata; al riguardo, considerato che l’istituto in questione è pacificamente ritenuto di diritto consuetudinario, la eventuale proclamazione prescinde dalla preventiva ratifica della Convenzione di Montego Bay 1982.
L'Italia, che prima del 1958 possedeva un mare territoriale di 6 miglia e una fascia contigua di altrettante 6 miglia, non ha ancora provveduto formalmente a dichiararne una che sia conforme alle normative convenzionali odierne, ma vi ha accennato nella Legge (la c.d. Bossi-Fini) 30 luglio 2002, n. 189 (all'art. 11 sexies); tale accenno tuttavia sembra riferirsi solo alle leggi di immigrazione, escludendo o non prevedendo l'uso della fascia contigua anche per gli altri usi possibili.
Alla luce di questo nuovo preoccupante scenario, nel quale la Penisola è diventata un crocevia marittimo dei traffici illeciti di contrabbando, droga ed immigrazione clandestina, sarebbe opportuna l’estensione del teatro operativo di controllo e vigilanza delle nostre Unità navali, in relazione anche alle responsabilità internazionali dell’Italia discendenti dagli “Accordi di Schengen”.
Zona contigua o archeologica: delimitazione
Una novità assoluta introdotta dalla Convenzione di Montego Bay (artt. 303 e 33) risiede nel diritto riconosciuto allo Stato costiero di istituire una «Zona Archeologica», coincidente con la zona contigua e, perciò, estesa fino a 24 miglia, nella quale lo stato costiero ha giurisdizione in materia di "protezione del patrimonio culturale sottomarino": la rimozione di oggetti di carattere storico o archeologico dal fondo marino è infatti subordinata alla preventiva autorizzazione dello Stato costiero. La zona archeologica coincide con la cosiddetta "zona contigua".
La previsione dell’art. 303 non ha trovato concreto riscontro in Italia, dal momento che la stessa non ha ancora proclamato una “zona contigua”.
Di conseguenza la legislazione interna sulla tutela del patrimonio storico ed archeologico si applica esclusivamente nelle acque marittime interne e nel mare territoriale.
Sull’argomento, sono da ricordare il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali (Decreto Legislativo 29/10/1999 n° 490) ed il Decreto Interministeriale 12 luglio 1989, che prevede l’utilizzazione della “Guardia Costiera” in funzione di vigilanza archeologica, con poteri di polizia preventiva e repressiva sulle aree marine per la tutela del patrimonio archeologico nazionale.
Per «Piattaforma Continentale» si intende attualmente l’area sottomarina che si estende al di là delle acque territoriali, attraverso il prolungamento naturale del territorio emerso, sino al limite esterno del margine continentale, o sino alla distanza di 200 miglia dalle linee di base, qualora il margine continentale non arrivi a tale distanza. Quello delle 200 miglia è, in definitiva, considerato dalla Convenzione del 1982 come il limite minimo della piattaforma continentale.
La Cnudm ha adottato criteri diversi, che prescindono dalla nozione "geografica" o "morfologica" della piattaforma stessa. E’ stato così stabilito che la piattaforma continentale si estende, alternativamente:
Piattaforma continentale
La Cnudm, quindi, ha superato la nozione geomorfologica concepita dalla Convenzione di Ginevra 1958[1].
Sulla piattaforma continentale lo Stato costiero esercita diritti sovrani con riferimento all’esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali della stessa, ossia le risorse minerarie (ad esempio, gli idrocarburi) e le risorse biologiche sedentarie (organismi viventi che rimangono immobili sulla piattaforma o che si spostano rimanendo sempre in contatto con il fondo marino.
Agli Stati terzi, invece, spettano le "tradizionali libertà" dell’alto mare alle condizioni stabilite dallo Stato costiero.
I diritti dello Stato costiero sulla propria piattaforma continentale gli appartengono ab origine, e perciò non hanno bisogno di proclamazione. Inoltre, a differenza del diritto di sovranità sul mare territoriale, tali diritti:
In forza delle sue competenze, l’Unione Europea ha vincolato i Paesi membri all’osservanza di particolari procedure per l’apertura di nuove aree di ricerca e prospezione, con la previsione di gare comunitarie per l’attribuzione delle aree, dei criteri di selezione delle domande e della determinazione dei permessi[2] .
Un problema molto delicato, data la vastità delle aree marine impegnate dai poteri degli Stati costieri sulla piattaforma continentale, è quello della “delimitazione" della piattaforma tra Stati costieri che si fronteggiano o che sono adiacenti.
A tal proposito, la Convenzione di Montego Bay (art. 83) impone agli Stati di concordare una delimitazione tra loro, sulla base del diritto internazionale, in modo da raggiungere una “soluzione equa”, abbandonando il criterio della «linea mediana» che era stabilito nella Convenzione di Ginevra, nel caso in cui non si raggiunga l’accordo tra Stati frontisti o limitrofi.
L’Italia è stato il primo e il più attivo degli Stati del Mediterraneo ad avviare negoziato per la conclusione di numerosi accordi di delimitazione della piattaforma continentale (quello dell’ 8 Gennaio 1968 con la Jugoslavia, in particolare, fu il primo accordo di delimitazione stipulato in Mediterraneo.
Linea di equidistanza: delimitazione della piattaforma italiana e dell'ex jugoslavia
Peraltro, la Legge 23 ottobre 2009, n. 157 (sulla ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo stipulata a Parigi il 2 novembre 2001, e norme di adeguamento del l’ordinamento interno), stabilisce all’articolo 3 (Patrimonio culturale subacqueo tra le 12 e le 24 miglia marine) che allorquando la “ Zona di Protezione Ecologica ” (art. 94 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni), si sovrappone con un’altra zona analoga di un altro Stato e non è ancora intervenuto un accordo di delimitazione, le competenze esercitate dall’Italia non si estendono oltre la linea mediana di cui all’art. 1, comma 3 della Legge 8 febbraio 2006, n. 61.
[1] Essa prevedeva due criteri alternativi: “criterio batimetrico” (fino a 200 metri di profondità oltre il proprio mare territoriale); “criterio di sfruttabilità” (ovvero: fino a dove la tecnologia a disposizione dello Stato costiero consente di sfruttare le risorse naturali dei fondi marini). Entrambi questi criteri furono aspramente criticati, a causa delle disparità che creavano: il criterio batimetrico infatti favoriva gli Stati dotati di un’ampia piattaforma, mentre danneggiava quegli altri che, invece, ne risultavano privi; viceversa, il criterio alternativo della sfruttabilità favoriva gli Stati industrializzati, ad alto livello di tecnologia estrattiva, che in teoria non trovavano limiti all’estensione della propria piattaforma. Proprio a causa della potenziale conflittualità internazionale che era in grado di innescare, la Convenzione di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale non fu ratificata da numerosi Stati costieri del Mediterraneo, tra cui l’Italia. Per questi motivi, era inevitabile che la nozione giuridica di piattaforma continentale dovesse mutare radicalmente a Montego Bay.
[2] Il D.lgs. n° 625 del 25/11/1996, che ha recepito la direttiva comunitaria n° 94/221 CEE, ha così eliminato il monopolio che l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) aveva, di fatto, sulla piattaforma continentale italiana.
La «Zona Economica Esclusiva» (ZEE), rappresenta la novità più rilevante introdotta dalla Convenzione di Montego Bay, può estendersi tassativamente non oltre le 200 miglia dalle linee di base da cui è misutata l’ampiezza del mare territoriale (188 miglia dal mare territoriale). A diffrenza della piattaforma continentale, per poter divenire effettiva, deve essere formalmente proclamata.
Il regime di delimitazione delle ZEE tra Stati con coste adiacenti od opposte, analogamente a quello previsto per la piattaforma continentale, deve farsi per accordo in modo da raggiungere un’equa soluzione.
Sebbene la ZEE sia un istituto relativamente recente per il diritto del mare, essa ha assunto già valore di vera e propria consuetudine internazionale: lo dimostra il fatto che anche gli Stati Uniti, pur non essendo essi parti della Convenzione, hanno proclamato una propria ZEE nel 1983, dopo anni di opposizione al concetto stesso di ZEE.
Nella ZEE tutti gli Stati, costieri e privi di litorale, hanno libertà di navigazione e di sorvolo, di posa in opera di cavi e condotte sottomarine.
Inoltre, lo Stato interessato può consentire loro di esercitare la pesca, qualora la propria capacità di sfruttamento sia inferiore al volume massimo di risorse ittiche sfruttabili (Total Allowable Catch), fissato dallo stesso Stato costiero ed in forza di accordi bilaterali conclusi con i relativi Stati di appartenenza tenuto conto, in particolare, della necessità degli Stati che non hanno sbocchi sul mare (land-loc-ked) o gheograficamente svantaggiati.
Le previsioni della Convenzione di Montego Bay in materia di pesca sono la manifestazione più evidente di come l’interesse alla conservazione ed allo sfruttamento delle risorse non sia soltanto dello Stato costiero, bensì dell’intera comunità internazionale
Indubbiamente la nuova disciplina attribuisce allo Stato costiero nella ZEE vantaggi prima sconosciuti: basti pensare al regime del consenso previsto per le attività di ricerca scientifica poste in essere da navi straniere o al regime delle autorizzazioni per quanto riguarda le isole ed installazioni artificiali fisse o alla giurisdizione ai fini della protezione dell’ambiente marino contro l’inquinamento. Inoltre, ampi appaiono i poteri di uso della forza (art. 73 Cnudm)) che lo Stato costiero può esercitare a tutela dei propri diritti di esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse biologiche nella propria ZEE; poteri coercitivi che comprendono l’abbordaggio, l’ispezione, il fermo e la sottoposizione a procedimento giudiziario.
Sono, comunque, garantiti i diritti di navigazione e di sorvolo, senza distinzione tra unità militari e mezzi civili, nonché di posa in opera di condotte e cavi sottomarini.
In buona sostanza, si può affermare che nella ZEE tutte le attività concernenti l’utilizzazione delle risorse rientrano nelle competenze dello Stato costiero, mentre tutte le attività relative alle comunicazioni internazionali restano comprese fra i diritti degli Stati terzi.
Una problematica di sicuro interesse, ma di non facile interpretazione, è quella concernente la possibilità di effettuare esercitazioni navali militari nella ZEE. Le esercitazioni navali militari possono essere considerate da un lato come un uso del mare legato alla libertà di navigazione; dall’altro, possono essere viste come pregiudizievoli rispetto a competenze spettanti allo Stato costiero, come la gestione delle risorse biologiche o la protezione dell’ambiente marino. Invero, nessuna norma della Convenzione del 1982 vieta lo svolgimento di esercitazioni navali militari e pertanto, in linea di principio, esse dovrebbero essere consentite: quando la Convenzione ha voluto vietare le manovre militari, lo ha fatto espressamente (art. 19.2-lett.b), in tema di passaggio inoffensivo nel mare territoriale.
Al momento della firma della Convenzione, taluni Stati hanno dichiarato l’interdizione delle manovre militari nella ZEE, mentre l’Italia ha sostenuto una tesi contraria alle posizioni restrittive assunte da quegli Stati.
Zona Economica Esclusiva: delimitazione
La Convenzione di Montego Bay definisce «Alto mare» “tutte le aree marine non incluse nella ZEE, nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato o nelle acque arcipelagiche di uno Stato arcipelago”.
Tale definizione di alto mare è ormai “anacronistica”, poiché coniata in un tempo in cui era impensabile che il controllo dello Stato potesse arrivare a 200 miglia e l’alto mare era contrapposto al solo mare territoriale. In dottrina, infatti, si preferisce ormai parlare di «mare internazionale».
► Tutti gli Stati, sia costieri che privi di litorale, hanno:
Ogni Stato, quindi, può trarre ogni libertà dall’alto mare, con l’unico limite di non ledere la libertà degli altri Paesi e di non sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte di essi.
A questo proposito, le risorse del fondo marino al di là dei limiti delle giurisdizioni nazionali devono essere considerate “patrimonio comune dell’umanità”.
La Convenzione di Montego Bay ha perseguito l’obiettivo di dare corpo ad un’Organizzazione internazionale, l’Autorità Internazionale dei Fondi Marini, destinata a presiedere allo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo del mare internazionale nella cosiddetta «Area internazionale dei fondi marini» (semplicemente Area), e cioè nella superficie sommersa situata al di là delle zone di giurisdizione nazionale delle acque territoriali e della piattaforma continentale.
La suddetta previsione, nella Parte XI della Convenzione di Montego Bay, di questo macchinoso apparato burocratico internazionale è stata alla base dell’opposizione avanzata da parte dei Paesi industrializzati, poiché i Paesi in via di sviluppo sono qui fortemente privilegiati dal sistema previsto.
Nonostante i correttivi apportati dall’Accordo integrativo di attuazione della Parte XI del 28 luglio 1994, che ha comunque avuto il merito di far entrare in vigore la Convenzione di Montego Bay, non si è ancora giunti ad una messa in opera delle procedure estrattive nell’Area internazionale dei fondi marini, sia per un graduale calo d’interesse per le attività di sfruttamento (causato da un produzione terrestre addirittura esorbitante rispetto alle esigenze di mercato), sia per gli eccezionali costi finanziari che l’estrazione marina comporta.
Quanto al “principio della libertà di navigazione in alto mare”, esso è soggetto ad alcuni limiti. In particolare, esso subisce due importanti eccezioni attraverso l’esercizio:
Area Internazionale dei Fondi Marini: delimitazione