Il Codice penale comune all’art. 52 c.p. dichiara che non è punibile «chi ha commesso un fatto costituente reato perché costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di una offesa ingiusta da parte di un terzo, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».
Nei casi previsti dall’art. 614, 1°e 2°comma, sussiste il rapporto di proporzionalità di cui al 1° comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
La disposizione del 2° comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale». Il che vuol dire, in altre parole, che contro l’aggressione ingiusta di un diritto proprio (inerente alla persona o alle cose) o altrui (c.d. soccorso difensivo) sipuò reagire anche commettendo fatti costituenti reato.
I presupposti essenziali per la applicazione della legittima difesa sono due:
L’art. 42 c.p.m.p., stabilisce che: «Per i reati militari, in luogo dell'articolo 52 del codice penale, si applicano le disposizioni dei commi seguenti.
Se il fatto è commesso nell'atto di respingere gli autori di scalata, rottura o incendio alla casa o ad altro edificio di abitazione, o alle loro appartenenze, e non ricorrono le condizioni previste dal n. 2 del comma precedente, alla pena di morte con degradazione è sostituita la reclusione non inferiore a dieci anni; alla pena dell'ergastolo è sostituita la reclusione da sei a venti anni; e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà».
Le differenze tra l’istituto di diritto comune e l’istituto militare emergono nettissime qualora ci si addentri nell’esame comparativo dei requisiti “dell’aggressione” e di quelli “della reazione” nell’una e nell’altra scriminante.
Circa i requisiti dell’aggressione, l’art. 52 Codice penale comune richiede che:
Ciò significa che le legittima difesa è accordata non solo a tutela dei diritti inerenti alla persona (vita, incolumità fisica, pudore, ecc.) ma anche a tutela dei diritti patrimoniali; che non occorre che l’aggressione sia violenta, bastando ai fini dell’aggressione anche l’uso di mezzi non violenti e persino l’atteggiamento passivo; che la minaccia al diritto deve essere in contrasto con i precetti dell’ordinamento giuridico e deve creare per il diritto un pericolo presente nel momento in cui avviene il fatto reattivo.
L’art. 42 c.p.m.p. restringe notevolmente l’ampiezza di tali requisiti. Essa parla di «necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta».
In tal modo viene a circoscrivere il concetto di «aggressione» alla sola ipotesi della violenza; e poiché la nozione di violenza è offerta dall’art. 43, il quale afferma che «agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di violenza si comprendono l'omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti, e qualsiasi tentativo di offendere con armi», ne discende inevitabilmente che il bene oggetto dell’aggressione deve essere il diritto alla vita o il diritto all’integrità fisica e che le modalità dell’aggressione devono consistere in un comportamento attivo e violento.
Non solo, ma mentre, per l’art. 52 Codice penale comune, «attuale» deve essere il “pericolo dell’offesa”, per l’art. 42 c.p.m.p. «attuale» deve essere la “violenza”, sì ché è preclusa la difesa preventiva.
Ma poiché una violenza consumata non può essere respinta, violenza attuale va intesa anche come violenza imminente: non è necessario attendere che l’aggressore spari il primo proiettile per reagire difensivamente.
Circa i requisiti della reazione, l’art. 52 Codice penale comune richiede che quest’ultima sia «necessaria» per difendere il diritto minacciato, e «proporzionata» alla difesa.
Perché ricorra tale scriminante occorre che la reazione sia legittima (per essere tale deve cadere sull’aggredito) e deve presentarsi come necessaria (non poteva essere evitata) ossia il soggetto è nella alternativa tra reagire o subire; occorre inoltre la inevitabilità del pericolo, nel senso che non deve essere possibile evitare altrimenti l’offesa al diritto proprio o altrui.
La difesa deve essere proporzionata all’offesa; proporzione che secondo la dottrina più recente deve sussistere tra il male minacciato e quello inflitto (la giurisprudenza, tra l’altro, suggerisce di tenere conto anche delle condizioni dell’aggredito, dei mezzi di cui disponeva, del tempo e del luogo dell’aggressione, ecc.).
La reazione è certamente proporzionata e perciò legittima quando il male provocato all’aggressore è inferiore o appena superiore a quello subito. La proporzione deve sussistere fra il male minacciato e quello inflitto nonché fra i mezzi a disposizione e quelli da lui usati.
Anche per la legittima difesa militare il legislatore esige che la reazione risponda ai requisiti della necessità e della proporzionalità: nella determinazione concettuale di tali requisiti non vi è motivo alcuno per derogare ai principi tracciati dalla dottrina in materia di legittima difesa comune, stante la perfetta identità di formulazione legislativa su tali punti.
Si è posto in passato il problema, se la scriminante sia applicabile a chi, potendo salvarsi con la fuga, preferisce invece difendersi. La dottrina afferma concordemente che se per il “privato“ la fuga può essere talvolta possibile senza danno morale e senza menomazione della dignità, per il “militare “ ciò non avviene, poiché la fuga nuoce al prestigio della divisa e contrasta con le regole dell’etica militare e con l’alto sentimento dell’onore, profondamente radicato nell’ordinamento militare.
Si sostiene generalmente che nella legittima difesa militare il cosiddetto «prestigio della divisa» può essere in gioco tanto nel caso che il militare aggredito fugga, quanto nel caso che reagisca: se fugge, il militare nuoce al prestigio della divisa sottraendosi ad una violenza e dando l’impressione di essere codardo; se affronta la violenza e reagisce, nuoce al prestigio della divisa ledendo l’incolumità personale di un altro militare e molto spesso l’incolumità personale di un superiore, o comunque interessi della disciplina e del servizio.