La distinzione tra “reato militare” e “reato comune”, espressamente codificata nel nostro ordinamento è fondamentale ed imprescindibile per poter stabilire la sede giurisdizionale, cioè, il Tribunale, la Magistratura competente a giudicare quel fatto illecito sul piano penale.
Nel Codice penale militare di pace viene fornita una definizione formale e restrittiva del “reato militare”. Infatti l’art. 37 c.p.m.p. recita che «è reato militare qualunque violazione della legge penale militare» a cui è collegata l’irrogazione di una «sanzione penale militare»: ergastolo, reclusione comune e reclusione militare.
Occorrono, pertanto, altri strumenti per focalizzare più esattamente il reato militare, che di norma è compreso nel codice penale militare di pace e di guerra, ma può anche essere riportato in una diversa fonte normativa (ad esempio: nella legge sulla leva.).
Secondo la dottrina più autorevole, che stabilisce un legame indissolubile tra reato militare e legge penale militare, perché un reato possa qualificarsi “militare” devono concorrere due elementi:
Oltre a questi “elementi oggettivi”, di norma ricorre anche un “requisito soggettivo”, cioè «l’appartenenza alla Forze Armate» del soggetto incriminato. Un elemento ulteriore, eventuale, può essere il luogo ove è stato commesso il fatto, che diviene, ad esempio presupposto del furto militare (art. 230 c.p.m.p.).
Si esclude solitamente che ai reati militari sia applicabile la bipartizione “delitti-contravvenzioni” e si tende ad affermare che tutti i reati militari sono «delitti». Il motivo più attendibile per cui il Codice penale militare di pace ignora le contravvenzioni è, probabilmente, questo:
L’illecito disciplinare sostituisce, in fondo, la contravvenzione: col vantaggio, di sottrarre al circuito penale illeciti di particolare lievità, nei cui confronti il processo penale sarebbe sproporzionato. In ciò il diritto penale militare ha in certo senso, anticipato la tendenza del legislatore verso la «depenalizzazione».
Il legislatore non ha previsto per il reato militare pene pecuniarie ma solo pene detentive (ergastolo, reclusione e reclusione militare).
Se il fatto è commesso a danno della amministrazione militare, la pena è della reclusione militare da uno a cinque anni. La condanna importa la rimozione.
[1] [3]Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di “violenza” si comprendono l’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti e qualsiasi tentativo di offendere con armi (art. 43 c.p.m.p.).
[2] [4]Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di "luogo militare" si comprendono le caserme, le navi, gli aeromobili, gli stabilimenti militari e qualunque altro luogo, dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragione di servizio.
Il discorso sul reato militare non è completo se, dopo aver affrontato il problema dei rapporti tra reato militare e reato comune, non si affronta anche il problema della differenza tra reato militare e infrazione (o trasgressione) disciplinare militare.
La correlazione tra illecito penale e illecito disciplinare è, nel diritto militare, assai più stretta che in altri settori dell’ordinamento. E’ noto, infatti, che l’ordinamento penale militare si è sviluppato da un originario codice disciplinare, attraverso una evoluzione nella quale è andata via via emergendo la distinzione tra infrazione disciplinare e reato, tra sanzione disciplinare e sanzione penale.
Sulla base di quali criteri può essere oggi delineata la differenza tra il reato militare e l’infrazione disciplinare ?
L’infrazione disciplinare attiene essenzialmente alla disciplina, mentre il reato militare attiene essenzialmente al servizio: ma non si è riusciti a superare in modo convincente la difficoltà derivante dal fatto che vi sono reati militari che attengono direttamente alla disciplina (ad esempio, l’insubordinazione) e infrazioni disciplinari che attengono direttamente al servizio (ad esempio, le negligenze nell’adempimento del proprio dovere).
Inoltre, mentre il diritto disciplinare si occupa di fatti che contravvengono a regole di condotta del consorzio militare e turbano soltanto l’ordine interno di quest’ultimo, la norma penale militare incrimina ipotesi di lesione dell’ordinamento giuridico generale dello Stato o comunque ipotesi di lesione dell’ordinamento gerarchico delle Forze Armate, inteso nella sua unità istituzionale e nel suo rapporto con l’ordinamento dello Stato.
Non si è comunque riuscito a superare in modo convincente la difficoltà derivante dal fatto che l’art. 260 c.p.m.p. prevede, attraverso l’istituto della richiesta, la possibilità di perseguire certi reati militari con la mera punizione disciplinare anziché con la sanzione penale., vanificando in tal modo l’asserita differenza tra i due tipi di illecito.
Nell’ambito dell’Ordinamento militare[ [5]1] [5] l’illecito disciplinare è descritto con indicazione molto sommaria dall'articolo 1352 che stabilisce: «Costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all’emanazione di un ordine. La violazione dei doveri indicati nel comma 1 comporta sanzioni disciplinari di stato o sanzioni disciplinari di corpo». Ogni violazione dei doveri del servizio o della disciplina costituisce trasgressione disciplinare militare, soggetta a sanzioni amministrative (sanzioni di stato, quali la perdita del grado per rimozione o retrocessione, la sospensione disciplinare dall’impiego o dalle funzioni del grado; sanzioni di corpo quali il richiamo verbale, rimprovero scritto, consegna e consegna di rigore).
Ma la violazione dei doveri del servizio (ad esempio, le negligenze nell’adempimento del proprio dovere) o della disciplina (ad esempio, la insubordinazione) può costituire anche reato: in tal caso essa potenzialmente va soggetta ad una duplice sanzione: quella disciplinare e quella penale.
Il campo delle trasgressioni meramente disciplinari, che cioè non costituiscono reato è peraltro molto vasto, essendo numerosi i doveri di servizio e di disciplina imposti ai militari, la cui violazione è repressa solo in via disciplinare.
Una cosa è certa: mentre nel reato militare soggetto attivo può essere, in certi casi, un non-militare, nell’infrazione disciplinare soggetto attivo è sempre necessariamente un militare.
[ [5]1] [5] Codice dell'Ordinamento militare (D.lgs. n. 66 del 15 marzo 2010)
La definizione giuridica di “infrazione disciplinare” é data dall’art. 1352, comma 1°, del Decreto legislativo n. 66 del 15 marzo 2010, che così sancisce: «Costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all’emanazione di un ordine. La violazione dei doveri indicati nel comma 1 comporta sanzioni disciplinari di stato o sanzioni disciplinari di corpo».
La legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme sui principi della disciplina militare) che ha integrato l'abrogato Regolamento di disciplina militare del 1986, prevede il potere sanzionatorio dell’Autorità militare nel campo della disciplina (art. 13) e dispone che la violazione dei doveri della disciplina militare comporta sanzioni disciplinari di stato e sanzioni disciplinari di corpo, e riserva alla legge la regolamentazione delle sanzioni disciplinari di stato; rimette al regolamento di disciplina militare la regolamentazione delle sanzioni disciplinari di copro, ma fissa limiti e modi di tale regolamentazione, indicando, negli artt. 14 e 15, la natura delle sanzioni e i fondamentali criteri procedurali per la loro applicazione.
Sia le sanzioni disciplinari di stato che le sanzioni disciplinari di corpo incidono sullo status di militare, ma mentre le prime hanno per effetto il venire meno dello status stesso temporaneamente (come nel caso della sospensione disciplinare dall’impiego o dal servizio) o definitivamente (come nel caso della perdita del grado per rimozione), quelle di corpo incidono sullo status del militare all’interno dell’organizzazione militare, limitando alcune sue facoltà o posizioni giuridiche (Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 luglio 2000 n. 3835).
La legge predetta prevede inoltre l’obbligo di contestazione degli addebiti e di valutazione delle giustificazioni addotte; vieta l’inflizione della consegna di rigore (cioè il vincolo a rimanere fino a un massimo di 15 giorni in un apposito spazio dell’ambiente militare o nel proprio alloggio) se non è stato sentito il parere di un’apposita commissione composta di tre militari, di cui due di grado superiore e uno di grado pari a quello del militare cui è addebitata la mancanza; prevede l’assistenza di un difensore, scelto fra i militari dell’ente a cui appartiene l’interessato, o, in mancanza, designato di ufficio; prevede altresì garanzie per l’esercizio del diritto di difesa.
Infine l’art. 16 si occupa della impugnazione del provvedimento disciplinare, sia sotto il profilo del ricorso gerarchico, sia sotto il profilo del ricorso giurisdizionale e del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica; prevede altresì la facoltà del militare di presentare istanze tendenti ad ottenere il riesame di sanzioni disciplinari di corpo.
Le sanzioni disciplinari di stato contemplate dalle singole leggi di stato giuridico sono le seguenti:
Il procedimento disciplinare di stato viene instaurato mediante “inchiesta formale” (definibile come il complesso degli atti diretti all’accertamento della sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi di una pretesa infrazione disciplinare punibile con una sanzione disciplinare di stato), generalmente così articolata:
In base alle risultanze dell’inchiesta formale le competenti Autorità gerarchiche possono decidere se proporre, a seconda del grado rivestito dall’incolpato, al Ministro competente o al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza, l’applicazione di una sanzione di stato di tipo sospensivo o se deferire l’incolpato al giudizio di una commissione o consiglio di disciplina per l’eventuale perdita del grado per rimozione.
Il Ministro competente ha, inoltre, facoltà di deferire l’incolpato alla commissione o consiglio di disciplina sia nel caso abbia egli stesso ordinato l’inchiesta formale sia nel caso vi sia stata una proposta di sanzione di stato di tipo sospensivo. Il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, nei procedimenti riguardanti appuntati e carabinieri, può deferire direttamente l’incolpato alla commissione di disciplina. Il deferimento alla commissione o consiglio di disciplina costituisce un’ulteriore fase del procedimento disciplinare di stato. Il Comandante Generale della Guardia di Finanza, nei procedimenti riguardanti appuntati e finanzieri, può discostarsi dal giudizio della commissione di disciplina a favore dell’incolpato.
Il Ministro competente può sempre discostarsi dal giudizio della commissione o consiglio di disciplina a favore dell’incolpato e, soltanto in casi di particolare gravità, anche a sfavore (la facoltà di discostarsi “a sfavore” é però contemplata solo nei procedimenti riguardanti ufficiali, sottufficiali e volontari di truppa in servizio permanente, rimanendo esclusi quindi i procedimenti riguardanti appuntati, carabinieri e finanzieri).
Le sanzioni disciplinari di corpo, applicabili indistintamente a tutto il personale militare, sono le seguenti:
Il procedimento disciplinare di corpo (definibile come il complesso, sia degli atti diretti all’accertamento della sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi di una pretesa infrazione disciplinare punibile con una sanzione disciplinare di corpo, sia delle determinazioni adottate a conclusione del procedimento disciplinare) si articola nelle "seguenti fasi" :
La procedura preordinata all’irrogazione della sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore comprende, inoltre, due ulteriori fasi prima delle determinazioni del comandante di corpo e cioè:
Il Codice penale militare di pace distingue i reati in:
Secondo l’art. 37, 2° comma c.p.m.p. «è reato esclusivamente militariquello costituito da un fatto che, nei suoi elementi materiali costitutivi, non è, nemmeno in parte, previsto come reato della legge penale comune».
E la non-previsione da parte di norme comuni sta ad indicare che l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice è un interesse esclusivamente militare.
In particolare (art. 118-124 c.p.m.p.):
Accanto alla categoria dei reati esclusivamente militari si delinea per contrapposto la categoria comprendente tutti quei reati militari i cui elementi materiali costituitivi sono in tutto o in parte puniti dalla legge penale comune (peculato militare, che ha il suo corrispondente nel peculato comune, furto militare, che ha il suo corrispondente nel furto comune, ecc.).
Il Codice tace e si astiene da definizioni in merito: ma la dottrina ha ritenuto di indicare questa seconda categoria con l’espressione «obiettivamente militari». Detta categoria è caratterizzata dal fatto che i reati in essa compresi ledono o mettono in pericolo «interessi comuni» oltreché «interessi militari», e quindi sono tutti reati “plurioffensivi”, in quanto offendono contemporaneamente più interessi protetti.
Le norme che prevedono i reati obiettivamente militari sono speciali rispetto alle norme incriminatrici che prevedono i corrispondenti reati comuni: il rapporto tra le due categorie di norme è regolato dall’art. 15 c.p.
Riassumendo,possiamo dire che vi sono reati che sono autonomamente previsti dalla legge penale militare e che contengono intere fattispecie (o elementi di fattispecie) di reati comuni.
E vi sono reati che vengono considerati in tutto o per tutto reati militari perché lesivi di un interesse «esclusivamente militare» e che non trovano riscontro nella legge penale comune. La distinzione tra reati elusivamente militari e obiettivamente militari non è una distinzione puramente accademica, fatta solo per il gusto di astrarre geometrie concettuali.
E’ una distinzione che ha una sua concreta rilevanza pratica:
Il sistema delle pene principali nel diritto militare (cioè il sistema delle sanzioni penali principali ricollegate alle fattispecie criminose militari) si presenta impostato da un lato sulla configurazione di pene “speciali“ militari e dall’altro sulla utilizzazione di talune pene “comuni” (art. 22 c.p.m.p.). E’ dunque un «sistema misto».
Le pene comuni utilizzate sono l’ergastolo e la reclusione; la pena speciale appositamente configurata dall’ordinamento militare è la «reclusione militare». Il Codice penale militare non utilizza né l’arresto né le pene pecuniarie; quest’ultime sono state talora utilizzate in leggi penali militari speciali. Fino al 1994 il codice penale militare di guerra utilizzava anche la pena di morte, ma tale pena è stata abolita con la legge 13 ottobre 1994, n. 589. La «reclusione militare», si estende da 1 mese a 24 anni (art. 26 c.p.m.p.); essa si differenzia dalla reclusione comune essenzialmente per i modi di esecuzione (è scontata infatti in uno Stabilimento militare[1] [6] [6], con l’obbligo del lavoro, secondo le norme stabilite dalla legge o dai regolamenti militari approvati con decreto del Presidente della repubblica), e per le pene accessorie che l’accompagnano (ad essa non consegue mai la degradazione). La reclusione militare non comporta mai la degradazione, a differenza della reclusione comune.
Se la durata della reclusione militare non supera sei mesi, essa può essere scontata in una sezione speciale del carcere giudiziario militare. Il condannato a pena militare detentiva per un tempo non superiore a tre anni, il quale abbia scontato metà della pena (o almeno tre quarti in caso di recidiva) purché tale entità di pena espiata non sia inferiore a 3 anni e un rimanente di pena da espiare che non superi i 3 anni, e abbia dato prova costante di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale[2] [7] [7] (art. 71 c.p.m.p).
Quanto detto può trovare spiegazione nel fatto che il legislatore militare disciplina, di regola, i reati militari (e tutti gli istituti che ad essi attengono) con severità normalmente maggiore di quanto non faccia il legislatore comune nelle corrispondenti materie di sua competenza. Alla pena della reclusione comune, inflitta o da infliggersi ai militari per reati militari, è sostituita la pena della reclusione militare di eguale durata, quando la condanna non importa la degradazione. In questi casi, per la determinazione delle pene accessorie e degli altri effetti penali della condanna, si ha riguardo alla pena della reclusione militare (art. 27).
Alcune considerazioni:
Quale criterio segue il legislatore militare nel comminare, di volta in volta, una pena militare o una pena comune ?
Per rispondere a questo quesito occorre anzitutto premettere che il legislatore è libero di stabilire, con assoluta discrezionalità, se comminare pene militari o pene comuni e, in particolare, se comminare la reclusione militare o la reclusione comune.
Il criterio di massima seguito nella scelta si rifà anzitutto al tipo di interesse offeso:
► per i reati che offendono soltanto interessi militari viene preferita la «reclusione militare»;
► per i reati che, accanto ad interessi militari, offendono anche interessi comuni viene preferita la «reclusione comune».
E’ quindi possibile affermare, in linea di massima, una correlazione tra reato esclusivamente militare e pena militare, e una correlazione tra reato non esclusivamente militare e pena comune. Quando la natura del reato comporta la “espulsione dal consorzio militare e la pena detentiva”, viene irrogato l’«ergastolo» o la «reclusione comune» (pene principali – come vedremo - collegate alla degradazione); quando la natura del reato “consente il mantenimento del colpevole nel consorzio militare”, viene irrogata la «reclusione militare».
Ciò suggerisce una osservazione: non esiste una pena militare che importi la detenzione a vita. Infatti una pena di tal genere è incompatibile con il concetto di pena militare detentiva, poiché simile concetto presuppone la possibilità di mantenere nel consorzio militare il soggetto condannato e di recuperarlo pienamente agli effetti del servizio militare, laddove invece la pena detentiva a vita non può che espellere definitivamente il soggetto dal consorzio militare e non può offrire alcuna prospettiva di recupero al servizio militare.
Concludendo:
La degradazione diventa dunque un «perno di distribuzione» delle pene detentive per i reati militari la cui pena edittale è la reclusione comune.
[1] [8] [8]Gli stabilimenti militari di pena si distinguono in reclusori militari, destinati ad accogliere i condannati e carceri preventivi militariper i detenuti in attesa di giudizio. L’espiazione della pena da parte di Ufficiali che comunque non abbiano perduto il grado deve avvenire in uno stabilimento diverso da quello destinato ad altri militari e ciò per le esigenze stesse della disciplina e della dignità del grado
[2] [9] [9]La concessione, gli effetti e la revoca della liberazione condizionale sono regolati dalla legge penale comune, salva la disposizione dell’art. 76 c.p.m.p.
Abbiamo detto che, in linea di massima, esiste una correlazione tra «reato esclusivamente militare e pena militare», ed esiste altresì una correlazionetra «reato non esclusivamente militare e pena comune».
Tuttavia, mentre la prima correlazione può dirsi costante[1] [10], la seconda correlazione non è assoluta e va incontro a numerose deroghe, dalle quali si evince che nello scegliere il tipo di pena per i reati non esclusivamente militari il legislatore militare ha riguardo non soltanto alla natura degli interessi offesi, bensì anche alla natura e gravità del comportamento incriminato.
I casi di insubordinazione prevista dagli artt. 189 e 190 c.p.m.p. non possono, infatti, giustificare una espulsione dal consorzio militare, e d’altra parte sono di tal natura da consentire una rieducazione del soggetto nell’ambito dell’organizzazione militare.
Quindi nei reati c.d. obiettivamente militari il legislatore sceglie il tipo di pena in relazione all’opportunità o meno di espellere il soggetto attivo (=autore) del reato dal consorzio militare; e quando commina la reclusione comune è perché tendenzialmente orientato verso quella espulsione. Tale tendenza si esprime nel fatto che la pena della reclusione comune è prevista dal legislatore militare in misura tale che il massimo edittale non è mai inferiore a 5 anni: è sempre aperta, quindi, per il Giudice la possibilità di determinare la pena concreta nella misura di 5 anni o più e di far conseguentemente scattare la degradazione[2] [11], in forza dell’art. 28, 3° comma c.p.m.p. La riprova di ciò si ha nel fatto che in nessuna norma dei Codici penali militari il legislatore commina a carico di militari una pena della reclusione comune il cui massimo edittale sia inferiore ai 5 anni.
Le poche norme, infatti, che prevedono la reclusione comune con un massimo edittale inferiore a 5 anni riguardano tutte “soggetti attivi” non aventi la qualità di militari e nei cui confronti, quindi, non si pone il problema della degradazione.
Una riprova ulteriore si ha nel disposto dell’art. 55 c.p.m.p., dove il legislatore, disciplinando il concorso di reati che comportano la reclusione comune e di reati che comportano la reclusione militare, determina l’applicabilità dell’una o dell’altra specie di pena proprio sulla base della irrogazione o meno della pena accessoria della degradazione.Tuttavia, se poi in concreto il Giudice determina la reclusione comune in misura inferiore a 5 anni, la degradazione non scatta, la espulsione non si verifica. Sorge allora l’esigenza di sostituire alla reclusione comune la reclusione militare, dato che il condannato mantiene lo status di militare, con tutte le relative conseguenze.
A quella esigenza il legislatore provvede con l’art. 27 c.p.m.p., il quale prevede la c.d. sostituzione della pena militare alla pena comune, disponendo nel 1° comma: «Alla pena della reclusione comune, inflitta o da infliggersi ai miliari per reati militari, è sostituita la pena della reclusione militare per uguale durata, quando la condanna non importa la degradazione».
Concludendo:
[1] [12] [12]Vi è un solo caso in cui viene leso soltanto un interesse militare ma al tempo stesso è impossibile irrogare la reclusione militare: è il caso della procurata inabilità permanente al servizio militare.
[2] [13] [13] La degradazione non è semplicemente – come a prima vista parrebbe far pensare la parola – la perdita del grado: è la perdita della qualità di militare; una sorta di indegnità che comporta delle vere e proprie incapacità militari.
Ai principi che abbiamo fin qui elencato si ricollega la sostituzione, in sede esecutiva, della reclusione militare alle pene comuni, in determinati casi previsti dagli artt. 63 e 64 c.p.m.p. Secondo il Codice penale militare, quando il militare è stato condannato a pena comune per un reato comune e quando la condanna è compatibile con la qualità di militare, l’interesse del consorzio militare a non perdere un proprio componente ha il sopravvento su ogni altra considerazione e induce il legislatore militare ad operare “opportune sostituzioni di pena” o comunque a porre in essere accorgimenti tali da garantire il detto interesse.
Secondo una autorevole dottrina[1] [14], la sostituzione, in sede esecutiva, della reclusione militare alla reclusione comune mira ad evitare che nel condannato sia interrotto l’ambito della disciplina militare ed il conseguente contagio derivante da una convivenza con persone non militari, e a garantire, altresì, che il militare possa, pur in espiazione di pena, svolgere quelle istruzioni militari compatibili con la detenzione e giovevoli alla sua educazione militare. In questa sede di sostituzione, può anche accadere che la reclusione militare venga ad essere concretamente applicata per un periodo inferiore al minimo edittale di 1 mese, dato che il minimo edittale della reclusione comune è di 15 giorni.
L’art. 63 c.p.m.p. stabilisce infatti che: «Nella esecuzione delle pene inflitte ai militari in servizio permanente alle armi, per reati preveduti dalla legge penale comune… si osservano le norme seguenti:
Quindi nei casi di militari “in servizio permanente“e di pena comportante l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, avviene la degradazione del condannato e l’esecuzione della pena comune; nei casi di militare in servizio permanente e di pena non comportante l’interdizione dai pubblici uffici si opera la sostituzione della pena militare alla pena comune.
Se invece il militare è “in servizio temporaneo“, la situazione si profila in termini diversi ed esige una diversa disciplina. Infatti il militare in servizio permanente, essendo membro stabile e professionale del consorzio militare (qualora non venga espulso in forza di degradazione), non ha altra possibilità di scontare la pena comune durante il tempo del servizio (e allora si pone il problema della sostituzione della pena), mentre il militare in servizio temporaneo (per ferma o per richiamo dal congedo) si trova sotto le armi solo per un breve e determinato periodo di tempo, onde nei suoi confronti possono profilarsi due possibilità (sempre ché la condanna sia compatibile con la qualità di militare), e precisamente:
Il legislatore militare adotta la prima soluzione (sostituzione) quando i reati per cui il militare è stato condannato rientrano fra quelli indicati nell’antica formulazione dell’art. 264 c.p.m.p. o quando, comunque, vi è stata interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 64 nn. 1 e 2 c.p.m.p.); adotta la seconda soluzione (differimento) in ogni altro caso (art. 64 n. 3 c.p.m.p.).
[1] [15] [15] Mazzini, Commento ai codici penali militari per l’Esercito e per la marina, Torino, 1916, pag. 66
L’art. 65 c.p.m.p. prevede che l’estraneo alle Forze Armate il quale sia stato condannato alla reclusione militare per un reato militare, in forza di concorso nel reato con soggetto militare oppure in forza del disposto di cui all’art. 14 c.p.m.p., si veda sostituire la reclusione militare con la reclusione (comune) di pari durata.
E’ una sostituzione inversa a quella vista in precedenza, e che non pone particolari problemi. Essa è disposta anche nei confronti di coloro che abbiano cessato di appartenere alle Forze Armate, nonché nei confronti degli assimilati ai militari, degli iscritti ai corpi civili militarizzati ordinati e dei militari di fatto.
La ratio su cui essa si fonda è evidente: per chi non è ovvero non è più militare non ha senso infliggere la reclusione militare. Si impone dunque il meccanismo di cui all’art. 65 c.p.m.p.
Come è noto, la legge 24 novembre 1981, n. 689 e succ. modif., negli artt. 53 e segg., ha introdotto la possibilità di sostituire le pene detentive brevi con «sanzioni sostitutive»:
La sostituzione avviene, dunque, in sede di cognizione, tenendo conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p.; è quindi rimessa alla discrezionalità del Giudice.
La violazione di una delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione o alla libertà controllata determina la revoca della sanzione sostitutiva (art. 72) e, quando la libertà controllata è già conseguenza di una insolvibilità del condannato rispetto alla pena pecuniaria sostituitagli, determina la conversione della restante parte della sanzione in pena detentiva (art. 108).
Come spesso accade in occasione di riforme legislative, il legislatore si è dimenticato totalmente dell’esistenza dei Codici penali militari e nessuna norma predispone l’applicabilità delle sanzioni sostitutive previste dall’art. 53 L. 689/81 ai militari.
La incompatibilità delle sanzioni sostitutive delle pene brevi ai reati militari è stata attualmente superata dalla Corte Costituzionale che ha dichiarato, con sentenza n. 284 del 1995, l’illegittimità costituzionale dell’art. 53 L 689/81 “nella parte in cui non prevede l’applicabilità delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi ai reati militari”-
E quanto alla compatibilità o incompatibilità in concreto, in rapporto allo status soggettivo del condannato, non dovrebbe essere difficile, per il Giudice competente, in attesa di un intervento legislativo (auspicato dalla sentenza costituzionale n. 284/95), trovare il punto di equilibrio e provvedere saggiamente, tenendo conto:
L’ art. 24 c.p.m.p. elenca le pene militari accessorie, le quali conseguono, nei casi stabiliti dalla legge, a condanne per reati militari e per reati comuni, come effetti penali di esse; si cumulano con le pene accessorie comuni e possono essere:
Sono pene militari accessorie “perpetue”:
Sono pene militari accessorie “temporanee”:
Alcuni considerazioni:
A questo quesito risponde il legislatore militare, il quale all’art. 33 c.p.m.p. dispone che la condanna per un reato comune pronunciata contro un militare in servizio alle armi o in congedo importa, oltre le pene accessorie comuni:
la rimozione, se trattasi di delitto non colposo contro la personalità dello Stato, o di alcuno dei reati preveduti dagli artt. 476 a 493 (della falsità in atti); dal 531 al 537 (delle offese al pudore e all’onore sessuale); dal 624, 628, 629, 630 (dei delitti contro il patrimonio); 640, 643, 644 e 646 (dei delitti contro il patrimonio mediante frode) del codice penale comune; ed inoltre, se il condannato, dopo aver scontato la pena, deve essere sottoposto ad una misura di sicurezza detentiva diversa dal ricovero in una casa di cura o di custodia per infermità psichica, o alla libertà vigilata;
Dunque, vi sono parecchi casi in cui un reato comune può provocare l’applicazione non soltanto di una pena principale comune e di una pena accessoria comune, bensì anche l’applicazione di una pena accessoria militare.
Il sistema delle pene accessorie militari non presenta sostanziali singolarità rispetto al sistema delle pene accessorie comuni. L’art. 34 c.p.m.p. dispone che «le pene della degradazione e della rimozione decorrono, a ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile», e che «le pene della sospensione dall’impiego e della sospensione del grado decorrono dal momento in cui ha inizio l’esecuzione della pena principale».
Ci si potrebbe dunque domandare per quale motivo la sospensione dall’impiego e la sospensione dal grado (che sono pene accessorie temporanee) sfuggono alla disciplina dell’art. 139 codice penale comune e, anziché decorrere (come le pene accessorie comuni) dal giorno in cui termina l’espiazione della pena principale, decorrono dal momento in cui ha inizio l’esecuzione della pena principale stessa.
Le suddette pene accessorie militari hanno un senso solo se cominciano a decorrere con la pena detentiva: sarebbe assurdo che nei casi in cui la legge prevede la sospensione, questa non funzionasse durante l’espiazione della pena detentiva, cioè proprio nel periodo in cui il condannato non può esercitare le attribuzioni dell’impiego e del grado (e, quand’anche fisicamente lo potesse, non sarebbe opportuno – per evidenti motivi – che le esercitasse).
La decorrenza della pena accessoria deve dunque incominciare con la decorrenza della pena principale.
Il quesito potrebbe trovare un apparente fondamento nell’esigenza dell’ordinamento militare di riportare al più presto i propri membri alla loro piena efficienza, ogni qualvolta la sospensione non sia definitiva, e di sottrarli il meno possibile alla funzione che essi esplicano nel consorzio militare.
La degradazione (art. 28 c.p.m.p.) consiste nella «perdita della qualità di militare e, salvo che la legge disponga altrimenti, con la incapacità perpetua di prestare qualunque servizio per le Forze Armate nonché di fruire di decorazioni».
Consegue a condanne inflitte da qualsiasi Giudice per reati militari o per reati comuni ed opera dal giorno in cui l’Autorità amministrativa ha adottato il provvedimento di esclusione dalle Forze Armate.
Consegue alla pena principale nei seguenti casi:
Non consegue mai alla reclusione militare di qualsiasi durata
La degradazione è accompagnata sempre dalla «interdizione dai pubblici uffici»
Si applica ai militari di qualsiasi grado, in servizio o in congedo, ed il suo effetto principale è quello di privare il condannato della sua qualità di militare, facendolo diventare estraneo alle Forze Armate; non si applica alle persone estranee alle Forze Armate le quali tuttavia, per effetto della interdizione perpetua dai pubblici uffici, non possono mai rivestire la qualifica di militare.
La rimozione (artt. 29 e 33 c.p.m.p.) consiste nella «perdita (perpetua)del grado di cui il militare sia eventualmente insignito, nella retrocessione del militare stesso alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe, nella incapacità di rivestire per il futuro un grado militare qualsiasi».
La rimozione consegue:
[1] [17] [17] Sull’art. 29 c.p.m.p. è intervenuta una importante sentenza della Corte costituzionale (28 maggio 1993, n. 258), la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale di tale norma «nella parte in cui prevede che per gli “altri militari” la rimozione consegue alla condanna alla reclusione militare per una durata diversa da quella stabilità per gli ufficiali e sottufficiali»; e ciò per irragionevole disparità di trattamento a danno dei graduati di truppa.
La sospensione dall’impiego (art. 30 c.p.m.p.) consiste nella «privazione temporanea dell’impiego, cui vengono sottoposti gli Ufficiali in servizio permanente effettivo durante l’espiazione della pena principale».
La sospensione dal grado (art. 31 c.p.m.p.) colpisce i «Sottufficiali» e i «graduati di truppa» per la durata della espiazione della pena principale e consiste nella «privazione temporanea del grado».
La Pubblicazione della sentenza penale di condanna (art. 36 c.p.) consegue alla sentenza di condanna alla pena dell’ergastolo. Essa è pubblicata per estratto mediante affissione nel Comune dove il reato fu commesso e in quello dove ha sede il Corpo o è ascritta la nave, a cui il condannato apparteneva.
Il Giudice, se ricorrono particolari motivi, può disporre altrimenti, o anche che la sentenza non sia pubblicata.
La sentenza di condanna alla pena di morte [1] [16] o all'ergastolo è pubblicata mediante affissione nel Comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso, e in quello ove il condannato aveva l'ultima residenza. La sentenza di condanna è inoltre pubblicata, per una sola volta, in uno o più giornali designati dal Giudice. La pubblicazione è fatta per estratto, salvo che il Giudice disponga la pubblicazione per intero; essa è eseguita d'ufficio e a spese del condannato. La legge determina gli altri casi nei quali la sentenza di condanna deve essere pubblicata. In tali casi la pubblicazione ha luogo nei modi stabiliti nei due capoversi precedenti.
Se, con una prima condanna, è inflitta una pena detentiva non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore a 519 €, il Giudice, avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, può ordinare in sentenza che non sia fatta menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragione di diritto elettorale [2] [16].
La non menzione della condanna può essere altresì concessa quando è inflitta congiuntamente una pena detentiva non superiore a due anni ed una pena pecuniaria che, ragguagliata a norma dell'articolo 135 e cumulata alla pena detentiva, priverebbe complessivamente il condannato della libertà personale per un tempo non superiore a trenta mesi.
Se il condannato commette successivamente un delitto, l'ordine di non far menzione della condanna precedente è revocato. Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando alla condanna conseguono pene accessorie [3] [16].
Articolo sostituito dalla L. 24 novembre 1981, n. 689.
[1] [16] La pena di morte è stata soppressa e sostituita con l'ergastolo.
[2] [16] La Corte costituzionale, con sentenza 7 giugno 1984, n. 155, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma (nel testo sostituito dalla L. n. 689/1981) , nella parte in cui esclude che possano concedersi ulteriori non menzioni di condanne nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati, nel caso di condanne, per reati anteriormente commessi, a pene che, cumulate con quelle già irrogate, non superino i limiti di applicabilità del beneficio. Successivamente la stessa Corte, con sentenza 17 marzo 1988, n. 304, ha dichiarato l'illegittimità del comma nella parte in cui prevede che la non menzione nel certificato del casellario giudiziale di condanna a sola pena pecuniaria possa essere ordinata dal giudice quando non sia superiore a un milione, anziché a somma pari a quella risultante dal ragguaglio della pena detentiva di anni due, a norma dell'art. 135 cod. pen.
[3] [16] Comma è stato abrogato dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19.
Come è noto, la «riabilitazione» è causa di estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna (quale ad esempio, la recidiva). Essa presuppone che siano decorsi 5 anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (nei casi di recidiva o di altre forme qualificate di pericolosità sociale il termine è di 10 anni).
L’art. 72 c.p.m.p. introduce una deroga al generale al principio posto dall’art. 178 c.p.
Il principio base sancito dal legislatore militare in materia di riabilitazione è il seguente: la riabilitazione militare ordinata a norma della legge penale comune (art. 178 – 181 c.p.) non estingue automaticamente le pene militari accessorie e gli altri effetti penali militari. Omissis…
La legge 23 dicembre 1986, n. 897, che ha soppresso la Corte militare d’appello, ha devoluto al Tribunale militare di sorveglianza la competenza per la riabilitazione militare.
Per ottenere, dunque, la completa riabilitazione dopo la condanna che abbia comportato pene militari accessorie ed altri effetti penali militari (ad esempio, incapacità in materia di perdita del grado, delle decorazioni, delle onorificenze) occorrerà rivolgersi al Tribunale di sorveglianza ordinario[1] [18]; dopo che il Tribunale di sorveglianza ordinario avrà emanato la sentenza di riabilitazione a norma della legge comune, occorrerà rivolgersi al Tribunale militare di sorveglianza per ottenere una decisione estensiva nel senso sopraindicato.
Per emanare tale decisione il Tribunale militare di sorveglianza non sarà vincolato dalla sentenza del Tribunale di sorveglianza ordinario: potrà, anzi, disporre gli accertamenti che ritenga necessari e operare una valutazione del riabilitando del tutto indipendente, conducendola con una particolare severità alla luce dei canoni che si ispirano agli interessi del consorzio militare.
Il rigetto, da parte del Tribunale militare di sorveglianza, della domanda di riabilitazione non preclude la ripresentazione della domanda stessa quando, dopo la reiezione, sopravvengono o si scoprano fatti nuovi o nuovi elementi di prova.
[1] [19] Il nuovo Codice di procedura penale del 1988 (VASSALLI) ha spostato la competenza del giudice ordinario della Corte di appello al Tribunale di sorveglianza.
Fatte queste premesse di ordine generale, occorre ora esaminare più da vicino i rapporti che intercorrono tra «riabilitazione militare» e «riabilitazione comune», e in particolare tra il «Tribunale di sorveglianza ordinario» e il «Tribunale militare di sorveglianza».
Tali rapporti possono essere puntualizzati in queste due posizioni salienti:
Quindi la riabilitazione comune rappresenta per il Giudice militare un precedente necessario, ma non vincolante, nel senso che il Giudice militare possa riesaminare il giudizio formulato del Tribunale di sorveglianza ordinario ma nel senso che il Giudice militare, ferma restando l’integrità e la validità della riabilitazione comune, può ravvisare gli estremi per respingere l’istanza di riabilitazione militare, ponendo fondamento della reiezione motivi di ordine prettamente militare non esaminati agli effetti di negare la riabilitazione comune.
Riabilitazione (art. 178 c.p.)
La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti.
Condizioni per la riabilitazione (art. 179 c.p.)
La riabilitazione è concessa quando siano decorsi cinque anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. Il termine è di dieci anni se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99.
Il termine è, parimenti, di dieci anni se si tratta di delinquenti abituali, professionali o per tendenza e decorre dal giorno in cui sia stato revocato l'ordine di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro.
La riabilitazione non può essere concessa quando il condannato:
Revoca della sentenza di riabilitazione (art. 180 c.p.)
La sentenza di riabilitazione è revocata di diritto se la persona riabilitata commette entro cinque anni un delitto non colposo, per il quale sia inflitta la pena della reclusione per un tempo non inferiore a tre anni, od un'altra pena più grave.
Riabilitazione nel caso di condanna all'estero (art. 181 c.p.)
Le disposizioni relative alla riabilitazione si applicano anche nel caso di sentenze straniere di condanna, riconosciute a norma dell'articolo 12.
Le disposizioni della legge penale comune relative alle misure di sicurezza si osservano anche in materia penale militare (art. 74 c.p.m.p.) salvo talune deroghe, la più notevole delle quali riguarda la «sospensione, durante il servizio militare, della esecuzione delle misure di sicurezza» ordinate sia in applicazione della legge penale militare, sia in applicazione della legge penale comune, tranne – aggiunge la disposizione (art. 76 c.p.m.p.) – che si tratti di misure «curative» (ricovero in una casa di cura e di custodia o in un istituto psichiatrico giudiziario) o di «confisca». Ne risulta che la sola misura detentiva di sicurezza che è sospesa è la «assegnazione ad una colonia agricola o casa di lavoro», quando, si intende, essa non sia connessa a condanna che comporti la degradazione.
Le misure personali non detentive sono tutte sospese; esse infatti appaiono incompatibili con gli obblighi militari (divieto di soggiorno) o con il servizio militare (libertà vigilata).
Delle misure patrimoniali, solo la cauzione di buona condotta è soggetta a sospensione; non vi è ragione di sospendere la confisca, che concerne non la persona, ma le cose.
Come abbiamo avuto modo di vedere, parlando di misure di sicurezza, il legislatore comune prevede una sola ipotesi di sospensione l’esecuzione di una misura di sicurezza applicata a persona imputabile è sospesa se questa deve scontare una pena detentiva, e riprende il suo corso dopo l’esecuzione della pena (art. 212 c.p.). Unica causa di sospensione è dunque la pena detentiva, la cui espiazione fa si che si apra una parentesi nella esecuzione della misura e che quest’ultima continui il suo corso a pena espiata.
Il legislatore militare, invece, affianca alla pena detentiva, quale causa di sospensione della misura di sicurezza, anche il servizio militare (art. 76, 1° comma c.p.m.p.). E’ sempre l’interesse all’integrità e alla piena efficienza delle Forze Armate che ha il sopravvento su ogni altra considerazione e che induce il legislatore a predisporre accorgimenti idonei, diretti ad evitare, quanto più possibile, di sottrarre al consorzio militare dei membri validi ed effettivi: ciò, beninteso, compatibilmente con lo stato del soggetto e con il tipo delle misure di sicurezza, poiché vi sono misure (quali ad esempio, quelle curative) la cui esecuzione non è dilazionabile ed esige una precedenza assoluta.
La sospensione riguarda, beninteso, soltanto determinate misure di sicurezza, e cioè quelle rieducative applicate a soggetti imputabili e conseguenti a condanna che non importi la degradazione: non invece, evidentemente, le misure di sicurezza curative (ospedale psichiatrico giudiziario, casa di cura e di custodia) e quelle che siano collegate a una declaratoria di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere. Escluse dalla sospensione sono altresì, per altra ragione, le misure di sicurezza patrimoniali (confisca): la loro esecuzione non è infatti ostacolata dal servizio militare (o meglio, non costituisce ostacolo al regolare compimento del servizio militare).
Il legislatore militare poi esplicitamente risolve il quesito se il servizio militare abbia efficacia sospensiva solo nei confronti delle misure ordinate in applicazione della legge penale militare o anche nei confronti delle misure ordinate in applicazione della legge penale comune: l’efficacia sospensiva si estende anche a queste ultime; nulla infatti giustificherebbe una diversa soluzione, dal momento che le misure di sicurezza non mutano natura e disciplina a seconda che vengano ordinate in applicazione dell’una o dell’altra legge.
L’art. 76, 2° comma c.p.m.p. dispone che “alla cessazione del servizio alle armi, o durante l’esecuzione della misura di sicurezza, anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge, il Ministro di Giustizia può revocare la misura di sicurezza applicata dal giudice, o, quando trattasi di misura di sicurezza detentiva, sostituirla con altra no detentiva”.
Peraltro il predetto comma deve ritenersi non più applicabile per il combinato disposto degli artt. 69 legge 26 luglio 1975 n. 354 (come modificato dall’art. 21 legge 10 ottobre 1986, n. 663) e D.L. 27 ottobre 1986, n. 700 (convertito in legge 23 dicembre 1986 n. 897[1] [20] [20].
Il combinato disposto di tali norme devolve, quindi, al magistrato militare di sorveglianza ogni competenza in materia di revoca delle misure di sicurezza e quindi implicitamente e da ritenersi abrogato dalla nuova normativa l’art. 76, 2° comma c.p.m.p.
Un’altra singolarità, nell’applicazione delle misure di sicurezza, riguarda la disciplina di talune specifiche misure di sicurezza, quali:
Alcuni considerazioni:
Non si può dire che questi sono quesiti oziosi e fuor di luogo. Essi scaturiscono infatti da talune osservazioni non prive di rilievo.
La pericolosità sociale è una nozione foggiata dal legislatore comune e prevista in relazione ai reati comuni, tuttavia anche dal reato militare può validamente scaturire un giudizio di pericolosità sociale: lo si deduce chiaramente dal disposto dell’art. 203 c.p., il quale (richiamando l’art. 202 c.p.) pone come presupposto della pericolosità sociale la commissione di un «fatto preveduto dalla legge penale come reato». Il legislatore usa il termine «legge» (s’intende: penale) e termine «reato» in senso lato , includendo quindi, in virtù dell’art. 16 c.p., anche la legge penale militare ed il reato militare.
I reati militari si raggruppano in due categorie chiaramente differenziate: quella dei reati esclusivamente militari e quella dei reati non esclusivamente militari.
La commissione di un reato della prima categoria non pare costituire sintomo di una pericolosità di ordine generale: trattandosi di reato esclusivamente militare, la probabilità di commissione di altri reati non può attenere che ad un reato militare, poiché la capacità a delinquere resta circoscritta nell’ambito della violazione di interessi esclusivamente militari.
La commissione di un reato della seconda costituisce, per contro, sintomo di una pericolosità di ordine generale poiché offende, accanto a un interesse militare, un interesse comune, e rivela pertanto nel soggetto una attitudine a violare la legge penale comune oltreché la legge penale militare.
Le espressioni più caratteristiche dei comportamenti criminosi dei soggetti alle armi possono ripartirsi, in linea di massima, nel seguente modo:
Queste considerazioni offrono una conferma di massima alla distinzione precedentemente prospettata.
[1] [21] La prima norma ha attribuito alla competenza del magistrato di sorveglianza l’applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza; la seconda norma ha stabilito che per le funzioni e i provvedimenti del magistrato militare di sorveglianza si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 69 predetto.
La punibilità di ufficio, e cioè ad esclusiva iniziativa del P.M. (Pubblico Ministero militare) che, comunque, sia venuto a conoscenza di un fatto costituente reato, è la regola. La punibilità a richiesta, e cioè a seguito di una espressa dichiarazione di volontà di una pubblica Autorità, è l’eccezione.
La «richiesta di procedimento» è un atto amministrativo che il Comandante pone in essere nei confronti del Procuratore Militare della Repubblica, per esprimere delle valutazioni di carattere discrezionale in merito all’avvio di un procedimento penale militare, a carico di un militare alle proprie dipendenze. In altri termini, il Comandante di Corpo ha la facoltà, attribuitagli dalla legge penale militare, di far continuare in sede penale l’istruzione di un fatto-reato.
La natura giuridica della richiesta di procedimento è molto controversa: la dottrina prevalente ritiene comunque che essa sia un atto amministrativo (e non processuale) che ha effetti sul processo penale militare. Data la sua natura amministrativa, la richiesta di procedimento è “condizione di procedibilità” e nel contempo manifestazione di volontà. I suo caratteri sono: discrezionalità, irrevocabilità.
Il termine di presentazione è quello di "1 mese dal giorno in cui l’Autorità ha avuto notizia del fatto" e una volta presentata, non può più essere revocata.
La richiesta di procedimento non va confusa con la denuncia, cioè con la comunicazione di reato (che comunque va fatta, e con immediatezza, come vuole la legge). Anche se il Comandante decida di procedere solo disciplinarmente, deve darne ugualmente comunicazione alla Procura Militare.
In definitiva, possiamo dire che la richiesta di procedimento si applica a quei reati militari (definiti da alcuni “minori”) che, a causa della scarsa rilevanza dell’interesse militare leso, sono perseguiti penalmente solo a richiesta dal Comandante di Corpo, che si avvale della facoltà prevista dall’art. 260 c.p.m.p.
Alla commissione di un reato consegue, quale effetto tipico, la punibilità del suo autore: vale a dire l’applicabilità a suo carico, delle sanzioni penali stabilite dalla legge in relazione al fatto criminoso verificatosi. Tale effetto tipico può peraltro venir meno quando sopravvengono determinate situazioni che, senza cancellare il reato, estinguono però la potestà punitiva (o diritto di punire) dello Stato oppure incidono sulla esecuzione della pena.
Le situazioni di cui si parla sono le cause di estinzione degli effetti del reato e della pena, che il codice distingue in:
Le prime estinguono la punibilità in astratto, cioè escludono l’applicazione della pena all’autore di un reato, antecedente alla sentenza definitiva di condanna e, di conseguenza, limitano la potestà punitiva dello Stato. Le seconde, invece, estinguono la punibilità in concreto; si caratterizzano perché operano su una pena concretamente inflitta ad un soggetto con sentenza passata in giudicato, senza incidere sul reato (e su i suoi effetti) in alcun modo, e senza intaccare il potere punitivo dello Stato.
Le disposizioni del Codice penale comune sulla estinzione del reato e della pena si osservano anche per il reato e per le pene militari (art. 66 c.p.m.p.), con talune precisazioni e deroghe che vengono a modificare la struttura di taluni istituti, e in particolare della:
Nell’analisi delle linee derogative dei predetti istituti seguiremo, di massima, l’ordine seguito dal legislatore militare.
La Prescrizione consiste nella rinuncia dello Stato a far valere la sua pretesa punitiva, in considerazione del lasso di tempo trascorso dalla commissione di un reato, venendo meno l’esigenza di prevenzione generale (intimidazione) che giustifica la repressione dei reati e l’irrogazione di una pena per un fatto commesso molto tempo prima e caduto nel dimenticatoio.
In tema di prescrizione, la legge penale militare prevede disposizioni speciali sulla prescrizione del reato e della pena nelle fattispecie di «diserzione» e di «mancanza alla chiamata». L’art. 158 c.p. stabilisce il termine di decorrenza della prescrizione, indicando all’uopo il giorno della consumazione per il reato consumato, il giorno della cessazione dell’attività del colpevole per il reato tentato, il giorno della cessazione della permanenza e della continuazione del reato per il reato permanente o continuato, ecc.
L’art. 68 c.p.m.p. dispone che per i reati di diserzione e di mancanza alla chiamata il termine decorre, se l’assenza perduri, «dal giorno in cui il militare ha compiuto l’età con la quale cessa in modo assoluto l’obbligo del servizio militare, a norma delle leggi sul reclutamento» [1] [22] [22].
Si tratta dunque d’una vera e propria deroga che investe in ogni caso la disciplina prescrizionale dei due reati in questione, poiché essi, sia che vengano definiti come istantanei sia che vengano definiti come permanenti, si sottraggono in ogni caso alla regolamentazione comune.
Quindi, se l’assenza ha termine prima del compimento della suindicata età, trova applicazione l’art. 158 c.p. e la prescrizione decorre dalla cessazione dell’assenza; se invece l’assenza perdura oltre il limite di tale età, trova applicazione l’art. 68 c.p.m.p. e la prescrizione decorre in ogni caso da tale termine.
La deroga prevista dall’art. 68 c.pm.p. ha dunque carattere parziale ed eventuale. Essa vige anche in materia di prescrizione della pena. Ciò significa che quando l’imputato sia stato condannato in contumacia con sentenza divenuta irrevocabile e l’assenza perduri, il termine prescrizionale decorre, anziché dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (come dispone l’art. 172, 4° comma c.p.), dalla data in cui il condannato compie l’età che lo libera dall’obbligo del servizio militare.
Da quanto detto risulta che lo stesso principio derogatorio produce conseguenze diverse, ed anzi antitetiche, a seconda che venga applicato ad una causa di estinzione del reato o ad una causa di estinzione della pena: poiché nel primo caso opera a favore del reo, ponendo un termine di decorrenza prescrizionale che altrimenti potrebbe restare perennemente sospeso ed impedire il compiersi del fatto estintivo; nel secondo caso opera invece, in linea di massima, a favore del reo poiché sposta il termine di decorrenza dalla data del passaggio in giudicato della sentenza alla data del 31 dicembre dell’anno di cessazione egli obblighi militari.
[1] [23] [23] Età che l’art. 9 D.P.R. 15 febbraio 1964, n. 237 sulla leva e il reclutamento obbligatorio, non modificato da successivi interventi legislativi, fissa al 31 dicembre del 45° anno di età per i militari dell’esercito e dell’aeronautica, e al 31 dicembre del 39° anno per i militari della marina; e che per gliufficiali e per i sottufficiali è variamente determinata dall’art. 63 della legge 10 aprile 1954 n. 113 sullo stato degli ufficiali e dall’art. 55 legge 31 luglio 1954 n. 599 sullo stato dei sottufficiali.
La Sospensione condizionale della pena (detta comunemente «condizionale») e, come noto, un istituto che consente al Giudice – quando condanna per la prima volta a una pena non superiore a 2 anni (o per la seconda volta, a una pena che, addizionata alla precedente, non superi quel limite) un soggetto nei cui confronti sia formulabile una prognosi di astensione dal commettere ulteriori reati – di ordinare che l’esecuzione resti sospesa per il termine di anni 5 (se si tratta di condanna per contravvenzione, il termine è di anni 2): scaduto quel termine, il reato si estingue se il condannato non ha commesso altri reati.
La Non menzione della condanna è un istituto, in certo senso, gemello della condizionale, poiché anch’esso presuppone una prognosi favorevole, una condanna che intervenga per la prima volta e una pena inflitta che non superi un certo limite (2 anni di pena detentiva) [1] [22] [22]. I suoi effetti sono più limitati perché riguardano soltanto le conseguenze che derivano dalla menzione della di agevolare il reinserimento sociale del condannato. Normalmente viene applicato insieme con la condizionale.
In ordine a questi due istituti il Diritto penale militare presentava alcune rilevanti differenze rispetto al Diritto penale comune. Per la sospensione condizionale, ne estendeva gli effetti alle pene accessorie della sospensione dall’impiego e della sospensione del grado, mentre il codice penale non prevedeva l’estensione della condizionale alle pene accessorie. Per la non menzione, prevedeva la elevazione del limite massimo della pena principale inflitta e la compatibilità del beneficio con la presenza di pene accessorie (compatibilità invece non ammessa dal codice penale comune).
La legge 7 febbraio 1990, n.19, che ha introdotto varie modifiche al Codice penale, ha eliminato una parte delle differenze predette, introducendo nel diritto penale comune gli stessi principi che già vigevano nel diritto penale militare. Precisamente: ha disposto che la sospensione condizionale della pena si estenda anche alle pene accessorie ed ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 175 c.p., relativo alla non applicabilità della non menzione quando la condanna conseguono pene accessorie. A seguito di tale riforma, resta in piedi comunque una sola differenza, riguardante il tetto di pena entro cui è consentita la concessione della non menzione. Mentre l’art. 175 c.p. indica il massimo della pena detentiva nella misura di 2 anni, negando l’applicabilità del beneficio quando la pena inflitta superi tale entità, l’art. 70 c.p.m.p. indica il massimo nella misura di 3 anni di reclusione militare, rendendo così più ampia la sfera di applicazione del beneficio.
[1] [23] In seguito alla sentenza n. 225/75 della Corte costituzionale il beneficio può essere concesso più d’una volta.
Anche in tema di Liberazione condizionale l’ordinamento penale militare conosce qualche deroga. E’ noto che l’art. 176 c.p. (modificato per quanto attiene all’entità della pena complessiva dalla legge 25 novembre 1962 n. 1634) esige quali requisiti per l’applicazione del beneficio:
Di contro, l’art. 71 c.p.m.p. (non toccato dalla legge 25 novembre 1962 n. 1634) contiene una variante ai primi tre requisiti. Esige, infatti:
La prima deroga è a favore del condannato, la seconda e la terza, invece, palesemente sfavorevoli.
Non è facile individuare con esattezza il motivo che ha indotto il legislatore militare a predisporre un simile trattamento; così come non è facile spiegare perché la legge 25 novembre 1962 n. 1634 non sia stata estesa alla liberazione condizionale prevista dal codice penale militare.
Come è noto, la Riabilitazione è causa di estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna (quale, ad esempio, la recidiva). Essa presuppone che siano decorsi 5 anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (nei casi di recidiva o di altre forme qualificate di pericolosità sociale il termine è di 10 anni).
Si aggiunge alla riabilitazione comune (artt. 178-181 c.p.), se si vogliono estinguere le pene accessorie e gli altri effetti penali militari, conseguenti a condanne sia per reati militari, sia per reati comuni. Per chiedere la riabilitazione militare, bisogna avere ottenuto la riabilitazione comune.
Anche quando Amnistia, Indulto e Grazia estinguono la pena accessoria della «rimozione», non restituiscono il grado perduto per effetto della condanna; salvo che il decreto disponga altrimenti. Nemmeno la Riabilitazione militare restituisce il grado, salvo che la legge disponga diversamente (art. 73). Il grado può essere riacquistato solo con le normali procedure di avanzamento o con il particolare procedimento di reintegrazione.
Decorsi 5 anni dalla sentenza definitiva che ha applicato la pena su richiesta delle parti il c.d. patteggiamento, il reato è estinto se il militare non commette un delitto della stessa indole.
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