Ai Comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle varie Forze Armate sono attribuite ai sensi del combinato disposto degli articoli 57, comma 3 del Codice di procedura penale[1] [1] e 301 del Codice Penale Militare di Pace [2] (c.p.m.p.), la qualifica di «Ufficiali di polizia giudiziaria».
Concorrendo più militari, le funzioni sono esercitate dal più elevato in grado o, a parità di grado, dal più anziano. I militari suddetti hanno comunque facoltà di richiedere la forza pubblica.
Per attività di “Polizia giudiziaria militare” si intende l’attività intesa alle investigazioni preliminari in tema di reati soggetti alla giurisdizione penale militare, cioè, in tempo di pace, in tema di reati commessi da appartenenti alle Forze Armate.
Per comprendere compiutamente in cosa consista tale attribuzione e quale svolgimento di funzioni essa consenta (art. 55 c.p.p.), è però indispensabile premettere alcune «nozioni di carattere generale» volte a delimitare con chiarezza gli ambiti effettivi entro i quali si muove l’intera problematica.
[1] [3] Sono altresì Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le «persone» alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’art. 55 c.p.p. (vedasi al riguardo Cass. Pen. – Sez. VI^- Sent. n°1169 del 01.02.06).
Lo Stato è l’ente, originario (il suo potere non deriva da nessuno) e sovrano, destinato a garantire le condizioni fondamentali e indispensabili perché, sul suo territorio, i rapporti tra i singoli si svolgano in modo ordinato e si dirigano allo sviluppo ed al benessere dell’intera collettività. Al conseguimento delle finalità di conservazione e sviluppo della comunità stabilita sul suo territorio, lo Stato provvede con una serie di attività che costituiscono le sue “funzioni”.
Le funzioni fondamentali dello Stato sono:
La giurisdizione in senso lato, consiste pertanto nel potere attribuito dallo Stato ai Giudici che hanno la funzione, all’esito di una ordinata sequenza di atti denominata «procedimento penale», di dichiarare se nel caso specifico la norma è stata violata nonché, di conseguenza, di infliggere e far applicare anche coattivamente, le «sanzioni» che dalla stessa norma violata sono previste in caso di sua infrazione.
E’ per questo motivo che lo Stato, prevede:
E’ evidente infatti che, per raggiungere le sue finalità, lo Stato non può limitarsi a fissare delle regole (norme) che impongono o vietano certe condotte. Deve assicurarne anche l’osservanza creando appositi “Organi” (=Giudici) che hanno la funzione, all’esito di un’ordinata sequenza di atti (=procedimento), di dichiarare con forza cogente, se nel caso specifico la norma è stata violata nonché di conseguenza, di infliggere e fare applicare anche coattivamente (e cioè ricorrendo anche all’uso della forza) le sanzioni (=conseguenze sfavorevoli) che dalla stessa norma violata sono previste in caso di sua infrazione.
A differenza della funzione legislativa, che ha carattere generale ed astratto, quella giurisdizionale ha dunque anzitutto un carattere concreto.
In particolare, l'attività del Comandante di corpo, di distaccamento o di posto....(così come per gli altri organi di polizia) si colloca all'interno del più ampio contesto della «funzione amministrativa» dello Stato che, in via principale, ha il fine di mantenere l’ordine interno mediante l'attività di polizia, ossia l'attività rivolta a prevenire condotte in grado di turbare l’ordine e la sicurezza all’interno del consorzio militare oltre ché a reprimere le violazioni già verificatesi di norme penali, impedendone gli eventuali ulteriori effetti.
[1] [5] [5]Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di “violenza” si comprendono l’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti e qualsiasi tentativo di offendere con armi (art. 43 c.p.m.p.).
Con l’espressione di «legge penale militare» si indica un complesso di norme penali che hanno come destinatari essenzialmente, ma non unicamente, i militari, per la tutela della efficienza delle Forze Armate dello Stato.
Cardine di ogni legge ordinaria, e quindi anche della legge penale militare, è la Costituzione Repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Quest’ultima contiene poche norme riguardanti l’ordinamento militare ed i problemi ad esso connessi. La legislazione penale militare si affianca alla legislazione penale comune e si presenta (almeno, all’origine) come espressione di un vero e proprio ordinamento, dotato di una sua spiccata ed unitaria fisionomia: l’ordinamento militare. Il quale vive e opera nello Stato con una propria struttura fortemente individuata, con una propria gerarchia, con un proprio «mondo» di soggetti e di interessi giuridici: quasi una piccola e caratterizzata società (il consorzio militare, per l’appunto) operante nell’ambito della più ampia società statuale. Questa piccola e caratterizzata società ha il suo corpus di leggi e di regolamenti (di produzione statuale, naturalmente): il quale corpus, si badi, non è diretto a garantire l’esistenza e il funzionamento della società militare come realtà autonoma e fine a se stessa, bensì è ordinato a soddisfare, attraverso il regolare funzionamento dell’organizzazione militare, le più elementari e delicate esigenze di conservazione dell’intera comunità statuale.
L’ordinamento militare ha appunto una funzione strumentale nei confronti di quest’ultima: le norme che lo reggono sono poste dallo Stato proprio in vista di tale funzione strumentale. Il perno di questa impostazione è l’art. 52 Cost., che stabilisce un diretto collegamento tra l’ordinamento delle Forze Armate e l’ordinamento della Repubblica[1] [6] [6], esplicitamente ribadito, poi, dalla legge 11 luglio 1978 n. 382 e succ. modif.[2] [7],la quale, delineando le «norme di principio sulla disciplina militari», ha affermato testualmente: «le Forze Armate sono al servizio della Repubblica; il loro ordinamento e la loro attività si informano ai principi costituzionali (artt. 11 e 52); loro compito è di operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale ed alle determinazioni delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte; concorrere alla salvaguardia delle libere istituzioni e svolgere compiti specifici in circostanze di pubblici».
Se proprio le Forze Armate, preposte per definizione alla difesa della Patria, hanno tra i loro compiti l’intervenire in emergenze che sono tipicamente non belliche, ciò conferma che la difesa della Patria non si collega soltanto all’impegno armato e che, sul piano della promozione del bene della collettività nazionale ed internazionale, ci sono settori di impegno che non sono bellici e che tuttavia sono qualificabili come «difesa della Patria».
In effetti l’azione contro le calamità naturali (terremoti, alluvioni, eruzioni, frane, ecc.) che così spesso colpiscono il territorio nazionale e contro le piaghe sociali (come, ad esempio, la tossicodipendenza) che affliggono vasti strati della collettività nazionale causando morti a migliaia, costituisce anch’essa un’importante aspetto dell’attività di difesa: una difesa non rientrante nello schema tipico tradizionale, ma pur sempre riconducibile a una nozione lata e validissima di «difesa».
[ [8]1] [8] [8]L’ordinamento della Repubblica è l’insieme delle norme previste dagli artt. 55-139 della Costituzione, che disciplinano l’organizzazione dello Stato italiano basata sul principio della sovranità popolare, che si esplica, mediante il voto, nella elezione del parlamento e nell’esercizio delle funzioni legislativa, esecutiva e giurisdizionale.
[2] [9] [9]Legge 14 novembre 2000 n. 331 «Norme per l’istituzione del servizio militare professionale», che ha abrogato l’art. 1 della legge 11 luglio 1978 n. 382.
Ai fini del nostro studio, ha importanza rilevante il carattere di «specialità» della legge penale militare. Occorre tener presente che tale termine speciale è usato nella dottrina del diritto con accezioni svariate. In una prima accezione, l’aggettivo “speciale“ sta ad indicare una legge che non è contenuta nel codice comune, ma che è di esso integrativa. In questa accezione, speciale significa, in sostanza, “complementare”. Il carattere della “complementarità”, è il principio per il quale il sistema penale militare è integrato, nelle parti in cui manca una specifica previsione, dalle disposizioni della legge penale comune. Il principio è enunciato dall’art. 16 c.p. ed è un corollario della specialità.
In un secondo significato, il termine “speciale” viene usato ad indicare una legge che si rivolge ad una determinata categoria di soggetti (quella dei militari), a motivo della loro qualità o della speciale condizione giuridica in cui essi vengono a trovarsi (carattere della «personalità»). Soprattutto ma non unicamente: vedremo come tra le persone soggette alla legge penale militare figurano anche i non appartenenti alle Forze Armate.
La qualità di militare[1] [10] [10], è un elemento della specialità che non è riferito unicamente al soggetto attivo (= autore del reato), ma anche, in combinazioni variabili, al soggetto passivo (=persona offesa dal reato), al luogo, all’interesse leso.
Infine, la legge penale militare è «speciale» perché, per una cerchia limitata di rapporti, detta una disciplina diversa da quella contenuta dalla legge penale generale. Dalla specialità della legge penale militare deriva per essa l’applicazione dell’art. 15 c.p., per il quale quando più leggi penali regolano la stessa materia, la legge speciale deroga alla legge generale, salvo che non sia altrimenti stabilito.
La legge penale militare è speciale, perché molte sue norme incriminatrici contengono degli “elementi specializzanti“ rispetto alle norme incriminatrici comuni senza i quali si applicherebbe la norma generale.
La legge penale militare di guerra è speciale rispetto alla legge penale militare di pace: la prima è caratterizzata da un intenso carattere di “eccezionalità“ (presupposto per l’applicazione della legge penale militare di guerra è l’esistenza dello stato di guerra), rispetto alla seconda che costituisce invece l’aspetto normale della legislazione militare.
Delle tre accezioni elencate, di solito ci si riferisce alla prima quando si parla di legge speciale; ci si riferisce alla seconda quando si parla di diritto penale speciale; ci riferisce alla terza quando si parla di norma speciale. Quest’ultima sembra, fra le tre, l’accezione più precisa del termine speciale: ed è in sostanza quella a cui il legislatore comune si riferisce nel testo dell’art. 15 («la legge o la disposizione di legge speciale deroga dalla legge o dalla disposizione di legge general...»
Si ritiene che a definire la specialità della legge penale militare debbano appunto concorrere tutte e tre le accezioni predette. Tali caratteristiche di specialità provengono dal fatto che la legge penale militare è ordinata al raggiungimento di finalità particolari e alla tutela di interessi giuridici speciali, che avremo occasione di ricordare e, a tutela dei quali le norme speciali creano un’area normativa in cui vige una disciplina derogante alle norme penali comuni[2] [11] [11].
Occorre qui ribadire che la specialità, comunque, non sottrae la legge penale militare all’impero dei principi costituzionali né produce una sorta di «separatezza» di tale legge rispetto alla legge penale comune.
[1] [12] [12] Per militare il Codice intende in generale la persona che presta servizio con tale qualità presso una delle forze armate o dei corpi armati dello Stato. L’art. 15 c.p.m.p. statuisce l’ovvia rilevanza del possesso di tale qualità al momento del commesso reato. Attualmente risultano far parte delle forze armate in senso lato, oltrre a quelle tradizionalmente ritenute tali per essere principali garanti della difesa dello Stato (esercito, marina, aeronautica), l’Arma dei carabinieri (prima inquadrata nell’esercito, ma oggi qualificata autonoma forza armata dalla legge 31 marzo 200, n. 78) e la Guardia di Finanza (qualificata corpo militare dello Stato dalla legge 23 aprile 1959, n. 180), dopo l’avvenuta “smilitarizzazione” degli altri c.d. corpi armati dello Stato (Corpo degli agenti di custodia: Legge 15 dicembre 1990, n. 395; Corpo delle guardie di pubblica sicurezza: Legge 1° aprile 1981, n. 121). Ancora risultano avere la qualità di militari gli iscritti, chiamati in servizio, nei ruoli del Corpo speciale volontariato (ausiliario delle Forze armate dello Stato) della Associazione della Croce rossa italiana, in base all’art. 29, r.d. 10 febbraio 1936, n. 484 e gli iscritti, chiamati in servizio, nei ruoli dell’Associazione dei cavalieri italiani del sovrano militare ordine di Malta, in base all’art. 4 Legge 4 gennaio 1938, n. 23.
[2] [13] [13]Art. 15 c.p.: «la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale...»
Fonti di legge delle norme penali militari sono quelle stesse della legge penale comune: leggi costituzionali, leggi ordinarie, decreti legislativi, decreti legge. Fonti di cognizione sono, altresì, il Codice penale militare di pace, il Codice penale militare di guerra, le leggi militari speciali (tra cui, principalmente, la legge di guerra approvata col R.D. 8 luglio 1938, n. 1415), nonché i bandi militari[1] [14] [14].
I Codici penali militari oggi vigenti sono entrati in vigore il 1° ottobre 1941 ed hanno sostituito i precedenti codici dell’Esercito e della Marina, che risalivano al 1869 ed erano entrati in vigore il 15 febbraio 1870. Tali Codici sono sati modificati in modo incisivo dalle leggi 23 marzo 1956, n. 167 e 26 novembre 1985, 689, nonché da varie sentenze di illegittimità costituzionale pronunciate nel tempo dalla Corte Costituzionale.
Il risultato di questa sostanziale evoluzione di sistema viene normalmente viene indicato normalmente indicato con l’espressione «unicità della legge penale militare» : la legge penale militare è unica per tutte le Forze Armate, poiché la struttura del reato militare è unica per tutte le armi e poiché le lievi varianti di modalità e le forme particolari di reato non giustificano la formazione di codici diversi.
[1] [15] [15] La legge di guerra e di neutralità ed il codice penale militare di guerra prevedono la possibilità di emanare “bandi”. Il bando è un atto avente valore di legge, emanato da un Comandante militare nei limiti del suo comando. I Comandanti militari che possono emanare bandi sono, secondo i casi, il Comandante supremo e i Comandanti di grandi unità, di piazze forti, di corpi di occupazione. La materia che i bandi possono trattare attiene unicamente alla legge penale militare (sostanziale o processuale) ed all’ordinamento giudiziario militare; in zona di occupazione, però, si può regolare con bando ogni materia.
Quando alla trasgressione di una norma giuridica consegue una «sanzione penale militare», la norma appartiene alla categoria delle «norme penali militari» e il fatto illecito che essa punisce di denomina «reato militare». Il reato militare è qualsiasi violazione della legge penale militare a cui è collegata l’irrogazione di una sanzione penale militare (ergastolo, reclusione comune e reclusione militar).
La legge penale militare di pace, ha quale fonte legislativa principale il Codice penale di pace, approvato con R.D. 20 febbraio 1941, n. 303 ed entrato in vigore il 1° ottobre 1941 e che ha sostituito i precedenti Codici dell’Esercito e della Marina, che risalivano al 1869 ed erano entrati in vigore il 15 febbraio 1870. Tale Codice è sato modificato in modo incisivo dalle leggi 23 marzo 1956, n. 167 e 26 novembre 1985, 689, nonché da varie sentenze di illegittimità costituzionale pronunciate nel tempo dalla Corte Costituzionale. Il risultato di questa sostanziale evoluzione di sistema viene normalmente viene indicato normalmente indicato con l’espressione «unicità della legge penale militare»: la legge penale militare è unica per tutte le Forze Armate, poiché la struttura del reato militare è unica per tutte le armi e poiché le lievi varianti di modalità e le forme particolari di reato non giustificano la formazione di codici diversi.
Il Codice é composto da tre libri, rispettivamente:
Tuttavia, si applicano effettivamente solo i primi due libri, essendo stato il Libro III quasi integralmente abrogato a seguito dell’entrata in vigore del Codice di procedura penale del 1988.
La legge penale militare si applica prevalentemente e incondizionatamente “ai militari in servizio alle armi e a quelli considerati tali” (art. 1), comprendendo sotto la denominazione di “militari” quelli della Marina, dell’Aeronautica, dell’Esercito, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, nonché “le persone che a norma di legge acquistano la qualità di militari” (art. 2). La codificazione penale militare è stata concepita in maniera tale da non poter vivere in assenza della codificazione comune e delle sue forme di parte generale. La peculiarità di tutti gli approcci alla materia del diritto penale militare consiste proprio in questo, che se da un lato si pone in luce la spiccata autonomia delle fonti di cognizione, dall’altro si precisa che pur sempre di un diritto penale si tratta, cioè di un diritto penale settoriale e complementare rispetto a quello comune[1] [16].
Al Codice penale militare di pace si affiancano numerose leggi speciali e complementari che contengono anch’esse norme penali e che hanno reso frammentaria e particolarmente complessa la conoscenza, l’interpretazione e l’applicazione della disciplina penale vigente.
Il quadro normativo si presenta aggiornato, in particolare, con:
[1] [17]Le norme penali sono contenute principalmente nel Codice Penale Rocco, emanato con R.D. 19/10/1930, n. 1398 ed entrato in vigore il 17 Luglio 1931. Il codice, che pure per oltre un cinquantennio, è rimasto immutato nella sua struttura generale, ha subito, nel corso di questo lungo periodo, numerose modifiche, soprattutto dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Attraverso l’intervento della Costituzionale e norme modificatrici, si è cercato di coordinare l’originario impianto normativo, modellato su una ideologia totalitaria (di ispirazione fascista), con i principi informatori dell’ordinamento democratico (ad esempio: il D.lgs. 10/8/1944 che ha abolito la pena di morte). Pertanto la complessità del sistema delle fonti e il sovrapporsi talvolta a ritmo incessante di leggi disciplinanti la stessa materia (si pensi al diritto tributario), hanno fatto si che da più parti si auspichi una riforma totale del codice penale.
La distinzione tra “reato militare” e “reato comune”, espressamente codificata nel nostro ordinamento è fondamentale ed imprescindibile per poter stabilire la sede giurisdizionale, cioè, il Tribunale, la Magistratura competente a giudicare quel fatto illecito sul piano penale.
Nel Codice penale militare di pace viene fornita una definizione formale e restrittiva del “reato militare”. Infatti l’art. 37 c.p.m.p. recita che «è reato militare qualunque violazione della legge penale militare» a cui è collegata l’irrogazione di una «sanzione penale militare»: ergastolo, reclusione comune e reclusione militare.
Occorrono, pertanto, altri strumenti per focalizzare più esattamente il reato militare, che di norma è compreso nel codice penale militare di pace e di guerra, ma può anche essere riportato in una diversa fonte normativa (ad esempio: nella legge sulla leva.).
Secondo la dottrina più autorevole, che stabilisce un legame indissolubile tra reato militare e legge penale militare, perché un reato possa qualificarsi “militare” devono concorrere due elementi:
Oltre a questi “elementi oggettivi”, di norma ricorre anche un “requisito soggettivo”, cioè «l’appartenenza alla Forze Armate» del soggetto incriminato. Un elemento ulteriore, eventuale, può essere il luogo ove è stato commesso il fatto, che diviene, ad esempio presupposto del furto militare (art. 230 c.p.m.p.).
Si esclude solitamente che ai reati militari sia applicabile la bipartizione “delitti-contravvenzioni” e si tende ad affermare che tutti i reati militari sono «delitti». Il motivo più attendibile per cui il Codice penale militare di pace ignora le contravvenzioni è, probabilmente, questo:
L’illecito disciplinare sostituisce, in fondo, la contravvenzione: col vantaggio, di sottrarre al circuito penale illeciti di particolare lievità, nei cui confronti il processo penale sarebbe sproporzionato. In ciò il diritto penale militare ha in certo senso, anticipato la tendenza del legislatore verso la «depenalizzazione».
Il legislatore non ha previsto per il reato militare pene pecuniarie ma solo pene detentive (ergastolo, reclusione e reclusione militare).
Se il fatto è commesso a danno della amministrazione militare, la pena è della reclusione militare da uno a cinque anni. La condanna importa la rimozione.
[1] [20]Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di “violenza” si comprendono l’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti e qualsiasi tentativo di offendere con armi (art. 43 c.p.m.p.).
[2] [21]Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di "luogo militare" si comprendono le caserme, le navi, gli aeromobili, gli stabilimenti militari e qualunque altro luogo, dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragione di servizio.
Il discorso sul reato militare non è completo se, dopo aver affrontato il problema dei rapporti tra reato militare e reato comune, non si affronta anche il problema della differenza tra reato militare e infrazione (o trasgressione) disciplinare militare.
La correlazione tra illecito penale e illecito disciplinare è, nel diritto militare, assai più stretta che in altri settori dell’ordinamento. E’ noto, infatti, che l’ordinamento penale militare si è sviluppato da un originario codice disciplinare, attraverso una evoluzione nella quale è andata via via emergendo la distinzione tra infrazione disciplinare e reato, tra sanzione disciplinare e sanzione penale.
Sulla base di quali criteri può essere oggi delineata la differenza tra il reato militare e l’infrazione disciplinare ?
L’infrazione disciplinare attiene essenzialmente alla disciplina, mentre il reato militare attiene essenzialmente al servizio: ma non si è riusciti a superare in modo convincente la difficoltà derivante dal fatto che vi sono reati militari che attengono direttamente alla disciplina (ad esempio, l’insubordinazione) e infrazioni disciplinari che attengono direttamente al servizio (ad esempio, le negligenze nell’adempimento del proprio dovere).
Inoltre, mentre il diritto disciplinare si occupa di fatti che contravvengono a regole di condotta del consorzio militare e turbano soltanto l’ordine interno di quest’ultimo, la norma penale militare incrimina ipotesi di lesione dell’ordinamento giuridico generale dello Stato o comunque ipotesi di lesione dell’ordinamento gerarchico delle Forze Armate, inteso nella sua unità istituzionale e nel suo rapporto con l’ordinamento dello Stato.
Non si è comunque riuscito a superare in modo convincente la difficoltà derivante dal fatto che l’art. 260 c.p.m.p. prevede, attraverso l’istituto della richiesta, la possibilità di perseguire certi reati militari con la mera punizione disciplinare anziché con la sanzione penale., vanificando in tal modo l’asserita differenza tra i due tipi di illecito.
Nell’ambito dell’Ordinamento militare[ [22]1] [22] l’illecito disciplinare è descritto con indicazione molto sommaria dall'articolo 1352 che stabilisce: «Costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all’emanazione di un ordine. La violazione dei doveri indicati nel comma 1 comporta sanzioni disciplinari di stato o sanzioni disciplinari di corpo». Ogni violazione dei doveri del servizio o della disciplina costituisce trasgressione disciplinare militare, soggetta a sanzioni amministrative (sanzioni di stato, quali la perdita del grado per rimozione o retrocessione, la sospensione disciplinare dall’impiego o dalle funzioni del grado; sanzioni di corpo quali il richiamo verbale, rimprovero scritto, consegna e consegna di rigore).
Ma la violazione dei doveri del servizio (ad esempio, le negligenze nell’adempimento del proprio dovere) o della disciplina (ad esempio, la insubordinazione) può costituire anche reato: in tal caso essa potenzialmente va soggetta ad una duplice sanzione: quella disciplinare e quella penale.
Il campo delle trasgressioni meramente disciplinari, che cioè non costituiscono reato è peraltro molto vasto, essendo numerosi i doveri di servizio e di disciplina imposti ai militari, la cui violazione è repressa solo in via disciplinare.
Una cosa è certa: mentre nel reato militare soggetto attivo può essere, in certi casi, un non-militare, nell’infrazione disciplinare soggetto attivo è sempre necessariamente un militare.
[ [22]1] [22] Codice dell'Ordinamento militare (D.lgs. n. 66 del 15 marzo 2010)
La definizione giuridica di “infrazione disciplinare” é data dall’art. 1352, comma 1°, del Decreto legislativo n. 66 del 15 marzo 2010, che così sancisce: «Costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all’emanazione di un ordine. La violazione dei doveri indicati nel comma 1 comporta sanzioni disciplinari di stato o sanzioni disciplinari di corpo».
La legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme sui principi della disciplina militare) che ha integrato l'abrogato Regolamento di disciplina militare del 1986, prevede il potere sanzionatorio dell’Autorità militare nel campo della disciplina (art. 13) e dispone che la violazione dei doveri della disciplina militare comporta sanzioni disciplinari di stato e sanzioni disciplinari di corpo, e riserva alla legge la regolamentazione delle sanzioni disciplinari di stato; rimette al regolamento di disciplina militare la regolamentazione delle sanzioni disciplinari di copro, ma fissa limiti e modi di tale regolamentazione, indicando, negli artt. 14 e 15, la natura delle sanzioni e i fondamentali criteri procedurali per la loro applicazione.
Sia le sanzioni disciplinari di stato che le sanzioni disciplinari di corpo incidono sullo status di militare, ma mentre le prime hanno per effetto il venire meno dello status stesso temporaneamente (come nel caso della sospensione disciplinare dall’impiego o dal servizio) o definitivamente (come nel caso della perdita del grado per rimozione), quelle di corpo incidono sullo status del militare all’interno dell’organizzazione militare, limitando alcune sue facoltà o posizioni giuridiche (Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 luglio 2000 n. 3835).
La legge predetta prevede inoltre l’obbligo di contestazione degli addebiti e di valutazione delle giustificazioni addotte; vieta l’inflizione della consegna di rigore (cioè il vincolo a rimanere fino a un massimo di 15 giorni in un apposito spazio dell’ambiente militare o nel proprio alloggio) se non è stato sentito il parere di un’apposita commissione composta di tre militari, di cui due di grado superiore e uno di grado pari a quello del militare cui è addebitata la mancanza; prevede l’assistenza di un difensore, scelto fra i militari dell’ente a cui appartiene l’interessato, o, in mancanza, designato di ufficio; prevede altresì garanzie per l’esercizio del diritto di difesa.
Infine l’art. 16 si occupa della impugnazione del provvedimento disciplinare, sia sotto il profilo del ricorso gerarchico, sia sotto il profilo del ricorso giurisdizionale e del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica; prevede altresì la facoltà del militare di presentare istanze tendenti ad ottenere il riesame di sanzioni disciplinari di corpo.
Le sanzioni disciplinari di stato contemplate dalle singole leggi di stato giuridico sono le seguenti:
Il procedimento disciplinare di stato viene instaurato mediante “inchiesta formale” (definibile come il complesso degli atti diretti all’accertamento della sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi di una pretesa infrazione disciplinare punibile con una sanzione disciplinare di stato), generalmente così articolata:
In base alle risultanze dell’inchiesta formale le competenti Autorità gerarchiche possono decidere se proporre, a seconda del grado rivestito dall’incolpato, al Ministro competente o al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza, l’applicazione di una sanzione di stato di tipo sospensivo o se deferire l’incolpato al giudizio di una commissione o consiglio di disciplina per l’eventuale perdita del grado per rimozione.
Il Ministro competente ha, inoltre, facoltà di deferire l’incolpato alla commissione o consiglio di disciplina sia nel caso abbia egli stesso ordinato l’inchiesta formale sia nel caso vi sia stata una proposta di sanzione di stato di tipo sospensivo. Il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, nei procedimenti riguardanti appuntati e carabinieri, può deferire direttamente l’incolpato alla commissione di disciplina. Il deferimento alla commissione o consiglio di disciplina costituisce un’ulteriore fase del procedimento disciplinare di stato. Il Comandante Generale della Guardia di Finanza, nei procedimenti riguardanti appuntati e finanzieri, può discostarsi dal giudizio della commissione di disciplina a favore dell’incolpato.
Il Ministro competente può sempre discostarsi dal giudizio della commissione o consiglio di disciplina a favore dell’incolpato e, soltanto in casi di particolare gravità, anche a sfavore (la facoltà di discostarsi “a sfavore” é però contemplata solo nei procedimenti riguardanti ufficiali, sottufficiali e volontari di truppa in servizio permanente, rimanendo esclusi quindi i procedimenti riguardanti appuntati, carabinieri e finanzieri).
Le sanzioni disciplinari di corpo, applicabili indistintamente a tutto il personale militare, sono le seguenti:
Il procedimento disciplinare di corpo (definibile come il complesso, sia degli atti diretti all’accertamento della sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi di una pretesa infrazione disciplinare punibile con una sanzione disciplinare di corpo, sia delle determinazioni adottate a conclusione del procedimento disciplinare) si articola nelle "seguenti fasi" :
La procedura preordinata all’irrogazione della sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore comprende, inoltre, due ulteriori fasi prima delle determinazioni del comandante di corpo e cioè:
Il Codice penale militare di pace distingue i reati in:
Secondo l’art. 37, 2° comma c.p.m.p. «è reato esclusivamente militariquello costituito da un fatto che, nei suoi elementi materiali costitutivi, non è, nemmeno in parte, previsto come reato della legge penale comune».
E la non-previsione da parte di norme comuni sta ad indicare che l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice è un interesse esclusivamente militare.
In particolare (art. 118-124 c.p.m.p.):
Accanto alla categoria dei reati esclusivamente militari si delinea per contrapposto la categoria comprendente tutti quei reati militari i cui elementi materiali costituitivi sono in tutto o in parte puniti dalla legge penale comune (peculato militare, che ha il suo corrispondente nel peculato comune, furto militare, che ha il suo corrispondente nel furto comune, ecc.).
Il Codice tace e si astiene da definizioni in merito: ma la dottrina ha ritenuto di indicare questa seconda categoria con l’espressione «obiettivamente militari». Detta categoria è caratterizzata dal fatto che i reati in essa compresi ledono o mettono in pericolo «interessi comuni» oltreché «interessi militari», e quindi sono tutti reati “plurioffensivi”, in quanto offendono contemporaneamente più interessi protetti.
Le norme che prevedono i reati obiettivamente militari sono speciali rispetto alle norme incriminatrici che prevedono i corrispondenti reati comuni: il rapporto tra le due categorie di norme è regolato dall’art. 15 c.p.
Riassumendo,possiamo dire che vi sono reati che sono autonomamente previsti dalla legge penale militare e che contengono intere fattispecie (o elementi di fattispecie) di reati comuni.
E vi sono reati che vengono considerati in tutto o per tutto reati militari perché lesivi di un interesse «esclusivamente militare» e che non trovano riscontro nella legge penale comune. La distinzione tra reati elusivamente militari e obiettivamente militari non è una distinzione puramente accademica, fatta solo per il gusto di astrarre geometrie concettuali.
E’ una distinzione che ha una sua concreta rilevanza pratica:
Il sistema delle pene principali nel diritto militare (cioè il sistema delle sanzioni penali principali ricollegate alle fattispecie criminose militari) si presenta impostato da un lato sulla configurazione di pene “speciali“ militari e dall’altro sulla utilizzazione di talune pene “comuni” (art. 22 c.p.m.p.). E’ dunque un «sistema misto».
Le pene comuni utilizzate sono l’ergastolo e la reclusione; la pena speciale appositamente configurata dall’ordinamento militare è la «reclusione militare». Il Codice penale militare non utilizza né l’arresto né le pene pecuniarie; quest’ultime sono state talora utilizzate in leggi penali militari speciali. Fino al 1994 il codice penale militare di guerra utilizzava anche la pena di morte, ma tale pena è stata abolita con la legge 13 ottobre 1994, n. 589. La «reclusione militare», si estende da 1 mese a 24 anni (art. 26 c.p.m.p.); essa si differenzia dalla reclusione comune essenzialmente per i modi di esecuzione (è scontata infatti in uno Stabilimento militare[1] [23] [23], con l’obbligo del lavoro, secondo le norme stabilite dalla legge o dai regolamenti militari approvati con decreto del Presidente della repubblica), e per le pene accessorie che l’accompagnano (ad essa non consegue mai la degradazione). La reclusione militare non comporta mai la degradazione, a differenza della reclusione comune.
Se la durata della reclusione militare non supera sei mesi, essa può essere scontata in una sezione speciale del carcere giudiziario militare. Il condannato a pena militare detentiva per un tempo non superiore a tre anni, il quale abbia scontato metà della pena (o almeno tre quarti in caso di recidiva) purché tale entità di pena espiata non sia inferiore a 3 anni e un rimanente di pena da espiare che non superi i 3 anni, e abbia dato prova costante di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale[2] [24] [24] (art. 71 c.p.m.p).
Quanto detto può trovare spiegazione nel fatto che il legislatore militare disciplina, di regola, i reati militari (e tutti gli istituti che ad essi attengono) con severità normalmente maggiore di quanto non faccia il legislatore comune nelle corrispondenti materie di sua competenza. Alla pena della reclusione comune, inflitta o da infliggersi ai militari per reati militari, è sostituita la pena della reclusione militare di eguale durata, quando la condanna non importa la degradazione. In questi casi, per la determinazione delle pene accessorie e degli altri effetti penali della condanna, si ha riguardo alla pena della reclusione militare (art. 27).
Alcune considerazioni:
Quale criterio segue il legislatore militare nel comminare, di volta in volta, una pena militare o una pena comune ?
Per rispondere a questo quesito occorre anzitutto premettere che il legislatore è libero di stabilire, con assoluta discrezionalità, se comminare pene militari o pene comuni e, in particolare, se comminare la reclusione militare o la reclusione comune.
Il criterio di massima seguito nella scelta si rifà anzitutto al tipo di interesse offeso:
► per i reati che offendono soltanto interessi militari viene preferita la «reclusione militare»;
► per i reati che, accanto ad interessi militari, offendono anche interessi comuni viene preferita la «reclusione comune».
E’ quindi possibile affermare, in linea di massima, una correlazione tra reato esclusivamente militare e pena militare, e una correlazione tra reato non esclusivamente militare e pena comune. Quando la natura del reato comporta la “espulsione dal consorzio militare e la pena detentiva”, viene irrogato l’«ergastolo» o la «reclusione comune» (pene principali – come vedremo - collegate alla degradazione); quando la natura del reato “consente il mantenimento del colpevole nel consorzio militare”, viene irrogata la «reclusione militare».
Ciò suggerisce una osservazione: non esiste una pena militare che importi la detenzione a vita. Infatti una pena di tal genere è incompatibile con il concetto di pena militare detentiva, poiché simile concetto presuppone la possibilità di mantenere nel consorzio militare il soggetto condannato e di recuperarlo pienamente agli effetti del servizio militare, laddove invece la pena detentiva a vita non può che espellere definitivamente il soggetto dal consorzio militare e non può offrire alcuna prospettiva di recupero al servizio militare.
Concludendo:
La degradazione diventa dunque un «perno di distribuzione» delle pene detentive per i reati militari la cui pena edittale è la reclusione comune.
[1] [25] [25]Gli stabilimenti militari di pena si distinguono in reclusori militari, destinati ad accogliere i condannati e carceri preventivi militariper i detenuti in attesa di giudizio. L’espiazione della pena da parte di Ufficiali che comunque non abbiano perduto il grado deve avvenire in uno stabilimento diverso da quello destinato ad altri militari e ciò per le esigenze stesse della disciplina e della dignità del grado
[2] [26] [26]La concessione, gli effetti e la revoca della liberazione condizionale sono regolati dalla legge penale comune, salva la disposizione dell’art. 76 c.p.m.p.
Abbiamo detto che, in linea di massima, esiste una correlazione tra «reato esclusivamente militare e pena militare», ed esiste altresì una correlazionetra «reato non esclusivamente militare e pena comune».
Tuttavia, mentre la prima correlazione può dirsi costante[1] [27], la seconda correlazione non è assoluta e va incontro a numerose deroghe, dalle quali si evince che nello scegliere il tipo di pena per i reati non esclusivamente militari il legislatore militare ha riguardo non soltanto alla natura degli interessi offesi, bensì anche alla natura e gravità del comportamento incriminato.
I casi di insubordinazione prevista dagli artt. 189 e 190 c.p.m.p. non possono, infatti, giustificare una espulsione dal consorzio militare, e d’altra parte sono di tal natura da consentire una rieducazione del soggetto nell’ambito dell’organizzazione militare.
Quindi nei reati c.d. obiettivamente militari il legislatore sceglie il tipo di pena in relazione all’opportunità o meno di espellere il soggetto attivo (=autore) del reato dal consorzio militare; e quando commina la reclusione comune è perché tendenzialmente orientato verso quella espulsione. Tale tendenza si esprime nel fatto che la pena della reclusione comune è prevista dal legislatore militare in misura tale che il massimo edittale non è mai inferiore a 5 anni: è sempre aperta, quindi, per il Giudice la possibilità di determinare la pena concreta nella misura di 5 anni o più e di far conseguentemente scattare la degradazione[2] [28], in forza dell’art. 28, 3° comma c.p.m.p. La riprova di ciò si ha nel fatto che in nessuna norma dei Codici penali militari il legislatore commina a carico di militari una pena della reclusione comune il cui massimo edittale sia inferiore ai 5 anni.
Le poche norme, infatti, che prevedono la reclusione comune con un massimo edittale inferiore a 5 anni riguardano tutte “soggetti attivi” non aventi la qualità di militari e nei cui confronti, quindi, non si pone il problema della degradazione.
Una riprova ulteriore si ha nel disposto dell’art. 55 c.p.m.p., dove il legislatore, disciplinando il concorso di reati che comportano la reclusione comune e di reati che comportano la reclusione militare, determina l’applicabilità dell’una o dell’altra specie di pena proprio sulla base della irrogazione o meno della pena accessoria della degradazione.Tuttavia, se poi in concreto il Giudice determina la reclusione comune in misura inferiore a 5 anni, la degradazione non scatta, la espulsione non si verifica. Sorge allora l’esigenza di sostituire alla reclusione comune la reclusione militare, dato che il condannato mantiene lo status di militare, con tutte le relative conseguenze.
A quella esigenza il legislatore provvede con l’art. 27 c.p.m.p., il quale prevede la c.d. sostituzione della pena militare alla pena comune, disponendo nel 1° comma: «Alla pena della reclusione comune, inflitta o da infliggersi ai miliari per reati militari, è sostituita la pena della reclusione militare per uguale durata, quando la condanna non importa la degradazione».
Concludendo:
[1] [29] [29]Vi è un solo caso in cui viene leso soltanto un interesse militare ma al tempo stesso è impossibile irrogare la reclusione militare: è il caso della procurata inabilità permanente al servizio militare.
[2] [30] [30] La degradazione non è semplicemente – come a prima vista parrebbe far pensare la parola – la perdita del grado: è la perdita della qualità di militare; una sorta di indegnità che comporta delle vere e proprie incapacità militari.
Ai principi che abbiamo fin qui elencato si ricollega la sostituzione, in sede esecutiva, della reclusione militare alle pene comuni, in determinati casi previsti dagli artt. 63 e 64 c.p.m.p. Secondo il Codice penale militare, quando il militare è stato condannato a pena comune per un reato comune e quando la condanna è compatibile con la qualità di militare, l’interesse del consorzio militare a non perdere un proprio componente ha il sopravvento su ogni altra considerazione e induce il legislatore militare ad operare “opportune sostituzioni di pena” o comunque a porre in essere accorgimenti tali da garantire il detto interesse.
Secondo una autorevole dottrina[1] [31], la sostituzione, in sede esecutiva, della reclusione militare alla reclusione comune mira ad evitare che nel condannato sia interrotto l’ambito della disciplina militare ed il conseguente contagio derivante da una convivenza con persone non militari, e a garantire, altresì, che il militare possa, pur in espiazione di pena, svolgere quelle istruzioni militari compatibili con la detenzione e giovevoli alla sua educazione militare. In questa sede di sostituzione, può anche accadere che la reclusione militare venga ad essere concretamente applicata per un periodo inferiore al minimo edittale di 1 mese, dato che il minimo edittale della reclusione comune è di 15 giorni.
L’art. 63 c.p.m.p. stabilisce infatti che: «Nella esecuzione delle pene inflitte ai militari in servizio permanente alle armi, per reati preveduti dalla legge penale comune… si osservano le norme seguenti:
Quindi nei casi di militari “in servizio permanente“e di pena comportante l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, avviene la degradazione del condannato e l’esecuzione della pena comune; nei casi di militare in servizio permanente e di pena non comportante l’interdizione dai pubblici uffici si opera la sostituzione della pena militare alla pena comune.
Se invece il militare è “in servizio temporaneo“, la situazione si profila in termini diversi ed esige una diversa disciplina. Infatti il militare in servizio permanente, essendo membro stabile e professionale del consorzio militare (qualora non venga espulso in forza di degradazione), non ha altra possibilità di scontare la pena comune durante il tempo del servizio (e allora si pone il problema della sostituzione della pena), mentre il militare in servizio temporaneo (per ferma o per richiamo dal congedo) si trova sotto le armi solo per un breve e determinato periodo di tempo, onde nei suoi confronti possono profilarsi due possibilità (sempre ché la condanna sia compatibile con la qualità di militare), e precisamente:
Il legislatore militare adotta la prima soluzione (sostituzione) quando i reati per cui il militare è stato condannato rientrano fra quelli indicati nell’antica formulazione dell’art. 264 c.p.m.p. o quando, comunque, vi è stata interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 64 nn. 1 e 2 c.p.m.p.); adotta la seconda soluzione (differimento) in ogni altro caso (art. 64 n. 3 c.p.m.p.).
[1] [32] [32] Mazzini, Commento ai codici penali militari per l’Esercito e per la marina, Torino, 1916, pag. 66
L’art. 65 c.p.m.p. prevede che l’estraneo alle Forze Armate il quale sia stato condannato alla reclusione militare per un reato militare, in forza di concorso nel reato con soggetto militare oppure in forza del disposto di cui all’art. 14 c.p.m.p., si veda sostituire la reclusione militare con la reclusione (comune) di pari durata.
E’ una sostituzione inversa a quella vista in precedenza, e che non pone particolari problemi. Essa è disposta anche nei confronti di coloro che abbiano cessato di appartenere alle Forze Armate, nonché nei confronti degli assimilati ai militari, degli iscritti ai corpi civili militarizzati ordinati e dei militari di fatto.
La ratio su cui essa si fonda è evidente: per chi non è ovvero non è più militare non ha senso infliggere la reclusione militare. Si impone dunque il meccanismo di cui all’art. 65 c.p.m.p.
Come è noto, la legge 24 novembre 1981, n. 689 e succ. modif., negli artt. 53 e segg., ha introdotto la possibilità di sostituire le pene detentive brevi con «sanzioni sostitutive»:
La sostituzione avviene, dunque, in sede di cognizione, tenendo conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p.; è quindi rimessa alla discrezionalità del Giudice.
La violazione di una delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione o alla libertà controllata determina la revoca della sanzione sostitutiva (art. 72) e, quando la libertà controllata è già conseguenza di una insolvibilità del condannato rispetto alla pena pecuniaria sostituitagli, determina la conversione della restante parte della sanzione in pena detentiva (art. 108).
Come spesso accade in occasione di riforme legislative, il legislatore si è dimenticato totalmente dell’esistenza dei Codici penali militari e nessuna norma predispone l’applicabilità delle sanzioni sostitutive previste dall’art. 53 L. 689/81 ai militari.
La incompatibilità delle sanzioni sostitutive delle pene brevi ai reati militari è stata attualmente superata dalla Corte Costituzionale che ha dichiarato, con sentenza n. 284 del 1995, l’illegittimità costituzionale dell’art. 53 L 689/81 “nella parte in cui non prevede l’applicabilità delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi ai reati militari”-
E quanto alla compatibilità o incompatibilità in concreto, in rapporto allo status soggettivo del condannato, non dovrebbe essere difficile, per il Giudice competente, in attesa di un intervento legislativo (auspicato dalla sentenza costituzionale n. 284/95), trovare il punto di equilibrio e provvedere saggiamente, tenendo conto:
L’ art. 24 c.p.m.p. elenca le pene militari accessorie, le quali conseguono, nei casi stabiliti dalla legge, a condanne per reati militari e per reati comuni, come effetti penali di esse; si cumulano con le pene accessorie comuni e possono essere:
Sono pene militari accessorie “perpetue”:
Sono pene militari accessorie “temporanee”:
Alcuni considerazioni:
A questo quesito risponde il legislatore militare, il quale all’art. 33 c.p.m.p. dispone che la condanna per un reato comune pronunciata contro un militare in servizio alle armi o in congedo importa, oltre le pene accessorie comuni:
la rimozione, se trattasi di delitto non colposo contro la personalità dello Stato, o di alcuno dei reati preveduti dagli artt. 476 a 493 (della falsità in atti); dal 531 al 537 (delle offese al pudore e all’onore sessuale); dal 624, 628, 629, 630 (dei delitti contro il patrimonio); 640, 643, 644 e 646 (dei delitti contro il patrimonio mediante frode) del codice penale comune; ed inoltre, se il condannato, dopo aver scontato la pena, deve essere sottoposto ad una misura di sicurezza detentiva diversa dal ricovero in una casa di cura o di custodia per infermità psichica, o alla libertà vigilata;
Dunque, vi sono parecchi casi in cui un reato comune può provocare l’applicazione non soltanto di una pena principale comune e di una pena accessoria comune, bensì anche l’applicazione di una pena accessoria militare.
Il sistema delle pene accessorie militari non presenta sostanziali singolarità rispetto al sistema delle pene accessorie comuni. L’art. 34 c.p.m.p. dispone che «le pene della degradazione e della rimozione decorrono, a ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile», e che «le pene della sospensione dall’impiego e della sospensione del grado decorrono dal momento in cui ha inizio l’esecuzione della pena principale».
Ci si potrebbe dunque domandare per quale motivo la sospensione dall’impiego e la sospensione dal grado (che sono pene accessorie temporanee) sfuggono alla disciplina dell’art. 139 codice penale comune e, anziché decorrere (come le pene accessorie comuni) dal giorno in cui termina l’espiazione della pena principale, decorrono dal momento in cui ha inizio l’esecuzione della pena principale stessa.
Le suddette pene accessorie militari hanno un senso solo se cominciano a decorrere con la pena detentiva: sarebbe assurdo che nei casi in cui la legge prevede la sospensione, questa non funzionasse durante l’espiazione della pena detentiva, cioè proprio nel periodo in cui il condannato non può esercitare le attribuzioni dell’impiego e del grado (e, quand’anche fisicamente lo potesse, non sarebbe opportuno – per evidenti motivi – che le esercitasse).
La decorrenza della pena accessoria deve dunque incominciare con la decorrenza della pena principale.
Il quesito potrebbe trovare un apparente fondamento nell’esigenza dell’ordinamento militare di riportare al più presto i propri membri alla loro piena efficienza, ogni qualvolta la sospensione non sia definitiva, e di sottrarli il meno possibile alla funzione che essi esplicano nel consorzio militare.
La degradazione (art. 28 c.p.m.p.) consiste nella «perdita della qualità di militare e, salvo che la legge disponga altrimenti, con la incapacità perpetua di prestare qualunque servizio per le Forze Armate nonché di fruire di decorazioni».
Consegue a condanne inflitte da qualsiasi Giudice per reati militari o per reati comuni ed opera dal giorno in cui l’Autorità amministrativa ha adottato il provvedimento di esclusione dalle Forze Armate.
Consegue alla pena principale nei seguenti casi:
Non consegue mai alla reclusione militare di qualsiasi durata
La degradazione è accompagnata sempre dalla «interdizione dai pubblici uffici»
Si applica ai militari di qualsiasi grado, in servizio o in congedo, ed il suo effetto principale è quello di privare il condannato della sua qualità di militare, facendolo diventare estraneo alle Forze Armate; non si applica alle persone estranee alle Forze Armate le quali tuttavia, per effetto della interdizione perpetua dai pubblici uffici, non possono mai rivestire la qualifica di militare.
La rimozione (artt. 29 e 33 c.p.m.p.) consiste nella «perdita (perpetua)del grado di cui il militare sia eventualmente insignito, nella retrocessione del militare stesso alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe, nella incapacità di rivestire per il futuro un grado militare qualsiasi».
La rimozione consegue:
[1] [34] [34] Sull’art. 29 c.p.m.p. è intervenuta una importante sentenza della Corte costituzionale (28 maggio 1993, n. 258), la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale di tale norma «nella parte in cui prevede che per gli “altri militari” la rimozione consegue alla condanna alla reclusione militare per una durata diversa da quella stabilità per gli ufficiali e sottufficiali»; e ciò per irragionevole disparità di trattamento a danno dei graduati di truppa.
La sospensione dall’impiego (art. 30 c.p.m.p.) consiste nella «privazione temporanea dell’impiego, cui vengono sottoposti gli Ufficiali in servizio permanente effettivo durante l’espiazione della pena principale».
La sospensione dal grado (art. 31 c.p.m.p.) colpisce i «Sottufficiali» e i «graduati di truppa» per la durata della espiazione della pena principale e consiste nella «privazione temporanea del grado».
La Pubblicazione della sentenza penale di condanna (art. 36 c.p.) consegue alla sentenza di condanna alla pena dell’ergastolo. Essa è pubblicata per estratto mediante affissione nel Comune dove il reato fu commesso e in quello dove ha sede il Corpo o è ascritta la nave, a cui il condannato apparteneva.
Il Giudice, se ricorrono particolari motivi, può disporre altrimenti, o anche che la sentenza non sia pubblicata.
La sentenza di condanna alla pena di morte [1] [33] o all'ergastolo è pubblicata mediante affissione nel Comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso, e in quello ove il condannato aveva l'ultima residenza. La sentenza di condanna è inoltre pubblicata, per una sola volta, in uno o più giornali designati dal Giudice. La pubblicazione è fatta per estratto, salvo che il Giudice disponga la pubblicazione per intero; essa è eseguita d'ufficio e a spese del condannato. La legge determina gli altri casi nei quali la sentenza di condanna deve essere pubblicata. In tali casi la pubblicazione ha luogo nei modi stabiliti nei due capoversi precedenti.
Se, con una prima condanna, è inflitta una pena detentiva non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore a 519 €, il Giudice, avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, può ordinare in sentenza che non sia fatta menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragione di diritto elettorale [2] [33].
La non menzione della condanna può essere altresì concessa quando è inflitta congiuntamente una pena detentiva non superiore a due anni ed una pena pecuniaria che, ragguagliata a norma dell'articolo 135 e cumulata alla pena detentiva, priverebbe complessivamente il condannato della libertà personale per un tempo non superiore a trenta mesi.
Se il condannato commette successivamente un delitto, l'ordine di non far menzione della condanna precedente è revocato. Le disposizioni di questo articolo non si applicano quando alla condanna conseguono pene accessorie [3] [33].
Articolo sostituito dalla L. 24 novembre 1981, n. 689.
[1] [33] La pena di morte è stata soppressa e sostituita con l'ergastolo.
[2] [33] La Corte costituzionale, con sentenza 7 giugno 1984, n. 155, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma (nel testo sostituito dalla L. n. 689/1981) , nella parte in cui esclude che possano concedersi ulteriori non menzioni di condanne nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati, nel caso di condanne, per reati anteriormente commessi, a pene che, cumulate con quelle già irrogate, non superino i limiti di applicabilità del beneficio. Successivamente la stessa Corte, con sentenza 17 marzo 1988, n. 304, ha dichiarato l'illegittimità del comma nella parte in cui prevede che la non menzione nel certificato del casellario giudiziale di condanna a sola pena pecuniaria possa essere ordinata dal giudice quando non sia superiore a un milione, anziché a somma pari a quella risultante dal ragguaglio della pena detentiva di anni due, a norma dell'art. 135 cod. pen.
[3] [33] Comma è stato abrogato dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19.
Come è noto, la «riabilitazione» è causa di estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna (quale ad esempio, la recidiva). Essa presuppone che siano decorsi 5 anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (nei casi di recidiva o di altre forme qualificate di pericolosità sociale il termine è di 10 anni).
L’art. 72 c.p.m.p. introduce una deroga al generale al principio posto dall’art. 178 c.p.
Il principio base sancito dal legislatore militare in materia di riabilitazione è il seguente: la riabilitazione militare ordinata a norma della legge penale comune (art. 178 – 181 c.p.) non estingue automaticamente le pene militari accessorie e gli altri effetti penali militari. Omissis…
La legge 23 dicembre 1986, n. 897, che ha soppresso la Corte militare d’appello, ha devoluto al Tribunale militare di sorveglianza la competenza per la riabilitazione militare.
Per ottenere, dunque, la completa riabilitazione dopo la condanna che abbia comportato pene militari accessorie ed altri effetti penali militari (ad esempio, incapacità in materia di perdita del grado, delle decorazioni, delle onorificenze) occorrerà rivolgersi al Tribunale di sorveglianza ordinario[1] [35]; dopo che il Tribunale di sorveglianza ordinario avrà emanato la sentenza di riabilitazione a norma della legge comune, occorrerà rivolgersi al Tribunale militare di sorveglianza per ottenere una decisione estensiva nel senso sopraindicato.
Per emanare tale decisione il Tribunale militare di sorveglianza non sarà vincolato dalla sentenza del Tribunale di sorveglianza ordinario: potrà, anzi, disporre gli accertamenti che ritenga necessari e operare una valutazione del riabilitando del tutto indipendente, conducendola con una particolare severità alla luce dei canoni che si ispirano agli interessi del consorzio militare.
Il rigetto, da parte del Tribunale militare di sorveglianza, della domanda di riabilitazione non preclude la ripresentazione della domanda stessa quando, dopo la reiezione, sopravvengono o si scoprano fatti nuovi o nuovi elementi di prova.
[1] [36] Il nuovo Codice di procedura penale del 1988 (VASSALLI) ha spostato la competenza del giudice ordinario della Corte di appello al Tribunale di sorveglianza.
Fatte queste premesse di ordine generale, occorre ora esaminare più da vicino i rapporti che intercorrono tra «riabilitazione militare» e «riabilitazione comune», e in particolare tra il «Tribunale di sorveglianza ordinario» e il «Tribunale militare di sorveglianza».
Tali rapporti possono essere puntualizzati in queste due posizioni salienti:
Quindi la riabilitazione comune rappresenta per il Giudice militare un precedente necessario, ma non vincolante, nel senso che il Giudice militare possa riesaminare il giudizio formulato del Tribunale di sorveglianza ordinario ma nel senso che il Giudice militare, ferma restando l’integrità e la validità della riabilitazione comune, può ravvisare gli estremi per respingere l’istanza di riabilitazione militare, ponendo fondamento della reiezione motivi di ordine prettamente militare non esaminati agli effetti di negare la riabilitazione comune.
Riabilitazione (art. 178 c.p.)
La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti.
Condizioni per la riabilitazione (art. 179 c.p.)
La riabilitazione è concessa quando siano decorsi cinque anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. Il termine è di dieci anni se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99.
Il termine è, parimenti, di dieci anni se si tratta di delinquenti abituali, professionali o per tendenza e decorre dal giorno in cui sia stato revocato l'ordine di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro.
La riabilitazione non può essere concessa quando il condannato:
Revoca della sentenza di riabilitazione (art. 180 c.p.)
La sentenza di riabilitazione è revocata di diritto se la persona riabilitata commette entro cinque anni un delitto non colposo, per il quale sia inflitta la pena della reclusione per un tempo non inferiore a tre anni, od un'altra pena più grave.
Riabilitazione nel caso di condanna all'estero (art. 181 c.p.)
Le disposizioni relative alla riabilitazione si applicano anche nel caso di sentenze straniere di condanna, riconosciute a norma dell'articolo 12.
Le disposizioni della legge penale comune relative alle misure di sicurezza si osservano anche in materia penale militare (art. 74 c.p.m.p.) salvo talune deroghe, la più notevole delle quali riguarda la «sospensione, durante il servizio militare, della esecuzione delle misure di sicurezza» ordinate sia in applicazione della legge penale militare, sia in applicazione della legge penale comune, tranne – aggiunge la disposizione (art. 76 c.p.m.p.) – che si tratti di misure «curative» (ricovero in una casa di cura e di custodia o in un istituto psichiatrico giudiziario) o di «confisca». Ne risulta che la sola misura detentiva di sicurezza che è sospesa è la «assegnazione ad una colonia agricola o casa di lavoro», quando, si intende, essa non sia connessa a condanna che comporti la degradazione.
Le misure personali non detentive sono tutte sospese; esse infatti appaiono incompatibili con gli obblighi militari (divieto di soggiorno) o con il servizio militare (libertà vigilata).
Delle misure patrimoniali, solo la cauzione di buona condotta è soggetta a sospensione; non vi è ragione di sospendere la confisca, che concerne non la persona, ma le cose.
Come abbiamo avuto modo di vedere, parlando di misure di sicurezza, il legislatore comune prevede una sola ipotesi di sospensione l’esecuzione di una misura di sicurezza applicata a persona imputabile è sospesa se questa deve scontare una pena detentiva, e riprende il suo corso dopo l’esecuzione della pena (art. 212 c.p.). Unica causa di sospensione è dunque la pena detentiva, la cui espiazione fa si che si apra una parentesi nella esecuzione della misura e che quest’ultima continui il suo corso a pena espiata.
Il legislatore militare, invece, affianca alla pena detentiva, quale causa di sospensione della misura di sicurezza, anche il servizio militare (art. 76, 1° comma c.p.m.p.). E’ sempre l’interesse all’integrità e alla piena efficienza delle Forze Armate che ha il sopravvento su ogni altra considerazione e che induce il legislatore a predisporre accorgimenti idonei, diretti ad evitare, quanto più possibile, di sottrarre al consorzio militare dei membri validi ed effettivi: ciò, beninteso, compatibilmente con lo stato del soggetto e con il tipo delle misure di sicurezza, poiché vi sono misure (quali ad esempio, quelle curative) la cui esecuzione non è dilazionabile ed esige una precedenza assoluta.
La sospensione riguarda, beninteso, soltanto determinate misure di sicurezza, e cioè quelle rieducative applicate a soggetti imputabili e conseguenti a condanna che non importi la degradazione: non invece, evidentemente, le misure di sicurezza curative (ospedale psichiatrico giudiziario, casa di cura e di custodia) e quelle che siano collegate a una declaratoria di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere. Escluse dalla sospensione sono altresì, per altra ragione, le misure di sicurezza patrimoniali (confisca): la loro esecuzione non è infatti ostacolata dal servizio militare (o meglio, non costituisce ostacolo al regolare compimento del servizio militare).
Il legislatore militare poi esplicitamente risolve il quesito se il servizio militare abbia efficacia sospensiva solo nei confronti delle misure ordinate in applicazione della legge penale militare o anche nei confronti delle misure ordinate in applicazione della legge penale comune: l’efficacia sospensiva si estende anche a queste ultime; nulla infatti giustificherebbe una diversa soluzione, dal momento che le misure di sicurezza non mutano natura e disciplina a seconda che vengano ordinate in applicazione dell’una o dell’altra legge.
L’art. 76, 2° comma c.p.m.p. dispone che “alla cessazione del servizio alle armi, o durante l’esecuzione della misura di sicurezza, anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge, il Ministro di Giustizia può revocare la misura di sicurezza applicata dal giudice, o, quando trattasi di misura di sicurezza detentiva, sostituirla con altra no detentiva”.
Peraltro il predetto comma deve ritenersi non più applicabile per il combinato disposto degli artt. 69 legge 26 luglio 1975 n. 354 (come modificato dall’art. 21 legge 10 ottobre 1986, n. 663) e D.L. 27 ottobre 1986, n. 700 (convertito in legge 23 dicembre 1986 n. 897[1] [37] [37].
Il combinato disposto di tali norme devolve, quindi, al magistrato militare di sorveglianza ogni competenza in materia di revoca delle misure di sicurezza e quindi implicitamente e da ritenersi abrogato dalla nuova normativa l’art. 76, 2° comma c.p.m.p.
Un’altra singolarità, nell’applicazione delle misure di sicurezza, riguarda la disciplina di talune specifiche misure di sicurezza, quali:
Alcuni considerazioni:
Non si può dire che questi sono quesiti oziosi e fuor di luogo. Essi scaturiscono infatti da talune osservazioni non prive di rilievo.
La pericolosità sociale è una nozione foggiata dal legislatore comune e prevista in relazione ai reati comuni, tuttavia anche dal reato militare può validamente scaturire un giudizio di pericolosità sociale: lo si deduce chiaramente dal disposto dell’art. 203 c.p., il quale (richiamando l’art. 202 c.p.) pone come presupposto della pericolosità sociale la commissione di un «fatto preveduto dalla legge penale come reato». Il legislatore usa il termine «legge» (s’intende: penale) e termine «reato» in senso lato , includendo quindi, in virtù dell’art. 16 c.p., anche la legge penale militare ed il reato militare.
I reati militari si raggruppano in due categorie chiaramente differenziate: quella dei reati esclusivamente militari e quella dei reati non esclusivamente militari.
La commissione di un reato della prima categoria non pare costituire sintomo di una pericolosità di ordine generale: trattandosi di reato esclusivamente militare, la probabilità di commissione di altri reati non può attenere che ad un reato militare, poiché la capacità a delinquere resta circoscritta nell’ambito della violazione di interessi esclusivamente militari.
La commissione di un reato della seconda costituisce, per contro, sintomo di una pericolosità di ordine generale poiché offende, accanto a un interesse militare, un interesse comune, e rivela pertanto nel soggetto una attitudine a violare la legge penale comune oltreché la legge penale militare.
Le espressioni più caratteristiche dei comportamenti criminosi dei soggetti alle armi possono ripartirsi, in linea di massima, nel seguente modo:
Queste considerazioni offrono una conferma di massima alla distinzione precedentemente prospettata.
[1] [38] La prima norma ha attribuito alla competenza del magistrato di sorveglianza l’applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza; la seconda norma ha stabilito che per le funzioni e i provvedimenti del magistrato militare di sorveglianza si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 69 predetto.
La punibilità di ufficio, e cioè ad esclusiva iniziativa del P.M. (Pubblico Ministero militare) che, comunque, sia venuto a conoscenza di un fatto costituente reato, è la regola. La punibilità a richiesta, e cioè a seguito di una espressa dichiarazione di volontà di una pubblica Autorità, è l’eccezione.
La «richiesta di procedimento» è un atto amministrativo che il Comandante pone in essere nei confronti del Procuratore Militare della Repubblica, per esprimere delle valutazioni di carattere discrezionale in merito all’avvio di un procedimento penale militare, a carico di un militare alle proprie dipendenze. In altri termini, il Comandante di Corpo ha la facoltà, attribuitagli dalla legge penale militare, di far continuare in sede penale l’istruzione di un fatto-reato.
La natura giuridica della richiesta di procedimento è molto controversa: la dottrina prevalente ritiene comunque che essa sia un atto amministrativo (e non processuale) che ha effetti sul processo penale militare. Data la sua natura amministrativa, la richiesta di procedimento è “condizione di procedibilità” e nel contempo manifestazione di volontà. I suo caratteri sono: discrezionalità, irrevocabilità.
Il termine di presentazione è quello di "1 mese dal giorno in cui l’Autorità ha avuto notizia del fatto" e una volta presentata, non può più essere revocata.
La richiesta di procedimento non va confusa con la denuncia, cioè con la comunicazione di reato (che comunque va fatta, e con immediatezza, come vuole la legge). Anche se il Comandante decida di procedere solo disciplinarmente, deve darne ugualmente comunicazione alla Procura Militare.
In definitiva, possiamo dire che la richiesta di procedimento si applica a quei reati militari (definiti da alcuni “minori”) che, a causa della scarsa rilevanza dell’interesse militare leso, sono perseguiti penalmente solo a richiesta dal Comandante di Corpo, che si avvale della facoltà prevista dall’art. 260 c.p.m.p.
Alla commissione di un reato consegue, quale effetto tipico, la punibilità del suo autore: vale a dire l’applicabilità a suo carico, delle sanzioni penali stabilite dalla legge in relazione al fatto criminoso verificatosi. Tale effetto tipico può peraltro venir meno quando sopravvengono determinate situazioni che, senza cancellare il reato, estinguono però la potestà punitiva (o diritto di punire) dello Stato oppure incidono sulla esecuzione della pena.
Le situazioni di cui si parla sono le cause di estinzione degli effetti del reato e della pena, che il codice distingue in:
Le prime estinguono la punibilità in astratto, cioè escludono l’applicazione della pena all’autore di un reato, antecedente alla sentenza definitiva di condanna e, di conseguenza, limitano la potestà punitiva dello Stato. Le seconde, invece, estinguono la punibilità in concreto; si caratterizzano perché operano su una pena concretamente inflitta ad un soggetto con sentenza passata in giudicato, senza incidere sul reato (e su i suoi effetti) in alcun modo, e senza intaccare il potere punitivo dello Stato.
Le disposizioni del Codice penale comune sulla estinzione del reato e della pena si osservano anche per il reato e per le pene militari (art. 66 c.p.m.p.), con talune precisazioni e deroghe che vengono a modificare la struttura di taluni istituti, e in particolare della:
Nell’analisi delle linee derogative dei predetti istituti seguiremo, di massima, l’ordine seguito dal legislatore militare.
La Prescrizione consiste nella rinuncia dello Stato a far valere la sua pretesa punitiva, in considerazione del lasso di tempo trascorso dalla commissione di un reato, venendo meno l’esigenza di prevenzione generale (intimidazione) che giustifica la repressione dei reati e l’irrogazione di una pena per un fatto commesso molto tempo prima e caduto nel dimenticatoio.
In tema di prescrizione, la legge penale militare prevede disposizioni speciali sulla prescrizione del reato e della pena nelle fattispecie di «diserzione» e di «mancanza alla chiamata». L’art. 158 c.p. stabilisce il termine di decorrenza della prescrizione, indicando all’uopo il giorno della consumazione per il reato consumato, il giorno della cessazione dell’attività del colpevole per il reato tentato, il giorno della cessazione della permanenza e della continuazione del reato per il reato permanente o continuato, ecc.
L’art. 68 c.p.m.p. dispone che per i reati di diserzione e di mancanza alla chiamata il termine decorre, se l’assenza perduri, «dal giorno in cui il militare ha compiuto l’età con la quale cessa in modo assoluto l’obbligo del servizio militare, a norma delle leggi sul reclutamento» [1] [39] [39].
Si tratta dunque d’una vera e propria deroga che investe in ogni caso la disciplina prescrizionale dei due reati in questione, poiché essi, sia che vengano definiti come istantanei sia che vengano definiti come permanenti, si sottraggono in ogni caso alla regolamentazione comune.
Quindi, se l’assenza ha termine prima del compimento della suindicata età, trova applicazione l’art. 158 c.p. e la prescrizione decorre dalla cessazione dell’assenza; se invece l’assenza perdura oltre il limite di tale età, trova applicazione l’art. 68 c.p.m.p. e la prescrizione decorre in ogni caso da tale termine.
La deroga prevista dall’art. 68 c.pm.p. ha dunque carattere parziale ed eventuale. Essa vige anche in materia di prescrizione della pena. Ciò significa che quando l’imputato sia stato condannato in contumacia con sentenza divenuta irrevocabile e l’assenza perduri, il termine prescrizionale decorre, anziché dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (come dispone l’art. 172, 4° comma c.p.), dalla data in cui il condannato compie l’età che lo libera dall’obbligo del servizio militare.
Da quanto detto risulta che lo stesso principio derogatorio produce conseguenze diverse, ed anzi antitetiche, a seconda che venga applicato ad una causa di estinzione del reato o ad una causa di estinzione della pena: poiché nel primo caso opera a favore del reo, ponendo un termine di decorrenza prescrizionale che altrimenti potrebbe restare perennemente sospeso ed impedire il compiersi del fatto estintivo; nel secondo caso opera invece, in linea di massima, a favore del reo poiché sposta il termine di decorrenza dalla data del passaggio in giudicato della sentenza alla data del 31 dicembre dell’anno di cessazione egli obblighi militari.
[1] [40] [40] Età che l’art. 9 D.P.R. 15 febbraio 1964, n. 237 sulla leva e il reclutamento obbligatorio, non modificato da successivi interventi legislativi, fissa al 31 dicembre del 45° anno di età per i militari dell’esercito e dell’aeronautica, e al 31 dicembre del 39° anno per i militari della marina; e che per gliufficiali e per i sottufficiali è variamente determinata dall’art. 63 della legge 10 aprile 1954 n. 113 sullo stato degli ufficiali e dall’art. 55 legge 31 luglio 1954 n. 599 sullo stato dei sottufficiali.
La Sospensione condizionale della pena (detta comunemente «condizionale») e, come noto, un istituto che consente al Giudice – quando condanna per la prima volta a una pena non superiore a 2 anni (o per la seconda volta, a una pena che, addizionata alla precedente, non superi quel limite) un soggetto nei cui confronti sia formulabile una prognosi di astensione dal commettere ulteriori reati – di ordinare che l’esecuzione resti sospesa per il termine di anni 5 (se si tratta di condanna per contravvenzione, il termine è di anni 2): scaduto quel termine, il reato si estingue se il condannato non ha commesso altri reati.
La Non menzione della condanna è un istituto, in certo senso, gemello della condizionale, poiché anch’esso presuppone una prognosi favorevole, una condanna che intervenga per la prima volta e una pena inflitta che non superi un certo limite (2 anni di pena detentiva) [1] [39] [39]. I suoi effetti sono più limitati perché riguardano soltanto le conseguenze che derivano dalla menzione della di agevolare il reinserimento sociale del condannato. Normalmente viene applicato insieme con la condizionale.
In ordine a questi due istituti il Diritto penale militare presentava alcune rilevanti differenze rispetto al Diritto penale comune. Per la sospensione condizionale, ne estendeva gli effetti alle pene accessorie della sospensione dall’impiego e della sospensione del grado, mentre il codice penale non prevedeva l’estensione della condizionale alle pene accessorie. Per la non menzione, prevedeva la elevazione del limite massimo della pena principale inflitta e la compatibilità del beneficio con la presenza di pene accessorie (compatibilità invece non ammessa dal codice penale comune).
La legge 7 febbraio 1990, n.19, che ha introdotto varie modifiche al Codice penale, ha eliminato una parte delle differenze predette, introducendo nel diritto penale comune gli stessi principi che già vigevano nel diritto penale militare. Precisamente: ha disposto che la sospensione condizionale della pena si estenda anche alle pene accessorie ed ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 175 c.p., relativo alla non applicabilità della non menzione quando la condanna conseguono pene accessorie. A seguito di tale riforma, resta in piedi comunque una sola differenza, riguardante il tetto di pena entro cui è consentita la concessione della non menzione. Mentre l’art. 175 c.p. indica il massimo della pena detentiva nella misura di 2 anni, negando l’applicabilità del beneficio quando la pena inflitta superi tale entità, l’art. 70 c.p.m.p. indica il massimo nella misura di 3 anni di reclusione militare, rendendo così più ampia la sfera di applicazione del beneficio.
[1] [40] In seguito alla sentenza n. 225/75 della Corte costituzionale il beneficio può essere concesso più d’una volta.
Anche in tema di Liberazione condizionale l’ordinamento penale militare conosce qualche deroga. E’ noto che l’art. 176 c.p. (modificato per quanto attiene all’entità della pena complessiva dalla legge 25 novembre 1962 n. 1634) esige quali requisiti per l’applicazione del beneficio:
Di contro, l’art. 71 c.p.m.p. (non toccato dalla legge 25 novembre 1962 n. 1634) contiene una variante ai primi tre requisiti. Esige, infatti:
La prima deroga è a favore del condannato, la seconda e la terza, invece, palesemente sfavorevoli.
Non è facile individuare con esattezza il motivo che ha indotto il legislatore militare a predisporre un simile trattamento; così come non è facile spiegare perché la legge 25 novembre 1962 n. 1634 non sia stata estesa alla liberazione condizionale prevista dal codice penale militare.
Come è noto, la Riabilitazione è causa di estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna (quale, ad esempio, la recidiva). Essa presuppone che siano decorsi 5 anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (nei casi di recidiva o di altre forme qualificate di pericolosità sociale il termine è di 10 anni).
Si aggiunge alla riabilitazione comune (artt. 178-181 c.p.), se si vogliono estinguere le pene accessorie e gli altri effetti penali militari, conseguenti a condanne sia per reati militari, sia per reati comuni. Per chiedere la riabilitazione militare, bisogna avere ottenuto la riabilitazione comune.
Anche quando Amnistia, Indulto e Grazia estinguono la pena accessoria della «rimozione», non restituiscono il grado perduto per effetto della condanna; salvo che il decreto disponga altrimenti. Nemmeno la Riabilitazione militare restituisce il grado, salvo che la legge disponga diversamente (art. 73). Il grado può essere riacquistato solo con le normali procedure di avanzamento o con il particolare procedimento di reintegrazione.
Decorsi 5 anni dalla sentenza definitiva che ha applicato la pena su richiesta delle parti il c.d. patteggiamento, il reato è estinto se il militare non commette un delitto della stessa indole.
Abbiamo già avuto occasione di dire che, nella massima parte dei casi, le norme penali militari hanno come destinatari soltanto soggetti aventi la qualifica di “militare”.
Il che significa che il reato militare esige normalmente come «soggetto attivo» un soggetto avente la predetta qualifica, comprensiva tanto dei militari in «servizio attivo» (o considerati tali) quanto dei militari in «congedo illimitato»: può dunque ritenersi sufficientemente precisa la definizione secondo cui è militare ogni individuo che, regolarmente arruolato a norma delle leggi di reclutamento e di leva, è soggetto ad obblighi militari (attuali o potenziali) verso lo Stato. Questi obblighi hanno inizio con l’arruolamento e cessano con la collocazione del soggetto in congedo assoluto.
Per altro, al pari della legge penale comune, la legge penale militare obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato (art. 3 c.p.). Tutti, infatti, possono violare in ogni sua parte la legge penale militare, non fosse altro che “concorrendo” con le persone particolarmente soggette (art. 14, co. 1 c.p.m.p.).
L’art. 1 c.p.m.p. afferma che la legge penale militare si applica «ai militari in servizio alle armi» e «a quelli considerati tali», nonché, in casi determinati dalla legge, «ai militari in congedo illimitato», «ai militari in congedo assoluto» e ad altre categorie di soggetti di cui diremo fra poco.
E’ militare, anche il soggetto che presta di fatto servizio alle armi, cioè il soggetto che, per errore o per altro motivo, si trova inquadrato in un reparto militare senza essere mai stato arruolato o dopo essere stato escluso dalle Forze Armate. In tal caso la prestazione, di fatto, del servizio militare comporta l’assoggettamento all’ordinamento militare o alla legge penale militare.
Si tratta del cosiddetto “militare di fatto”, di cui parla l’art. 16 c.p.m.p. e a cui tale articolo affianca l’ipotesi dell’appartenente alle Forze Armate nei cui confronti sia successivamente dichiarata la nullità dell’arruolamento o l’incapacità di appartenere alle Forze Armate stesse: da ciò la distinzione tra militare di fatto in senso stretto e militare di fatto in senso lato.
Notevole è dunque la estensione con cui il legislatore usa il termine militare. Ma pur in tale estensione, si avverte la preoccupazione di operare una differenziazione di trattamento: mentre il militare in servizio attivo è sempre e di regola assoggettato alla legge penale militare, il militare in congedo illimitato lo è soltanto nei casi tassativi; la sua posizione di militare potenziale induce il legislatore ad adottare un criterio fortemente limitativo nell’assoggettarlo alla legge penale militare.
La ragione è evidente: la legge penale militare è, come abbiamo detto, legge speciale, nel senso che ha come destinatari i soggetti appartenenti a una determinata categoria; e l’efficacia di una legge speciale va contenuta in limiti quanto più possibile ristretti, poiché crea una discriminazione fra i cittadini.
Abbiamo detto, parlando del reato in generale, che esso offende l’ interesse pubblico alla pacifica convivenza. Offende quindi lo Stato che è il titolare di tale interesse. In astratto lo Stato è il «soggetto passivo» di qualsiasi reato.
Da un punto di vista specifico, il «soggetto passivo» del reato militare è la persona fisica (= militare ) o giuridica (= Amministrazione di appartenenza del militare) ivi compreso lo Stato, titolari del “bene o dell’interesse” che la norma giuridica tutela e che è pertanto leso o posto in pericolo dal suo comportamento costituente reato.
L’«oggetto giuridico» del reato è, il “bene o l’interesse protetto dalla norma penale militare”.
Quando il reato lede o pone in pericolo più beni-interessi protetti, appartenenti a persone fisiche o giuridiche distinte, si dice «plurioffensivo». I reati militari sono tutti reati «plurioffensivi» in quanto ledono un "interesse comune" oltre che un "interesse militare".
Nel reato militare plurioffensivo l’offesa dell’interesse militare è quella che prevale, lasciando in secondo piano la contestuale offesa dell’interesse comune.
Il reato militare plurioffensivo viene normalmente considerato, agli effetti interni dell’ordinamento militare, come più grave della corrispondente figura comune: è pertanto viene trattato con maggiore severità sia nella determinazione della pena edittale, sia nella disciplina della conseguenze giuridiche interne all’ordinamento militare.
Il reato militare (specialmente quello elusivamente militare) non presenta, peraltro, quella antisocialità generale riscontrabile invece nel reato comune: nel senso che le risonanze del fatto antigiuridico restano in parte contenute entro il limitato ambito dell’ordinamento e del consorzio militare.
Il reato militare può essere qualificato, rispetto al reato comune, come «reato proprio», in virtù della particolare posizione che in esso assume il «soggetto attivo» nei confronti dell’interessepenalmente protetto.
Ma la nozione di reato proprio è una nozione che ha un valore essenzialmente relativo; infatti il carattere speciale del reato proprio si ricava soltanto rapportando la disciplina del reato stesso alla disciplina di tutti gli altri reati appartenenti all’ordinamento di cui esso fa parte. Così, sono propri, rispetto alla massa dei reati comuni, i reati per i quali il Codice penale richiede, ad esempio, la qualifica di «Pubblico Ufficiale» (art. 357 c.p) da parte del soggetto attivo. E, in certo senso, potrebbero considerarsi propri, rispetto ai reati comuni, anche i reati militari.
Anzitutto, non sempre il reato militare esige nel “soggetto attivo” la qualifica di «militare»: vi sono reati militari (seppure in numero relativamente esiguo) che possono venir commessi da «terzi estranei» alle Forze Armate.
In secondo luogo, la qualifica militare del soggetto attivo non è di per sé sufficiente, come abbiamo già detto, ad attribuire al reato la qualità di reato militare: occorre infatti che la fattispecie sia lesiva di un «interesse militare» e sia prevista da una «legge penale militare».
In terzo luogo, soprattutto, occorre tener presente che la particolare posizione giuridica del soggetto attivo costituisce, nell’ordinamento militare, la normalità dei casi, sia dal punto di vista concettuale, sia dal punto di vista statistico. Quindi, rapportando il reato militare alla generale disciplina dell’ordinamento penale militare, non si può parlare di reato proprio.
Nell’ambito dei reati militari sarà “proprio” quel reato che richiederà nel militare una particolare «posizione giuridica», quale ad esempio quella di «Comandante» (artt.111, 121, 124, 146, ecc. c.p.m.p.).
Non tutti hanno, rispetto alla legge penale militare, una “soggezione di particolare intensità”: è opportuna, in proposito, la distinzione di due grandi categorie:
A essi si aggiunge una “categoria intermedia”:
[1] [42] [42] Va aggiunta l’Arma dei Carabinieri, che con l’art. 1 L. 31 marzo 200, n. 78 ha assunto il rango di Forza Armata.
Il servizio militare è il principale fattore di assoggettamento alla legge penale militare, in quanto rapporto di servizio tra il cittadino e lo Stato, che si distingue da qualsiasi altro rapporto di servizio perché la prestazione in esso dedotta non consiste in una attività determinata, e magari esclusiva, ma si estende ad una vasta gamma di attività del soggetto, in certo senso monopolizzandone un’ampia sfera di libertà personale ed esercitando, anche al di fuori di quel periodo, una influenza, sia pure potenziale, sulla sua sfera di libertà per tutto il tempo in cui durano gli obblighi militari del medesimo. L’obbligo del servizio militare non si esaurisce infatti nel compimento del periodo di ferma (cioè del servizio attivo: l’essere sotto le armi in senso proprio); esso comprende anche – come abbiamo già accennato – il periodo di congedo illimitato, nel corso del quale il cittadino obbligato è posto a disposizione ed è esposto in qualsiasi momento a richiamo sotto le armi.
L’individuo entra a far parte delle Forze Armate, all’atto dell’arruolamento e ne esce all’atto del suo congedo (quando cioè per lui cessano definitivamente gli obblighi del servizio militare). La sua appartenenza alle Forze Armate dunque, è pertanto delimitata da questi due momenti.
Gli appartenenti alle Forze Armate possono essere militari in servizio ovvero militari in congedo.
Sono soggetti alla legge penale militare:
► I “militari in servizio alle armi” (servizio attivo), sono soggetti pienamente alla legge penale, e in particolare (art. 3):
L’assenza del militare dal servizio delle armi per licenza, ancorché illimitata, per infermità, per detenzione preventiva, o per altro analogo motivo, non esclude l’applicazione della legge penale militare.
► I “militari in congedo illimitato” (art. 5), appartengono alle Forze Armate dello Stato e sono variamente soggetti alla legge penale militare in dipendenza delle seguenti situazioni:
⇒ quando commettono dei reati contro la “fedeltà e la difesa militare”:
⇒ quando commettono dei reati contro il “servizio militare”:
⇒ quando commettono dei reati contro la “disciplina militare”:
⇒ quando commettono dei reati “a causa del servizio prestato” verso militari in servizio o in congedo purché il fatto medesimo sia stato commesso entro 2 anni dal giorno in cui il militare hacessato di prestare servizio alle armi (art. 238) e nei limiti ed alle condizioni previste rispettivamente negli artt. 160, 214 del Codice.
⇒ per il reato di “omessa presentazione alla chiamata di controllo”, ai sensi degli artt. 4 e 7 delle legge 27 marzo 1930, n. 460, modificata dalla legge 3 giugno 1935, n. 1018 e dalla legge 7 dicembre 1951, n. 1565; degli artt. 205 e 207 del R.D. 24 febbraio 1938, n. 329 e dell’ 103 del R.D. 28 luglio 1932, n. 1365.
► I “militari in congedo assoluto” (art. 8), sono soggetti variamente alla legge penali militare anche quando cessano definitivamente gli obblighi del servizio militare, e precisamente:
[1] [45] Agli effetti delle disposizioni del Titolo primo del Codice penale militare di pace, per “notificazione del provvedimento” s’intende la comunicazione personale di questo all’interessato, ovvero, quando la comunicazione personale non sia ancora avvenuta, la pubblicazione del provvedimento nel bollettino ufficiale, o nei corrispondenti mezzi di notificazione delle varie Forze Armate dello Stato.
[2] [46] [46] La sentenza della Corte Costituzionale n. 556 del 12 dicembre 1989 ha ritenuto la disposizione originaria costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevedeva che, agli effetti della legge penale militare, i sottufficiali e i militari di truppa cessavano di appartenere alle Forze Armate dello Stato dal momento della consegna a essi del foglio di congedo assoluto, anziché dal momento del loro effettivo congelamento.
Sono propriamente "estranei" alle Forze Armate le persone mai arruolate o che, se lo hanno fatto, sono già, per qualsiasi motivo (età, salute, indegnità) nella posizione di congedo assoluto.
Sono considerate estranei alle Forze Armate tutte le persone diverse da i militari in servizio, fuori dei casi in cui esse sono prese in specifica considerazione ai fini della soggezione alla legge penale (art. 13).
Gli estranei sono limitatamente soggetti alla legge penale militare e precisamente nei seguenti casi:
3. commissione un reato militare in cui il soggetto attivo non sia indicato con una specifica qualificazione (ma con chiunque…» o simili) indicati nell’art. 14, coma 2 c.p.m.p. :
Tra le categorie di soggetti "estranei" alle Forze Armate rientrano altresì gli "Affini alle Forze Armate" (art. 10-14). Appartengono alla categoria le persone che si trovano in posizioni intermedie tra appartenenza ed estraneità alle Forze Armate e sono soggette alla legge penale militare, sulla base di una certa affinità con gli appartenenti alle Forze Armate, limitatamente ai casi di imbarco, servizio presso unità dislocate fuori del territorio nazionale e mobilitazione.
Rientrano in questa categoria:
Tra gli “assimilati ai militari” rientrano quei soggetti, pur non essendo militari, appartengono a categorie che la legge considera simili a quella dei militari. Si tratta non di una semplice assimilazione di rango, avente carattere meramente onorifico (come avviene per il personale civile del Ministero della Difesa), bensì di una assimilazione di status, attributiva di determinati doveri propri dei militari.
Vengono inoltre considerati assimilati i soggetti che, essendo colpiti dalla indegnità di appartenere alle Forze Armate, sono assegnati a speciali reparti di adattamento per compiervi servizio a vantaggio delle forze stesse (art. 5 Legge 12 giugno 1935, n. 1116).
Gli “iscritti ai corpi civili militarmente ordinati”, sono formazioni istituite per fini essenzialmente civili ovvero comuni, non militari, ma dotate di un ordinamento interno di carattere militare (cioè non arruolamenti, quadri, rapporti gerarchici, vincoli disciplinari analoghi a quelli delle Forze Armate), pur senza appartenere al consorzio militare.
Essere “militarmente ordinato” è cosa diversa dall’essere “militarizzato”, poiché la militarizzazione attribuisce realmente natura militare e pertanto assoggetta il corpo all’ordinamento militare; ed è cosa diversa dall’essere assimilato a militare, poiché l’assimilazione fa acquisire soltanto alcuni attributi dello stato militare. Ci sono, è vero, corpi civili militarmente ordinati che in date circostanze (ad esempio, mobilitazione) vengono militarizzati (come ad esempio per il corpo dei Vigili del Fuoco) [1] [47] [47]
La categoria dei corpi civili militarmente ordinati comprende oggi il Corpo dei Vigili del Fuoco (Legge 13 maggio 1961, n. 469), il Corpo delle Guardie forestali (D. Lgs. 123 marzo 1948, n. 804), la Polizia di Stato (Legge 1° aprile 1981, n. 121), il Corpo della Polizia Penitenziaria (Legge 15 dicembre 1990, n. 395).
Secondo l’art. 10 c.p.m.p., la legge penale militare si applica agli assimilati ai militari e ai corpi civili militarmente ordinati:
La legge penale militare (art. 11), in base ad espressa statuizione legislativa viene estesa ad altre categorie di estranei alle Forze Armate:
► ai piloti e capitani di navi mercantili o aeromobili civili, per i reati che, rispetto ad essi, sono preveduti dal Codice:
► ad ogni persona imbarcata sopra nave o aeromobile militare[2] [48], dal momento della notificazione della sua destinazione a bordo fino all’atto di sbarco regolare, ovvero nel caso di perdita della nave o dell’aeromobile, fino allo scioglimento dell’equipaggio;
► a tutti gli estranei alle Forze Armate che concorrono a commettere un reato militare, nonché, per certi reati militari tassativamente indicati, a qualsiasi estraneo, anche a prescindere da un suo concorso con un militare (art. 14 c.p.m.p.).
[1] [49] La legge 13 maggio 1961, n. 469, che contiene il nuovo ordinamento del corpo, ribadisce il carattere civile del corpo stesso (art. 9) e ne prevede la militarizzazione sia nel caso di mobilitazione generale o parziale, sia nel caso di gravi calamità pubbliche che richiedono speciali interventi per la protezione della popolazione (art. 18).
[2] [50] [50] Agli effetti della legge penale militare, sono navi militari e aeromobili militari le navi e gli aeromobili da guerra, le altre navi o aeromobili regolarmente trasformati in navi o aeromobili da guerra, e ogni altra nave e ogni altro aeromobile adibiti al servizio delle Forze Armate dello Stato alla dipendenza di un comandante militare.
La legge penale militare è applicabile altresì ai cosiddetti «militari di fatto» - posizione intermedia tra appartenenza ed estraneità alle Forze Armate - a quei soggetti che, per errore o per altro motivo (frode, età, sesso, cittadinanza, indegnità derivante da condanna penale) si trovano inquadrati in un reparto militare e che prestano di fatto il servizio alle armi senza essere mai stati arruolati o dopo essere stati esclusi dalle Forze Armate. In tal caso la prestazione, di fatto, del servizio militare comporta l’assoggettamento all’ordinamento militare e alla legge penale militare.
Si tratta del cosiddetto militare di fatto, di cui parla l’art. 16 c.p.m.p. e a cui tale articolo affianca l’ipotesi dell’appartenente alle Forze Armate nei cui confronti sia successivamente dichiarata la nullità dell’arruolamento o l’incapacità di appartenere alle Forze Armate stesse: da ciò la distinzione tra:
Ai militari di fatto, in senso lato o stretto, si applica "pienamente" la legge penale militare, esattamente come ai militari in servizio o considerati in servizio.
I reati militari così come i reati comuni, possono "manifestarsi" in forme diverse che riguardano principalmente:
► la gravità del reato: alcune circostanze del fatto possono renderlo più grave o, all’inverso, attenuarne la «gravità tipica».
► il grado di realizzazione del fatto: la condotta dell’autore può realizzare completamente il reato o risolversi nel solo tentativo di commetterlo.
► il numero di coloro che commettono il fatto: il soggetto può agire da solo ovvero con altri (in concorso, cioè, con altre persone).
Il reato militare può essere aggravato (o attenuato), oltreché dalle circostanze “comuni ordinarie” previste dal Codice penale anche da circostanze “comuni militari” previste dal Codice penale militare di pace che si aggiungono ad esse e sono applicabili alla generalità dei reati militari.
Il secondo capo del Titolo III del Libro I del Codice penale militare di pace, è dedicato alla elencazione delle circostanze «aggravanti» e «attenuanti» del reato militare, nonché alla previsione delle norme inerenti agli aumenti e alle diminuzioni di pena.
► Circostanze “aggravanti” militari
L’elencazione delle circostanze aggravanti comuni (militari) è contenuta nell’art. 47 c.p.m.p. ed esse possono così indicarsi:
La circostanza aggravante della “codardia” si applica per aver commesso il fatto (per l'avere agito) per timore di un pericolo, al quale il colpevole aveva un particolare dovere giuridico di esporsi.
La “posizione di responsabilità“, si applica nel caso in cui chi ha commesso il fatto riveste un grado o esercita un comando: non è richiesto che il reato sia stato commesso a causa o con l’abuso di questa posizione (art. 120, co. 2 c.p.m.p.).
La “particolare lesione del servizio“, si applica quando il reato è commesso con le armi di dotazione militare (al singolo militare o al reparto) o durante un servizio militare (si intende, un particolare servizio al quale il militare è stato comandato) oppure ancora a bordo di una nave odi un aeromobile militare (art. 119 c.p.m.p.).
La “particolare lesione della disciplina”, si applica allorquando il reato è commesso alla presenza di tre o più militari (scandalo in ambiente militare) oppure in luoghi in cui possa verificarsi pubblico scandalo (con ripercussioni cioè sulla pubblica opinione), oppure ancora all’estero da militare che vi si trova per servizio o che vestiva (ancorché indebitamente) l’uniforme.
► Circostanze “attenuanti” militari
L’elencazione è contenuta nell’art. 48 c.p.m.p. ed esse possono così indicarsi:
La circostanza attenuante dello “eccesso di zelo”, si applica allorquando il fatto è commesso eccedendo oltremodo (con eccessiva pignoleria) nell'adempimento dei doveri militari.
La circostanza del “servizio breve” è applicata nel caso in cui il fatto commesso dal militare, che non abbia ancora compiuto 30 giorni di servizio alle armi, quando trattasi di reato esclusivamente militare.
La circostanza della “reazione a modi non convenienti di altro militare” è applicata nel caso in cui il fatto è commesso per i modi non convenienti usati da altro militare.Va distinta dalla provocazione, che richiede uno stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui.
Infine l’applicazione dell’attenuante della ”ottima condottamilitare oprovato valore”, quando ne ricorrano gli elementi, è lasciata alla discrezionalità del giudice e si dice perciò facoltativa.
Per i reati militari, la pena può essere diminuita, quando il colpevole sia militare di ottima condotta o di provato valore.
Le circostanze cui agli artt. 47 e 48 sono dal legislatore definite «comuni» (poiché previste in relazione ad un numero indeterminato di reati militari), così come il Codice penale definisce «comuni» le circostanze elencate negli artt. 61 e 62 c.p. Comune si contrappone a «speciale», nel senso che è speciale la circostanza prevista per un singolo reato militare o per un gruppo circostanziato di reati militari.
Poiché il termine comune, riferito alle circostanze, sta ad indicare il concetto ora enunciato, non è possibile usare il termine stesso per distinguere le circostanze previste dalla legge penale comune rispetto alle circostanze previste dalla legge penale militare. Per distinguere queste due categorie di circostanze comuni, chiameremo «ordinarie» le circostanze comuni previste dal Codice penale per il reato comune e «militari» le circostanze comuni previste dalla legge penale militare per il reato militare. Le circostanze di cui agli artt. 47 e 48 c.p.m.p. sono dunque «circostanze comuni militari», mentre le circostanze di cui agli artt. 61, 62 e 62-bis sono «circostanze comuni ordinarie».
Il legislatore militare non si discosta dal Codice penale comune né nella disciplina della imputazione delle circostanze né nella disciplina degli aumenti e delle diminuzioni di pena dipendenti dalla presenza di circostanze.
Il reato militare può essere aggravato (o attenuato) anche da circostanze comuni ordinarie come dispone l’art. 47 c.p.m.p. “oltre le circostanze aggravanti comuni previste dal codice penale, aggravano il reato militare…; l’art. 48 c.p.m.p. ribadisce“Oltre le circostanze attenuanti comuni previste dal codice penale …attenuano il reato militare…le circostanze seguenti […]”
Dunque anche le circostanze comuni ordinarie possono accedere ad un reato militare. Tale applicazione soffre naturalmente il limite relativo alla compatibilità o meno di determinate circostanze con determinate figure di reato militare.
Le circostanze comuni ordinarie possono concorrere con le circostanze comuni militari, poiché la formulazione degli artt. 47 e 48 c.p.m.p. non lascia adito a dubbi circa la possibilità di un concorso.
Occorre inoltre tenere presente che non tutte le circostanze comuni militari sono contenute negli artt. 47 e 48 c.p.m.p.
► Circostanze “speciali militari”
Va ricordato, poi, che accanto alle circostanze comuni militari si pongono le «circostanze speciali militari», le quali, come già abbiamo accennato, possono essere previste per un singolo reato oppure per uno specifico gruppo di reati.
Anche nei rapporti tra queste circostanze speciali e quelle comuni (militari e ordinarie) si possono verificare casi di concorso apparente di norme, casi che andranno risolti ricorrendo al principio di specialità, come d’altronde chiaramente dispone l’art. 147 c.p.m.p.
► Aumento di pena nel caso di una sola circostanza aggravante
Quando ricorre una circostanza aggravante, e l'aumento di pena non è determinato dalla legge, è aumentata fino a un terzo la pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso (art. 50 c.p.m.p). Nondimeno, la pena detentiva temporanea da applicare per effetto dell'aumento non può superare gli anni trenta.
► Diminuzione di pena nel caso di una sola circostanza attenuante
Quando ricorre una circostanza attenuante, e la diminuzione di pena non è determinata dalla legge, si osservano le norme seguenti (art. 51 c.p.m.p.):
► Limiti degli aumenti e delle diminuzioni di pena nel caso di concorso di più circostanze aggravanti o attenuanti
Se concorrono più circostanze aggravanti o attenuanti, per determinare i limiti degli aumenti o delle diminuzioni di pena, si applicano le disposizioni del Codice penale (art. 52 c.p.m.p.). La pena della reclusione militare da applicare per effetto degli aumenti non può comunque eccedere gli anni trenta.
In tema di concorso di persona nel reato militare, è da rilevare che, alle aggravanti previste dal Codice penale comune (artt. 111, 112, 113), si aggiunge un ulteriore aggravante: superiore che è concorso nel reato con un inferiore (art. 58 c.p.m.p.), aggravante che ha un effetto particolare: essa comporta, indipendentemente dalla pena inflitta, la pena accessoria della rimozione.
Un cenno merita il concorso di “estranei” con i militari. Il Codice penale militare di pace (art. 14, 1° comma) assoggetta alla legge penale militare gli estranei che concorrono con militari in un reato militare, ma bisogna stabilire se, per aversi concorso, sia richiesto che l’estraneo conosca la qualità militare del compartecipe. Una tale conoscenza è certamente necessaria per concorrere in un reato esclusivamente militare: senza di essa l’estraneo non può riconoscere il significato illecito della propria condotta. La conoscenza della qualità militare del compartecipe non è invece necessaria per aversi concorso in un reato obiettivamente militare: l’estraneo infatti ha consapevolezza di concorrere in un reato (comune); se questo poi cambia titolo per le qualità personali di uno dei concorrenti (militare), il mutamento del titolo si estende anche a lui (artt. 117 c.p. e 14 n. 1 c.p.m.p.). Nessuna norma particolare regola il concorso di militari nel reato militare. Valgono quindi le norme del codice penale comune.
Invece il concorso di militari e di non militari è regolato da una norma del Codice penale militare di pace: l’art. 14, il quale nel 1° comma dispone che «sono soggette alla legge penale militare persone estranee alle Forze Armate dello Stato, che concorrono a commettere un reato militare». Tale norma si innesca sull’art. 110 c.p. e sta a significare che l’estraneo il quale concorre ex art. 110 c.p. col militare nella commissione di un reato militare va incontro alle conseguenze previste dalla legge penale militare.
Le regole applicabili sono quelle che si ricavano dall’art. 110 c.p., la cui efficacia, secondo una autorevole dottrina, è ravvisabile non tanto in un effetto estensivo dell’incriminazione originaria, quanto piuttosto nell’effetto creativo di autonome fattispecie di concorso.
Naturalmente sorge l’immancabile quesito: cosa stabilisce la legge quando l’estraneo ignori che la persona con la quale concorre ha la qualifica di militare ?
Per dare una risposta esauriente al quesito occorre necessariamente distinguere:
► se il concorso riguarda un reato “esclusivamente militare” (ad esempio, il reato di violata consegna), l’ignoranza, da parte dell’estraneo, della qualifica di militare del concorrente esclude il dolo, e quindi esclude ogni responsabilità penale dell’estraneo stesso (salvo, naturalmente, che la responsabilità penale dell’estraneo tragga titolo dall’autonoma previsione contenuta nella fattispecie militare astratta di parte speciale).
► diversa si presenta la situazione quando il concorso riguarda un reato “non elusivamente militare” (ad esempio, l’istigazione al furto militare). Siccome il fatto è già previsto come reato della legge penale comune, sussisterebbe in ogni caso una responsabilità dell’estraneo per furto comune; tuttavia l’art. 117 c.p. opera un mutamento di titolo di reato per l’estraneo, facendo rispondere anche quest’ultimo di furto militare.
La situazione non differisce sostanzialmente da quella del compartecipe che, concorrendo in un reato proprio previsto dal codice penale comune (ad esempio, peculato), ignori la particolare qualifica di pubblico ufficiale rivestita dal soggetto con cui egli concorre. In base alle regole generali, egli dovrebbe rispondere semplicemente di appropriazione indebita; in forza dell’art. 117 c.p. risponderà invece di peculato.
In sostanza, l’art. 117 c.p. è norma generale, che spiega piena efficacia nel diritto penale militare, operando, nei confronti dell’estraneo,, un mutamento di titolo di reato. Tale mutamento può concretarsi nel passaggio da un titolo all’altro di reato militare.
Sempre in tema di concorso di persone, gli artt. 58 e 59 c.p.m.p. configurano delle circostanze applicabili soltanto ai militari. Dispone l’art. 58. (Circostanze aggravanti) che: «Nel caso di concorso di più persone nel reato militare, la pena da infliggere per il reato commesso è aumentata, oltre che nei casi in cui ricorrono le circostanze degli articoli 111 e 112 o quelle del secondo comma dell'articolo 113 del codice penale, anche per il superiore, che è concorso nel reato con un inferiore. La condanna a pena detentiva, fuori dei casi in cui ne deriva la degradazione, importa, per il militare che è concorso con l'inferiore, la rimozione».
Dispone l’art. 59 (Circostanze attenuanti) che:«La pena da infliggere per il reato militare può essere diminuita:
Alle aggravanti di cui agli artt. 111, 112 e113 c.p., l’art. 58 c.p.m.p. aggiunge una aggravante consistente nel semplice fatto, da parte del superiore, di concorrere nel reato con un inferiore. Si colpisce così l’insensibilità di quel superiore che trascura la dignità e la responsabilità del proprio grado fino al punto di associarsi ad inferiori nel porre in essere un comportamento criminoso: il semplice concorso con un inferiore concreta già di per sé l’aggravante; la quale può coesistere con qualsiasi altra aggravante ordinaria o militare,poiché da nessuna di esse viene assorbita.
L’art. 59 c.p.m.p., dal canto suo, prevede due attenuanti: una per l’inferiore che è stato determinato dal superiore a commettere il reato (art. 59 n. 1); l’altra per il militare che nella preparazione o nella esecuzione del reato ha prestato opera di minima importanza (art. 59 n. 2).
La formulazione delle due attenuanti è uguale sostanzialmente a quella delle corrispondenti attenuanti previste, rispettivamente, dal 3° e 1° comma dell’art. 114 c.p.
Le cause di giustificazione (o scriminanti) del Codice penale militare sono caratterizzate da una autonoma disciplina e costruite secondo asserite esigenze specifiche dell’ordinamento militare. Interventi del legislatore[1] [51] [51] e della Corte costituzionale, verificatesi in anni recenti, hanno fortemente ridimensionato questo settore, rendendolo meno anomalo rispetto al sistema del diritto penale comune. Basti leggere l’art. 42 c.p.m.p. (difesa legittima) per rendersi immediatamente conto che il legislatore militare opera una rielaborazione dell’istituto, strutturandolo con criteri sensibilmente diversi da quelli seguiti dal legislatore comune: operazione che egli compie, sia pure in minor misura, anche nell’art. 41 c.p.m.p. (uso legittimo delle armi).
Ne deriva la possibilità di raggruppare in "tre categorie" le cause di giustificazione operanti nel diritto penale militare:
Gli interventi di cui abbiamo accennato hanno modificato tale impostazione, perché l’adempimento di un dovere è passato dal secondo al primo gruppo e la coercizione diretta è stata abolita; inoltre un intervento della Corte costituzionale ha ridotto le differenze tra difesa legittima militare e difesa legittima comune
Nello studiare le singole scriminanti analizzeremo i singoli istituti secondo un criterio di opportunità pratica, sia per seguire nell’analisi un più chiaro sviluppo logico, sia per evitare inutili ripetizioni. Così, ad esempio, tratteremo della c.d. necessità militare subito dopo l’adempimento di un dovere poiché la prima si presenta come figura speciale del secondo; ad entrambi, però, dovrà precedere la trattazione dello stato di necessità, dal momento che, a prima vista, quest’ultima scriminante parrebbe affine alla c.d. necessità militare.
Parimenti, tratteremo dell’uso legittimo delle armi dopo aver trattato dell’esercizio di un diritto e, quale primo istituto, affronteremo la legittima difesa, che, fra tutte le scriminanti, presenta la struttura più complessa e la disciplina più elaborata.
[1] [52] [52] L’art. 22 Legge 11 luglio 19778, n. 382 ha abrogato l’art. 40 c.p.m.p. (Adempimento di un dovere).
Prima di passare all’esame analitico delle varie scriminanti, è necessario soffermarci brevemente su di un istituto che in particolare interessa la disciplina di tutte le cause di giustificazione: l' eccesso colposo.
Anche per le cause di giustificazione previste la Codice penale militare di pace (legittima difesa, uso legittimo delle armi e necessità militare, come per quelle previste nel Codice penale comune all’art. 55, è ipotizzabile, infatti, l’eccesso colposo (art. 45 c.p.m.p.): esso si verifica – nella legittima difesa, nell’uso legittimo delle armi e nei casi particolari di necessità militare - quando si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine del superiore o di altra Autorità, ovvero imposti dalla necessità.
Risulta subito evidente il perfetto parallelismo di questa norma con l’art. 55 c.p.
L’art. 45 c.p.m.p. recita testualmente: «Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 40, 41, 42, escluso l'ultimo comma, e 44, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine del superiore o di altra autorità, ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i reati colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come reato colposo».
L’insubordinazione con violenza è prevista solo nella forma dolosa; ma essa, oltre all’interesse militare della disciplina, offende anche interessi comuni (l’incolumità personale) e pertanto l’eccesso colposo in una causa giustificante tale reato militare (difesa legittima, appunto) lascia sussistere una responsabilità colposa del militare per il reato comune di lesioni personali.
Il Codice penale comune all’art. 52 c.p. dichiara che non è punibile «chi ha commesso un fatto costituente reato perché costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di una offesa ingiusta da parte di un terzo, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».
Nei casi previsti dall’art. 614, 1°e 2°comma, sussiste il rapporto di proporzionalità di cui al 1° comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
La disposizione del 2° comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale». Il che vuol dire, in altre parole, che contro l’aggressione ingiusta di un diritto proprio (inerente alla persona o alle cose) o altrui (c.d. soccorso difensivo) sipuò reagire anche commettendo fatti costituenti reato.
I presupposti essenziali per la applicazione della legittima difesa sono due:
L’art. 42 c.p.m.p., stabilisce che: «Per i reati militari, in luogo dell'articolo 52 del codice penale, si applicano le disposizioni dei commi seguenti.
Se il fatto è commesso nell'atto di respingere gli autori di scalata, rottura o incendio alla casa o ad altro edificio di abitazione, o alle loro appartenenze, e non ricorrono le condizioni previste dal n. 2 del comma precedente, alla pena di morte con degradazione è sostituita la reclusione non inferiore a dieci anni; alla pena dell'ergastolo è sostituita la reclusione da sei a venti anni; e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà».
Le differenze tra l’istituto di diritto comune e l’istituto militare emergono nettissime qualora ci si addentri nell’esame comparativo dei requisiti “dell’aggressione” e di quelli “della reazione” nell’una e nell’altra scriminante.
Circa i requisiti dell’aggressione, l’art. 52 Codice penale comune richiede che:
Ciò significa che le legittima difesa è accordata non solo a tutela dei diritti inerenti alla persona (vita, incolumità fisica, pudore, ecc.) ma anche a tutela dei diritti patrimoniali; che non occorre che l’aggressione sia violenta, bastando ai fini dell’aggressione anche l’uso di mezzi non violenti e persino l’atteggiamento passivo; che la minaccia al diritto deve essere in contrasto con i precetti dell’ordinamento giuridico e deve creare per il diritto un pericolo presente nel momento in cui avviene il fatto reattivo.
L’art. 42 c.p.m.p. restringe notevolmente l’ampiezza di tali requisiti. Essa parla di «necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta».
In tal modo viene a circoscrivere il concetto di «aggressione» alla sola ipotesi della violenza; e poiché la nozione di violenza è offerta dall’art. 43, il quale afferma che «agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di violenza si comprendono l'omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti, e qualsiasi tentativo di offendere con armi», ne discende inevitabilmente che il bene oggetto dell’aggressione deve essere il diritto alla vita o il diritto all’integrità fisica e che le modalità dell’aggressione devono consistere in un comportamento attivo e violento.
Non solo, ma mentre, per l’art. 52 Codice penale comune, «attuale» deve essere il “pericolo dell’offesa”, per l’art. 42 c.p.m.p. «attuale» deve essere la “violenza”, sì ché è preclusa la difesa preventiva.
Ma poiché una violenza consumata non può essere respinta, violenza attuale va intesa anche come violenza imminente: non è necessario attendere che l’aggressore spari il primo proiettile per reagire difensivamente.
Circa i requisiti della reazione, l’art. 52 Codice penale comune richiede che quest’ultima sia «necessaria» per difendere il diritto minacciato, e «proporzionata» alla difesa.
Perché ricorra tale scriminante occorre che la reazione sia legittima (per essere tale deve cadere sull’aggredito) e deve presentarsi come necessaria (non poteva essere evitata) ossia il soggetto è nella alternativa tra reagire o subire; occorre inoltre la inevitabilità del pericolo, nel senso che non deve essere possibile evitare altrimenti l’offesa al diritto proprio o altrui.
La difesa deve essere proporzionata all’offesa; proporzione che secondo la dottrina più recente deve sussistere tra il male minacciato e quello inflitto (la giurisprudenza, tra l’altro, suggerisce di tenere conto anche delle condizioni dell’aggredito, dei mezzi di cui disponeva, del tempo e del luogo dell’aggressione, ecc.).
La reazione è certamente proporzionata e perciò legittima quando il male provocato all’aggressore è inferiore o appena superiore a quello subito. La proporzione deve sussistere fra il male minacciato e quello inflitto nonché fra i mezzi a disposizione e quelli da lui usati.
Anche per la legittima difesa militare il legislatore esige che la reazione risponda ai requisiti della necessità e della proporzionalità: nella determinazione concettuale di tali requisiti non vi è motivo alcuno per derogare ai principi tracciati dalla dottrina in materia di legittima difesa comune, stante la perfetta identità di formulazione legislativa su tali punti.
Si è posto in passato il problema, se la scriminante sia applicabile a chi, potendo salvarsi con la fuga, preferisce invece difendersi. La dottrina afferma concordemente che se per il “privato“ la fuga può essere talvolta possibile senza danno morale e senza menomazione della dignità, per il “militare “ ciò non avviene, poiché la fuga nuoce al prestigio della divisa e contrasta con le regole dell’etica militare e con l’alto sentimento dell’onore, profondamente radicato nell’ordinamento militare.
Si sostiene generalmente che nella legittima difesa militare il cosiddetto «prestigio della divisa» può essere in gioco tanto nel caso che il militare aggredito fugga, quanto nel caso che reagisca: se fugge, il militare nuoce al prestigio della divisa sottraendosi ad una violenza e dando l’impressione di essere codardo; se affronta la violenza e reagisce, nuoce al prestigio della divisa ledendo l’incolumità personale di un altro militare e molto spesso l’incolumità personale di un superiore, o comunque interessi della disciplina e del servizio.
Il Codice penale comune all’art. 54 dichiara che «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato e non altrimenti evitabile». Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
In materia di «stato di necessità» i Codici penali militari non contengono alcuna espressa norma sostitutiva, integrativa o limitativa dell’art. 54 c.p. Vige quindi la causa di giustificazione “stato di necessità” così come configurata da tale articolo. L’art. 44 c.p.m.p. dichiara che «non è punibile il militare, che ha commesso un fatto costituente reato, per esservi stato costretto dalla necessità di impedire l'ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell'aeromobile»
La norma, anzitutto, è diretta a scriminare qualsiasi reato (anche comune) e non semplicemente reati militari. Essa è diretta a scriminare tanto il militare che agisce per impedire reati militari (come la rivolta ex art. 174 c.p.m.p. o l’ammutinamento ex art. 175 c.p.m.p.) quanto il militare che agisce per impedire reati comuni (saccheggio o devastazione ex art. 285 o ex art. 419 c.p., ecc.).
A differenza dell’art. 54 Codice penale comune dove lo stato di necessità è ancorato alla strettissima nozione di “pericolo di danno grave alla persona“, esaminando attentamente l’art. 44 c.p.m.p. si nota che in esso il pericolo di un danno alla persona o non entra affatto in considerazione o, se entra, entra in modo molto indiretto.
Nel caso di “rivolta o di ammutinamento“ tale pericolo è normalmente da escludersi trattandosi di reati che offendono la disciplina militare, e che di regola non comportano pericolo per la vita, l’integrità fisica o l’integrità morale di persone: e se ciò può dirsi per il superiore, a maggior ragione può dirsi per il militare qualsiasi che spontaneamente intervenga per impedire la rivolta o l’ammutinamento.
Identico discorso può farsi per i reati di “saccheggio o di devastazione” sia che essi vengono in considerazione nella fattispecie comune, sia che vengano in considerazione nella fattispecie militare; il militare che interviene non è attaccato in qualche suo bene personale: egli interviene nell’interesse obiettivo dell’ordinamento militare al fine di impedire l’offesa della fedeltà militare (o, nel caso di reati comuni, l’offesa dell’ordine pubblico e della personalità dello Stato), cioè di beni che non lo riguardano personalmente.
L’ipotesi del «fatto tale da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell'aeromobile» può suggerire una considerazione lievemente diversa: un fatto che compromette la sicurezza del posto può importare un pericolo di danno per le persone dei militari che al posto stesso sono comandati.
Ma anche in tali casi, si badi, ciò che viene in considerazione in primo piano è la “sicurezza del posto”, della nave o dell’aeromobile (cioè un interesse militare obiettivo): mentre il pericolo di danno personale non acquista diretta rilevanza e resta in secondo piano, con carattere eminentemente eventuale.
A ciò si aggiunge che, mentre l’art. 54 Codice penale comune esige che il pericolo non sia stato volontariamente causato dal soggetto agente, l’art. 44 c.p.m.p. non contiene analoga prescrizione e non richiede che la situazione in cui agisce il militare non sia in alcun modo ricollegabile al comportamento volontario di quest’ultimo. La ragione di simile orientamento legislativo si ricerca nel fatto che nella situazione di cui all’art. 44 c.p.m.p. sono posti in pericolo, come abbiamo detto, non interessi personali del militare ma interessi obiettivi dell’ordinamento militare: il militare che reagisce per impedire l’offesa di tali interessi, viene così ad essere scriminato salva naturalmente la sua responsabilità per reati che eventualmente hanno causato la situazione di pericolo.
La scriminante dello stato di necessità consente a chi si trova in una situazione di grave pericolo di uscirne, anche e addirittura, commettendo reati a scapito di terzi innocenti (e non aggressori). Per la sussistenza di esso si richiede, a differenza della legittima difesa, un pericolo attuale e inevitabile di “un danno grave alla persona“ (cioè alla sua integrità fisica).
Peraltro tale disposizione non può essere invocata da chi abbia un particolare “dovere giuridico di esporsi al pericolo”(comandanti di navi militari e mercantili, Vigili del fuoco, ecc.). Vi sono molte norme incriminatrici militari che a prima vista sembrano sancire direttamente o indirettamente, a carico del militare, il “dovere” di esporsi al pericolo in determinate situazioni.
Quel dovere esclude l’applicabilità della scriminante; ma l’esclusione non opera quando non vi sia un rapporto diretto tra il dovere di esporsi al pericolo e il bene sacrificato.
Il pericolo di cui fanno menzione molte delle norme predette non è il «pericolo attuale di un danno grave alla persona» di cui parla l’art. 54 c.p.: è invece un pericolo oggettivo e impersonale (caso di pericolo, circostanze di pericolo) che riguarda non direttamente la persona in quanto tale, bensì il «posto, la nave, il servizio, la consegna, ecc.» e che lascia tuttavia un certo apprezzabile margine all’applicazione dell’art. 54 ogni qualvolta la situazione oggettiva e impersonale venga a concretare in effetti (e ciò potrà accadere assai di frequente) un «pericolo attuale di un danno grave alla persona», non volontariamente causato e non altrimenti evitabile.
Le norme dell’ordinamento militare impongono dunque al militare di compiere il suo dovere sino in fondo e di impegnarsi con tutte le forze per la difesa degli interessi militari: ma non gli impongono né gli imporrebbero imporre un vero e proprio suicidio, pur nel caso di grave pericolo.
Alcuni considerazioni:
Abbiamo detto che la scriminante dello stato di necessità non si applica a chi ha un particolare dovere di esporsi al pericolo. E’ questo, sempre il caso del militare o, almeno, del militare nell’adempimento di un servizio ?
La risposta è che il dovere di esporsi al pericolo è in relazione allo scopo del servizio e va quindi valutato caso per caso.
L’art. 22 legge 11 luglio 1978, n. 382 dispone: «L’art. 40 del codice penale militare di pace è abrogato». Scompare in tal modo la norma che escludeva l’applicazione dell’art. 51 c.p. al diritto penale militare; pertanto la sfera di efficacia dell’art. 51 si espande a comprendere anche i militari. La citata legge contiene però, in tema di “obbedienza militare”, anche un’altra norma importante.
[…]
Il militare osserva con senso di responsabilità e consapevole partecipazione tutte le norme attinenti alla disciplina e ai rapporti gerarchici.
[…]
Gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardare il servizio e non eccedere i compiti d’istituto.
Il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i superiori.
Da parte sua il nuovo Regolamento di disciplina militare (D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545) dispone nell’art. 25 ultimo comma:
[…]
Il militare al quale venga impartito un ordine che non ritenga conforme alle norme in vigore deve, con spirito di leale e fattiva partecipazione, farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto ad eseguirlo se l’ordine è confermato. Secondo quanto disposto dalle norme di principio, il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine ed informare al più presto i superiori.
Con la nuova normativa, viene per la prima volta affermato esplicitamente il dovere di disobbedienza, non soltanto in relazione all’ordine manifestamente criminoso sulla falsariga del vecchio (art. 40 c.p.m.p.), ma anche in relazione all’ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato.
L’art. 53 c.p. stabilisce che non è punibile il «Pubblico Ufficiale (appartenente alla forza pubblica e autorizzato a far uso delle armi e degli altri mezzi di coazione fisica) quando al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica (sfollagente, cani, idranti, gas lacrimogeni), quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità».
Sono presupposti essenziali:
Tuttavia, non sempre il militare è un pubblico ufficiale: da ciò la necessità di estendere a lui, espressamente, quando si tratta di adempiere un dovere di servizio, questa causa di giustificazione, applicabile non solo ai reati militari ma anche ai reati comuni.
Se egli è in servizio di sentinella, il suo intervento, diretto a respingere una violenza nell’adempimento di un dovere, costituisce uso legittimo delle armi; se egli non è di servizio, il suo intervento, diretto ad impedire un fatto che comprometterebbe la sicurezza del posto, si inquadra tra i casi particolari di necessità militare.
L’art. 41 c.p.m.p. - introdotte le indispensabili modificazioni terminologiche (=militare e sevizio sostituiti rispettivamente a pubblico ufficiale, e ufficio) - configura l’istituto dell’uso legittimo delle armi ricalcando con relativa fedeltà l’art. 53 c.p.e dichiarando che: «non è punibile il militare, che, a fine di adempiere un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza
La legge determina gli altri casi, nei quali il militare è autorizzato a usare le armi o altro mezzo di coazione fisica».
Come è noto, la scriminante in questione riguarda non soltanto l’uso delle armi, ma anche l’uso di qualsiasi mezzo do coazione fisica: sfollagente, getti d’acqua lanciati con idranti, gas lacrimogeni, uso della forza fisica per immobilizzare una persona, ricorso alle bombe stordenti, carosello di auto per disperdere un assembramento, ecc. I requisiti generali di questa causa di giustificazione consistono nella necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio o del servizio militare.
L’art. 53, 1° comma, nella modificazione introdotta dalla legge 22 maggio 1975, n. 152, precisa che la scriminante opera anche nel caso di necessità di impedire la consumazione di delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
Dall’analisi comparativa dell’ultimo comma dell’art. 41 c.p.m.p. e dell’art. 53 c.p. si rileva come la legge si riservi a determinare gli altri casi, nei quali il militare è autorizzato a usare le armi o altro mezzo di coazione fisica. Ciò significa che possono esistere casi nei quali non ricorre il presupposto generale della «necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza», ma nei quali è ugualmente scriminato l’uso delle armi da parte del militare (o da parte del pubblico ufficiale).
Trattasi di casi che sono tassativamente previsti dalla legge e sono riconducibili al 3° comma dell’art. 41 c.p.m.p., quali ad esempio:
► il caso di cui alla legge 4 marzo 1958 n. 100 “sull’uso delle armi da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio di frontiera e in zona di vigilanza” che stabilisce:
• art. 1 - E’ vietato fare uso delle armi contro le persone da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio di repressione del contrabbando in zona di vigilanza doganale, come determinato dalle vigenti disposizioni, fatta eccezione per i casi previsti dagli artt. 52, 53 primo comma e 54 del Codice Penale e quando:
a) il contrabbandiere sia armato palesemente.
b) il contrabbando sia compiuto in tempo di notte
c) i contrabbandieri agiscano raggruppati in non meno di tre persone.
• art. 2 - E’ vietato far uso delle armi, anche nelle ipotesi previste nelle lettere a) b) e c) dell’art.1 quando il contrabbandiere si dà alla fuga ed abbandona il carico.
• art. 3 - L’uso delle armi non è vietato contro gli autoveicoli e gli altri mezzi di trasporto veloci quando i conducenti non ottemperino all’intimazione di fermo e i militari non abbiano la possibilità di raggiungerli.
• art. 4 - Nel caso di militari che operino non isolati in servizio, l’ordine di far fuoco deve essere dato dal militare che ha il comando.
• art. 5 - L’uso delle armi ,nei casi in cui non è vietato a norma degli articoli precedenti deve essere preceduto da intimazione a voce o col gesto e dalla esplosione di almeno due colpi in aria.
• art. 6 - L’uso delle armi non è vietato quando il contrabbando sia compiuto con imbarcazioni nella zona di vigilanza doganale marittima e i capitani non ottemperino alle intimazioni di fermo, date con l’esplosione di almeno tre colpi in aria e, di notte, con segnalazioni luminose.
Il dovere non è quello di sparare, ma quello di reprimere il contrabbando in zona di vigilanza doganale: per attuare tale repressione il militare può far uso delle armi in ipotesi tassative.
► il caso di cui all’art. 158 T.U.L.P.S., che riguarda “l’impedimento di passaggi abusivi attraverso valichi di frontiera non autorizzati” ed integrato dall’art. 2 della legge 18 aprile 1940 n. 494.
• art. 158 TULPS - E’ autorizzato l’uso delle armi, quando sia necessario, per impedire i passaggi abusivi attraverso i valichi di frontiera non autorizzati
• art. 2 L. 494/40 – Agli effetti dell’applicazione dell’art. 158 T:U. leggi P.S., i predetti militari (in servizio di vigilanza alle frontiere) quando scorgono persone che tentano di oltrepassare clandestinamente la linea di frontiera, debbono intimare l’ALT con ogni mezzo idoneo a manifestare l’intimazione.
Contro le persone cui l’intimazione è fatta, che persistano nel tentativo di varcare la frontiera, il militare in servizio di vigilanza può fare uso delle armi.
► il caso di cui all’art. 41 legge 26 luglio 1975 n. 354, che riguarda l’impiego della forza fisica all’interno degli stabilimenti di pena per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere resistenze.
Il Diritto penale militare è quel complesso di norme, che ha normalmente come “destinatari” i militari, mediante cui lo Stato vieta determinati comportamenti, ritenuti antisociali, minacciando ai trasgressori “sanzioni penali militari”. La funzione del diritto penale militare è dunque la difesa della società militare contro il reato per assicurare le condizioni essenziali per il funzionamento e l’efficienza delle Forze Armate dello Stato, predisponendo le sanzioni penali a difesa di «beni giuridici o valori ritenuti in un dato periodo storico socialmente più rilevanti».
Il Diritto processuale penale è l’insieme delle norme attraverso le quali lo Stato, per mezzo dell’Autorità Giudiziaria, applica al caso concreto la norma penale e astratta. Tale diritto riguarda l’ordinamento ed il funzionamento dei Tribunali giudiziari.
Il Diritto penale militare si distingue, dunque, da quello processuale, perché il primo fissa quali sono i reati militari e stabilisce le sanzioni d’applicare ai trasgressori, il secondo indica il rito da seguire per accertare il reato ed applicare le sanzioni.
Costituiscono il diritto penale militare, però, non solamente quelle norme che prevedono i comportamenti illeciti e le rispettive sanzioni, bensì anche quelle norme che, ad esempio, stabiliscono cause di non punibilità (es. legittima difesa); quelle che prevedono forme particolari di manifestazione del reato, quali il reato commesso in concorso con altri ed ipotesi di aggravamento od attenuazione.
Riassumendo:
La legge penale militare di pace, come si è detto, ha quale fonte legislativa principale il Codice penale di pace, approvato con R.D. 20 febbraio 1941, n. 303 ed entrato in vigore il 1° ottobre 1941.
Tuttavia, si applicano effettivamente solo i primi due libri, essendo stato il Libro III quasi integralmente abrogato a seguito dell’entrata in vigore del Codice di procedura penale del 1988 (Codice Vassalli)..
La legge penale militare si applica prevalentemente e incondizionatamente “ai militari in servizio alle armi e a quelli considerati tali” (art. 1), comprendendo sotto la denominazione di “militari” quelli dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, nonché “le persone che a norma di legge acquistano la qualità di militari” (art. 2).
Abbiamo sommariamente accennato, alla importanza che ha, nello studio del diritto penale militare, il carattere di “specialità” della legge penale militare.
Riassumendo:
Il diritto penale militare è quel ramo del diritto penale che assicura le condizioni essenziali per il funzionamento e l’efficienza delle «Forze Armate». Esso si affianca al diritto penale comune con una sua speciale fisionomia in quanto espressione di un ordinamento quello militare, che però vive ed opera nell’ambito dello Stato e nel rispetto della Costituzione.
Il Diritto penale militare è quel complesso di norme, che ha normalmente come “destinatari” i militari, mediante cui lo Stato vieta determinati comportamenti, ritenuti antisociali, minacciando ai trasgressori “sanzioni penali militari”. Il Diritto penale militare ricomprende pertanto tutte le norme che sanzionano con la pena militare un fatto illecito denominato reato.
La funzione del Diritto penale militare è dunque la difesa della società militare contro il reato per assicurare le condizioni essenziali per il funzionamento e l’efficienza delle Forze Armate dello Stato, predisponendo le sanzioni penali a difesa di «beni giuridici o valori ritenuti in un dato periodo storico socialmente più rilevanti». Poiché la pena è la più drastica, infamante e intimidatoria delle sanzioni, essa può essere inflitta solo dallo Stato (e cioè dall’unica istituzione finalizzata ad assicurare lo svolgimento ordinato e pacifico della vita in comune) e solo all’esito di un rigoroso procedimento (=procedimento penale) affidato all’Autorità Giudiziaria (=A.G.) e quindi particolarmente garantito.
Il procedimento penale è il meccanismo attraverso il quale gli Organi giudiziari (Polizia Giudiziaria, Pubblici Ministeri e Giudici) pervengono attraverso vari momenti e varie fasi all’accertamento, positivo o negativo di un reato e all’applicazione al caso concreto della norma che si stabilisce essere stata violata.
All'accertamento giudiziale del reato ed ai suoi effetti punitivi, si perviene, dunque, attraverso il «procedimento penale». Esso prevede il compimento di atti da parte dei vari soggetti (la Polizia Giudiziaria, il Pubblico Ministero, l'imputato, il difensore....) e si articola in vari momenti e varie fasi (come quella delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare (eventuale), del giudizio di primo grado, dell'appello...). Sia l’individuazione dei soggetti del procedimento penale sia l’individuazione e la disciplina dei loro compiti e funzioni sono regolate da norme che si denominano processuali penali e che, per la loro gran parte, sono collocate nel «Codice di procedura penale» e in altre disposizioni ad esso complementari.
Il Diritto di procedura penale è l’insieme delle norme attraverso le quali lo Stato, per mezzo dell’Autorità Giudiziaria, applica al caso concreto la norma penale e astratta. Tale diritto riguarda l’ordinamento ed il funzionamento dei Tribunali giudiziari. Il Diritto penale si distingue, invece, da quello processuale, perché il primo «fissa quali sono i fatti illeciti e stabilisce le sanzioni d’applicare ai trasgressori», il secondo indica il «rito da seguire per accertare il reato ed applicare le sanzioni».
Il Diritto penale militare si distingue, dunque, da quello processuale, perché il primo fissa quali sono i reati militari e stabilisce le sanzioni d’applicare agli appartenenti alle Forze Armate, il secondo indica il rito da seguire per accertare il reato militare ed applicare le sanzioni. Costituiscono il diritto penale militare, però, non solamente quelle norme che prevedono i comportamenti illeciti e le rispettive sanzioni, bensì anche quelle norme che, ad esempio, stabiliscono cause di non punibilità (es. legittima difesa); quelle che prevedono forme particolari di manifestazione del reato, quali il reato commesso in concorso con altri ed ipotesi di aggravamento od attenuazione.
L' Ordinamento giudiziario militare è il complesso di Organi attraverso i quali la Giustizia militare esercita la giurisdizione per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze Arnmate ed ai Corpi armati dello Stato ad ordinamento militare.
La Giustizia militare italiana, regolamentata dalla legislazione sarda-piemontese sin dal 1850, organizzata nella prima metà del secolo scorso dal R.D. 9 settembre 1941, n. 1022, trae oggi la sua legittimità dall'art. 103 della Costituzione ed è stata regolamentata e modificata in modo rilevantissimo, da ultimo, dalle Leggi 7 maggio 1981, n. 180 e 24 dicembre 2007, n. 244. La Legge 180, fu posta in essere, a suo tempo, per neutralizzare l’iniziativa referendaria intrapresa dal partito radicale, che mirava a sopprimere la magistratura militare.
Ne è derivata, pertanto, una normativa frettolosa, non esente da difetti, anche se fondata, a ragione, sui seguenti principi:
Nei Tribunali militari del passato, in effetti, vi era una prevalenza numerica dei membri militari rispetto a quelli togati (magistrati militari). Ora tale principio risulta ribaltato ed è stato affermato anche quello della “presidenza tecnica” (collegio giudicante retto da un magistrato militare). Inoltre, introducendo i tre gradi di giurisdizione, la Legge 180 ha superato il sistema del vecchio regime, in cui esisteva un solo grado di merito ed uno di legittimità (l’abolito tribunale supremo militare). L’unica deroga prevista e consentita dalla Costituzione è quella del “tempo di guerra”, in cui i tribunali militari assumono una configurazione diversa da quella attuale e poteri giurisdizionali molto ampi.
Allo stato attuale l’articolazione degli “Organi Giurisdizionali militari” è la seguente:
La Giustizia militare trova la sua collocazione nell'ambito del “Ministero della Difesa” alla stessa stregua della Giustizia ordinaria che trova la sua collocazione nell'ambito del Ministero della Giustizia. Per una maggiore tutela dell’indipendenza della Magistratura militare, è stato istituito il Consiglio della Magistratura Militare, che è un organismo di autogoverno.
L'art. 103 della Costituzione attribuisce, in tempo di pace, ai Tribunali militari l'esercizio della giurisdizione per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze Armate.
In sostanza, la tutela penale degli interessi militari deve svolgersi attraverso la giurisdizione speciale dei Tribunali militari, che in tempo di pace, tuttavia, sono competenti a giudicare solo i militari che hanno commesso reati militari: i civili che siano incorsi in reati militari (per concorso di reato con militari o per aver commesso uno di quei pochi reati militari, che possono essere commessi anche singolarmente dai civili, saranno giudicati dalla magistratura ordinaria).
Per effetto delle nuove disposizioni introdotte dalla Legge 244/2007, gli Uffici giudiziari militari si distinguono (a decorrere dal luglio 2008) in Organi giudicanti (Corte militare d'Appello, 3 Tribunali militari e Tribunale militare di sorveglianza) e in Organi requirenti (Procura generale militare presso la Suprema Corte di Cassazione; Procura generale presso la Corte militare d'Appello e 3 Procure militari presso i Tribunali militari). In particolare, si è provveduto alla soppressione di numerosi uffici di primo e secondo grado nonché alla riduzione sia dell’organico della Magistratura militare (con conseguente transito dei magistrati militari in esubero nei ruoli della magistratura ordinaria) che del numero dei componenti del C.M.M. (Consiglio della Magistratura militare).
► Il Tribunale militare e la Procura militare di Roma mantengono la competenza sui reati militari commessi all'estero.
Il Consiglio della Magistratura Militare (C.M.M.), è l'organo di autogoverno della Magistratura militare. Istituito con la Legge n. 561 del 1988 (recante Istituzione del Consiglio della Magistratura Militare, e dal relativo regolamento di attuazione, il D.P.R. 24 marzo 1989 n. 158, recante Norme di attuazione della legge 30 dicembre 1988, n. 561, istitutiva del Consiglio di Magistratura Militare, al fine di uniformare i magistrati militari ai magistrati ordinari, attribuendo al CMM le stesse attribuzioni previste per il Consiglio Superiore della Magistratura), ha per i magistrati militari, le stesse attribuzioni previste per il Consiglio Superiore della Magistratura.
Il C.M.M. è, infatti, competente a deliberare su ogni provvedimento di stato riguardante i magistrati militari e su ogni altra materia ad esso devoluta dalla legge.In particolare, delibera sulle assunzioni della Magistratura Militare, sull'assegnazione di sedi e di funzioni, sui trasferimenti, sulle promozioni, sulle sanzioni disciplinari, sul conferimento ai magistrati militari di incarichi extragiudiziari; esprime pareri e può far proposte al Ministro della Difesa sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie militari e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione o il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia militare; dà pareri su disegni di legge concernenti i problemi del settore giudiziario.
Sulle materie di competenza del Consiglio, il Ministro della Difesa può avanzare proposte, proporre osservazioni e può intervenire alle adunanze del Consiglio, quando ne è richiesto dal Presidente o quando lo ritenga opportuno, per fare comunicazioni o per dare chiarimenti. Il Ministro, tuttavia, non può essere presente alle deliberazioni.
Fanno parte del Consiglio:
Il Consiglio della Magistratura Militare, dura in carica 4 anni.
[1] [54] [54] Per effetto della legge 3 agosto 2009, n. 102 ("Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonchè proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali"), a decorrere dal 14 novembre 2009, con le prime elezioni per il rinnovo del Consiglio della Magistratura Militare, saranno ridotti a 2 (due) i componenti eletti dai magistrati militari.
L'Ordinamento giudiziario militare assolve la sua funzione giurisdizionale con l'impiego di magistrati militari professionali, che nonostante il nome sono civili, nonché con l'integrazione nei collegi giudicanti anche di estranei alla giustizia ma appartenenti alle Forze Armate o alla Guardia di Finanza, similmente alla formazione delle Corti d'Assise nell'ambito della giustizia ordinaria.
L'organizzazione della giustizia militare è così configurata, a seguito della legge 24 dicembre 2007 n. 244, art. 2, comma 603 e ss.:
Questa la competenza:
Sono soppressi in tempo di pace numerosi Organi giudiziari militari, quali Tribunali militari di bordo, Tribunali militari presso forze armate concentrate, o presso Corpi di spedizione all'estero; il Tribunale supremo militare.
Le funzioni del "Tribunale supremo militare" sono esercitate dalla “Suprema Corte di Cassazione”.
Il Tribunale militare, organo giudiziario di 1° grado, è competente a giudicare in materia di reati previsti dai Codici penali militari di guerra e di pace. I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze Armate. Ai sensi della legge 180/81, il “Collegio giudicante” dei Tribunali Militari è presieduto dal Presidente del Tribunale militare, che lo presiede o, in caso di impedimento, da un magistrato militare di appello (per effetto della Legge 111/2007, magistrato militare che abbia superato con esito favorevole la seconda valutazione quadriennale di professionalità), con funzioni di presidente; da un magistrato militare di tribunale o di appello, con funzioni di giudice; da un militare di una delle FF.AA. o della Guardia di Finanza, di grado pari a quello dell'imputato e comunque non inferiore al grado di ufficiale, estratto a sorte, con funzioni di giudice.
Presso ogni Tribunale militare, è istituito un ufficio del Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) e uno del Giudice per l'udienza preliminare (G.U.P.), la cui organizzazione non presenta particolarità rispetto ai corrispondenti uffici esistenti presso i tribunali ordinari.
Organo giudiziario di 2° grado è la Corte militare d'Appello, istituita con l'art. 3 della legge 7.5.1981, n.180, che giudica sull'appello proposto avverso i provvedimenti emessi dai tribunali militari. Alla Corte militare d'Appello sono devolute, altresì, le competenze che l'art. 45 dell'ordinamento giudiziario militare (R.D. 9 settembre 1941, n. 1022) attribuiva al Tribunale supremo militare in composizione speciale (riabilitazione militare; reintegrazione nel grado, ecc.). Il “Collegio giudicante” della Corte militare d'Appello è formato dal presidente della Corte stessa o, in caso di impedimento, da un magistrato militare di Cassazione (per effetto della legge 111/2007, magistrato militare che abbia superato con esito favorevole la quarta valutazione quadriennale di professionalità) o di Appello, con funzioni di presidente; da due magistrati militari di appello, con funzioni di giudice; da due militari di una delle FF.AA. o della Guardia di Finanza, di grado pari a quello dell'imputato e, comunque, non inferiore a tenente colonnello, estratti a sorte, con funzioni di giudice.
Il Tribunale Militare di Sorveglianza - istituito dal D.L. 27.10.1986, n.700, convertito con legge 23.12.1986, n.897, a seguito del riordinamento degli organi di sorveglianza della giurisdizione ordinaria – è competente a vigilare sull'esecuzione delle pene. Il suddetto Tribunale si compone di tutti i “magistrati militari di sorveglianza” e di “esperti” nominati dal C.M.M., nell'ambito delle categorie indicate dall'art. 80, IV comma, della legge 26.7.1975, n.354 (professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia e psichiatria), nonché fra i docenti di scienze criminalistiche).
Le funzioni requirenti sono tutte devolute a Magistrati militari affiancati ai rispettivi organi giudicanti:
L’art. 5 della Legge n. 180/81 ha istituito presso la Corte di Cassazione un ufficio del Pubblico Minstero militare, composto da magistrati militari e autonomo, sia dal punto di vista funzionale che orgnizzativo, dalla Procura Generale presso la Corte.
L'attività di polizia giudiziaria militare, proprio perché collegata all'accertamento ed alla repressione di un reato militare già commesso, si colloca all'interno del «procedimento penale». Di solito, anzi, ne costituisce il primo momento poiché il procedimento sorge quando la Polizia Giudiziaria (o anche, ma in concreto assai più raramente, il Pubblico Ministero) acquisisce la notizia di un reato compiuto o in atto. Tale informazione sul reato può giungere alla Polizia Giudiziaria da una fonte esterna (la denuncia o la querela della vittima del reato o di un qualsiasi privato; un referto medico; la segnalazione di un Pubblico Ufficiale), ma può anche dipendere da una iniziativa autonoma della stessa Polizia Giudiziaria: poiché a questa spetta isituzionalmente il compito di ricercare anche di propria iniziativa tali informazioni.
Una volta acquisita la notizia di reato commesso, la Polizia Giudiziaria è tenuta a svolgere indagini ed a riferirne (al più tardi entro 48 ore) al Pubblico Ministero Militare cui spetta, da quel momento, la direzione delle indagini stesse. Le indagini svolte dalla Polizia Giudiziaria e dal Pubblico Ministero si denominano «indagini preliminari» perché servono a stabilire se la notizia di reato è fondata o meno e, in caso positivo, a consentire al Pubblico Ministero di esercitare l'azione penale a carico di colui al quale il reato è attribuito (imputato).
Il Pubblico Ministero esercita l'azione penale quando ritiene di aver acquisito durante le indagini elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Se ritiene invece che tali elementi non siano idonei a sostenere l'accusa e che, pertanto, non essendo essa dimostrabile il processo avrebbe, come esito scontato, l'assoluzione dell'imputato, il Pubblico Ministero non esercita l'azione penale, ma chiede al Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) l'archiviazione del procedimento penale (artt. 55, 326, 405, 408 c.p.p.).
Nel corso della fase iniziale del procedimento penale, la Polizia Giudiziaria svolge dunque un ruolo fondamentale in stretto e continuativo contatto con il Pubblico Ministero. Ed è fuori dubbio che dalle modalità di conduzione delle indagini preliminari dipende, nella gran parte dei casi, l'esito dell'intero procedimento.
Alla Polizia Giudiziaria ed al P.M. spetta, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, compiere ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti all’azione penale. Le indagini sono svolte unitariamente dalla P.G. e dal P.M.: questi dispone direttamente della prima e ne ha la direzione.
Per la realizzazione dei propri compiti istituzionali, la Polizia Giudiziaria è stata strutturata in «Sezioni» e «Servizi»: fermo restando che, ad un primo e più ampio livello, i magistrati possono servirsi di qualsiasi organo di polizia giudiziaria. Si sottolinea che nel contempo tutti gli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria appartenenti a tutte le forze di polizia e ad altri organi sono obbligati per legge di svolgere indagini a seguito di una notizia di reato.
I compiti istitutivi della Polizia Giudiziaria sono riportati, come si è detto in precedenza, nell’art. 55 del Codice di procedura penale: “prendere notizia dei reati, impedire che gli stessi vengano portati a conseguenze ulteriori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quanto altro possa servire per l’applicazione della legge penale”.
Il c.p.p. Vassalli parla di “fonti” di prova, in quanto la “prova” si forma nel dibattimento. Cioè, solo il Giudice del dibattimento deve accertare i fatti come “prove”.
La Polizia Giudiziaria si distingue in due aree:
Per ciò che concerne l’ordinamento militare, le persone che svolgono i compiti di Polizia Giudiziaria militare sono indicate, in ordine di priorità, dall’art. 301 c.p.m.p.:
L’art. 301 c.p.m.p. è compatibile con il nuovo Codice di procedura penale, perché si limita, come sopra descritto, ad indicare le persone che esercitano le funzioni di Polizia Giudiziaria militare, precisandone l’ordine di precedenza.
Il Comandante di Corpo, che occupa la prima posizione quale Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare (UPGM), è l’ufficiale preposto, come abbiamo avuto modo di dire in precedenza, al comando o alla direzione di una unità organica dotata di autonomia nel campo dell’impiego, in quello logistico e in quello tecnico ed amministrativo.
La qualifica di UPGM del Comandante di Corpo è ribadita anche dall’art. 22, punto del RDM, secondo cui il Comandante di Corpo “esplica, inoltre, le funzioni di Polizia Giudiziaria militare secondo le leggi e i regolamenti vigenti nei riguardi dei propri dipendenti”.
Condizione legittimatrice essenziale per le funzioni di Polizia Giudiziaria Militare (P.G.M.) è il riferimento dei relativi atti a reati militari soggetti alla giurisdizione militare. Dal momento che - come abbiamo detto in precedenza - la giurisdizione militare si esercita solo sui militari, i Comandanti militari e gli altri Ufficiali di P.G.M. possono svolgere le loro funzioni in materia penale solo in presenza di reati militari commessi da militari.
Ad adiuvandum:
[…]
Art. 361 c.p. (Omessa Denuncia di reato da parte del Pubblico Ufficiale)
Il Pubblico Ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all’Autorità Giudiziaria, o ad un’altra Autorità che a quella abbia l’obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nelle’esrcizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da € 30 a 516 €.
[…]
Unica eccezione alla predetta regola generale, è costituita da quanto previsto nella Legge 26 giugno 1990, n. 162 (Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicopendenza, citata in nota all’art. 446 c.p.) concernente il fenomeno della droga ed i reati ad essa connessi. L’art. 89-bis, comma 8, di tale legge stabilisce infatti che «le funzioni di polizia giudiziaria ai fini della prevenzione e repressione dei reati previsti dalla presen te legge, commessi da militari in luoghi militari, spettano ai soli Comandanti di Corpo con grado non inferiore ad Ufficiale superiore».
I Comandanti militari svolgono, quindi attualmente, per effetto non dell’art. 301 c.p.m.p., ma dell’art. 89-bis citato, funzioni di polizia giudiziaria per reati comuni, quali sono quelli in materia di stupefacenti: la competenza dei Comandanti di Corpo ai sensi dell’art. 89- bis non potrebbe tuttavia intendersi come esclusiva, ma, nonostante l’equivoca disposizione della norma, come concorrente con quella delle altre persone cui agli artt. 55 e ss. c.p.p. attribuiscono le funzioni di polizia giudiziaria. Ciò che importa maggiormente, in tali circostanze, è la responsabilità del Comandante, l’immediatezza, la funzionalità e la globalità dei suoi interventi. Questo spiega la deroga che il Legislatore ha voluto fare rispetto alla regola generale, attribuendo al Comandante funzioni di Polizia Giudiziaria per i reati di droga. In materia di tossicodipendenza, il Comandante di Corpo, oltre ai rapporti con la Magistratura competente, è tenuto anche ad interessare le autorità sanitarie ed il Prefetto.
Tornando ai compiti generali del Comandante di Corpo quale UPGM, si rileva che, nell’ambito del suo Ente, egli è la prima Autorità in materia di Polizia Giudiziaria. Esercita quindi la titolarità nei rapporti con la Magistratura: ne consegue che le singole attività delegate ai Carabinieri devono poi essere fatte proprie dal Comandante, che deve comunque redigere “Verbale”, per ogni attività di Polizia Giudiziaria svolta. Questa è un’ulteriore garanzia, voluta dal nuovo Codice di procedura penale, che stabilisce anche le modalità relative alla compilazione di detti verbali.
La Legge n. 356/92 ha introdotto sostanziali modifiche legislative al Codice di procedura penale, comprese la facoltà e gli obblighi della Polizia Giudiziaria ordinaria e di quella militare. La principale innovazione, rispetto al codice Vassalli del 1988, consiste nel fatto che la comunicazione della notizia di reato (art. 347 c.p.p.) non va più fatta entro 48 ore, ma con immediatezza.
La notizia di reato va fatta anche in forma orale, eventualmente con fax, quando c’è urgenza. Successivamente seguirà la comunicazione scritta.
Il Comandante di corpo, “distaccamento”[ [22]1] [22] o “posto”[ [22]2] [22] di qualsiasi grado, esercita, come si è gia avuto modo di dire, le «funzioni» di polizia giudiziaria per i reati soggetti alla giurisdizione militare. In presenza del Comandante di Corpo, di distaccamento o di posto, gli altri Ufficiali di polizia giudiziaria eventualmente presenti (così come quelli meno elevati in grado, essendo presenti più Ufficiali di polizia giudiziaria tra quelli elencati nel c.p.p.) sono, con riferimento ai reati militari di cui vengano a conoscenza, esonerati dallo svolgimento delle funzioni di polizia giudiziaria militare e dai relativi obblighi (invio della comunicazione della notizia di reato, assicurazione delle prove, eventuale arresto in flagranza del colpevole, ecc.) nonché dalla connessa responsabilità penale per le eventuali omissioni.
Pertanto, avuta notizia della commissione di un reato militare (nell'ambito del generale compito di informarsi o perché è stata presentata denuncia da parte di un militare o a seguito di relazione di servizio compilata da un dipendente), è fatto obbligo al Comandante di corpo (o di distaccamento o di posto) riferire per iscritto senza ritardo al P.M, gli elementi essenziali raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute e trasmettendo la relativa comunicazione. Tale adempimento (che sostituisce il rapporto giudiziario previsto dal vecchio c.p.p.) comprende anche, quando è possibile, le generalità e quanto altro valga all'identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.Se vi è urgenza, la comunicazione della notizia del reato è data immediatamente anche in forma orale. In ogni caso deve essere indicato il giorno e l'ora in cui è stata acquisita la notizia del reato.
La violazione degli obblighi d'informativa costituisce il reato di “omessa denuncia aggravata” (art. 361, comma 2, e 363 c.p.). L'obbligo della comunicazione ha il fine di consentire al P.M. di assumere tempestivamente la direzione delle indagini nonché di far decorrere il termine delle indagini preliminari. Esso sorge anche nel caso in cui sia conosciuta la notizia, ma non ancora l'autore del reato. Non si ha, invece, quando si è in presenza di un generico sospetto di reato e nelle ipotesi in cui sono necessari accertamenti volti a definire la rilevanza penalistica di informazioni apprese.
Alcune considerazioni:
Per un ottimale svolgimento delle funzioni di polizia giudiziaria militare (senza incorrere in omissioni disciplinarmente o penalmente rilevanti) è pertanto indispensabile, da parte dell'Ufficiale di polizia giudiziaria, un continuo aggiornamento giurisprudenziale soprattutto al fine di conoscere quando scatta l'obbligo di invio al Procuratore Militare della “comunicazione della notizia di reato”.
Così, a titolo di esempio e riprendendo alcuni dei quesiti che con maggiore frequenza mi vengono posti in aula dai frequentatori del “Corso Servizio d’Ordine”, devo ricordare che, anche per i reati perseguibili a richiesta del Comandante di Corpo ai sensi dell'articolo 260 del c.p.m.p. (tale norma concede al predetto Comandante la facoltà di richiedere o meno, entro trenta giorni da quando ne ha avuto notizia, il procedimento penale nei confronti del militare che appare responsabile), deve comunque essere inoltrata al Pubblico Ministero militare la comunicazione (=o informativa) di notizia di reato, essendo quest'obbligo escluso solo per i reati perseguibili a querela della persona offesa, condizione di procedibilità, quest'ultima, non prevista nel c.p.m.p.
In materia di “disobbedienza”, poiché la norma descrive un reato istantaneo, che si perfeziona nel momento stesso del "rifiuto" opposto dal militare a un ordine impartitogli, ne consegue che il reato sussiste anche se successivamente al rifiuto il militare cambi idea ed esegua l'ordine; parimenti in materia di rifiuto opposto alla firma delle note caratteristiche, giurisprudenza consolidata afferma la sussistenza del reato, essendo tale sottoscrizione prevista da norme regolamentari e non costituendo acquiescenza al contenuto delle note, contro le quali è comunque possibile proporre ricorso.
Per quanto riguarda i fatti di ”insubordinazione” e di “abuso di autorità”, è stato affermato che il dolo consiste nella cosciente volontà di pronunciare parole o compiere gesti di univoco significato offensivo, essendo irrilevanti moventi e finalità particolari stante lo speciale rigore cui sono improntati i rapporti della disciplina militare: costituisce pertanto offesa all'onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore e anche il tono arrogante (che nel diritto penale comune non viene preso in considerazione) perché contrari alle esigenze della disciplina militare, in base alla quale il superiore deve essere tutelato non solo nell'espressione della sua personalità umana, bensì anche nell'ascendente morale di cui ha bisogno per poter esercitare degnamente l'autorità del grado e le funzioni di comando.
Costitutiva del reato di insubordinazione con ingiuria è stata ritenuta la frase "lei non è un comandante ma un comandante Padreterno... lei è un illuso... lei è un maleducato ". È stata ritenuta integrare gli estremi dell'abuso di autorità con ingiuria la frase "avete proprio rotto le scatole", la quale costituisce espressione volgare con significato spregiativo, di attribuzione all'interlocutore di un comportamento petulante e provocatorio tale da offendere il prestigio dell' inferiore.
Rilevante ai fini della sussistenza in capo al Comandante di Corpo della facoltà di richiedere procedimento penale ai sensi dell'art. 260 del c.p.m.p. è l'accertamento se la condotta posta in essere integri la fattispecie della “violata consegna” oppure il reato di “omessa presentazione in servizio”: dovrà essere ritenuta realizzata l'una o l'altra ipotesi a seconda che i fatti avvengano nel corso di un servizio già intrapreso.
[ [22]1] [22] Unità minore separata permanentemente o temporaneamente dalla sede del Comando di corpo a cui appartiene)
[ [22]2] [22] Posto di guardia, di blocco, ecc.),
Fino a quando il Pubblico Ministero non ha impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini, le persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria militare raccolgono ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole.
Esse, in particolare, procedono:
Dopo l'intervento del P.M. la Polizia Giudiziaria eseguirà gli atti ad essa “specificatamente delegati”, fra i quali non possono essere compresi l'interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e i confronti con la medesima (riservati esclusivamente al Magistrato).
Nell'ambito degli atti d'iniziativa sopra richiamati assumono rilievo:
In Particolare:
L'Annotazione costituisce documentazione del tutto informale, destinata a servire da ausilio esclusivamente investigativo. Il Verbale contiene la menzione del luogo, dell'anno, del mese e del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, l'indicazione della descrizione di quanto fatto o costatato e di quanto è avvenuto alla presenza del verbalizzante, nonché le dichiarazioni ricevute.
Per ogni dichiarazione e indicalo se essa e stata resa spontaneamente o previa domanda. Se la dichiarazione e stata dettata dal dichiarante o, se questi si è avvalso dell'autorizzazione a consultare noie scritte, ne o falla menzione. II verbale deve essere sottoscritto alla fine di ogni foglio da chi lo ha redatto e dagli intervenuti: se questi ultimi non possono o non vogliono sottoscrivere ne è fatta menzione.
Delle operazioni compiute deve essere redatto "Verbale" che deve essere trasmesso al P.M. entro le 48 ore successive per la convalida. Data la vasta giurisdizione militare è consigliabile dare comunque immediata notizia per le vie brevi, ad operazioni effettuate, al P.M..
L' art. 357 c.p. come novellato dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 e n. 181 del 1992, definisce il «Pubblico Ufficiale» colui che "esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa" (Cass. 4.6.1992, n. 6685). E' pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della Pubblica Amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Sono norme di diritto pubblico quelle che sono volte al perseguimento di uno scopo pubblico ed alla tutela di un interesse pubblico.
Il “potere autoritativo” è quel potere che permette alla P.A. di realizzare i suoi fini mediante veri e propri comandi, rispetto ai quali il privato si trova in una posizione di soggezione. Si tratta dell'attività in cui si esprime il c.d. potere d'imperio, che comprende sia i poteri di coercizione (arresto, perquisizione, ecc.) e di contestazione di violazioni di legge (accertamento di illeciti amministrativi, ecc.), sia i poteri di supremazia gerarchica all'interno di pubblici uffici.
Il “potere certificativo” è quello che attribuisce al certificatore il potere di attestare un fatto facente prova fino a querela di falso.
Secondo recente giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 11.7.1992, n. 7958), nel concetto di «poteri autoritativi» rientrano non solo quelli coercitivi, ma anche tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di un potere discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su un piano non paritetico rispetto all’Autorità. Rientrano nel concetto di «poteri certificativi» tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria (=Verbali), quale che ne sia il grado. Dalla definizione legislativa si deduce che l’elemento che caratterizza il Pubblico Ufficiale è l’esercizio di una “funzione pubblica”, intesa come ogni attività che realizza i fini propri dello Stato. Tuttavia, poiché ancor oggi la dottrina pubblicistica non ha fornito una nozione univoca e sicura di pubblica funzione, vi è in concreto, in dottrina e giurisprudenza, molta incertezza circa l’esatta definizione in astratto del Pubblico Ufficiale, per cui vi sono, al riguardo, molteplici teorie.
Nella indicata categoria rientrano, pertanto, il "Comandante di Corpo”.
Ad adiuvandum:
Giurisprudenza:
Gli Ufficiali di Polizia Giudiziaria Militare (UPGM) sono legittimati a compiere, sia pure per accertare solo determinate categorie di reati, tutti gli atti di polizia giudiziaria. Va peraltro rilevato che mentre gli Ufficiali di polizia giudiziaria possono svolgere qualsiasi atto, gli Agenti possono compierne alcuni e non altri [1] [55].
In particolare gli UPGM. possono procedere:
[1] [56] A quest’ultimo proposito, le disposizioni dettate dal Codice di rito e dalle norme di attuazione stabiliscono che, gli atti di polizia giudiziaria possono essere compiuti, indistintamente, dagli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria e che alla regola si fa eccezione solo per quegli atti il cui compimento è espressamente “riservato” agli ufficiali di polizia giudiziaria in via assoluta o relativa. La riserva è assoluta quando l’atto, per la sua complesità e delicatezza, può essere compiuto dagli Ufficiali di polizia giudiziaria e cioè dai soggetti che, per le qualifica rivestita, sono titolari di più collaudate capacità tecnico-professionali. La riserva è relativa quando l’atto può essere compiuto anche dagli Agenti di polizia giudiziaria nei casi di particolare necessità e urgenza, cioè a dire, nei casi che esigono l’immediato svolgimento di attività operativa (art. 113 att.). Nelle ipotesi di riserva relativa, la necessità e urgenza che legittimano l’intervento degli Agenti di polizia giudiziaria non devono essere espressamente motivate, ma possono essere desunte anche da elementi collegati alla concreta situazione di indagine. L’agente che compie un atto in assenza di una situazione di necessità e urgenza può rispondere disciplinarmente. Nell’ipotesi di riserva assoluta, l’atto compiuto da Agenti di polizia giudiziaria è invece considerato illegittimo (Cass. 4408/98).
Gli appartenenti alla Polizia Giudiziaria militare non formano un corpo o ordine a sé stante, poiché l’attribuzione di dette funzioni non comporta alcuna modificazione in merito alla loro appartenenza alle Forze Armate e in ordine alla normale catena di dipendenze gerarchiche.
Il rapporto tra Ufficiale di Polizia Giudiziaria militare e Procuratore militare della Repubblica è un rapporto funzionale, che determina una dipendenza funzionale. Nel caso in cui un Comandante di Corpo esegua solo in parte o negligentemente le sue funzioni o ritardi l’esecuzione di un ordine dell’Autorità Giudiziaria Militare, il Procuratore Militare ne riferirà al Procuratore Generale militare presso la Corte di Appello del distretto ove opera il Comandante, che promuoverà l’inflizione di un provvedimento disciplinare a carico di detto Comandante di Corpo, interessando i competenti superiori gerarchici (art. 16 e ss. att. c.p.p.).
Abbiamo avuto modo di vedere alcune delle problematiche attinenti allo svolgimento delle attività di polizia giudiziaria militare sul territorio dello Stato, mentre per quanto riguarda l'espletamento di tali attività all'estero le soluzioni si presentano più complesse.
Ricordiamo che il Codice di rito ricollega inscindibilmente l'espletamento delle funzioni di polizia giudiziaria all'applicazione della legge penale mentre il c.p.m.p. disciplina l'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria militare con riferimento ai reati soggetti alla giurisdizione militare. Mentre la legge penale comune e quella militare si applicano a tutti i fatti-reato commessi nel territorio dello Stato e, in specifici casi e con numerose limitazioni, anche a fatti commessi all'estero, l'attività di polizia giudiziaria - manifestazione di un principio di sovranità statale che si estrinseca con atti di coercizione personale e reale, garantiti nel loro svolgimento dalla tutela penale - non può, in tempi normali, esplicarsi oltre i confini dello Stato se non “eccezionalmente”, a seguito di specifici accordi internazionali, come nel caso previsto nell'articolo 41, paragrafo 1 (inserito nel Capitolo relativo alla cooperazione tra forze di polizia), della Convenzione ratificata con la Legge 30 settembre 1993, n. 388, di esecuzione del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all'Accordo Schengen del 14 giugno 1985[1] [57] (cui hanno aderito 9 dei 12 Stati membri della Comunità Europea, quale importante misura tra quelle volte a garantire adeguati livelli di sicurezza), nel quale è disposto che le forze e gli organi di polizia di una delle Parti contraenti che nel proprio paese inseguono una persona colta in flagranza di commissione di uno dei reati di cui al paragrafo 4 (es. terrorismo internazionale, criminalità organizzata internazionale, traffico illegale di stupefacenti in associazione a delinquere, favoreggiamento di immigrazione clendestina, ecc.) o di partecipazione alla commissione di uno di tali reati, sono autorizzati a continuare l'inseguimento (c.d. inseguimento transfrontaliero) senza autorizzazione preventiva nel territorio di un'altra Parte contraente quando le Autorità competenti dell'altra Parte contraente non hanno potuto essere previamente avvertite dell'ingresso in detto territorio, data la particolare urgenza, mediante uno dei mezzi di comunicazione previsti o quando tali Autorità non hanno potuto recarsi sul posto in tempo per sostituirsi nell'inseguimento; tuttavia al più tardi nel momento di attraversare la frontiera gli agenti impegnati nell'inseguimento dovranno avvertire le Autorità competenti della Parte contraente nel cui territorio l'inseguimento avviene e questo deve cessare non appena la Parte contraente nel cui territorio esso si sta verificando lo richiede.
Che l'attività di indagine in territorio estero - anche finalizzata all'accertamento di fatti di reato realizzati in Italia - non possa, in tempi normali, essere svolta dalle nostre forze di polizia appare evidente anche al profano che abbia seguito le recenti e meno recenti questioni in materia di rogatorie[2] [58] internazionali e di collaborazione giudiziaria.
Tale soluzione, tuttavia, comporta un notevole rallentamento delle indagini e, quando l'apparato giudiziario e di polizia del paese rogato non funzionano o si trovano nel pieno di una guerra, può divenire praticamente inutile.
Pertanto, il C.S.M. ha avviato un'indagine per verificare se siano effettivi e adeguati gli strumenti di cooperazione giudiziaria tra Stati per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo internazionale, rogatorie comprese, anche allo scopo di suggerire possibili interventi al Parlamento.
Dalle prime audizioni sono emersi che i tempi medi per avere risposta a una rogatoria internazionale sono pari a 4-5 anni, con punte massime di dieci anni; ma i problemi non vengono solo dalle rogatorie, in quanto è stato rilevato che le difficoltà nelle indagini oltre frontiera sono legate soprattutto alle diversità delle legislazione tra Stati. Occorre quindi risolvere il quesito se in siffatti ambienti operativi eccezionali nei quali si esercita anche sul territorio estero la sovranità italiana attraverso il mezzo più incisivo, l'uso delle armi, la vigente normativa è idonea a fornire una tutela penale sia con riferimento a fatti criminosi commessi dai militari italiani a danno di militari di altre nazioni operanti oppure di civili locali, sia per i reati commessi a danno di militari italiani; e ciò sia per quanto riguarda l'ordinamento penale e processuale penale, sia per quanto riguarda la reale possibilità di procedere, per mezzo della Polizia Giudiziaria, all'accertamento dei fatti e all'individuazione dei colpevoli.
Per il Comandante di Corpo, di distaccamento o di posto e per gli altri Ufficiali di polizia giudiziaria militare inseriti in un Contingente che opera nel Paese straniero si pone il problema di qualificare penalmente un fatto - in primo luogo distinguendo se comune o militare - del quale sono venuti conoscenza per decidere eventuali provvedimenti coercitivi da adottare, se svolgere o meno indagini, se inviare oppure no la comunicazione della notizia di reato al competente Procuratore Militare: si tratta, pertanto, di definire quali sono le norme penali, comuni o militari, sostanziali e processuali, applicabili alla fattispecie concreta posta in essere.
In buona sostanza, se in territorio estero un Ufficiale di polizia giudiziaria militare si trova presente nel momento in cui un militare del contingente italiano sta commettendo un furto, una rapina, ecc., ha l'obbligo di intervenire per impedire l'evento ?
Deve arrestare in flagranza il responsabile e deve inviare la comunicazione della notizia di reato al PM (ordinario o militare) ?
E se l'autore di quegli stessi fatti è un estraneo alle Forze Armate italiane che sta agendo contro un cittadino o un militare italiano ?
In mancanza di applicazione della legge penale militare di guerra l'Ufficiale di polizia giudiziaria militare potrà solo, trattandosi di reati comuni:
[1] [59] [59] L’Accordo di Schengen prevede altre misure di carattere generale, come la cooperazione tra le forze di polizia, l’assistenza giudiziaria, l’estradizione, la lotta contro la droga. Schengen quindi costituisce il primo tentativo europeo di dare una risposta comune a questioni che superano ormai il quadro nazionale ma, soprattutto, costituisce il primo passo verso la creazione di una spazio europeo di libertà e di sicurezza. Lo scopo principale dell’Accordo di Schengen è quello di realizzare uno spazio di libertà eliminando progressivamente i controlli alle frontiere interne, adottando le necessarie misure compensative e sviluppando la cooperazione doganale e di polizia. L’accordo di Schengen, firmato nel 1985 da Francia, Germania e Benelux, ed al quale hanno successivamente aderito Italia (1990), Spagna e Portogallo (1991), Grecia (1992), Austria (1995), Danimarca, Svezia e Finlandia (1996), benché copra, attualmente, tutto il territorio dell’Unione Europea (eccezion fatta per Regno Unito e Irlanda), non è un accordo «comunitario» ma un accordo intergovernativo. Per accordo comunitario, si intende un accordo che viene realizzato ed eseguito all’interno del quadro istituzionale comunitario. L’accordo di Schengen, invece, è un accordo intergovernativo di tipo classico, negoziati dai governi e ratificato dai parlamenti di stati che, allo stesso tempo, fanno parte dell’Unione europea. Di recente poi, due stati non membri dell’Unione europea si sono associati all’accordo di Schengen (Norvegia e Islanda).L’Italia è in una condizione particolare: aderente a Schengen fin dal 1990, non è riuscita a partecipare alla prima fase attuativa (marzo 1995) causa la mancanza di una legge di tutela della riservatezza rispetto all’uso dei dati. Ora questa legge è stata approvata e si prevede che nell’ottobre prossimo anche il nostro Paese parteciperà all’attuazione degli accordi.
[2] [60] [60] Con questo termine si fa riferimento alla richiesta che una Autorità Giudiziaria rivolge ad una Autorità Giudiziaria di altra sede perché proceda in sua vece all’assunzione di mezzi di prova. Si tratta in sostanza di una delega. E’ possibile rivolgere rogatorie alle Autorità straniere e ai consoli italiani nonché riceverle dalle stesse in materia civile che in materia penale.
L’argomento di maggiore interesse, ai fini del presente lavoro, è quello delle potestà del “Comandante di Corpo” nel quadro delle attività di polizia giudiziaria militare. L’art. 57 c.p.p., dopo aver individuato, ai commi 1 e 2, una serie di soggetti che sono Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria, al comma 3 dispone che «sono altresì Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del “servizio” cui sono destinate e secondo le rispettive “attribuzioni”, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’art. 55 c.p.p.».
Tra le molteplici ipotesi in cui leggi e regolamenti attribuiscono a determinati soggetti le funzioni di polizia giudiziaria, l’art. 301 c.p.m.p. (in linea con quanto previsto dall'art. 57, n. 3, del c.p.p.) stabilisce che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria, per i reati soggetti alla “giurisdizione militare”, oltre agli Ufficiali di polizia giudiziaria indicati nel Codice di procedura penale, e con priorità su questi, i Comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle varie Forze Armate.
La nozione di "Corpo" si ricava dall'art. 726 del R.D.M.. "Distaccamento" è unità minore (rispetto al corpo), separata permanentemente o temporaneamente dalla sede del comando di corpo dal quale dipende. "Posto" è il luogo determinato, isolato e distanziato dalla sede del comando da cui dipende, dove un certo numero di militari è stato assegnato per l'espletamento di un compito di servizio (posto di guardia di un deposito di munizioni, posto di blocco, ecc.). Ne consegue che il comandante del posto (anche se sottufficiale, graduato o soldato) esercita, per legge, le “funzioni di polizia giudiziaria militare”.
E’ da segnalare, per completezza, il disposto dell'art. 36 comma. 4, del R.D.M.: ogni militare, richiestone anche verbalmente da appartenenti alla polizia giudiziaria, deve prestare loro il proprio concorso.
La nostra attenzione, peraltro, si estenderà anche ad istituti di particolare rilievo, connessi con tali attività, come la “richiesta di procedimento”, che si configura quale atto amministrativo con “valenza giudiziaria”, nell’ambito delle potestà disciplinari e correttive del Comandante di Corpo.
Ciò premesso, si evidenzia che non si può parlare delle potestà del Comandante di Corpo, se prima non viene inquadrato nella giusta ottica il concetto di “responsabilità”.
Il concetto giuridico di «responsabilità» è strettamente compenetrato nel concetto di diritto, ossia l'insieme delle norme obbligatorie che regola la civile convivenza e che, in relazione alle complesse esigenze della realtà sociale, tendono a moltiplicarsi. Il termine "responsabilità" spesso, nel linguaggio comune, é adoperato per indicare un canone organizzatorio che, propriamente, è la "competenza", cioè la porzione di attribuzione nell'esercizio di una pubblica potestà. In senso tecnico giuridico, invece, la responsabilità è la soggezione agli effetti reattivi dell'ordinamento giuridico connessa con l'inadempimento di un dovere di fare o di astenersi da una certa attività.
Pur avendo un comune fondamento etico, il concetto di responsabilità è, pertanto, suscettibile di plurime qualificazioni, secondo le varie branche del diritto cui la condotta antidoverosa inferisce: civile, penale, amministrativa (quest'ultima distinta in disciplinare e patrimoniale). I principi e i criteri dei vari tipi di responsabilità non sono comuni né tanto meno intercambiabili, anche se spesso una sola azione o omissione da’ luogo a responsabilità a diverso titolo.
Delineato tale quadro d'insieme, ci soffermeremo, in particolare, sulla responsabilità penale e sugli adempimenti previsti per i superiori gerarchici. In ambiente militare accadono fatti costituenti reati comuni o reati militari.
Il sistema normativo attuale presenta contraddizioni ed illogicità (per vicende legislative che non è possibile sintetizzare in questa sede) sì che occorre procedere con metodo formale. Per semplicità espositiva, alla distinzione si perviene enucleando i reati militari, che si concretano in qualunque violazione della legge penale militare.
Può, in concreto, accadere (concorso apparente di norme coesistenti) che uno stesso fatto sia previsto dalla legge penale comune e dal c.p.m.p.: in tal caso, per il principio di specialità (art. 15 c.p.) si applica la norma speciale, cioè quella compresa nel c.p.m.p., ricorrendone i presupposti. La distinzione non è meramente teorica, ma comporta adempimenti differenziati da parte dei superiori militari. Il principio della perseguibilità d'ufficio in materia penale, con le eccezioni relative alla querela e alla richiesta di procedimento, comporta l'obbligo, per il Pubblico Ufficiale e per l'incaricato di un pubblico servizio, di denunciare, senza ritardo, al Pubblico Ministero (P.M.) o ad un Ufficiale di polizia giudiziaria, la notizia di un reato perseguibile d'ufficio, appresa nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio (art. 331 c.p.p.).
Il Comandante di corpo è l’ Ufficiale preposto al comando o alla direzione di Unità o Ente o servizio organicamente costituito e dotato di autonomia nel campo dell’impiego e in quello logistico, tecnico ed amministrativo (art. 726 del R.D.M. approvato com D.P.R. 15.3.2010, n. 90). Egli è direttamente responsabili della disciplina, dell'organizzazione, dell'impiego, dell'addestramento del personale nonchè della conservazione dei materiali e della gestione amministrativa e del compito di curare il benessere morale e materiale dei militari, di imprimere vivacità, puntualità ed ordine alla vita di caserma, di disciplinare i servizi interni ed esterni.
L’esercizio delle proprie funzioni disciplinari, intese nel senso più ampio, riguarda in modo particolare i seguenti ambiti di attività:
Alcuni reati militari espressamente indicati, sono perseguibili solo a richiesta del Ministro (art. 94 e dal 103 al 112 c.p.m.p.).
Secondo l'art. 55 del c.p.p., la Polizia Giudiziaria ha l'obbligo, anche di propria iniziativa, di prendere notizia dei reati, d’impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, di ricercarne gli autori, di compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale. Referente principale della polizia giudiziaria è l'ufficio del pubblico ministero. La legge distingue, per quanto attiene alla legittimazione, tra ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, con differenziati poteri.
La nozione di ufficiale di polizia giudiziaria, quindi, comprende, ma è più ampia di quella di pubblico ufficiale.
Per i reati militari soggetti alla giurisdizione militare, l'art. 301 c.p.m.p. (in linea con quanto previsto dall'ari 57, e, 3, del nuovo c.p.p.) estende ai comandanti di corpo, di distaccamento o di posto l'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, stabilendo un ordine di precedenze.
Il procedimento penale è essenzialmente la dialettica conflittuale tra il diritto di libertà dell’inquisito e la pretesa punitiva dello Stato. Il modello accusatorio astratto contempla la presunzione di non colpevolezza dell’inquisito (art. 27. Comma 2 Cost.), sicché prima della sentenza irrevocabile di condanna dovrebbero essere inammissibili meccanismi limitativi o privativi della libertà personale dell’inquisito, innocente in forza di legge.
II modelli accusatori positivi, tuttavia, in varia misura, consentono la limitazione anticipata dello stato di libertà, con misure cautelari, per:
Il Codice di rito prevede:
Le misure cautelari possono essere raggruppate in misure “coercitive”, che sono, in vario modo, privative o limitative della libertà di locomozione, ed in misure “interdittive”, che si limitano ad intaccare talune facoltà giuridiche o diritti, ma non incidono sulla libertà dell’individuo. Come quelle personali, anche le misure cautelari reali (sequestro preventivo e sequestro conservativo) hanno natura solo giurisdizionale.
In particolare, l’arresto in flagranza e il fermo di indiziato di delitto rappresentano i tipici provvedimenti provvisori (misure pre-cautelari) limitativi della libertà personale. cui possono procedere, in caso di necessità e urgenza, Autorità diverse dal Giudice (Pubblico Ministero e Polizia Giudiziaria). Entrambe le misure di polizia giudiziaria mirano a realizzare, in casi eccezionali e di urgenza (art. 13, comma 3 Cost.), una funzione anticipatrice delle corrispondenti misure cautelari custodiali riservate poi al Giudice, ed hanno, quindi, rispetto ad esse, un ruolo pre-cautelare, anche cronologicamente.
Le misure cautelari giurisdizionali hanno per presupposto una delle tre tipiche funzioni cautelari: pericolo di «inquinamento delle prove», «pericolo di fuga» o «pericolo per esigenze di difesa sociale» (art. 274).
Tuttavia è da ritenere che tali parametri siano tutti presuntivi della sussistenza di esigenze cautelari. Conferma se ne trae dalla previsione dell’obbligo del Pubblico Ministero di rimettere in libertà l’arrestato e il fermato quando non ravvisi esigenze cautelari (art. 121 disp. att.). D’altra parte, il fermo e l’arresto, aventi durata massima di 96 ore, possono essere tramutati in misure cautelari personali, solo se sussistono esigenze, appunto, cautelari (art.391 c.5).
La differenza saliente tra arresto e fermo, è il requisito della flagranza del reato: questa occorre per l’arresto, ma non per il fermo.
Una generale riconsiderazione s'impone in materia di misure restrittive e limitative della libertà personale. Secondo l'articolo 13 della Costituzione, la libertà personale è inviolabile e non è ammessa forma alcuna di detenzione, d’ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
Tuttavia, in casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente, possono essere adottati provvedimenti provvisori da Autorità diverse dal Giudice, che devono essere, però, comunicati entro 48 (quarantotto) ore all'Autorità Giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive 48 (quarantotto) ore, s’intendono revocati e privi di ogni effetto.
Tale norma-base ha ricevuto un'articolata disciplina attuativa dal Codice di procedura penale, con connotazioni più garantiste rispetto all'abrogato Codice del 1930 e delle successive modificazioni ad esso apportate. Ma anche rispetto alla disciplina comune, inefficace dal 24 ottobre 1989, il Codice penale militare di pace, presentava in materia marcati tratti differenziali rimessi all'esame della Corte costituzionale[1] [61] [61].
Secondo l'art. 308. 1 comma, c.p.m.p., le persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria militare "devono procedere o far procedere all'arresto di chiunque è colto in flagranza di un reato militare, punibile con pena detentiva o con pena più grave". Tale norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 503 del 26 ottobre, pubblicata il 15 novembre 1989, perché in stridente ed inconciliabile contrasto con i principi generali in materia di restrizioni della libertà personale, ricavabili dall'art. 13 della Costituzione giudiziaria militare in materia di detenzione, trova nel dettato costituzionale, come sole eccezioni consentite, i casi di necessità e di urgenza, oggetto di tassativa previsione legislativa.
A fronte di tale quadro di riferimento, l'art. 308 c.p.m.p. presentava una sfera derogatoria talmente ampia da collocarsi agli antipodi di ciò che s'intende per eccezionalità, tanto da tradursi, immotivatamente, in criterio assoluto e onnicomprensivo.
Con il venire meno della disposizione, alla determinazione dei casi di arresto in flagranza per reati militari soccorrono gli articoli 380 e 381 c.p.p.[2] [62], applicabili in virtù del rinvio generale sopra indicato (art. 261 c.p.m.p.), che disciplina le ipotesi in cui l'adozione dei suddetti provvedimenti provvisori, da parte della Polizia Giudiziaria è, rispettivamente, obbligatoria o facoltativa.
La nozione di "flagranza" è data dall'articolo 382 c.p.p.: è in stato di flagranza chi viene colto nell'atto di commettere un reato (flagranza in senso proprio) o chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima (casi di quasi flagranza). Nei reati permanenti (ad esempio, quelli d'assenza dal servizio), lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza.
[1] [63] [63] La Corte Costituzionale è intervenuta due volte nella materia in titolo: la prima volta, con sentenza n. 74/85, la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.m.p., che conferiva al Comandante di Corpo la potestà di adottare la c.d. “detenzione in via disciplinare” fuori dei casi di flagranza e in assenza di ordine o mandato di cattura, senza prevedere particolari limitazioni, per il Comandante stesso, in ordine alla durata del provvedimento di detenzione. La Corte, poi, è tornata sull’argomento con la sentenza n. 503/89, dichiarando l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 308, 1° comma, c.p.m.p., che imponeva all’Ufficiale di p.g.m. l’obbligo di procedere ad arresto nella flagranza di qualsiasi reato militare. E’ in stato di flagranza colui che viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero, subito dopo il reato, è inseguito dalla Polizia Giudiziaria o viene colto con cose o tracce da cui traspaia la commissione del reato (=quasi flagranza). Entrambe le sentenze poggiano sulla violazione dell’art. 13 della Costituzione. Esso afferma che l’adozione di provvedimenti cautelari di restrizione della libertà personale da parte della Polizia Giudiziaria deve aversi solo in casi di necessità ed urgenza tassativamente indicati dalla legge, fermo restando l’obbligo di comunicazione all’Autorità Giudiziaria entro 48 ore e la convalida degli stessi provvedimenti entro le successive 48 ore. Abrogato, quindi, lo specifico istituto penale militare dell’arresto in flagranza, sono le disposizioni degli artt. 380 e 381 del c.p.p. a determinare i casi di arresto obbligatorio o facoltativo, in flagranza per i reati militari commessi dai militari. Fuori dei casi di flagranza, si può applicare, ai militari autori di reati militari, il fermo di Polizia Giudiziaria, previsto dall’art. 384 c.p.p., che determina anche tutte le condizioni legittimanti il fermo stesso.
[2] [64] [64] Nel caso di arresto facoltativo deve esistere la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
a) gravità del fatto (luogo, causali, danno provocato, mezzi utilizzati, modalità dell’azione);
b) pericolosità del soggetto (precedenti penali, condotta successiva al reato, condotta di vita individuale).
Singolare nel nostro sistema processuale è l’obbligatorietà per la Polizia Giudiziaria di procedere, in determinate ipotesi, all’arresto, mentre il Giudice ha sempre discrezionalità nella emissione iniziale, nelle stesse ipotesi, della corrispondente misura cautelare custodiale, sicché l’indagato che riesca a sfuggire all’esecuzione dell’arresto obbligatorio di P.G. può anche non essere assoggettato dal Giudice alla analoga misura giurisdizionale. L’apparente contraddizione è spiegata dalla normale immediatezza di intervento della Polizia Giudiziaria rispetto al fatto-reato, che giustificherebbe in ogni caso la immediata e drastica reazione pre-cautelare e, quindi l’automatico arresto in flagranza.
► L' arresto obbligatorio configura un tipico potere-dovere per le persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria, comune e/o militare, e si fonda sulla necessità di provvedere alle esigenze di difesa sociale per i reati che sono compresi nella tipologia dell'articolo 380 c.p.p.. L'arresto è stabilito per reato non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 5 (cinque) anni o nel massimo a 20 (venti) anni, nonché per altri delitti tassativamente indicati nella disposizione citata. E' da aggiungere che quando ricorre una di tali ipotesi, ai sensi dell'art. 383 c.p.p. (facoltà d'arresto da parte dei privati), ogni persona è autorizzata a procedere all'arresto in flagranza, purché non si tratti di reati soggetti a condizioni di punibilità e/o procedibilità, come la querela o la richiesta di procedimento. La persona che ha eseguito l'arresto deve, senza ritardo, consegnare l'arrestato e le cose costituenti il corpo del reato alla polizia giudiziaria, la quale redige il verbale della consegna e ne rilascia copia.
Riassumendo:
|
► L' arresto facoltativo in flagranza di reati comuni ricorre nei casi previsti dall'articolo 381 c.p.p,: reato non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a 3 (tre) anni ovvero colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 (cinque) anni. Si prescinde da tali limiti di pena per i reati indicati nel secondo comma della disposizione (peculato mediante profitto dell'errore altrui, corruzione, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, lesione personale, furto ecc.), quando ricorre la necessità di interrompere l'attività criminosa. Ma in tutti i casi sopra indicati, con riferimento sia alle pene edittali sia alla tipologia considerata, occorre anche l'esistenza di precisi presupposti: la gravità dell’atto o la pericolosità del soggetto.
Riassumendo:
|
A fattor comune dell'arresto obbligatorio e di quello facoltativo si applica il secondo comma dell'articolo 308 c.p.m.p., non investito dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale sopra indicata: occorre compilare processo verbale dell'eseguito arresto e porre l'arrestato immediatamente a disposizione del Procuratore Militare della Repubblica, custodendolo, preferibilmente, in luogo militare.
E’ da segnalare, inoltre, che l'applicazione dell'articolo 383 c.p.p. (facoltà d’arresto da parte dei privati) si rivela utile soprattutto nei casi di gravi reati comuni commessi in ambito militare, rispetto ai quali i Comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle Forze armate non sono legittimati alle funzioni di polizia giudiziaria (tranne, ovviamente, che si tratti d'Ufficiali, Sottufficiali o Graduati dell'Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di Finanza, ecc.).
Altro provvedimento provvisorio, che può essere eseguito dalla Polizia Giudiziaria, è costituito dal "fermo di indiziato di delitto", previsto dall'articolo 384 c.p.p..Esso può ritenersi applicabile anche per i reati militari per il venir meno dell'articolo 309 c.p.m.p. (che vietava l'arresto fuori dai casi di flagranza e poneva il divieto del fermo), a seguito della declaratoria di illegittimità della disposizione, da parte della Corte costituzionale, con la sentenza n. 74 del 19 marzo 1985.
Secondo l'indicata disposizione comune, prima che il Pubblico Ministero abbia assunto la direzione delle indagini, gli Ufficiati e gli Agenti di polizia giudiziaria procedono al fermo della persona gravemente indiziata di un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 2 (due) anni e superiore nel massimo a 6 (sei) anni, ovvero di un delitto concernente le armi da guerra e gli esplosivi.
La Polizia Giudiziaria procede inoltre al fermo di propria iniziativa qualora sopravvengano specifici elementi che rendano fondato il pericolo che l'indiziato stia per darsi alla fuga e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del Pubblico Ministero.
Va precisato, in via preliminare, che il Comandante di Corpo, come U.P.G.M., potrà procedere direttamente al fermo in presenza di reato militare commesso da un militare prima che il Procuratore Militare abbia assunto la direzione delle indagini (nel qual caso è il Procuratore a disporre il fermo).
Debbono, comunque, ricorrere tutte le condizioni legittimanti il fermo, e cioè:
Non sono, quindi, sufficienti indizi vaghi o notizie superficiali riportate.
Il Comandante di Corpo, in caso di arresto o di fermo, è tenuto ad una serie di adempimenti:
Entro le 48 ore dall’arresto o dal fermo, il Procuratore Militare, qualora riconosca fondato il provvedimento, richiede la convalida al Giudice per le Indagini Preliminari (G.I.P.).
In presenza di reato comune, ad eccezione dei reati connessi alla detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, pur sussistendo tutti i requisiti, il Comandante non potrà eseguire l’arresto o il fermo, poiché in tali casi non può esercitare funzioni di polizia giudizizria ordinaria.
Egli deve limitarsi a trasmettere la “notizia del reato” (cioè, la denuncia) all’Autorità Giudiziaria competente, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., ferma restando la necessità, nei casi più gravi, di fare intervenire tempestivamente la Polizia Giudiziaria Ordinaria (primi fra tutti, i Carabinieri a disposizione dell’A.M.) per eventuali provvedimenti cautelari d’urgenza.
L'arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima. ovvero in presenza di una causa di non punibilità (es. legittima difesa, uso legittimo delle armi, stato di necessità).
Se risulta evidente che l'arresto o il fermo è stato eseguito per errore di persona o fuori dei casi previsti dalla legge o se non interviene la convalida entro 96 ore, la liberazione è disposta, prima dell'intervento del P.M., dalla stessa persona che ha effettuato l'atto.
Data l'estrema delicatezza della materia, è necessario mettersi in contatto per le vie brevi con la Procura Militare competente per avere direttive in materia e, in caso di difficoltà, richiedere la consulenza dei Carabinieri.
Mancano, infatti alto stato necessarie disposizioni di più preciso raccordo con le disposizioni comuni, sì che le anzidette misure restrittive devono applicarsi mediante operazioni di difficile ortopedia interpretativa. E stato sottoposto all'esame del Parlamento un disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 17 novembre del 1988, concernente la delega legislativa al Governo per l'emanazione del nuovo Codice penale militare di pace. Due "direttive", previste in tale progetto, attengono specificatamente alla parte procedurale: una riguarda l'uniformità del processo penale militare al processo penale comune nelle parti in cui la specialità dell'ordinamento o della materia non suggerisca l'opportunità di una diversa disciplina; l'altra propone il riesame delle disposizioni concernenti la polizia giudiziaria militare, prevedendo la possibilità di istituire “Sezioni” di polizia giudiziaria militare, in modo da sollevare i Comandanti di corpo dalle funzioni predette. Ma, com'è evidente, tutto ciò concerne il futuro: oggi si applica l'art. 301 c.p.m.p., che comporta gli adempimenti sopra indicati.
A fronte del principio secondo il quale la perseguibilità dei reati, comuni o militari, è obbligatoria, mediante l'esercizio dell'azione penale, si collocano una serie di "istituti derogatori", che costituiscono condizioni di punibilità e/o di procedibilità (artt. 336-344 c.p.p.):
Nell'ambito della legge penale militare assume particolare rilievo la “richiesta di procedimento”, prevista dall'art. 260 c.p.m.p., mentre non trovano espressa previsione la querela e l'istanza della persona offesa, ritenute estranee allo speciale sistema.
Tali atti - che in questa sede si fornisce una meramente trattazione - non possono essere confusi con la comunicazione di reato (=Informativa) e con la denuncia ad opera di un Pubblico Ufficiale o di un privato, che costituiscono mere manifestazioni di conoscenza.
► La Querela (art. 336 e segg. c.p.p., è la dichiarazione, raccolta in un atto o resa oralmente, con il quale la persona offesa dal reato oppure un suo legale rappresentante manifesta la volontà che si proceda ad un fatto previsto dalla legge come reato (fa richiesta di punizione). La richiesta di punizione assume rilevanza nei soli casi in cui la legge penale subordina la punibilità del reato alla volontà dell’offeso (reati procedibili a querela).
In ordine alle formalità di presentazione, la dichiarazione di querela può essere proposta per iscritto in carta non bollata o anche oralmente alla P.G.[1] [65] [65]o anche al P.M.. In quest’ultimo caso viene redatto processo verbale, che va sottoscritto anche dal querelante o dal procuratore speciale (munito di mandato rilasciato per atto pubblico o scrittura privata autenticata da allegare alla querela). Può anche essere spedita in piego raccomandato, per posta ma in tal caso la sottoscrizione deve essere autenticata.
Per esigenza di certezza in ordine alla provenienza dell’atto, va sempre identificato dal Pubblico Ufficiale il soggetto che propone, rimette o accetta la remissione di querela. Il soggetto legittimato a proporla è la persona offesa o legale rappresentante dell’ente o associazione. Se la persona offesa è un minore degli anni 14 o inferma di mente, la querela è presentata dall’esercente la potestà dei genitori, dal tutore ovvero da un curatore speciale all’uopo nominato dal Giudice su richiesta del P.M. (art.121 c.p. e 338).
In ordine al termine, il diritto di querela va proposto, entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato[2] [66] [66],altrimenti è priva di effetti. Il termine è di 6 mesi quando si tratta di delitti contro la libertà sessuale[3] [67](violenza sessuale) o atti sessuali con minorenne.
Il diritto di querela si estingue per:
In quanto disponibile, la querela può essere rimessa dopo la sua presentazione (art. 380) ovvero essere oggetto di rinuncia prima della sua presentazione (art. 339). Nel caso di reati perseguibili a querela di parte, in mancanza della querela, che può sopravvenire (entro tre mesi), possono essere compiuti "solo atti di indagine preliminari" necessari per assicurare le fonti di prova (art. 346 c.p.p.).
La remissione di querela è la dichiarazione (scritta o orale) con la quale la persona offesa dal reato (=querelante) o chi la rappresenta propone la revoca della querela precedentemente proposta. Per essere efficace (e produrre la estinzione del reato), la remissione deve essere "accettata" dal querelato. Poiché la persona querelata (=autore del reato) ha interesse, se innocente, a dimostrare, attraverso il processo, la sua completa estraneità al fatto-reato che le è stato addebitato nella querela, la remissione di questa non produce effetto se il querelato la ha tacitamente od espressamente ricusata: vale a dire se alla remissione non è seguita la sua accettazione. Le spese del procedimento sono a carico al querelato, salvo che nell’atto di remissione sia stato diversamente convenuto (art. 13 Legge 25.6.1999, n. 205)- La remissione non è consentita per i delitti contro la libertà sessuale. In tale ipotesi, quindi la querela, una volta proposta, non può essere più revocata. Anche per la querela non è richiesta l’adozione di alcuna formula sacramentale purché in essa risulti con sufficienza chiarezza la volontà del querelante.
► La Istanza (art. 341 c.p.p.) consiste nella domanda con la quale il privato, persona offesa, chiede che si proceda contro i responsabili di taluni reati comuni (non politici) commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero che, se fossero stati commessi nel territorio dello Stato sarebbero perseguibili di ufficio. La mancanza dell’istanza di procedimento precluderebbe l’instaurarsi del procedimento penale: essa realizza, infatti, una condizione di procedibilità L’istanza segue le forme di proposizione della querela: come questa non è legata all’uso di formule sacramentali e può essere diretta anche contro ignoti.
Come la querela, l’istanza di procedimento può essere presentata al Pubblico Ministero o alla Polizia Giudiziaria o anche ad un Agente consolare all’estero, sempre entro tre mesi dalla ricezione della notizia del fatto-reato ed entro tre anni dalla presenza dell’autore a cui il fatto è addebitato sul territorio dello Stato. A differenza della querela, è irrevocabile. Suo contenuto essenziale è la manifestazione di volontà punitiva in ordine ad un determinato fatto-reato, anche se sommariamente indicato.
► La Richiesta di procedimento (art. 342), è come la querela e l’istanza, consiste anch’essa in una manifestazione di volontà punitiva, e si estende di diritto a tutti i responsabili. E’ un atto (amministrativo e discrezionale) con il quale l’Autorità pubblica (generalmente il Ministro di Giustizia e nell’ipotesi dell’art. 260 comma 1 e 2 c.p.m.p., il Ministro dal quale il militare dipende o il comandante del corpo), elimina, spinto da opportunità politiche, un ostacolo procedurale permettendo così il perseguimento di determinati reati commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero.
In ordine alla forma, la Pubblica Autorità (in genere il Ministro di Giustizia) redige richiesta scritta, fatta pervenire direttamente al P.M., e non anche ad un Ufficiale di P.G. Tale richiesta deve essere sottoscritta personalmente da Ministro o da funzionario da lui delegato (Cass. 23.5.1994) e formulata, come la querela e l’istanza di procedimento, entro tre mesi dalla notizia del fatto costituente reato, a pena di inefficacia.
Non è consentita rinunzia, preventiva o successiva, in quanto la richiesta è irrevocabile (art. 120 c.p.).
[1] [68] [68] Eccezionalmente, in caso di flagranza di delitto che impone o consente l’arresto (artt. 380 co.3 e 381 co.3), la querela può essere proposta (anche con dichiarazione orale) a un Agente di P.G. (anziché a un Pubblico Ufficiale) presente nel luogo. Della dichiarazione di querela va dato atto nel verbale di arresto.
[2] [69] Costante è l’affermazione per cui per notizia del fatto che costituisce reato, ai fini della decorrenza del termine per proporre querela, deve intendersi la piena conoscenza di tutti gli elementi indispensabili per la valutazione dell’esistenza del reato, cioè la notizia completa, diretta, precisa e certa del reato stesso; pertanto uno stato soggettivo di sospetto e di dubbio inordine alla sussistenza del reato non è sufficiente per far decorrere i termini per la presentazione della querela (Cass. 30.10.1982)
Il Comandante di corpo ha il potere discrezionale, circa il perseguimento della via disciplinare o di quella penale davanti al Giudice militare, per le fattispecie di reati militari punibili con un massimo di 6 mesi di reclusione (art. 260 c.p.m.p.), in quanto spetta al suo insindacabile giudizio decidere le modalità con cui punire i reati meno gravi. La mancata richiesta di procedimento, nei casi in fattispecie, determina l’archiviazione dei procedimenti penali avviati dalla Procura Militare in base alla sola segnalazione di reato.
Non è preclusa la richiesta di procedimento penale da parte del Comandante di corpo quando, per lo stesso fatto, sia già stata inflitta la sanzione disciplinare della "consegna di rigore" (Sent. N. 406/2000, Corte Costituzionale). Infatti, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la consegna di rigore non ha un contenuto afflittivo omologo alla sanzione penale in quanto, lungi dal concretare una misura restrittiva della libertà personale, essa si traduce in un mero obbligo giuridico di rimanere, fino a 15 giorni, entro un apposito spazio militare o nel proprio alloggio.
La richiesta di procedimento è atto di natura processuale e pertanto è sottratta all’applicazione dell’art. 3 della Legge n. 241/90 (non è richiesta “la motivazione”) ed è irrevocabile (art. 129 c.p.).
La titolarità per la proposizione della richiesta è duplice:
► il Ministro da cui il militare dipende per reati militari espressamente indicati
► il Comandante di corpo o di altro Ente superiore per i reati di danneggiamento di edifìci militari e di distruzione o deterioramento di cose mobili militari e per tutti gli altri reati militari per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi-
In particolare, la richiesta di procedimento è un “atto amministrativo” che il Comandante di corpo pone in essere nei confronti del Procuratore Militare della Repubblica, per esprimere delle valutazioni di carattere discrezionale in merito all’avvio di un procedimento penale militare, a carico di un militare alle proprie dipendenze. In altri termini, il Comandante di Corpo ha la facoltà, attribuitagli dalla legge penale militare, di far continuare in sede penale l’istruzione di un fatto-reato.
Ma questo non vale, come anzidetto, per tutti i reati militari, bensì solo per quelli la cui pena edittale non superi nel massimo i 6 (sei) mesi.
La natura giuridica della richiesta di procedimento è molto controversa: la dottrina prevalente ritiene comunque che essa sia un atto amministrativo (e non processuale) che ha effetti sul processo penale militare. Data la sua natura amministrativa, la richiesta di procedimento è “condizione di procedibilità” e nel contempo manifestazione di volontà. I suo caratteri sono: discrezionalità e irrevocabilità.
Il termine di presentazione è quello di 1 (uno) mese dal giorno in cui l’Autorità ha avuto notizia del fatto.
La richiesta di procedimento non va confusa con la denuncia, cioè con la comunicazione di reato (che comunque va fatta, e con immediatezza, come vuole la legge). Anche se il Comandante decida di procedere solo disciplinarmente, deve darne ugualmente comunicazione alla Procura Militare.
In definitiva, possiamo dire che la richiesta di procedimento si applica a quei reati militari (definiti da alcuni “minori”) che, a causa della scarsa rilevanza dell’interesse militare leso, sono perseguiti penalmente solo a richiesta dal Comandante di Corpo, che si avvale della facoltà prevista dall’art. 260 c.p.m.p. In tali casi il Comandante di corpo (con esclusione del Comandante di distaccamento o di posto) ha la facoltà discrezionale (ma discrezionalità non equivale a capriccio o arbitrio) di limitare nell'ambito disciplinare la repressione difatti aventi modesta lesività. La pena che deve essere considerata ai fìni dell'applicazione dell'istituto è quella edittale, senza tener conto dell'aumento o della diminuzione derivanti da circostanze aggravanti o attenuanti, salvo che, per effetto della circostanza, 1a pena sia determinata dalla legge in modo autonomo.
La “richiesta” deve essere presentata per iscritto e sottoscritta (pertanto non è valida se proposta a mezzo fonogramma) entro 1 (un mese) dalla commissione del fatto di reato o dalla data in cui il Comandante ne è venuto a conoscenza.
Essa è irrevocabile e si estende a tutti coloro che hanno commesso il reato.
Anche nel caso in cui non si ritiene di presentare richiesta, sussiste l'obbligo della comunicazione di reato. Non sono previste formule precise ed inderogabili, purché risulti palese la volontà di chiedere l'instaurazione di un procedimento penale per un fatto, anziché perseguirlo solo in via disciplinare.
E sufficiente scrivere:
….."Avvalendomi della facoltà prevista dall'ari. 260 c.p.m.p., chiedo (o non chiedo) che si proceda penalmente a carico di... per il reato di... e per tutti i reati militari ravvisabili nel fatto e perseguibili a richiesta”. |
L’ art. 15, comma 3°, della legge n. 382/78 prevede che “in caso di necessità ed urgenza il Comandante di Corpo può disporre, a titolo precauzionale, l’immediata adozione di provvedimenti provvisori, della durata massima di 48 ore, in attesa che venga definita la sanzione disciplinare”.
Ciò stante, la Procura Generale Militare presso la Corte di Cassazione, con un suo autorevole e specifico intervento, ha chiarito ed evidenziato la correttezza di provvedimenti disciplinari cautelari del Comandante nei casi in cui, pur mancando i rigidi presupposti legittimanti l’arresto o il fermo, il reato (comune o militare) commesso dal militare sia di gravità e rilevanza tali da giustificare ampiamente l’opportunità di una tempestiva “misura” di carattere provvisorio.
Al riguardo, la Procura Generale Militare ha citato, come esempio, il grave caso dell’omicidio tra pari grado che, essendo reato comune (il C.P.M.P., infatti, considera e punisce come reato militare solo l’omicidio dell’inferiore e quello del superiore), non rientra tra le fattispecie per le quali il Comandante agisce in veste di Ufficiale di Polizia Giudiziaria, con facoltà di arresto o fermo.
Infatti - come precisato dalla stessa Procura Generale - le misure disciplinari prese dal Comandante ai sensi dell’art. 15 L. 382/78 non violano l’art. 13 Cost., in quanto limitate ad un massimo di 48 ore, e non contrastano neppure con il principio della sospensione disciplinare in pendenza dell’azione penale, in quanto la commissione di un reato giustifica comunque l’inizio di un procedimento disciplinare di corpo, nel qual caso, prima dell’intervento dell’Autorità Giudiziaria, è consentita l’adozione dei necessari ed urgenti provvedimenti provvisori (fermo restando il divieto di adottare sanzioni definitive).
Ovviamente, trattandosi di fatto-reato, il Comandante deve fare immediato comunicazione (=rapporto) alla competente Autorità Giudiziaria, che interviene subito e pone in essere a tutte le attività di sua pertinenza.
Al termine del procedimento penale, sarà ripreso e concluso l’esame disciplinare sospeso con l’intervento dell’Autorità Giudiziaria.
Tirando ora le fila di quanto si è detto fin qui e riprendendo le indicazioni contenute all’inizio di questo Libro, possono ora trarsi alcune prime conclusioni che consentano di collocare in un giusto ambito le funzioni attribuite alla Polizia Giudiziaria Militare e, per l’effetto, a chi ha – sia pur limitatamente ai reati militari – la qualifica di Ufficiale di polizia giudiziaria. (Comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle varie Forze Armate nonché gli Ufficiali e Sottufficiali dei Carabinieri e gli altri Ufficiali di polizia giudiziaria indicati nell’art. 57 del codice di procedura penale).
Può dirsi, anzitutto, che la Polizia Giudiziaria è un soggetto del procedimento penale (artt. 55 e 59 c.p.p.). Essa, cioè, partecipa con gli altri soggetti pubblici del procedimento (e in specie con gli altri soggetti pubblici del procedimento vale a dire con il Pubblico Ministero e il Giudice) a stabilire se un fatto concreto che è stato commesso costituisce reato, chi ne è responsabile e quale pena merita.
La sua attività, quindi, si colloca dopo la commissione di un fatto illecito che astrattamente può costituire reato. La funzione della Polizia Giudiziaria Militare, cioè, è una funzione diretta all’accertamento e alla repressione di un reato militare che è stato commesso ed alla ricerca del colpevole per assicuralo alla giustizia. Ciò vuol dire che non può parlarsi di attività di polizia giuidiziaria tutte le volte in cui gli Organi di polizia e comunque i soggetti stessi cui è attribuita la qualifica di Ufficiali di polizia giudiziaria (ai sensi dell’art. 301 c.p.m.p.), si limitano a svolgere attività di «Polizia amministrativa» e cioè a controllare che gli appartenenti alle FF.AA. rispettino le limitazioni che le leggi impongono al loro operato e svolgono la propria attività senza procurare danni all’Amministrazione militare. In questa situazione, infatti, chi svolge attività di polizia amministrativa agisce con finalità preventiva, di controllo delle attività altrui o di garanzia del servizio e della disciplina militare e non con le finalità di informarsi su reati già commessi o in atto e di reprimerli individuandone l’autore.
E’ naturale, peraltro, che nella gran parte dei casi, dell’avvenuto verificarsi di un reato si prenda notizia proprio durante l’attività di polizia amministrativa e che, in questi casi, l’acquisizione della notizia di reato modifica la qualità del personale di polizia operante.
Può, inoltre, procedere a “perquisizione” anche senza autorizzazione (=delega) da parte del Procuratore della Repubblica competente, qualora ricorrano particolari motivi di necessità e urgenza, redigendo verbale da inviare entro 48 ore al Procuratore competente, il quale, ricorrendone i presupposti, procede alla convalida dell’atto entro le successive 48 ore. In entrambi i casi il Comandante (UPGM) deve rilasciare immediatamente all’interessato copia del Verbale.
Nel corso delle operazioni di cui sopra (ispezioni, perquisizioni) in presenza dei reati di cui all’art. 14 della Legge 162/1990, il Comandante di Corpo procede alle attività di polizia giudiziaria di cui all’art 55 c.p.p., prime fra tutte il “sequestro” della sostanza stupefacente rinvenuta (=corpo del reato), eventuali siringhe, ecc. (=pertinenza del reato).
Quando esegue l’ispezione/controllo, il Comandante di corpo non svolge attività di polizia giudiziaria sicché non è rilevante il fatto che in quel momento abbia potenzialmente la qualifica di Ufficiale di polizia giudiziaria (art. 301 c.p.m.p.). Il rilievo della qualifica e l’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria (art. 55 c.p.p.) scattano quando, ad esempio, nel corso dei predetti controlli il Comandante di corpo accerta un reato: come quello relativo alla «detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope»)
Si è fuori dell’attività di polizia giudiziaria anche se, nel corso dell’ispezione, il Comandante di corpo - unitamente all’ausilio del personale del Servizio d’Ordine - accerta una trasgressione disciplinare e cioè l’avvenuto compimento di un fatto illecito punito con una “sanzione di corpo” (=richiamo, rimprovero, consegna, consegna di rigore), come ad esempio, la «presenza nell’armadietto di apparecchi elettrici ed elettronici, non autorizzati, ecc.
Come si è detto più volte, manca infatti, in questo ultimo caso, il presupposto essenziale perché l’attività di polizia giudiziaria possa esplicarsi. Tale attività è in fuzione infatti, di un procedimento penale e il procedimento penale può sorgere solo quando è stato commesso un reato e non in presenza di qualsiasi tipo di illecito.
Superfluo aggiungere che i temi affrontati in questo "LIBRO" sono stati tutti approfonditi nel Libro intitolato "Attività di Polizia Marittima e Giudiziaria" ⇒ Elementi di Diritto penale e di Procedura penale.
[1] [71] Il personale militare che collabora con il Comandante di Corpo (UPGM) nel corso di attività investigative, può effettuare i controlli solamente visivi richiedendo per esempio, l’eventuale apertura dell’armadietto, del cofano dell’autovettura o dei bagagli ed in caso di rifiuto, non avendo la qualifica di “Ufficiale o Agente di Polizia Giudiziaria Militare“ devono limitarsi a non far entrare presso il Comando l’auto o il bagaglio ma solo la persona, avvisando al più presto il Comandante o l’Ufficiale responsabile per eventuali provvedimenti successivi anche a carico della persona che ha rifiutato il controllo.
DISPOSIZIONI RELATIVE ALLE FF.AA. IN MATERIA DI STUPEFACENTI
► Rapporto individuo droga: si possono teoricamente classificare tre differenti tipi di «assuntori» in base al loro rapporto con la sostanza stupefacente:
► Classificazione sostanze stupefacenti in base al T.U. 9/10/1990 n. 309 (capo III e testo legge Cap. VI)
DROGHE PESANTI (incluse tabelle I e III) :
DROGHE LEGGERE (incluse tabelle II e IV):
► Come si presentano alcune droghe
Oppio: esistono molte varietà di oppio (a seconda della percentuale di morfina contenuta (la morfina è un derivato dell’oppio concentrazione del 12% circa). Generalmente si presenta come una massa bruna che si rammollisce tra le dita ed esposta all’aria annerisce, di odore acre, forte, e di sapore amaro.
Morfina: derivato dell’oppio, il cloridrato di morfina, usata in medicina a scopo terapeutico, si presenta come polvere bianca cristallina non riflettente la luce, impalpabile, inodore, di sapore amaro, oppure si presenta sottoforma di liquido incolore o giallastro contenuto in fiale. La morfina grezza invece è una polvere granulosa di colore beige-brunastro, col caratteristico odore dell’oppio. I pani di tale sostanza pesano di solito 300 grammi (lunghi 10 cm circa con colorazione che varia dal bianco sporco al marrone scuro a secondo della purezza. Spesso sui pani vi sono alcuni marchi tipo: 999/1000 indicanti la purezza, oppure figure di animali (tigre, drago, elefante) o sigle I.A., A.A.A., O.K.
Cocaina: polvere cristallina bianca, fine, lucente, simile al sale fino o allo zucchero raffinato, tendente ad ingiallire al prolungato contatto con l’aria.Ha sapore amaro e a contatto con le mucose, provoca una sensazione di freddo lasciando sulla lingua un senso di anestesia. Normalmente viene commerciata in sacchetti o bustine di plastica sigillata. Si può trovare anche sottoforma di compresse, tavolette o allo stato liquido in fiale.
Marijuana: mistura vagamente somigliante al tabacco o all’origano, di colorazione variante dal verde chiaro allo scuro. Alla combustione ha il caratteristico odore del fieno secco.
► Aspetti di natura disciplinare
Sotto l’aspetto disciplinare l’uso di sostanze stupefacenti da parte di militari, ai sensi degli artt. 9, 15, 36 del DPR 545/86, può essere oggetto di sanzioni disciplinari di corpo e, nei casi più gravi, a sanzioni disciplinari di Stato
► Aspetti di natura penale
Sotto l’aspetto penale vanno evidenziate due significative innovazioni:
In pratica costituiscono reati puniti con reclusione e/o multa di competenza della Procura della repubblica ordinaria e non militare, la produzione e il traffico illecito di stupefacenti per uso personale in dose superiore a quella media giornaliera (determinata con Decreto del Ministro della Sanità ed introdotte in apposite tabelle, in base ai limiti quantitativi massimi di principio attivo[ [22]1] [22] contenuti nella quantità di sostanza detenuta).
[ [22]1] [22] In una normale dose personale di sostanza stupefacente, il «principio attivo» (la droga vera e propria) si aggira tra il 6 e l’8 % il resto (92, 94 %) è tutta sostanza da taglio (caffeina, ecc.), è necessario quindi sempre far esaminare la quantità, benché minima, di sostanza sequestrata, per poter stabilire se trattasi di dose media giornaliera o di quantità superiori di sostanza illecita, da sottoporre a taglio)
[ [22]2] [22] Il personale militare che collabora con il Comandante di Corpo (UPGM) nel corso di attività investigative, può effettuare i controlli solamente visivi richiedendo per esempio, l’eventuale apertura del cofano dell’autovettura o dei bagagli ed in caso di rifiuto, non avendo la qualifica di PG devono non far entrare presso il Comando l’auto o il bagaglio ma solo la persona, avvisando al più presto il Comandante o l’Ufficiale responsabile per eventuali provvedimenti successivi anche a carico della persona che ha rifiutato il controllo.
Lo stato di tossicodipendenza riconosciuto da parte di una unità ospedaliera militare nei confronti del personale militare, comporta la "inidoneità" dello stesso al servizio militare e determina le seguenti conseguenze di carattere giuridico-amministrativo.
Sotto l’aspetto amministrativo, nei confronti del personale militare dipendente che, mediante analisi di laboratorio o visite mediche periodiche, si accerti faccia uso di stupefacenti o, per farne uso personale, illecitamente le detiene in dose non superiore a quella media giornaliera...
Il Codice penale militare di pace prevede alcuni reati commessi dal militare che fa "uso di stupefacenti:"
158 , 159, 161 c.p.m.p.
I Comandi/Enti che abbiano alle proprie dipendenze militari sottoposti a procedimento penale presso l’Autorità Giudiziaria ordinaria, "per delitti dolosi di particolare gravità" oppure, presso l’Autorità Giudiziaria militari "per reati puniti con la reclusione militare superiore nel massimo a 6 mesi", possono avanzare proposta a «Persomil» perché gli stessi siano trasferiti o comunque sbarcati.
A conclusione del procedimento penale, l’Alto Comando competente dovrà acquisire copia integrale della sentenza passata in giudicato e procedere all’accertamento della sussistenza o meno di comportamenti del militare passibili di sanzioni disciplinari di Stato o di corpo.
Sono soggette al vaglio disciplinare le seguenti sentenze penali:
La "valutazione disciplinare" dell’Alto Comando potrà concludersi:
N.B.
[ [22]1] [22] Sospensione disciplinare dall’impiego; sospensione disciplinare dalle funzioni del grado; perdita del grado per rimozione
Giustizia militare
Reati militari - In genere – Connessione tra reati militari e reati comuni - Competenza, per tutti, dell'Autorità giudiziaria ordinaria - Norma che consente la separazione dei procedimenti per ragioni di convenienza - Abrogazione implicita - Sussistenza.
(Cod. pen. mil. pace, art. 264; nuovo Cod. proc. pen., art. 13; Preleggi art. 15)
Sez. 1, sent. 4527 dell' 8 febbraio 2005 (cc. 20/01/2005). Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri, P.M. Gentile (conf.), ric. P.M. in proc. Cimoli.
L'art. 264 c.p.m.p., nella parte in cui stabilisce la possibilità, per la Corte di cassazione, su ricorso del P.M. ovvero in sede di risoluzione di un conflitto, di ordinare, per ragioni di convenienza, la separazione tra procedimenti di competenza dell'Autorità giudiziaria militare e procedimenti di competenza di quella ordinaria (per tutti i quali, altrimenti, sarebbe competente quest'ultima), deve ritenersi abrogato, in base al principio di cui all'art. 15 delle Preleggi, per incompatibilità con l'art. 13, comma secondo, c.p.p. che, confermandola regola della prevalenza della giurisdizione ordinaria su quella militare nella sola ipotesi di maggiore gravità del reato comune rispetto a quello militare e stabilendo, di conseguenza,la possibilità di separazione dei procedimenti soltanto quando ricorra l'ipotesi inversa, ha per ciò stesso escluso ogni altra possibile ipotesi di separazione.
Reati militari - In genere - Connessione tra reati militari e reati comuni - Disciplina dettata dall'art. 264 c.p.m.p. – Abrogazione per effetto dell' art. 13 c.p.p. - Esclusione - Fondamento.
(Cod. pen. mil. pace, art. 264; nuovo Cod. proc. pen., art. 13)
Sez. 1, sent. 4527 dell' 8 febbraio 2005 (cc. 20/01/2005). Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri, P.M Gentile (conf.), ric. P.M. in proc. Cimoli.
L'art. 264 c.p.m.p., nella parte in cui stabilisce che, in caso di connessione tra procedimenti di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria e procedimenti di competenza dell'autorità giudiziaria militare, è competente,per tutti, l'autorità giudiziaria ordinaria, non può ritenersi abrogato per incompatibilità con lo jus superveniens costituito dall'art. 13,comma secondo, c.p.p., essendosi quest'ultimo limitato a stabilire che la vis actractiva della giurisdizione ordinaria operi soltanto a condizione che il reato comune sia più grave di quello militare, per cui, in caso contrario, i procedimenti debbono restare separati.
(Nuovo Cod. proc. pen., art. 13; Cod.pen., art. 110; Cod. pen. mil. pace, art. 264)
Sez. 1 sent. 4527 dell' 8 febbraio 2005 (cc. 20/01/2005). Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri, P.M. Gentile (conf.), ric. P.M. in proc. Cimoli
La competenza a conoscere del reato militare del quale debbano rispondere, in concorso tra loro, un appartenente alle Forze Armate ed un estraneo, appartiene al giudice ordinario, non potendo, in detta ipotesi, farsi richiamo al combinato disposto di cui agli artt. 13, comma secondo, c.p.p. e 264 c.p.m.p., secondo cui, verificandosi connessione tra un reato militare e reato comune, solo in caso di maggiore gravità del secondo rispetto al primo la competenza viene attribuita al giudice ordinario, dovendo altrimenti i relativi procedimenti restare separati.
(C.p.m.p., art. 120; C.p.p., artt. 431, 432, 491)
Corte di cassazione, sez. 1^ pen., 9 gennaio 2004: Pres. Gemelli, Rel. Vancheri, P.M. Garino (conf.), in c. G.
La colpevolezza del militare per abbandono di posto, che emerge dalle consensualmente acquisite relazioni di servizio, può essere regolarmente affermata sulla base delle stesse,senza che sia necessario procedere all'audizione dei redattori delle medesime,poiché virtualmente acquisite al fascicolo per il dibattimento. Le questioni relative al contenuto del fascicolo, come proponibili solo preliminarmente, restano precluse se successivamente avanzate (1).
(1) Si legge quanto appresso nel testo della sentenza: «Ricorre per cassazione G.A. avverso la sentenza emessa il 14 febbraio 2003 dalla Corte Militare di Appello - Sezione Distaccata di Napoli - con la quale è stata confermata la pronuncia del 18 aprile 2002 del Tribunale Militare di Palermo, con cui il predetto G. era stato dichiarato colpevole del reato di abbandono di posto da parte di militare di guardia, di cui all'art. 120, commi 1 e 2, c.p.m.p., e condannato,con le attenuanti generiche, alla pena di mesi due di reclusione militare con i benefici di legge.
La Corte suddetta ha osservato che la responsabilità del prevenuto emergeva chiaramente dalle relazioni di servizio, acquisite al dibattimento su concorde richiesta delle parti, da cui risultava che il G., in servizio come Capo Posto all'aeroporto di Comiso dalle ore 8 dell'8 settembre 2000 alla stessa ora del successivo giorno 9, si era arbitrariamente allontanato alle ore 7,15 del predetto giorno 9, e che non era condivisibile la tesi dell'imputato, secondo cui le relazioni di cui sopra non sarebbero state utilizzabili,non essendosi proceduto alla audizione diretta dei redattori di esse, stante il preciso disposto di cui all'art. 431 c.p.p. Lamenta il ricorrente violazione di legge, sul rilevo che, anche se aveva prestato il suo consenso all'acquisizione delle relazioni di servizio, tuttavia,non essendo tali relazioni atti irripetibili, si sarebbe dovuto procedere alla audizione come testi dei redattori delle stesse, dal momento che la norma di cui all'art. 431 c.p.p., richiamata dalla Corte di merito,riguarda esclusivamente la formazione del fascicolo nella fase delle indagini preliminari e non è applicabile alla fase dibattimentale. Il ricorso, in quanto manifestamente infondato, non può che essere dichiarato inammissibile. Ed invero, la norma di cui al secondo comma dell'art.431 c.p.p. riguarda, come si legge chiaramente in essa, la formazione del fascicolo per il dibattimento e non certo la fase delle indagini preliminari,come inopinatamente sostenuto dal ricorrente. La esplicita dizione della legge (Le possono concordare l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero)non può lasciare dubbi in proposito. E, una volta che le relazioni di servizio, già contenute nel fascicolo del P.M., sono state acquisite, su concorde richiesta delle parti, a quello del dibattimento,è evidente che il contenuto delle stesse,passato fra il materiale probatorio, poteva e doveva essere esaminato e valutato del giudice con legittima fonte di prova, non occorrendo procedere all'audizione dei redattori delle suddette relazioni. Peraltro, le questioni concernenti il contenuto del fascicolo per il dibattimento possono essere sollevate soltanto subito dopo il compimento dell'accertamento della costituzione delle parti, e ne è definitivamente preclusa la proposizione in momenti successivi,come disposto dai primi due commi dell'art.491 c.p.p., per cui nei riguardi dell'eccezione, proposta per la prima volta con l'atto di appello, operava una precisa preclusone processuale. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso va dichiarato inammissibile ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua in relazione alla manifesta pretestuosità del gravame, di euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende».
Disobbedienza - Ordine ad esecuzione successiva - Rifiuto immediato -Realizza la consumazione dell'ordine ad esecuzione differita - Sostituzione del destinatario del dovere di obbedire- È conseguenza del rifiuto - Non revocala precedente ingiunzione che resta disobbedita.
(C.p.m.p., art 173)
Corte di Cassazione, sez. 1^, 17 febbraio 2004. Pres. Fazzioli, Rel. Giordano, P.M. Gentile (conf.), in c. L.
Il reato di disobbedienza si realizza anche col rifiutare ottemperanza ad un ordine che implichi una condotta non di immediata esecuzione ma per momento successivo. La lettera della norma chiaramente per questo configura delittuoso anche il comportamento consistente nel solo rifiuto di obbedire. L'agire del superiore il quale, ricevuto il rifiuto, sostituisce con altro militare il disobbediente è necessitato dal rifiuto già consumato e non significa una revoca dell'ordine prima indirizzato all'originario destinatario dell'imposizione (1).
(1) Si legge quanto appresso nel testo della sentenza: « L.A., carabiniere ausiliario presso un reparto distanza a Palermo, è stato rinviato a giudizio per rispondere di disobbedienza aggravata (artt. 173 e 174 n.4 c.p.m.p.) per avere il 7/3/02 rifiutato di eseguire 'ordine, ricevuto dal superiore S.Ten. P., dipartire poche ore dopo con un contingente destinato a servizio di ordine pubblico in Roma.In esito al giudizio di primo grado, con sentenza in data 14/11/02 il Tribunale militare di Palermo ha assolto l'imputato per insussistenza del fatto. Il Tribunale ha ritenuto che, quando come nel caso di specie si tratti di ordine di esecuzione non immediata ma che preveda una condotta differita nel tempo, la consumazione del reato di cui all'art. 173c.p.m.p. si verifichi solo quando tale condotta venga omessa e non nel momento del semplice rifiuto di eseguire l'ordine, manifestazione di volontà che potrebbe essere posta nel nulla da una successiva impossibilità di eseguire l'ordine medesimo o dalla sua revoca, come implicitamente, secondo il primo giudice, poteva intendersi avesse fatto il S. Ten. P. provvedendo a sostituire il L. con un altro militare. Proposto gravame dal Procuratore militare della Repubblica e dal Procuratore generale militare, con sentenza in data 30/04/03 la Sezione distaccata di Napoli della Corte militare di appello ha dichiarato l'imputato colpevole del reato ascrittogli e, con le attenuanti generiche prevalenti, lo ha condannato a un mese di reclusione militare con i doppi benefici di legge. Ha ritenuto la Corte territoriale che anche il semplice rifiuto di tenere una condotta differita nel tempo integri gli estremi del reato e che la sostituzione del L. con altro militare nel servizio che aveva dichiarato di non essere disposto ad effettuare non potesse in alcun modo ritenersi una revoca dell'ordine che gli era stato in modo inequivocabile impartito. Contro la decisione di secondo grado l'imputato ha proposto ricorso per cassazione con il quale deduce:erronea interpretazione dell'art. 173 c.p.m.p.;mancanza comunque di una concreta lesione del bene tutelato non essendosi determinato, stante il pronto reperimento di altro militare disponibile a partire, alcun apprezzabile rallentamento del servizio;vizio di motivazione in ordine al giudizio di irrilevanza delle giustificazioni che aveva addotto per il rifiuto (l'avere da poco cessato altro servizio esterno e l'essere privo di indumenti puliti per affrontare una nuova missione); e vizio di motivazione ancora per non avere la Corte militare tenuto conto della sua successiva dichiarazione di essere disponibile a partire il giorno seguente a proprie spese.
Nessuna di queste doglianze può trovare accoglimento,e il ricorso va quindi rigettato con le conseguenze in ordine alle spese processuali previste dall'art. 616 C.P.P. Quanto alla questione di diritto, l'interpretazione che la Corte militare di appello ha dato all'art. 173c.p.m.p. deve ritenersi corretta. A questa conclusione induce anzitutto la lettera della norma che accanto all'inosservanza di un ordine e al ritardo nell'eseguirlo espressamente configura come comportamento punibile anche il rifiuto di eseguirlo, ipotesi che non può che riguardare proprio gli ordini a esecuzione differita perché per quelli a esecuzione immediata, traducendosi il rifiuto nell'inosservanza dell'ordine, non vi sarebbe stato bisogno di tale distinta previsione. Allo stesso esito si perviene se si considera la ratio dell'incriminazione della disobbedienza, che è chiaramente diretta, stante le connotazioni proprie dell'istituzione militare, ad assicurare non solo il risultato pratico immediato di ciascun ordine ma anche la complessiva efficienza strutturale dell'organizzazione delle Forze Armate, la quale esige la piena disponibilità dei subordinati ed è quindi già vulnerata da manifestazioni di rifiuto di tenere una condotta attinente al servizio anche se differita nel tempo. Per il resto il ricorso contiene solo critiche di puro merito all'esauriente apparato argomentativo,immune da vizi di logicità e pertanto non sindacabile in questa sede, con cui il giudice di secondo grado ha ritenuto che l'intervenuta sostituzione del L. nel servizio rifiutato, ben lungi dal potersi intendere come una revoca implicita dell'ordine, non avesse affatto impedito la ormai verificatasi lesione del bene tutelato dalla norma incriminatrice ma ne costituisse anzi un effetto, ed ha altresì ritenuto le giustificazioni avanzate dall'imputato del tutto inidonee ad esonerarlo da responsabilità e non provata in linea di fatto la asserita, comunque tardiva, manifestazione di resipiscenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ».
Ritenzione di armamento militare - Oggetti di armamento - Nozione – Sono i materiali costruiti per prevalente uso militare - Cartucce a salve - Sono tali - Carenza di potenzialità offensiva - Non le esclude dalla nozione - Oggetti di equipaggiamento - Non sono tali.
(C.p.m.p., artt. 164, 166)
Corte di Cassazione, sez. 1^ pen., 30 gennaio 2004, Pres. Sossi, Rel. Fazzioli, P.M. mil. Rosin (conf), in c. F.
Realizza il reato di ritenzione o distruzione di armamento militare (art. 164 c.p.m.p.) l'agente che si impossessa di cartucce a salve cal.5,56, destinate ad essere esplose in esercitazione, perché sono oggetti di armamento, in tale nozione includendosi non solo i materiali con potenzialità offensiva ma tutti quelli destinati all'addestramento bellico, cioè costruiti per prevalente uso militare mentre invece costituiscono, come oggetti di equipaggiamento,elementi del fatto previsto quale reato di ritenzione di effetti militari dall'art. 166, le cose che, ma solo per esclusione, pur si derivano dal detto concetto di armamento (1)
(1) Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:««Con sentenza del 2 aprile 2003 la corte militare d' appello, sezione distaccata di Napoli, in riforma della sentenza in data 24 maggio 2002 con la quale il Tribunale di militare di Bari aveva assolto per non aver commesso il fatto F.S. dal reato di furto militare aggravato (art. 47, n. 2, 230, comma 2, c.p.m.p.),perché quale aviere scelto si era impossessato alfine di profitto di due cartucce a salve calibro 5.56 parabellum per fucile mitragliatore da guerra AR70/90, affermava la responsabilità dell'imputato per il reato di ritenzione di armamento militare (art. 166c.p.m.p. in relazione all'art. 164 stesso codice) e lo condannava, con i doppi benefici di legge, alla pena ritenuta di giustizia. Ha proposto ricorso per cassazione il F. denunziandola violazione dell'art. 260 c.p.m.p. in relazione agli artt. 165 e 166 stesso codice. Sostiene il ricorrente che, trattandosi di cartucce a salve, le stesse non possono essere considerate"oggetti di armamento", ma "oggetti di equipaggiamento"militare con la conseguenza che, essendo il reato ipotizzabile (art. 166 in relazione all'art. 165c.p.m.p.) punito con la pena della reclusione militare fino al massimo di sei mesi, la corte d'appello avrebbe dovuto dichiarare di non doversi procedere ai sensi dell'art. 260, comma 2, c.p.m.p. per mancanza della richiesta del comandante del corpo. Con altro motivo il F. sostiene che la corte militare"non ha dato il giusto rilievo alla circostanza, emersa dalle risultanze processuali del primo grado di giudizio, che i bossoli ritrovati in possesso dell'imputato erano già stati esplosi", con la conseguenza che, trattandosi di materiale inquadrabile nella categoria giuridica delle res nullius e come tale non appartenente alla amministrazione militare non potrebbe essere ravvisata né la fattispecie del furto,né altre fattispecie criminose. Tale conclusione sarebbe confermata anche dalla giurisprudenza di questa corte (cass. 16 marzo2000, n. 5982, Lupi) che avrebbe ritenuto che,essendo le cartucce a salve destinate ad essere esplose nel corso delle esercitazioni, se il militare avesse obbedito agli ordini le cartucce in questione sarebbero state esplose e, quindi, in ogni caso perdute per l'amministrazione, per cui si tratterebbe di oggetti che hanno cessato di appartenere al servizio militare. Osserva la corte che non vi è alcuna prova che le cartucce in sequestro siano cartucce già esplose. Tanto non risulta né dal capo di imputazione, né dalle sentenze di primo e di secondo grado, né il ricorrente ha indicato l'atto processuale da cui si evincerebbe che si tratta di munizioni già esplose. Va in ogni caso rilevato che ai sensi dell'art. 166c.p.m.p. ai fini della esclusione della sussistenza del reato occorre che la persona in possesso di oggetti facenti parte del vestiario, dell'equipaggiamento o armamento militare dimostri che "tali oggetti abbiano legittimamente cessato di appartenere al servizio militare", mentre ogni militare ha il dovere di riconsegnare il materiale a lui consegnato durante il servizio militare e, perfino nel caso di esercitazioni, i bossoli delle munizioni esplose debbono essere recuperati e ciascun militare deve dimostrare che il numero delle munizioni utilizzate corrisponde a quello a lui consegnato. Con riferimento, poi, alla qualificazione delle munizioni a salve, la considerazione che non possono essere ricomprese nell'armamento militare perché non dotate di "specifica potenzialità offensiva" (cass. 3 aprile 1995, n. 5208, p.m. contro Tanzi ed altro) non sembra rilevare ai fini in esame. L'art. 166 c.p.m.p. punisce il fatto di avere ritenuto a qualsiasi titolo "oggetti di vestiario, equipaggiamento o armamento militare o altre cose destinate aduso militare" rinviando ai fini della specificazione in concreto delle suddette categorie ai rispettivi articoli 164 e 165 c.p.m.p. Orbene, va rilevato che con il termine "armamento"nella accezione comune non si intendono i soli oggetti dotati di "potenzialità offensiva", ma tutto il complesso delle armi e dei mezzi destinati alla guerra e, quindi, anche quei materiali ed oggetti destinati direttamente all'addestramento alla guerra. Peraltro,la definizione dei materiali di armamento, sia pure ai soli fini di detta legge, è fornita dall'art. 2, comma 1,legge 9 luglio 1990, n. 185 secondo la quale sono tali tutti "quei materiali che, per requisiti o caratteristiche tecnico-costruttive e di progettazione, sono tali da considerarsi costruiti per un prevalente uso militare o di corpi armati e di polizia", legge che, nel successivo comma 2, inserisce espressamente tra le classi dei materiali di armamento: "i materiali specifici per addestramento militare".La circostanza, quindi, che le munizioni in questione non siano dotate di potenzialità offensiva è estranea al concetto di "oggetti di armamento", tanto più chetale espressione va interpretata con riferimento agli oggetti di "equipaggiamento" personale che sono forniti al militare dall'amministrazione.
Oggetti, che possono essere definiti soltanto per esclusione, in quanto altrimenti, data l'ampiezza del termine "equipaggiamento", si potrebbero far rientrare in tale categoria sia gli oggetti di armamento che di vestiario e, perfino, "le altre cose destinate all'uso militare" (art. 166 c.p.m.p.), trattandosi di materiali tutti destinati all'equipaggiamento dei militari. Infine, la espressione contenuta nell'art. 166c.p.m.p. "o altre cose destinate ad uso militare" è una norma di chiusura diretta ad evitare che qualsiasi oggetto appartenente alla amministrazione militare, anche se non rientrante tra gli oggetti di armamento, vestiario o equipaggiamento, non sia,comunque, "ritenuto" a qualsiasi titolo se non dismesso nelle forme di legge dall'amministrazione militare, per cui la inclusione delle munizioni in esame tra gli oggetti di armamento esclude la possibilità di qualificarle come "altre cose destinate all'uso militare".Il ricorso deve, dunque, essere rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali»».a cura di Renato Maggiore
Links:
[1] http://www.nonnodondolo.it/node/1655/edit#_ftn1
[2] http://www.difesa.it/Giustizia_Militare/Legislazione/CodicePMP/Pagine/default.aspx
[3] http://www.nonnodondolo.it/node/1655/edit#_ftnref1
[4] http://www.nonnodondolo.it/node/1718/edit#_ftn1
[5] http://www.nonnodondolo.it/node/1718/edit#_ftnref1
[6] http://www.nonnodondolo.it/node/1662/edit#_ftn1
[7] http://www.nonnodondolo.it/node/1662/edit#_ftn2
[8] http://www.nonnodondolo.it/node/1662/edit#_ftnref1
[9] http://www.nonnodondolo.it/node/1662/edit#_ftnref2
[10] http://www.nonnodondolo.it/node/1663/edit#_ftn1
[11] http://www.nonnodondolo.it/node/1663/edit#_ftn2
[12] http://www.nonnodondolo.it/node/1663/edit#_ftnref1
[13] http://www.nonnodondolo.it/node/1663/edit#_ftnref2
[14] http://www.nonnodondolo.it/node/1715/edit#_ftn1
[15] http://www.nonnodondolo.it/node/1715/edit#_ftnref1
[16] http://www.nonnodondolo.it/node/1689/edit#_ftn1
[17] http://www.nonnodondolo.it/node/1689/edit#_ftnref1
[18] http://www.nonnodondolo.it/node/1667/edit#_ftn1
[19] http://www.nonnodondolo.it/node/1667/edit#_ftn2
[20] http://www.nonnodondolo.it/node/1667/edit#_ftnref1
[21] http://www.nonnodondolo.it/node/1667/edit#_ftnref2
[22] http://www.nonnodondolo.it/node/1/edit#11
[23] http://www.nonnodondolo.it/node/1669/edit#_ftn1
[24] http://www.nonnodondolo.it/node/1669/edit#_ftn2
[25] http://www.nonnodondolo.it/node/1669/edit#_ftnref1
[26] http://www.nonnodondolo.it/node/1669/edit#_ftnref2
[27] http://www.nonnodondolo.it/node/1721/edit#_ftn1
[28] http://www.nonnodondolo.it/node/1721/edit#_ftn2
[29] http://www.nonnodondolo.it/node/1721/edit#_ftnref1
[30] http://www.nonnodondolo.it/node/1721/edit#_ftnref2
[31] http://www.nonnodondolo.it/node/1722/edit#_ftn1
[32] http://www.nonnodondolo.it/node/1722/edit#_ftnref1
[33] http://www.nonnodondolo.it/node/1728/edit#_ftn1
[34] http://www.nonnodondolo.it/node/1728/edit#_ftnref1
[35] http://www.nonnodondolo.it/node/1975/edit#_ftn1
[36] http://www.nonnodondolo.it/node/1975/edit#_ftnref1
[37] http://www.nonnodondolo.it/node/1671/edit#_ftn1
[38] http://www.nonnodondolo.it/node/1671/edit#_ftnref1
[39] http://www.nonnodondolo.it/node/add/book?parent=3930#_ftn1
[40] http://www.nonnodondolo.it/node/add/book?parent=3930#_ftnref1
[41] http://www.nonnodondolo.it/node/1677/edit#_ftn1
[42] http://www.nonnodondolo.it/node/1677/edit#_ftnref1
[43] http://www.nonnodondolo.it/node/1989/edit#_ftn1
[44] http://www.nonnodondolo.it/node/1989/edit#_ftn2
[45] http://www.nonnodondolo.it/node/1989/edit#_ftnref1
[46] http://www.nonnodondolo.it/node/1989/edit#_ftnref2
[47] http://www.nonnodondolo.it/node/1991/edit#_ftn1
[48] http://www.nonnodondolo.it/node/1991/edit#_ftn2
[49] http://www.nonnodondolo.it/node/1991/edit#_ftnref1
[50] http://www.nonnodondolo.it/node/1991/edit#_ftnref2
[51] http://www.nonnodondolo.it/node/1683/edit#_ftn1
[52] http://www.nonnodondolo.it/node/1683/edit#_ftnref1
[53] http://www.nonnodondolo.it/node/add/book?parent=3959#_ftn1
[54] http://www.nonnodondolo.it/node/add/book?parent=3959#_ftnref1
[55] http://www.nonnodondolo.it/node/1693/edit#_ftn1
[56] http://www.nonnodondolo.it/node/1693/edit#_ftnref1
[57] http://www.nonnodondolo.it/node/1695/edit#_ftn1
[58] http://www.nonnodondolo.it/node/1695/edit#_ftn2
[59] http://www.nonnodondolo.it/node/1695/edit#_ftnref1
[60] http://www.nonnodondolo.it/node/1695/edit#_ftnref2
[61] http://www.nonnodondolo.it/node/1701/edit#_ftn1
[62] http://www.nonnodondolo.it/node/1701/edit#_ftn2
[63] http://www.nonnodondolo.it/node/1701/edit#_ftnref1
[64] http://www.nonnodondolo.it/node/1701/edit#_ftnref2
[65] http://www.nonnodondolo.it/node/1702/edit#_ftn1
[66] http://www.nonnodondolo.it/node/1702/edit#_ftn2
[67] http://www.nonnodondolo.it/node/1702/edit#_ftn3
[68] http://www.nonnodondolo.it/node/1702/edit#_ftnref1
[69] http://www.nonnodondolo.it/node/1702/edit#_ftnref2
[70] http://www.nonnodondolo.it/node/1719/edit#_ftn1
[71] http://www.nonnodondolo.it/node/1719/edit#_ftnref1