Perché un reato sussista non è sufficiente che sia concretamente realizzato il fatto materiale previsto dalla norma (condotta ed eventualmente l’evento, legati fra loro dal rapporto di causalità), occorre anche il verificarsi di un singolo atto deve necessariamente imputarsi alla "volontà" del soggetto agente.
L’art. 42, comma 1 c.p. stabilisce che «Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà” (nesso psichico)».
Per aversi reato, oltre al fatto materiale, occorre un nesso psichico tra il soggetto agente e l’evento lesivo; occorre, cioè, l’«attribuibilità psicologica» del singolo fatto di reato alla volontà del soggetto.
Sussiste tale nesso tutte le volte in cui la coscienza e volontà della condotta è posta in essere volontariamente; inoltre, anche quando, pur sussistendo tale esplicita volontà, con uno sforzo del volere la condotta integrante il reato poteva essere evitata dal soggetto.
In una più ampia accezione è stato sostenuto che, vi é coscienza e volontà quando l’azione od omissione sono sostenute da un «impulso volontario cosciente» (la c.d. suitas)[1] .
Un fatto non può dirsi commesso con coscienza e volontà quando la condotta vietata non può essere concretamente impedita dagli sforzi di volontà dell’agente.
La punibilità non è invece esclusa in tutti quei casi in cui ad evitare il fatto sarebbe bastato uno sforzo di attenzione o l’esercizio dei poteri di controllo presenti in ciascuno di noi.
Pertanto devono attribuirsi alla «suitas» del soggetto agente anche gli atti automatici ed abituali i quali con uno sforzo della volontà potevano essere evitati.
Viceversa gli atti istintivi e quelli riflessi in nessun caso possono essere impediti dall’agente. Questi ultimi debbono considerarsi del tutto fuori della sfera di controllo della volontà dell’agente nei confronti del quale, dunque, è da escludere la responsabilità penale dipendenza di essi.
Il concetto di colpevolezza comprende in sé l’attribuibilità (o imputazione soggettiva) del fatto illecito penalmente sanzionato.
Principio cardine del nostro sistema penale è quindi quello della «colpevolezza». Esso è il presupposto necessario del principio costituzionale della “personalità della responsabilità penale” sancito dall’art. 27 co.1 della Carta Costituzionale, e ribadito, quale fondamento e misura della pena, dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 364/88.
La colpevolezza non è solo un elemento del reato, ma è anche criterio di commisurazione della sanzione penale. Dal grado di colpevolezza del reo (oltre al danno arrecato) dipende, infatti, la sanzione da comminarsi al reo.
L’elemento soggettivo (colpevolezza) può assumere diverse forme a seconda di come, nel caso concreto, si atteggia la «volontà» dell’autore del reato. Esso può avere due “forme” fondamentali:
L'elemento soggettivo del reato può avere anche la forma della «preterintenzione», oltre che quelle, fondamentali suindicate.
[1] La suitas, è l’esistenza di un nesso psichico tra il soggetto agente e il fatto
Il dolo è la forma più grave e più frequente che assume la «volontà colpevole» del soggetto attivo del reato (art. 42 comma 2 c.p.).
Quando agisce con dolo il soggetto agente «prevede» e «vuole» sia la condotta che l’evento dai quali la legge fa dipendere l’esistenza del reato stesso. Il che significa che egli si ribella pienamente e completamente al precetto ossia al comando o al divieto contenuto nella norma penale.
In particolare il delitto è doloso (o secondo l’intenzione) "quando l’evento dannoso o pericoloso che è il risultato dell’azione o omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza di un delitto, è dal soggetto agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (art. 43 c.p.)". Contrariamente a quanto previsto dall’Ordinamento per la colpa e per la preterintenzione (sono punibili solo nei casi espressamente previsti dalla legge), il dolo è l’elemento costitutivo del fatto illecito ed è la forma più grave in cui quest’ultimo può realizzarsi. Il reato è quindi doloso quando il soggetto agente ha piena coscienza e volontà delle proprie azioni (piena consapevolezza dello stesso).
Nella struttura del dolo si individuano, pertanto, due "elementi":
L’esistenza del dolo deve essere accertata o provata dall’accusa (Pubblico Ministero) analizzando tutte le circostanze esterne (materiali e psicologiche) nelle quali il soggetto ha tenuto la condotta. L’autore del reato non può essere condannato a titolo di dolo né quando la prova del dolo manca né quando essa è contraddittoria o insufficiente.
In particolare, si considerano «voluti» tutti i risultati che costituiscono lo scopo (o gli scopi) per cui il soggetto ha operato (dolo diretto), nonché anche tutti quei risultati che sono possibili conseguenze della condotta dell’Agente dal momento che questi (ponendo in essere la condotta criminale) ha accettato implicitamente il rischio che tali risultati si verificassero (dolo indiretto o eventuale).
Nell’esempio fatto in precedenza il diportista era animato da dolo diretto. Egli ha infatti indirizzato la prora dell’unità contro il sub con l’intenzione – realizzata – di ucciderlo.
Il dolo si può distinguere in dolo «diretto» (o intenzionale), che è la più grave forma di dolo e si verifica quando il soggetto agente assume un comportamento corrispondente a quello voluto e rappresentatosi; è invece «indiretto» (o enventuale) quando da parte del soggetto agente vi è la consapevolezza che il proprio comportamento potrebbe sfociare in un fatto illecito (cioè a dire allorché il risultato della condotta, pur rappresentato, non è stato dal soggetto agente intenzionalmente o direttamente voluto).
Peraltro, nell’ambito del dolo "indiretto o eventuale" si distingue:
Nella commissione dei reati ricorrono differenti tipologie di dolo oltre a quello diretto e indiretto:
Il dolo generico (è il cd. dolo tipico e si ha quando l’agente vuole realizzare la condotta tipica incriminata dalla norma, es. omicidio) e specifico (si ha quando alla previsione e alla volontà si aggiunge il perseguimento di un fine ulteriore, es. arricchimento in caso di furto).
Il dolo di danno (il soggetto agente provoca un danno a un bene tutelato giuridicamente) e di pericolo (il soggetto ha l’intenzione di danneggiare o minacciare il bene protetto dalla norma);
Il dolo iniziale (il dolo sussiste solo nel momento iniziale della condotta criminosa), concomitante (il dolo persiste anche durante lo svolgimento della condotta criminosa) e successivo (il dolo si manifesta solo dopo il compimento di una certa condotta non dolosa).
A seconda dell’intensità, del dolo si può distinguere la premeditazione o reato di proposito (si verifica quando il colpevole cura nei minimi particolari i dettagli dell’esecuzione del reato) e il reato da impeto (si verifica quando la decisione di commettere un reato è del tutto improvvisa).
Il dolo é «generico», quando è sufficiente, per la punizione, che l’autore voglia l’evento, senza che abbia alcuna rilevanza il «motivo» per cui compie il fatto.
Da quanto si è esposto emerge che il dolo è generico quando basta che sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice e non occorre indagare sul fine perseguito dal soggetto agente.
Il dolo è «specifico», quando la legge prevede che un fatto possa essere punito solo se è compiuto per un determinato fine o uno scopo particolare (=movente), anche se questo non viene realizzato.
Dal dolo occorre, quindi, tenere nettamente distinto il «movente» del reato, ossia il motivo per cui il soggetto agente compie il fatto criminoso.
Il "dolo" è la volontà dell’autore di un reato di tenere una data condotta e di provocare un dato evento; il "movente", altro non è che la ragione intima o il motivo per cui il soggetto compie il reato, ed è normalmente irrilevante ai fini della sussistenza del reato.
Talvolta il movente può essere considerato elemento essenziale del reato. Ciò accade quando la norma prevede che un certo fatto possa essere punito solo se compiuto per un determinato fine.
In tali casi il movente, chiaramente delineato dal legislatore (si pensi all’espressione: «... al solo scopo di danneggiare la cosa altrui...» nel delitto di danneggiamento seguito da incendio previsto dall’art. 424 c.p.), diviene elemento costitutivo del reato.
Di conseguenza il dolo che sorregge siffatti reati assume, come si è detto, il nome di dolo specifico, perché si arricchisce della particolare suindicata discrezionalità del volere.
Si noti infine, che la nozione di «strage» nell’esempio esposto in precedenza è diversa dalla nozione comune. La strage in senso tecnico non è infatti l’uccisione violenta di un gran numero di persone, ma solo la condotta posta in essere per mettere in pericolo la vita di un numero indeterminato di persone.
Essa sussiste, perciò, anche se la morte delle persone non avviene. Se avviene, il reato è però punito con l’ergastolo anziché con la reclusione: ergastolo se cagiona la morte di una sola persona, reclusione non inferiore ad anni 15 negli altri casi.
Il delitto di strage viene commesso infatti da chi, fuori dei casi previsti dall’art. 285 c.p., al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità.
L’elemento materiale del delitto si concreta nel compimento di atti (violenti) aventi obiettivamente l’idoneità a creare pericolo alla vita ed alla integrità fisica della collettività. Rientrano nell’ampia previsione legislativa le esplosioni, gli spari, le emissioni di gas tossici, ecc.
Nella forma semplice la strage è reato di pericolo, nelle forme aggravate, invece, é reato di danno. Poiché il delitto in esame è il classico delitto di attentato (si consuma, infatti, col semplice compimento degli atti aventi l’idoneità a porre in pericolo la pubblica incolumità e non è richiesto alcun evento ulteriore), esso non ammette il tentativo.
Il dolo del delitto in esame è dolo specifico; non basta, cioè, che il soggetto abbia voluto compiere gli atti diretti a porre in pericolo la pubblica incolumità, ma occorre che tali atti siano stati eseguiti al fine di uccidere, ossia con l’intenzione di attentare alla vita di una o più persone.
► Dolo di danno e di pericolo
Il dolo di «danno» si ha se il soggetto agente ha voluto effettivamente ledere il bene protetto dalla norma
Il dolo di «pericolo» si ha se il soggetto agente ha voluto soltanto minacciare il bene.
► Dolo di impeto
Ricorre quando il delitto è il risultato di una decisione improvvisa e viene subito eseguito, senza nessun intervallo tra il momento conoscitivo e il momento volitivo.
► Dolo di proposito
Si ha allorché trascorre un certo lasso di tempo tra il sorgere dell’idea criminosa e la sua attuazione concreta.
Una specie del dolo di proposito è, secondo la dottrina prevalente, la «premeditazione», prevista come circostanza aggravante dell’omicidio e delle lesioni personali (artt. 577, n. 3 e 585 c.p.).
Perché questa aggravante sussista si richiede che tra la decisione di uccidere e la sua attuazione sia trascorso un apprezzabile periodo di tempo e che il proposito di uccidere sia perdurato nell’animo del soggetto agente durante tutto tale periodo.
La premeditazione consiste, quindi, in un «proposito omicida costante nel tempo». Essa può essere accertata caso per caso e tenendo conto dei molteplici fattori che hanno caratterizzato o preceduto la condotta criminosa.
Generalmente sono «indice» di premeditazione:
► Dolo iniziale, concomitante e successivo
Il dolo «iniziale» è quello che sussiste solo nel momento iniziale dell’azione od omissione.
Il dolo «concomitante» è quello che accompagna lo svolgimento dell’intera condotta.
Il dolo «successivo» è quello che si manifesta dopo il compimento della condotta (non dolosa) idonea a provocare l’evento.
Rispetto al dolo, la colpa è una forma "meno grave" che assume la «volontà colpevole» (art. 43, comma1 c.p.). Essa presuppone, infatti, che nell’autore del reato manchi la volontà di provocare l’evento: volontà che, invece, come si è visto, caratterizza il dolo.
In particolare il delitto è colposo (o contro l’intenzione) quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dal soggetto agente, ma si verifica a causa di negligenza o imperizia o imprudenza (=colpa generica) oppure per inosservanza di regole di condotta (=colpa specifica).
Si ha colpa in tutti i casi in cui il soggetto ha agito con scarsa attenzione o con leggerezza, senza cioè adottare quelle misure e quelle precauzioni che avrebbero impedito il verificarsi dell’evento.
Può dirsi, allora, che per la sussistenza della colpa occorrono "due elementi costitutivi":
L’inosservanza delle regole di condotta può determinare una responsabilità a titolo di colpa solo se è riferibile alla «coscienza e volontà» dell’autore del fatto: vale a dire, come si è sottolineato più volte, solo se essa era prevedibile ed evitabile usando i poteri di controllo e di attenzione di cui ciascun uomo dispone.
Quell’inosservanza non potrebbe invece determinare alcuna responsabilità a titolo di colpa se fosse stata dovuta a fattori cui il soggetto agente non era in grado di resistere o di sottrarsi.
Le regole di condotta (regole cautelari) che, al riguardo, assumono rilievo sono quelle dirette a prevenire il pericolo di eventi dannosi o a limitare i rischi collegati allo svolgimento di alcune attività umane.
Le regole di cui si è detto possono anche essere non scritte, ma dettate solo dalla coscienza sociale. In tal caso, la colpa che dipende dalla loro inosservanza si denomina «colpa generica».
La colpa consiste nella inosservanza di precauzioni doverose. Quando essa si verifica per omissione di cautele, per violazione di regole di prudenza, di attenzione o diligenza, si denomina «colpa generica»
La colpa generica, pertanto, è connessa alla violazione di generiche regole cautelari (non scritte) e si sostanzia quando l’evento si verifica per:
Si ha «imprudenza» quando il soggetto agente tiene una determinata condotta con “avventatezza” e “senza ponderazione”.
Dall'esempio appena fatto, il timoniere della nave risponderà del reato di omicidio colposo (art. 589 c.p.) se si accerta che il sonno fu dovuto a «motivi fisiologici» (come la stanchezza, la precedente ed abbondante consumazione del pasto, ecc.) e, quindi alla “grave imprudenza“ di essersi messo alla condotta dell’unità malgrado le non buone condizioni fisiche.
Il timoniere non risponderà invece del reato suddetto se il sonno fu dovuto a “caso fortuito” e cioè, a «cause patologiche» del tutto improvvise e imprevedibili.
La «imperizia» è rappresentata dalla “incapacità” o “scarsa abilità” o “insufficiente preparazione” a svolgere determinate attività o professioni che esigono particolari cognizioni tecniche.
La «negligenza» è l’atteggiamento psichico di chi “manca di attenzione” nel compimento di una attività, di chi agisce con “trascuratezza” e “senza accortezza”.
La «colpa specifica», consiste invece nella inosservanza di “regole scritte” e precisamente nella inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline, ecc.
Come emerge dalla indicazione fornita, l’origine delle regole scritte è la più varia perché non è solo la legge o il regolamento (ad esempio: le norme del Codice della strada, del Codice della navigazione o del rispettivi Regolamenti di esecuzione) ma può essere un qualsiasi provvedimento amministrativo (ad esempio: un ordine di servizi o di polizia, ecc.) e secondo alcune sentenze, le regole della disciplina sportiva.
Nell’ambito del concetto di colpa si possono ulteriormente distinguere fra:
Nell’ambito del concetto di colpa si possono ulteriormente distinguere una:
La «colpa incosciente» (o senza previsione), ricorre quando il soggetto agente non si rende conto che la sua condotta potrebbe provocare eventi dannosi o pericolosi: quando l’evento non è stato voluto, ma non è stato neppure previsto.
La «colpa cosciente» (o con previsione), ricorre quando il soggetto agente non ha voluto l’evento, ma lo ha previsto come possibile conseguenza della sua condotta ma ha sicura fiducia che esso non si verificherà.
La colpa cosciente è una "forma più grave" di colpa che determina un aggravamento del reato (art. 61, n. 3 c.p.) e che presenta aspetti simili al dolo indiretto (o eventuale).
La colpa cosciente si distingue dal "dolo indiretto", in quanto mentre nel "dolo indiretto il soggetto agisce anche a costo di determinare i risultati che ha previsto come probabili o possibili", nella "colpa cosciente il soggetto prevede i risultati della sua condotta, ma agisce nella certezza o la sicura fiducia di non determinarli"-
L’elemento soggettivo del reato può avere anche la forma della «preterintenzione», oltre che quelle, fondamentali e già esaminate, del dolo e della colpa.
La preterintenzione consiste nel cagionare un evento più grave di quello voluto intenzionalmente dal soggetto agente.
La preterintenzione è un "misto" di dolo e di colpa: di dolo per l’evento minore voluto; di colpa per l’evento più grave verificatosi «oltre l’intenzione» del soggetto agente, come evidenzia il fatto che, per le figure di reato preterintenzionale,
il codice penale prevede una pena (reclusione da 10 a 18 anni) che è più severa di quella della corrispondente ipotesi colposa (reclusione da 6 mesi a 5 anni), ma meno severa di quella della corrispondente ipotesi dolosa (reclusione non inferiore nel minimo a 21 anni).
Il codice prevede un unico caso di preterintenzione, l’omicidio preterintenzionale (art. 584). Esso si verifica in tutti i casi in cui la morte di un uomo è cagionata con atti diretti a commettere il delitto di percosse (art. 581 c.p.) ovvero di lesioni (artt. 582-585 c.p.).
Oltre che nel tipico e noto esempio prima riportato, si è ravvisato l’omicidio preterintenzionale previsto dall’art. 584 c.p. nell’ipotesi in cui la morte di un uomo sia cagionata da una «spinta» del soggetto agente; oppure nell’ipotesi in cui l’atteggiamento minaccioso e aggressivo dell’agente (sempreché tendente a percuotere o ledere) è tale da «terrorizzarlo» a tal punto da cagionarne la morte per arresto cardiaco; oppure ancora, nell’ipotesi in cui il soggetto agente si avventa sull’avversario il quale, mentre indietreggia, cade in un pozzo e muore.
Alcuni Giudici, però, interpretano in modo meno rigoroso la disposizione dell’art. 584 c.p., escludendone l’applicabilità nel caso di morte cagionata con una «spinta» (l’autore di questa non risponderebbe perciò di omicidio preterintenzionale, ma di omicidio colposo, in quanto la spinta in sé non può essere considerato atto diretto a percuotere o cagionare lesioni: i cioè un atto idoneo a determinare il tipo di responsabilità previsto dall’art. 584 c.p.) oppure quando la lesione cagionata dall’autore del fatto è stata molto lieve e la morte si è verificata per le precarie condizioni di salute della vittima.
Un’altra ipotesi di reato preterintenzionale, prevista dall’art. 18, comma 2 della legge 22/571978, n. 194, è l’aborto preterintenzionale, che si verifica quando l’interruzione della gravidanza è provocata da atti diretti a cagionare lesioni alla donna.
Nel delitto preterintenzionale vi è la volontà di un evento minore (percosse o lesioni), che ne rappresenta la base dolosa, e la non volontà di un evento più grave (morte o aborto), che è pur sempre conseguenza della condotta del soggetto agente.
Nel nostro ordinamento penale, vengono assimilati ai reati preterintenzionali:
L’omicidio preterintenzionale è la tipica ipotesi di responsabilità oggettiva prevista dall’Ordinamento penale che espressamente stabilisce che in casi eccezionali (e tassativamente indicati), il soggetto è chiamato a rispondere dei risultati della proprie azioni e ciò anche se di fatto non possono essergli mosse contestazioni in ordine agli stessi, neppure di semplice leggerezza.
Sono cause in presenza delle quali viene meno la colpevolezza (elemento soggettivo) del reato. L'elemento soggettivo manca quando il fatto materiale non può essere attribuito alla «coscienza e volontà» del suo autore. In queste ipotesi l’autore del fatto non può essere punito (art. 42, comma 1 c.p.).
La riferibilità del fatto alla coscienza e volontà del suo autore può essere esclusa quando il fatto è stato commesso per:
Si definisce «forza maggiore» (art. 45 c.p.), la forza esterna alla quale l’autore del fatto non era in grado di resistere: la volontà del soggetto viene sempre annullata giacché lo stesso viene costretto da una forza esterna a se stesso che, per il suo potere superiore, inevitabilmente, lo obbliga (contro la sua volontà) a compiere l’azione incriminata dall’Ordinamento.
Si dice allora che l’agente ha incontrato una «Vis maior cui resisti non potest» (=una forza così irresistibile a cui il soggetto agente non potè opporsi) e che quindi il soggetto «agitur se non agiti» (=non ha agito ma è stato fatto agire).
Si ha invece il «caso fortuito» (art. 45 c.p.) per il verificarsi di un fatto imprevisto ed imprevedibile alla condotta dell’agente o alla sua coscienza e volontà.
Il caso fortuito determina la mancanza di dolo e di colpa allorché si verifica, per effetto del comportamento del soggetto agente, un evento da lui non voluto, né da lui causato per imprudenza o negligenza.
Sia la forza maggiore che il caso fortuito escludono, dunque, l’elemento soggettivo del reato, ma mentre nell’ipotesi di caso fortuito avviene l’inserimento, nella condotta del soggetto agente, di un «fattore imprevedibile» che rende fatale il determinarsi dell’evento; invece, nel caso della forza maggiore, l’evento deriva da un «fatto naturale» alla cui azione il soggetto non può sottrarsi.
Sicché, carattere del caso fortuito è la “imprevedibilità”, mentre nella forza maggiore è la “irresistibilità”.
Si ha «costringimento fisico» (art. 46 c.p.), a seguito di una violenza esercitata da altri e alla quale il soggetto agente non poteva resistere comunque sottrarsi.
E’ la tipica ipotesi di forza maggiore in cui la forza esterna è determinata dalla violenza fisica di un altro soggetto. Il reato quindi non viene commesso da chi agisce materialmente ma da chi ha posto in essere la costrizione.
L’ipotesi vista in precedenza va tenuta distinta da quella del cosiddetto «costringimento psichico» (art. 54, comma 3 c.p.). In questo caso, infatti, nei confronti dell’autore del fatto non viene esercitata una violenza fisica alla quale non è possibile resistere, ma una «minaccia» in grado di generare in lui un vero e proprio stato di necessità e di indurlo a commettere il fatto per salvare sé o gli altri da un pericolo attuale di danno grave alla persona.
Al costringimento psichico conseguono effetti analoghi a quelli del costringimento fisico: del reato risponde, infatti, l’autore della minaccia e cioè colui che ha costretto l’autore «materiale» di questo.