Fra i "compiti di istituto" espletati dalle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera [1] rientrano le funzioni ed i compiti di polizia (latu sensu), intendendo con essa sia l’attività di polizia amministrativa, sia l’attività di pubblica sicurezza, sia di polizia militare, sia di polizia stradale, sia, infine, di polizia giudiziaria.
L’attribuzione delle funzioni di polizia giudiziaria va ricercata nel combinato disposto dell' articolo 57 n. 3 [ [2]1] [2]del Codice di Procedura Penale [3]con l' articolo 1235 del Codice della navigazione [4][2] [5], laddove questi recitano che «...rivestono la qualifica di Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria ...» sebbene «...nei limiti del servizio cui sono destinati e secondo le relative attribuzioni…» rispettivamente gli Ufficiali, i Marescialli e i Sergenti, nonché tutti i Volontari di truppa in s.p.e. ed in ferma prefissata del Corpo delle Capitanerie di Porto. Dette funzioni sono state poi riprese da leggi speciali, quali, ad esempio l' art. 22 del Decreto Legislativo 9 gennaio 2012, n. 4 [6] [3] [7], l' art. 23 della Legge 31 dicembre 1982, n. 979 [8] [9](disposizioni per la difesa del mare da inquinamento da navi), e gli artt. 132 n°. 2 e 195 n°. 5 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 [10] (in materia di ambiente), ecc.
Al personale in parola viene corrisposta la relativa indennità c.d. “indennità di polizia”.
Per comprendere compiutamente in cosa consistono tali attribuzioni e quale svolgimento di funzioni esse consentano, è però indispensabile premettere alcune nozioni di "carattere generale" volte a delimitare con chiarezza gli ambiti effettivi entro i quali si muove l’intera problematica.
[1] Sono altresì Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le «persone» alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’art. 55 c.p.p. (vedasi al riguardo Cass. Pen. – Sez. VI^- Sent. n° 1169 del 01.02.06).
[2] Agli effetti dell’art. 57 c.p.p. sono Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria: i Comandanti, gli Ufficiali del Corpo delle Capitanerie di Porto, gli Ufficiali del Corpo equipaggi militari marittimi appartenenti al ruolo servizi portuali, i Sottufficiali del Corpo equipaggi militari marittimi appartenenti alla categoria servizi portuali riguardo ai reati previsti dal presente Codice, nonché riguardo ai "reati comuni" commessi nei porti, se in tali luoghi manchino Uffici di pubblica sicurezza […].
[3] [7] L'art. 27 del Decreto legislativo 9 gennaio 2012, n. 4 (Misure per il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura, a norma dell'articolo 28 della legge 4 giugno 2010, n. 96. (GU n. 26 del 1-2-2012) ha abrogato la Legge 14 luglio 1965, n. 963 e l'articolo 7 del Decreto del Presidente della Repubblica 2 ottobre 1968, n. 1639 (Regolamento di esecuzione per la pesca marittima)
L’attività di «Polizia Marittima» è una materia tanto complessa nel suo profilo generale quanto articolata relativamente ai molteplici ambiti in cui vi si opera. Occorre premettere che per Polizia Marittima (strictu sensu) s’intende quell’attività volta a garantire un pacifico e ordinato, nonché sicuro, svolgimento delle attività nell’ambito portuale, demaniale e del mare territoriale (art. 524 Reg. cod. nav.); si sostanzia in una funzione a carattere "preventivo" ed una "repressiva". Nella seconda emergono le attività connesse all’attribuzione di poteri di polizia giudiziaria agli operatori del settore.
Le “fonti” da cui attingere ciò sono il Codice della Navigazione all’art.1235 e dalle leggi speciali per la pesca (D.lgs. n. 4/2012), diporto (D.lgs. 171/200 e successive modific.), inquinamento marino da navi (legge 979/82 e successive modific.), difesa del mare (ad es. il tema dei rifiuti connesso all’ecomafia) ed il Codice della Strada (per quanto attiene l’ambito portuale).
La competenza attribuita agli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria del settore è piena per i reati previsti dal Codice della Navigazione e dalle succitate leggi speciali. E’ pur vero che la qualifica di "Pubblico Ufficiale", impone a questi ultimi l’obbligo di denuncia in caso si venisse a conoscenza di reati comuni (ex artr. 361, comma 1 c.p.).
L’attività delle Capitanerie di Porto è precipua nell’esercizio della Polizia Marittima assieme alla collaborazione delle altre Forze dell’ordine e corpi dello Stato competenti. L’opera di polizia giudiziaria (accertamento e repressione) si esplica in ambito penale (ad es. con “informativa di reato”) e amministrativo, limitata per materia (art. 13 L. 689/81: una sorta di codice di procedura per gli illeciti amministrativi.). Nell’ambito portuale ove spesso si riscontra un complesso riparto di competenze con l’Autorità portuale, da cui scaturiscono responsabilità, la figura del Comandante del porto esplica anche un’attività di normazione (nell’accezione specifica), soprattutto per quelle attività legate alla quotidiana pratica marittima non contemplate da leggi vigenti.
Il Capo del Circondario marittimo può emanare regolamenti e ordinanze (art. 59 Reg, cod. nav.), escluso per quanto concerne i limiti di navigazione dalla costa di competenza del Capo del Compartimento. Questi succitati sono atti formalmente amministrativi ma sostanzialmente normativi (erga omnes); il regolamento è impiegato per attività a carattere continuativo mentre l’ordinanza regola fatti occasionali.
Tra le attività che il Comandante del porto può regolamentare vi sono quelle portuali: manovra delle navi (art.62, 63 Cod nav.), movimentazione merci (art. 65 Cod. nav.), guardiania (art. 74 Cod. nav.), uso fiamma, ecc., solitamente norme condensate nel Regolamento di Sicurezza Generale.
Per la rimozione di relitti (art. 72, 73 Cod. nav.) l’Autorità Marittima sensibilizza gli enti con risorse economiche mentre dell’escavazione dei fondali (art. 76, 78 Cod. nav.) se ne occupa l’Autorità Portuale. Inoltre il Comandante può disporre per le attività in caso di pericolo (ad es. uso di unità per soccorso; art. 69, 70 Cod. nav.) e l’accensione di fuochi (art. 80 Cod. nav.). Poiché trattasi, quest’ultima, di attività autorizzata dalla P.S., dal Comune per l’uso dell’area designata e verso persona abilitata da licenza, l’Autorità Marittima si limita all’aspetto attinente la sicurezza della navigazione per quanto concerne il servizio di segnalamento, l’interdizione e la sicurezza dell’area.
Il Comandante del porto può vigilare sui soggetti che operano nell’ambito portuale e che il Capo del Compartimento può sottoporre ad iscrizione in appositi Registri (art. 68 Cod. nav.); in effetti si tratta oggi di una comunicazione di “inizio attività”.
Per concludere il profilo di Polizia Marittima è opportuno dare un cenno ai c.d. “punitivi”: art.1174 Cod. nav. (inosservanza di provvedimenti), art.1231 Cod. nav. (inosservanza di norme di sicurezza della navigazione), art.1164 Cod. nav. (demanio).
Il «Corpo delle Capitanerie di porto», storicamente è l’erede delle antiche magistrature del mare, alle quali erano state affidate molteplici attività, dalla regolamentazione delle attività marittime, l'amministrazione e la cura dei porti a funzioni meno mercantili quali gli arruolamenti militari marittimi. E' stato istituito nella sede di palazzo Pitti, nell'allora capitale del Regno d'Italia, Firenze, con la firma del Regio Decreto n. 2438 del 20 luglio 1865 [11]da parte di Vittorio Emanuele II.
Il sempre crescente intervento del nostro Paese in tutte le manifestazioni della vita economica nazionale e l’evoluzione della navigazione marittima latu sensu hanno determinato un ampliamento delle funzioni del Corpo, e da qui la necessità - nel breve volgere di mezzo secolo - della istituzione di un Organo con compiti di direzione e coordinamento su tutti i Comandi e gli Uffici periferici. Fù istituito, con R.D. 8 dicembre 1910 n. 857 [12], l'Ispettorato Generale del Corpo delle Capitanerie di porto.
L’efficienza del personale del Corpo venne duramente collaudata nei momenti più decisivi della vita nazionale e nei conflitti bellici che videro impegnato il nostro Paese. Il conflitto italo-turco prima e l’epopea del colonialismo africano poi, non risparmiarono certamente il Corpo delle Capitanerie di porto in quegli anni, sia per l’impegno nella organizzazione dell’imbarco e sbarco di uomini e vettovaglie di guerra, che per il mantenimento della disciplina dei porti occupati e delle linee di collegamento.
Nel maggio del 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, per il riconoscimento militare del servizio compiuto nel Corpo delle Capitanerie di porto, al personale fu concesso di portare le «stellette», simbolo dei militari. Artefice di questo traguardo fu l’ Ammiraglio Francesco Mazzinghi, divenendo di fatto il fondatore della moderna istituzione delle Capitanerie di porto.
Generale di Porto Ispettore Francesco MAZZINGHI
La prima guerra mondiale portò un grande impegno alle Capitanerie di porto: il servizio di mobilitazione, la requisizione del naviglio mercantile per uso bellico, la difesa costiera, la polizia militare, senza mancare all’organizzazione e l'attività portuale volta ad assicurare la continuità dei rifornimenti alle prime linee.
Nel mese di febbraio 1918 il Governo gravò il Corpo di ulteriori compiti di carattere militare, tutti gli uomini furono militarizzati per tutto il periodo guerreggiato. Il Corpo venne definitivamente inquadrato militarmente nel mese di novembre 1919 ed infine entrava a far parte dei Corpi della Regia Marina nel settembre del 1923. Questo ultimo provvedimento, consacrò la reale vocazione militare del Corpo, conducendolo fino all’attuale assetto organizzativo.
Attualmente, la "struttura" del Corpo prevede una «organizzazione centrale» ed una «periferica», deputata al conseguimento degli interessi pubblici inerenti alla navigazione. In particolare, esplica le proprie funzioni nei riguardi del naviglio, del traffico, del personale marittimo, della pesca, del demanio pubblico marittimo e dei porti, della sanità marittima, ecc.
In quanto Organo periferico dell’Amministrazione Marittima dello Stato dipende dal "Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti [13]" (istituito dall’art. 2 del Dlgs 30 luglio 1999, n. 300) per quanto riguarda i «Servizi di Istituto» di competenza di tale amministrazione, ma dipende dal "Ministero Difesa-Marina [14]" per quanto riguarda lo «stato giuridico, il reclutamento, l'avanzamento e la disciplina» degli appartenenti al Corpo nonché per lo svolgimento dei compiti esclusivamente militari ad esso affidati.
Un posto "particolare" nell'amministrazione diretta occupa il «Comando Generale delle Capitanerie di Porto [15]», istituito con Legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale). È questo l'Organo di comando delle Capitanerie di Porto, retto attualmente da un «Comandante Generale», che provvede all’organizzazione ed al funzionamento delle Capitanerie di Porto, alla disciplina del personale e alla sorveglianza sui servizi periferici disimpegnati dalle stesse e dagli altri Uffici minori, con particolare riferimento alla funzione “esclusiva” della «ricerca e soccorso», gestita dalla dipendente Centrale Operativa.
Nell'ambito dell'organizzazione centrale sono stati, inoltre, istituti il «Reparto Ambientale Marino [16]» (RAM) e il «Reparto Pesca Marittima [17]» (RPM) del Corpo posti alle rispettive dipendenze del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.
Con Decreto Ministeriale 8 giugno 1989 [18], i reparti del Corpo delle Capitanerie di Porto che svolgono compiti di natura “tecnico-operativa”, sono stati costituiti in «Guardia Costiera» che, pertanto, rappresenta un’articolazione del Corpo medesimo ed è costituita da unità navali ed aeree.. Tale provvedimento, che istituisce formalmente anche in Italia la “Guardia Costiera”, in verità non ha fatto altro che riconoscere come tale il servizio da sempre espletato, lungo le coste e in mare, dagli uomini delle Capitanerie di Porto.
Con D.P.R. 28 settembre 1994 n. 662 [19], con il quale l'Italia rende esecutiva la "Convenzione di Amburgo" del 27 aprile 1979 (sulla ricerca e salvataggio in mare), è stato istituito, presso il Comando generale delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera, il «Centro nazionale di coordinamneto del soccorso marittimo [20]» (I.M.R.C.C.). Trattasi di una struttura altamente specializzata in grado di esercitare le proprie funzioni nei molteplici settori di competenza che spaziano dal soccorso marittimo al telerilevamento ambientale, al monitoraggio delle unità da pesca e da traffico, grazie anche alle apparecchiature ad alta tecnologia che consentono una efficace comunicazione tra il bordo e la sala operativa medesima.
Le Capitanerie di porto espletano sia funzioni "prettamente amministrative" (in forma normativa), sia funzioni di "polizia marittima" che di specifici compiti di "polizia di sicurezza" (effettuate in forma operativa e limitatamente alle attività di istituto), sia, infine, funzioni di "polizia giudiziaria" per le violazioni previste dal Codice della navigazione e delle altre leggi speciali (pesca, demanio marittimo, diporto nautico, ambiente, ecc.) ed attraverso l'articolazione operativa di Guardia Costiera, opera in mare, nei porti e sulle pertinenze marittime, principalmente per la «salvaguardia della vita umana in mare» ed in genere tutte le attività marittime connesse alla fruizione del mare nella più ampia accezione del termine.
Le principali linee di attività del Corpo delle Capitanerie-Guardia Costiera in materia di “polizia marittima”, comprendono la disciplina della navigazione marittima, la regolamentazione di eventi che si svolgono negli spazi marittimi soggetti alla sovranità dello Stato; il controllo del traffico navale e la prevenzione di sinistri marittimi attraverso il "Sistema VTS" [21] (Vessel Traffic Service) e l’esperimento delle relative inchieste; il controllo sulla sicurezza della navigazione svolto sempre più intensamente dagli ispettori PSC (Port State Control) per prevenire infortuni ai marittimi e incidenti in mare; la manovra delle navi in sicurezza nei porti; il controllo del demanio pubblico marittimo; i collaudi e le ispezioni periodiche di depositi costieri e di altri impianti pericolosi.
Bisogna ricordare però che anche quelle che, da sempre, sono state le attività principali del Corpo hanno subito varie evoluzione e modificazioni e tra queste ricade appunto l’attività di “polizia giudiziaria”, che si sta spingendo ad abbracciare numerose materie legate sempre e comunque al mare, rivestendo un’importanza fondamentale a livello nazionale per la difesa dell’ambiente marino e la prevenzione di attività illecite che possano arrecargli danno.
L’impegno quotidiano del Corpo delle Capitanerie in tema di polizia giudiziaria è pertanto da inquadrarsi nel complesso delle attività operative svolte in mare, nei porti e lungo la fascia costiera nazionale dalle unità navali e dal personale a terra.
L’intensa azione di accertamento che caratterizza tali attività ha assunto, nel tempo, proporzioni sempre più ampie in relazione alla crescita esponenziale degli interessi della collettività sul mare e lungo la fascia costiera e della conseguente attività normativa svolta dallo Stato con numerosi atti legislativi e regolamentari.
Non è più solo il Codice della Navigazione del 1942 l’unica fonte normativa a cui gli operatori di polizia nel campo marittimo devono fare riferimento, ma una serie di leggi e decreti che spaziano dalla pesca alla salvaguardia dell’ambiente marino, dal controllo e repressione dell’immigrazione clandestina alla tutela dei beni archeologici sommersi.
Quelli indicati sono, pur nelle linee generali, i compiti d’istituto del Corpo delle Capitanerie di porto. E’ proprio nello svolgimento di quei compiti, che il personale del Corpo può «imbattersi» in fatti concreti costituenti reato e trovarsi, di conseguenza, costretto ad esercitare funzioni di polizia giudiziaria. Peraltro, il personale del Corpo, può legittimamente svolgere dette funzioni solo “entro gli ambiti“ per esso rispettivamente determinati dal Codice di procedura penale e dalle numerose leggi speciali (o dai provvedimenti a esse equiparati) che si interessano della materia. Per questo motivo, si dice solitamente che la legge stabilisce la “competenza” degli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria indicando non solo quali atti possono essere compiuti dall’una o dall’altra categoria di soggetti (c.d. competenza agli atti), ma anche i limiti (di tempo, spazio e materia) entro i quali quegli atti possono esere compiuti dai vari Organi e persone cui essa attribuisce la qualifica di Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria.
Per il personale del Corpo l’attività di polizia giudiziaria è generalmente un’attività “residuale” che viene svolta esclusivamente quando la normale attività amministrativa (di controllo, ispezione e vigilanza) affidata dai Comandi di appartenenza progredisce nell’accertamento di un reato e impone perciò il compimento di attività dirette ad assicurare le fonti di prova e a raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale.
Nel carattere residuale dell’attività di polizia giudiziaria degli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria a "competenza limitata" va individuata la ragione per la quale gli appartenenti al Corpo delle Capitanerie, a differenza della gran parte degli Ufficiali e degli Agenti di polizia giudiziaria a competenza generale, possono esercitare la loro funzione solo entro definiti limiti temporali e spaziali.
L'Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Nicola CARLONE è nato a Minervino Murge (BT) il 23/09/1960. Ha trascorso l'adolescenza a Losanna (Svizzera), dove ha frequentato le scuole medie e superiori diplomandosi presso il Liceo scientifico "Vilfredo Pareto".
Con Decreto del Presidente della Repubblica in corso di emanazione, vista la delibera del Consiglio dei Ministri del 15/07/2021, è stato nominato, a decorrere dal 25/07/2021, Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto - Guardia Costiera, con il contestuale conferimento del grado di Ammiraglio Ispettore Capo (CP).
Ha conseguito la laurea in Scienze marittime e navali presso l'Università degli studi di Pisa e la laurea in Scienze internazionali e diplomatiche presso l'Università degli studi di Trieste, e due Master universitari di II livello in e-Health (presso l'Università degli studi di Camerino) e in Intelligence e Security (presso la Link Campus University of Malta).
Ha frequentato, tra l'altro, i seguenti corsi: 1st Port State Control Officer certification course (1996, Centro di formazione specialistica del Corpo "A. De Rubertis" di Genova); Helicopter underwater escape specialization course (basic and advanced) - Firefighting training specialization - Survival and rescue training specialization course (1996, Centro Formazione ENI); Information technology specialization course (1996, Comando Generale del Corpo); Police specialization course (1999, Comando Carabinieri di Bari).
Ha conseguito l'abilitazione ad Ispettore Port State Control (1996) e il brevetto di specializzazione M.M. in diritto internazionale marittimo (2011).
Nel corso della carriera ha svolto attività di docenza presso le seguenti istituzioni: Scuola Sottufficiali M.M. di Taranto (artiglieria navale); Università degli studi di Perugia (investigations and security sciences); Link Campus University of Malta (intelligence e security); Centro di formazione specialistica del Corpo "A. De Rubertis" di Genova (sicurezza della navigazione e port/ship security); Università Campus Bio-Medico di Roma (homeland security).
E' insignito di numerose onorificenze, tra cui: Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana; Medaglia Mauriziana per anzianità di servizio militare; Medaglia commemorativa per le operazioni NATO in ex Jugoslavia; Croce commemorativa per la missione militare di pace della Forza Multinazionale in Libano; Medaglia commemorativa per la protezione del naviglio mercantile nazionale e salvaguardia della libertà di navigazione in Golfo Persico.
E' sposato con la sig.ra Nunzia ed ha due figli. Parla correntemente le lingue inglese e francese ed ha una conoscenza di base della lingua tedesca.
L'Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Nicola CARLONE
Il Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera è l'Organo posto al vertice del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia costiera [22] della Repubblica Italiana [23].
Il Comando generale è retto da un "Ammiraglio Ispettore Capo [24]" e ha la sua sede in viale dell'Arte a Roma [25] nel quartiere dell'EUR [26] presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti [27], ed è coadiuvato dalla figura dell'Ammiraglio Ispettore [28], che ricopre la carica di Vice Comandante Generale del Corpo.
Funzioni del Comandante Generale del Corpo:
Il Comandante Generale del Corpo viene nominato con decreto del Presidente della Repubblica [29]. In seguito ad una della norme del decreto 11 novembre 1938 [30] al vertice del Corpo della Capitanerie di porto veniva posto un Ammiraglio di squadra [31] appartenente al Corpo di stato maggiore [32] della Regia Marina [33], tale situazione perdurò fino al gennaio 1946 quando al vertice del Corpo tornò un Ammiraglio Ispettore proveniente dal Corpo delle Capitanerie.
L'attuale Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto è l'Ammiraglio Ispettore (CP) Nicola Nicola CARLONE (25/07/2021 al .... oggi).
Il «Corpo delle Capitanerie di porto», storicamente è l’erede delle antiche magistrature del mare, alle quali erano state affidate molteplici attività, dalla regolamentazione delle attività marittime, l'amministrazione e la cura dei porti a funzioni meno mercantili quali gli arruolamenti militari marittimi. E' stato istituito nella sede di palazzo Pitti, nell'allora capitale del Regno d'Italia, Firenze, con la firma del Regio Decreto n. 2438 del 20 luglio 1865 da parte di Vittorio Emanuele II.
L'Ammiraglio Ispettore Capo Giovanni PETTORINO è nato a Roma il 24 luglio 1956. Sposato con due figli, si è laureato in Scienze Politiche presso l'università "La Sapienza" di Roma.
Dopo aver prestato servizio nel gruppo sportivo militare delle "Fiamme Gialle" per oltre quattro anni, ha frequentato il corso a nomina diretta presso l'Accademia Navale di Livorno nel 1981.
Successivamente ha prestato servizio presso le Capitanerie di Porto di Napoli e Viareggio ed ha effettuato imbarchi di addestramento a bordo della fregata Alpino e del dragamine Larice.
Ha frequentato il 13° corso di abilitazione al Comando di motovedette d'altura nel 1986, il 14° corso Normale di Stato Maggiore presso l'Istituto di Guerra Marittima di Livorno nel 1994/1995 ed il 1° corso dell'Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze nel 1998/1999.
Nel 1982 è transitato nel Corpo delle Capitanerie di porto, ricoprendo, tra gli altri, incarichi di comando presso i seguenti uffici:
L’ Ammiraglio Ispettore (CP) Comandante Generale Vincenzo MELONE è nato a Roma (RM) il 9 febbraio 1953. Dopo aver conseguito il diploma di maturità scientifica ha frequentato i corsi normali di S. M. dell’Accademia Navale di Livorno dal 1972 al 1976, laureandosi in scienze marittime e navali. Quale ufficiale di Stato Maggiore della Marina Militare è stato imbarcato su diverse unità della Squadra Navale tra cui Nave Etna, Nave Doria, Nave Impavido, Nave S. Giorgio, Nave Centauro e Nave Canopo, conseguendo l’abilitazione as/sioc e il comando di guardia in plancia.
Nel 1982 è transitato nel Corpo delle Capitanerie di porto, ricoprendo, tra gli altri, incarichi di comando presso i seguenti uffici:
Nel 1987 ha conseguito la specializzazione “ordinamento servizio sicurezza della navigazione e difesa "NBC”.
Nel periodo dal 1989 al 1991 l’Ammiraglio ha ricoperto l’incarico di Ufficiale Superiore addetto al Ministro della Marina Mercantile, dal 1992 al 1995 è stato Assistente del Comandante Generale e dal 1999 al 2002 ha curato i rapporti con il Parlamento per i provvedimenti di interesse del Corpo delle Capitanerie di porto.
E’ stato insignito delle seguenti decorazioni e onorificenze:
Il 31 maggio 2005 ha assunto l’incarico di Capo del III Reparto Piani e Operazioni del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera ed in tale incarico è stato responsabile nazionale dell’impiego operativo della componente aeronavale e subacquea del Corpo, della predisposizione dei documenti di pianificazione e soprattutto delle emergenze in mare sia per quanto riguarda la salvaguardia della vita umana che della tutela dell’ambiente marino.
Il 15 novembre 2010 ha assunto l’incarico di Capo del I Reparto Personale del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera.
Il Comandante Generale delle Capitanerie di Porto
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Felicio Angrisano è nato a Torre Annunziata (NA) il 1° novembre 1950. Ha conseguito, con il massimo dei voti, la laurea in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli ''Federico II'' e dopo un anno di tirocinio legale presso il foro di Milano, è entrato nel Corpo delle Capitanerie di porto nell’ottobre del 1975, quale Ufficiale a Nomina Diretta, con il grado di Sottotenente di Vascello (CP) del ruolo normale.
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 17 maggio 2013, ha deliberato la promozione al grado di Ammiraglio Ispettore Capo, perfezionata con Decreto del Presidente della Repubblica del 21 maggio 2013 e decorrenza amministrativa 2 giugno 2013.
Con Decreto del Presidente della Repubblica del 27 maggio 2013, all’Ammiraglio Angrisano è stato conferito l’incarico di Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera a decorrere dal 2 giugno 2013.
Tra i numerosi incarichi assunti nel corso della sua carriera figurano:
L’Ammiraglio Ispettore Capo Felicio Angrisano ha portato a termine anche varie iniziative nel campo del sociale:
Autore di diverse pubblicazioni sui servizi d’istituto del Corpo, membro permanente del CISM (Comitato Interministeriale Sicurezza Marittima) e del COCIST (Comitato di Coordinamento Interministeriale per la Sicurezza dei Trasporti e delle Infrastrutture), è docente di:
È stato insignito delle seguenti decorazioni ed onorificenze:
È stato, inoltre, insignito del Premio alla carriera ''Ad Haustum Doctrinarum''.
È coniugato con la Sig.ra Anna Maria Saracino ed ha due figli, Alfredo e Alessandro.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 02.06.2013 al 01.11.2015
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Pierluigi CACIOPPO è nato a Roma il 1° giugno 1948, laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, è entrato in Accademia Navale nel 1974/75 con il grado di Sottotenente di Vascello della Marina Militare (Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera). Terminato il ciclo di studi è stato destinato presso la Capitaneria di Porto di Gaeta.
Ha successivamente assolto una serie di prestigiosi incarichi, tra cui:
Promosso Ammiraglio Ispettore (CP) il 1° gennaio 2008, dal 12.02.2007 è in servizio a Roma presso il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera, dove ha ricoperto l’incarico di Capo del 7° Reparto Ricerca e Sviluppo fino al 14 ottobre 2008 e successivamente Capo del 5° Reparto Amministrazione e Contabilità fino al 7 ottobre 2010.
Ha ricoperto l’incarico di Vice Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto dall'8 ottobre 2010 al 24 febbraio 2012.
Ha frequentato, tra l'altro, il 20° corso superiore di stato maggiore presso l'Istituto di Guerra Marittima di Livorno, e la 54^ sessione ordinaria dell’Istituto Alti Studi della Difesa (CASD) di Roma.
E' inoltre insignito delle seguenti onorificenze e decorazioni:
E' stato Responsabile Unico del Procedimento per l’attuazione del “Grande Progetto Nazionale VTS” cofinanziato con fondi P.O.N. Trasporti 2000/06.
E’ stato Responsabile d’Azione per diversi progetti cofinanziati dal P.O.N. Sicurezza 2007/15 e dal Fondo Europeo per le Frontiere Esterne.
E’ attualmente rappresentante Italiano presso il Consiglio di Amministrazione dell’Agenzia Europea per la Sicurezza Marittima (EMSA) e rappresentate italiano presso l’High Level Steering Group on SafeSeaNet presso la D.G. MOVE - Unità G.1 della Commissione Europea di Bruxelles.
Nel corso della carriera ha diretto o coordinato molteplici operazioni di ricerca e soccorso in mare, salvando numerose persone disperse o naufragate a seguito di incidenti.
E' stato Commissario Straordinario per la bonifica dell'Area Marina Protetta di Baia.
E' autore di numerosi studi e pubblicazioni sul controllo di gestione del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera.
Ha ricevuto il premio Cosimo FANZAGO 2006 di Napoli con la seguente motivazione: "Per il suo impegno nel rilancio e nella valorizzazione della risorsa mare e delle coste per aver stabilito un proficuo rapporto con la città ed i beni culturali".
L'Ammiraglio CACIOPPO abita a Roma. E' coniugato con la signora Maria Stella BARTOLI ed ha due figli.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 25.02.2012 al 01.06.2013
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Marco LOLLI è nato a Montefiascone (VT) il 7 ottobre 1945, laureato in Giurisprudenza nel 1969 presso l'Università degli Studi di Genova, con discussione di una tesi in Diritto della Navigazione, è entrato nel Corpo delle Capitanerie di porto nel 1970 frequentando, presso l'Accademia Navale di Livorno, il corso di Istruzione per ufficiali a nomina diretta.
Nel corso della carriera ha ricoperto praticamente la totalità degli incarichi dell'Amministrazione marittima, sia di natura amministrativa sia tecnico/operativa, prestando servizio presso importanti Capitanerie di porto e presso il Comando Generale.
Ha frequentato numerosi corsi di formazione in materia di sicurezza, difesa e soccorso aereo ed ha conseguito:
Tra le iniziative poste in essere ha:
Durante l'ultimo incarico alla Direzione Marittima della Liguria ha perseguito gli obiettivi tesi allo snellimento dei procedimenti amministrativi legati all'arrivo e alla permanenza delle navi in porto in un'ottica di maggiore efficienza e sicurezza dei traffici marittimi e dei servizi anche attraverso l'implementazione dell'informatizzazione della gestione portuale (PMIS-port management information system) e del controllo del traffico marittimo (VTS-Vessel Traffic Services).
In ambito internazionale l'Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Ferdinando Lolli è stato:
E' stato insignito delle seguenti onorificenze:
All'Ammiraglio Ispettore Lolli sono stati a tutt'oggi tributati per specifici interventi connessi con gli incarichi ricoperti e per i risultati conseguiti, fra cui spiccano quelli correlati all'effettivo salvataggio di vite umane, 2 encomi solenni, 12 encomi semplici e 10 elogi, nonché numerosissime attestazioni di vivo compiacimento e apprezzamento.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 19.06.2010 al 07.10.2010
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Marco Brusco è nato il 24 Febbraio 1947 a Civitavecchia, è entrato nel Corpo delle Capitanerie di Porto nell’Ottobre 1971, dopo essersi laureato a Roma in Giurisprudenza discutendo una tesi sui poteri del Comandante del Porto (tesi discussa con il Chiar.mo Prof. Antonio Lefebvre D’Ovidio).
Dopo il corso in Accademia Navale, gli imbarchi sull’incrociatore Vittorio Veneto e su unità della marina mercantile ed una breve permanenza di servizio a Genova, è stato destinato nell’anno 1973 a Cagliari.
Nel capoluogo sardo, fra gli innumerevoli incarichi, in particolare ha retto la Sezione Demanio Marittimo ed ha impostato il nascente Ufficio Ecologia presso quella Capitaneria di Porto.
L’Ufficiale, dopo aver svolto il periodo di Comando nel grado di Tenente di Vascello presso il Circondario Marittimo di Porto S.Stefano (Luglio 1980 – Settembre 1982), è stato destinato a Livorno per svolgere prevalentemente l’incarico di insegnante di materie giuridiche, ambientali ed economiche ai giovani Ufficiali delle Capitanerie di Porto e della Guardia di Finanza che seguono i vari corsi presso l’Accademia Navale.
Dall’anno 1985, pur continuando a svolgere saltuarie conferenze in Accademia, è rientrato a tempo pieno in Capitaneria dove ha esplicato la propria attività quale Capo delle Sezioni Tecnica ed Ecologia.
Durante lo svolgimento di tali ultimi incarichi, è stato componente degli staff del "Commissario ad acta" per lo smaltimento dei rifiuti transfrontalieri sia della Motonave "Karin B" che della Motonave "Deep sea carrier" ed in qualità di Ufficiale all'Ecologia, ha collaborato con il Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Chimica Analitica Strumentale presso il Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell'Università di Pisa, sui problemi eco-ambientali della zona marittima di bocca d'Arno - tenuta S. Rossore.
Dal 1990 al 1994 è stato Comandante della Capitaneria di porto di Viareggio.
Dal 6 luglio 1994 al 30 Settembre 1995, con il grado di Capitano di Vascello, ha svolto l'incarico di Assistente del Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto presso il Comando Generale.
Il 1° Ottobre 1995 è stato nominato Comandante della Capitaneria di Porto di La Spezia e, conseguentemente alla legge 84/94 anche Commissario Aggiunto per l'organizzazione portuale di La Spezia, nelle more della nomina del Presidente dell'Autorità Portuale.
Dal 1997 al 1999, ritornato al Comando Generale, ha svolto l'incarico di Capo del 2° Reparto - Affari Giuridici e Servizi d'Istituto.
Dal 1999 al 2001 ha assunto l'incarico di Capo dell'Unità Organizzativa del Corpo delle Capitanerie di Porto per la protezione dell'Ambiente Marino e Costiero presso il Gabinetto del Ministro dell'Ambiente; durante questo periodo è stato nominato Presidente del Comitato Tecnico di vigilanza e consulenza sull'Accordo di Programma tra Ministero dell'Ambiente ed ENEA, con riferimento al Progetto " Il Mediterraneo, difesa del mare e delle coste" e nel 2000 è stato nominato Consulente della Commissione Parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse della XIII legislatura.
Con il grado di Contrammiraglio, dal 2001 ha assunto l'incarico di Direttore Marittimo della Toscana e Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno fino al 2004; nello stesso periodo, nel 2003, con Ordinanza 7 novembre n. 3324 del Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato nominato Commissario delegato per la demolizione e la rimozione della motonave da carico libanese VENUS, incagliatasi per naufragio nella notte tra il 23 ed il 24 Ottobre 2002 sulla scogliera di Castiglioncello (l’emergenza si è conclusa, come previsto, nel Luglio 2004).
Dal 2004 al Gennaio 2007 ha ricoperto l'incarico di Direttore Marittimo della Liguria e Comandante della Capitaneria di Porto di Genova.
Promosso Ammiraglio Ispettore con decorrenza 22 Gennaio 2007, è divenuto Capo del 1° Reparto Personale del Comando Generale a Roma.
Le attribuzioni proprie del Reparto cui è preposto, l’Ammiraglio ha lo speciale incarico di continuare a formare e realizzare i programmi di reclutamento, formazione e addestramento professionale del personale militare in servizio, assunto e da assumere, ai sensi della Legge 31 Agosto 2004, n° 226.
Il 15 Ottobre 2008 è stato nominato Vice Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto.
Dall'8 ottobre 2010, con il grado di Ammiraglio Ispettore Capo, è stato nominato Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto - Guardia Costiera; incarico ricoperto fino al collocamento in ausiliaria in data 24 Febbraio 2012.
Durante questo stesso ultimo periodo è stato Presidente del Comitato Nazionale del Welfare della Gente di Mare.
Fra le diverse specializzazioni conseguite, vi è quella in "Diritto umanitario internazionale in guerra".
Nel periodo Novembre 1997 - Febbraio 1998 ha frequentato un corso di Management tenuto presso il Centro Alti Studi per la Difesa con la collaborazione della Scuola di Management della LUISS di Roma e della Scuola di Direzione Aziendale della BOCCONI di Milano.
Ha rappresentato il Corpo delle Capitanerie di Porto nella " Iª Conferenza Internazionale sulle ustioni ed incendi ", svoltasi a Palermo dal 25 al 28 Settembre 1990, tenendo una relazione sul tema "Incendio in porto", pubblicata nel volume "The management of mass burn casualties and fire disasters" edito nel 1992 da Kluwer Academic Publishers.
E’ membro del Comitato della “Rivista del Diritto della Navigazione”.
Oltre a vari encomi, elogi ed apprezzamenti, si fregia delle Onorificenze di "Commendatore", "Ufficiale" e "Cavaliere" dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, della Medaglia Mauriziana al merito per 10 lustri di carriera militare, del Diploma di benemerenza di seconda classe e relativa Medaglia d'Argento al merito dell'Ambiente, della Medaglia d'argento al merito della Croce Rossa Italiana, della Medaglia di bronzo al merito di lungo comando, della Croce d'oro con stelletta per anzianità di servizio (40 anni), della Croce di Grande Ufficiale con spade dell'Ordine al merito Militense del Sovrano Militare Ordine di Malta, dell'Onorificenza Pontificia di "Cavaliere di San Silvestro Papa", delle Onorificenze di Commendatore e di Cavaliere di Merito con placca d'argento del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio e dell’Onoreficienza dell’Ordine di San Giorgio (IV grado) dell’Accademia Internazionale delle Tecnologie di Rating e della Sociologia “Golden Fortune”.
Per la Sua carriera al servizio delle Istituzioni e della collettività, l’Ammiraglio Brusco è stato insignito dalla Città di Viareggio, luogo di residenza, di un attestato di riconoscimento e benemerenza; inoltre ha ricevuto la cittadinanza onoraria dai Comuni di Fagnano Castello (CS), Forte dei Marmi (LU) e Pietrasanta (LU).
Coniugato con la signora Vivalda, ha due figli ed una nipotina.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 08.10.2010 al 24.02.2012
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Raimondo Pollastrini è nato a Milano il 17 giugno 1945, è entrato nel Corpo delle Capitanerie di porto, prima come Ufficiale di Complemento e poi quale vincitore del Concorso a nomina diretta; ha prestato servizio presso importanti Capitanerie quali Genova, Trieste, Savona, Viareggio e Livorno.
Nel 1985 è stato destinato all'Accademia Navale di Livorno per svolgere le funzioni di insegnante di diritto della navigazione e diritto marittimo internazionale in diversi Corsi ai quali partecipano prevalentemente laureati in Giurisprudenza, Scienze Politiche e Economia e Commercio.
Dal 1986 al 1989 è stato Direttore dell'Ufficio del Lavoro Portuale di Livorno (anche durante il Commissariamento della Locale Compagnia Portuale).
Tra il 1989 e il 1991 è stato responsabile e coordinatore del Dipartimento di Scienze Giuridiche all'Istituto di Guerra Marittima di Livorno, che da anni prepara gli Ufficiali Superiori della Marina Militare al futuro ruolo di Dirigenti della Forza Armata.
Ha ricoperto l'incarico di vice Comandante del porto di Livorno dal 1991 al 1995 ed è stato da settembre 1994 a maggio 1995 Commissario aggiunto della neo istituita Autorità Portuale di Livorno.
Ha partecipato al 30° Corso di diritto dei conflitti armati (in lingua francese) dal 3 al 15 giugno 1990 a Sanremo.
Ha rappresentato l'Italia al 3° "Meeting of Madrid Plan of Action" sul diritto dei conflitti armati che si è svolto a Bergen nel settembre 1991 ed ha anche preso parte al 6° meeting tenutosi sullo stesso argomento a Livorno nel giugno del 1994.
In due diverse occasioni, nel 1997 e nel 1998, ha fatto parte della Delegazione italiana di esperti operante a Tirana quale consulente giuridico per l'elaborazione di un Codice della Navigazione albanese e per la predisposizione di un disegno di legge relativo alla istituzione di una Guardia Costiera Albanese.
E' stato per due anni Direttore responsabile del Bollettino dell'istituto di Guerra Marittima, di scienze militari e cultura varia a larga diffusione nell'ambito della Marina Militare, cui ha collaborato anche con la stesura di articoli di diritto internazionale marittimo.
Nel periodo in cui è stato destinato in Accademia e all'Istituto di Guerra Marittima ha elaborato le seguenti dispense utilizzate come libri di testo:
Ha collaborato inoltre al periodico dell'Istituto di Guerra Marittima per la quale ha scritto i seguenti articoli:
Un suo intervento ad un incontro del Propeller Club di Genova sui Porti di Rifugio è stato pubblicato sulla Rivista "Il Diritto Marittimo". Un suo articolo dal Titolo "Le bandiere ombre come minaccia alla Security" è stato altresì pubblicato nel volume "Sicurezza Marittima: un impegno comune" edito a cura della Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli.
Un articolo in tema di Port State Control è stato pubblicato sulla rivista "Il diritto Marittimo" Fascicolo IV - 2005.
Un ulteriore articolo: "Il controllo dello stato di approdo: un utile strumento. Breve analisi dei principali aspetti giuridici" è stato pubblicato sulla rivista "Il Diritto Marittimo" Fascicolo III - 2009.
Ha rivestito dal 1995 a dicembre 1999 l'incarico di Capo Ufficio Coordinamento del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera - con sede a Roma ed è stato Assistente del Comandante Generale.
Ha frequentato l'Istituto Alti Studi della Difesa nell'anno 2000.
L'Ammiraglio POLLASTRINI, Contrammiraglio (CP) dal 1° gennaio 1999 e promosso Ammiraglio Ispettore (CP) il 1° gennaio 2003, dal 1° agosto del 2000 ha assunto gli incarichi di Direttore Marittimo della Liguria e di Comandante della Capitaneria di porto di Genova. Dal 30 ottobre 2004 al 4 marzo 2007 ha espletato l'incarico di Capo del Reparto 1° (Ordinamento e impiego del personale) del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto.
Dal 5 marzo 2007 al 3 luglio dello stesso anno ha ricoperto l'incarico di Vice Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera.
Professore a contratto presso:
É laureato in Lettere all'Università di Firenze e in Giurisprudenza all'Università di Genova, discutendo una tesi in Diritto della Navigazione dal titolo "Tutela dell'equipaggio e responsabilità dei raccomandatari marittimi".
É insignito delle seguenti decorazioni:
Il 20 giugno 2008 è stato nominato Socio Onorario dell'Associazione Italiana di Diritto Marittimo.
In data 11 luglio 2008 la Fondazione "Centro Internazionale Radio Medico" (CIRM) gli ha conferito l'Attestato di Benemerenza.
Dal 4 Luglio 2007 al 18 giugno 2010 è stato il Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera.
Si è spento a Livorno il 15 agosto 2013.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal dal 05/07/2007 al 18/06/2010
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Luciano Dassatti è nato a Riva del Garda (TN) il 28 giugno 1942. Dopo aver conseguito il diploma di maturità classica ha frequentato i corsi normali dell’Accademia Navale di Livorno dal 1961 al 1965, laureandosi in scienze marittime e navali. Quale ufficiale di Stato Maggiore della Marina Militare è stato imbarcato su diverse unità della Squadra Navale tra cui Nave Duilio, Nave Centauro, Nave Intrepido e Nave Veneto, conseguendo l’abilitazione as/sioc e di controllore di aeromobili di II livello. Nel 1972 è transitato nel Corpo delle Capitanerie di porto, ricoprendo, tra gli altri, incarichi di comando presso i seguenti uffici: Ufficio Circondariale Marittimo di Riposto, dal 1973 al 1975; Capitaneria di porto di Viareggio, dal 1984 al 1986; Capitaneria di porto di Roma, dal 1989 al 1990; Direzione Marittima di Civitavecchia, dal 1991 al 1992; Direzione Marittima di Livorno, dal 1992 al 1995; Direzione Marittima di Napoli, dal 1995 al 1998. Nel periodo dal 1986 al 1989 l’Ammiraglio ha svolto presso l’Accademia Navale l’incarico di docente di materie giuridiche, diritto marittimo internazionale, diritto umanitario e logistica, nonché quello di coadiutore del Corso Superiore di Stato Maggiore presso l’Istituto di Guerra Marittima, incarico per il quale è stato autorizzato a fregiarsi del distintivo IGM.
Dal 1998 al 2004 ha rivestito l’incarico di Capo del 1° Reparto personale, formazione e ordinamento del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto.
Durante la carriera ha svolto periodicamente l’incarico di Professore a contratto in seno al corso di Economia e Gestione delle Imprese di Trasporto presso l’Università di Cassino, nonché la funzione di Commissario straordinario dell’Autorità Portuale di Livorno.
E’ autore di diverse pubblicazioni sui servizi di istituto del Corpo delle Capitanerie di porto.
E’ stato insignito delle seguenti decorazioni e onorificenze:
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 26/11/2004 al 04/07/2007
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Eugenio Sicurezza è nato a Formia in provincia di Latina il 25 novembre 1939, è sposato con la Sig.ra Marvi Amici Cavallo ed ha due figli. Dopo la maturità classica ha frequentato l’Accademia Navale di Livorno nel Corpo di Stato Maggiore negli anni tra il 1958 ed il 1962. E’ stato imbarcato per oltre sei anni su varie unità della Squadra Navale, fra cui l’Incrociatore lanciamissili “Caio Duilio” ove ha ricoperto l’incarico di Ufficiale di Rotta. Si è specializzato in Idrografica presso l’Istituto Idrografico della Marina a Genova. Transitato nel Corpo delle Capitanerie di porto ha avuto come prima destinazione la Capitaneria di porto di Genova, dove ha operato negli anni 1970-71 quale addetto alla sezione Tecnica ed alla sezione Sicurezza della Navigazione. Successivamente è stato titolare dell’Ufficio Circondariale Marittimo di Grado e quindi Comandante in II^ della Capitaneria di porto di Olbia. Ha poi alternato destinazioni presso Uffici Centrali del Corpo e Comandi periferici, dal 1981 al 1983 è stato comandante della Capitaneria di porto di Imperia, dal 1986 al 1989 Direttore Marittimo del Lazio e Comandante del porto di Civitavecchia, dal 1996 al 1999 Direttore Marittimo della Liguria e Comandante del porto di Genova. Dal 15 dicembre 1999 ha assunto l’incarico di Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto. E’ laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Genova e in Scienze Marittime e Navali presso l’Università di Pisa. Ha frequentato a Roma tre corsi di specializzazione post-universitaria presso la sede distaccata dell’Università di Bologna. Ha frequentato l’Istituto di Guerra Marittima nel grado di Capitano di Fregata, ed il Centro Alti Studi per la Difesa nel grado di Contrammiraglio.
ONORIFICENZE:
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 15/12/1999 al 25/11/2004
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L' Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Renato Ferraro Di Silvi e Castiglione è nato a Napoli nel 1934, dopo il conseguimento della maturità classica nel 1952 e, nel 1957, della laurea in giurisprudenza presso l'Università degli studi di Napoli, entra nelle Corpo delle Capitanerie di porto a seguito di concorso. Nel 1958 frequenta presso l'Accademia Navale, quale capocorso, il corso a nomina diretta per sottotenente di porto, per essere poi destinato alla Capitaneria di porto di Siracusa. Successivamente, nel 1975, conseguirà anche la laurea in scienze politiche presso l’Università di Napoli, e più tardi, in qualità di professore a contratto, insegnerà per tre anni economia marittima presso l’Università di Cassino. Nel 1968, con il grado di capitano di porto, comanda il Circondario Marittimo di Anzio. Successivamente frequenta l'Istituto di Guerra Marittima di Livorno prima, e l'Istituto Stati Maggiori Interforze di Roma, poi. Dal 1978 al 1980 comanda il Compartimento Marittimo di Monfalcone, e successivamente è addetto all’Ufficio I del gabinetto del Ministro della Difesa (on. Lagorio, poi sen. Spadolini) fino al 1984. Promosso capitano di vascello, assume il comando del Compartimento Marittimo di Roma prima e di quello di Civitavecchia dopo, contemporaneamente alla connessa carica di Direttore Marittimo del Lazio. Dal 1986 ritorna ad incombenze ministeriali, ricoprendo l'incarico di Vice-capo di Gabinetto di vari Ministri della Marina mercantile succedutisi nel tempo e di Capo dell’ufficio Patto Atlantico dello stesso Ministero. Effettua numerose missioni anche all’estero, è commissario governativo alla compagnia portuale di Livorno e partecipa ai primi studi di fattibilità dell’istituendo VTS (Vessel Traffic System) nazionale. Nel 1991 frequenta il Centro Alti Studi per la Difesa. Promosso contrammiraglio, comanda il porto di Genova come Direttore Marittimo della Liguria e vice-presidente del Consorzio autonomo del porto della città della Lanterna. Durante il suo comando si ritrova a gestire la fase finale delle operazioni conseguenti all’incendio della petroliera HAVEN. Promuove inoltre la costituzione di un “Santuario internazionale dei cetacei” nel Mar Ligure. Dal 1996 al 1999, nel grado di ammiraglio ispettore, riveste la carica di Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto/Guardia Costiera. Gli anni del suo comando sono anni di rinnovamento per il Corpo, che ottiene dal Governo un cospicuo finanziamento per il potenziamento della flotta navale ed aerea, fortemente usurata per il notevole impegno profuso dagli uomini della Guardia Costiera nel fronteggiare il fenomeno dell'immigrazione clandestina, ambito in cui lo stesso ammiraglio Ferraro ha collaborato intensamente con il Ministero degli Affari esteri nella promozione delle Interim Measures for Combating Unsafe Practices Associated with the Trafficking or Transport of Migrants by Sea (Circ. 896 dell’IMO) e nella sede ONU di Vienna per la produzione del Protocollo contro il traffico illecito di migranti, annesso alla Convenzione sulla criminalità organizzata transnazionale (Palermo 2000). Il 15 dicembre 1999 è collocato in congedo per raggiunti limiti di età. Tuttavia non rinuncia a continuare a servire lo Stato, infatti viene invitato a collaborare quale esperto per gli affari marittimi presso il Ministero degli Affari Esteri, in particolare con il Servizio del contenzioso diplomatico e dei trattati e con la Direzione generale della cooperazione economica multilaterale. In tale qualità, tra l’altro, ha partecipato regolarmente per alcuni anni ai lavori del Legal Committee dell’International Maritime Organization (Agenzia dell’ONU per gli affari marittimi) e degli organi dell’International Oil Pollution Compensation Fund. Dopo il congedo ha ripreso gli studi, conseguendo tre master di II grado in Peace Building Management e un diploma di perfezionamento in filosofia contemporanea. Ha al suo attivo alcune centinaia di articoli e recensioni su varie pubblicazioni, in particolare sulla Rivista Marittima. Nel dicembre 2009 ha pubblicato un suo corposo studio sui rapporti tra l’Egitto nasseriano e l’Unione Sovietica. Tuttora svolge un’intensa attività pubblicistica. Appassionato di musica, suona il flicorno basso in SI bemolle in due complessi amatoriali.
DECORAZIONI ED ONORIFICENZE
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 05/05/1996 al 14/12/1999
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L'Ammiraglio Ispetore Capo (CP) Comandante Generale Mario De Palo è nato a Brindisi il 5 maggio 1931, Mario De Palo entra in Accademia come allievo del Corpo di Stato Maggiore nel 1950. Compie diversi imbarchi su unità della Marina Militare fino al 1964. Transitato nel Corpo delle Capitanerie di porto, assume il comando del Circondario Marittimo di Grado e successivamente presta servizio presso la Capitaneria di Ancona. Comandante in II del Compartimento Marittimo di Torre del Greco dal 1969 al 1971, viene trasferito alla Capitaneria di Genova. Trascorre nel capoluogo ligure cinque anni ricoprendo diversi incarichi. Comanda la Capitaneria di porto di Manfredonia dal 1976 al 1979. Con il grado di Capitano di Vascello è comandante in II della Direzione Marittima di Venezia. Dal 1982 al 1986 ricopre l’incarico di Direttore Marittimo delle Marche e Comandante del Porto di Ancona. Nell’autunno di quell’anno frequenta la 38^ sessione del C.A.S.D. (Centro Alti Studi Difesa). Nominato Contrammiraglio, comanda la Direzione Marittima di Venezia dal 1987 al 1995, anno in cui diviene Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto. Il 5 maggio 1996 viene posto in ausiliaria.
ONORIFICENZE
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 07/09/1995 al 04/05/1996
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L'Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Franco Marzio è nato a Roma il 1 Febbraio 1925 e laureatosi in giurisprudenza presso l’Università degli studi “La Sapienza”, Franco Marzio si arruola nel Corpo delle Capitanerie di porto nel 1949. Terminato il corso in Accademia, il Sottotenente Marzio imbarca sulla corazzata Caio Duilio per completare il tirocinio di formazione. Dal 1950 al 1954 presta servizio presso la Capitaneria di porto di Olbia; successivamente, dal 1960 al 1962, comanda il Circondario Marittimo di Ortona. Dal 1963 ritorna nella capitale, dove ricopre l’incarico di Addetto al Sottosegretario di Stato alla Marina Mercantile e, indossato il Grado di Tenente Colonnello, quello di Comandante in II della Capitaneria di porto di Roma. Dal 1968 al settembre 1971 è l’Ufficiale Superiore Addetto al Ministro e successivamente, per tre anni, comanda la Capitaneria di porto di Gaeta. Nel 1974 viene impiegato alla sezione Traffico Marittimo dello Stato Maggiore Marina. Nominato Capitano di Vascello, comanda prima la Direzione Marittima di Reggio Calabria, dall’ottobre 1974 al settembre 1976, poi la Direzione Marittima di Cagliari da quel settembre sino allo stesso mese del 1979. Rientrato al Ministero, viene nominato ufficiale addetto al Ministro della Marina Mercantile, incarico ricoperto sino all’agosto del 1983. La nomina a Contrammiraglio scandisce il suo nuovo impegno in periferia dirigendo la Direzione Marittima di Venezia e quella di Napoli fino al dicembre 1987, anno in cui ritorna all’Ispettorato Generale come Capo Reparto del Personale. Ricopre l’incarico di Ispettore del Corpo delle Capitanerie di porto dall’agosto 1989 all’aprile 1990.
ONORIFICENZE
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 27/08/1989 al 03/04/1990
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L'Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Comandante Generale Giuseppe Francese è nato a Taranto l’11 novembre 1932, entra in Accademia giovanissimo, appena conseguita la maturità scientifica, nel 1950. Dal 1950 al 1962 effettua numerosi imbarchi su Navi e sommergibili della Marina Militare. In quell’anno transita nel Corpo delle Capitanerie di porto. Comanda il Circondario Marittimo di Porto Santo Stefano dall’ottobre 1963 al 1965. Successivamente viene impiegato presso il gruppo insegnamento delle Capitanerie di porto in Accademia. Con il grado di Capitano di Corvetta ricopre la mansione di comandante in II del Compartimento di Viareggio sino al 1971. Da quell’anno viene trasferito in Liguria presso l’ente autonomo portuale di Savona. Qui rimane fino al 1975. Nominato Capitano di Fregata comanda la Capitaneria di porto di Trapani. Dopo un biennio in Liguria negli uffici del Compartimento di Genova, presta servizio come comandante in II della Direzione Marittima di Napoli. Frequenta la 36^ sessione del Centro Alti studi difesa e, appena indossato il grado di Contrammiraglio, assume il Comando della Direzione Marittima della Toscana e Comandante del Porto di Livorno dal 1985 al 1987, e dal 1987 al 1990, dirige la Direzione Marittima della Liguria. Promosso Ammiraglio Ispettore, viene trasferito a Roma per dirigere il Corpo delle Capitanerie di porto, assumendo il 4 aprile 1990 l’incarico di Ispettore Generale. Sotto la sua guida vengono potenziati gli organici del Corpo (Legge 255/91), viene acquisita l’autonomia amministrativa, costituito il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto e stabilite solide regole per la gestione del Corpo. Muore a S. Giovanni alla Vena l’8 ottobre 1995, pochi giorni dopo aver lasciato il Comando del Corpo.,
ONORIFICENZE
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 04/04/1990 al 06/09/1995
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L'Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Francesco Cerenza è nato il 26 Agosto 1924 a Salerno, Francesco Cerenza entra nelle Capitanerie di porto a seguito di concorso nel 1948, dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Al termine del corso viene impiegato nel Servizio Direzione Marittima di Palermo sino al 1952. Dirige l’allora Ufficio locale marittimo di Mazara del Vallo, porto di importanza fondamentale per il settore della pesca italiana, dal 1952 al 1955. In quest’anno viene promosso Capitano di Porto e trasferito presso la Capitaneria di porto di Gaeta, dove ricopre dapprima l’incarico di Capo sezione Gente di Mare, Mobilitazione e Leva, ed infine di Ufficiale in II. Dal 1957 lavora nella sua città natale, Salerno, sino al 1964, come Comandante in II. Alla nomina a Maggiore corrisponde il trasferimento presso la Capitaneria di porto di Civitavecchia fino al 1966, e successivamente all’impiego come Ufficiale Superiore Addetto al Sottosegretario del Ministero della Marina Mercantile. Dal 1968 al 1970 è impiegato allo Stato Maggiore Difesa. Ritorna a Salerno al termine di quell’anno. Dirige la Capitaneria di porto campana sino al 1972, anno in cui promosso Tenente Colonnello, viene trasferito a Napoli. Nel capoluogo rimane per cinque anni, dal 1972 al 1977, come Comandante in II. Dal 1977 al 1983 dirige le Direzioni Marittimi di Toscana, del Veneto e della Liguria per rientrare all’Ispettorato Generale alla fine di quell’anno, come Capo del I Reparto Personale. Dal 1 Gennaio 1987 al 26 agosto 1989 guida il Corpo delle Capitanerie di porto con il grado di Ammiraglio Ispettore. Muore a Roma il 26 ottobre 2006.
È stato insignito delle seguenti decorazione/onorificenze:
Comandante Generale delle Capitaneri di Porto dal 01/01/1987 al 26/08/1989
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L'Ammiraglio Ispetore Capo (CP) Luigi Romani è nato a Lerici (SP) il 26 febbraio 1922. Ha conseguito la maturità classica a La Spezia nel 1941 e nello stesso anno è entrato nell’Accademia Navale come allievo di Stato Maggiore (Corso “Le Raffiche”, 1941-44).
Quale ufficiale subalterno è imbarcato sull’incrociatore Duca degli Abruzzi per quasi due anni; un altro anno lo trascorre sul Dragamine 212 per dragaggio effettivo nelle acque di Livorno. Sulle navi scuola, Colombo (dove già aveva effettuato la campagna navale come allievo) e Vespucci, è insegnante ai corsi Nocchieri ed Infermieri.
Dopo il Corso Superiore e due anni trascorsi a Maridepo Taranto, è imbarcato da tenente di vascello quale ufficiale al dettaglio e di rotta su navi Carabiniere e Grecale. E’trasferito nel Corpo delle Capitanerie di Porto, nel 1953.
Col grado di Capitano di Porto e la stessa anzianità che aveva da tenente di vascello, presta servizio a compamare La Spezia.
Effettua il primo comando a Circomare Riposto (CT) e successivamente frequenta a Livorno l’Istituto di Guerra Marittima. Al termine del Corso è destinato all’Ispettorato Generale delle Capitanerie dove rimane, con gradi diversi, fino al termine della carriera, conclusasi con l’incarico di Ispettore Generale (oggi Comandante Generale) per oltre quattro anni. Nel frattempo aveva comandato i porti di Viareggio, La Spezia e Genova.
Durante la sua carriera imbarca dodici volte quale Commissario governativo su navi in servizio di emigrazione e su nave da carico quale istruttore di giovani laureati appena nominati ufficiali. Fra i tanti incarichi avuti all’Ispettorato in sezioni e reparti diversi, è stato ufficiale superiore addetto al Sottosegretario di Stato della Marina Mercantile On. Amm. Luigi Durand de La Penne (1972/1973).
Al vertice del Corpo, nel 1985, vent’anni dopo la ricorrenza centenaria, fa allestire a Civitavecchia una mostra per ricordare l’istituzione del Corpo delle Capitanerie.
E’ stato il primo Capo di Corpo ad aver visitato tutte le Capitanerie e gli Uffici circondariali, nonché gli Uffici locali di Lampedusa e Pantelleria. Prima di lasciare il servizio invia tre ufficiali a frequentare il corso di pilotaggio negli U.S.A., mentre si stava realizzando la componente aerea. Congedato per sopraggiunti limiti d’età (1987), ha potuto dedicarsi con passione a studi storici e musicali, per i quali aveva sempre nutrito particolare inclinazione.
Ha continuato a collaborare con varie riviste e continua a tenere conferenze su argomenti storici e musicali.
E’ stato per oltre due anni presidente della Società dei Concerti de La Spezia e dal 1992 è presidente dell’Accademia di Marina dei Cavalieri di Santo Stefano con sede a Pisa.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 29/08/1982 al 31/12/1986
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L'Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Ugo Balducci Riccitelli è nato in Puglia, a Trani, il 28 Agosto 1917, Ugo Balducci Riccitelli dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Bari nel 1939, entra nel Corpo delle Capitanerie di porto nell’aprile del 1940, tramite concorso. Al termine del corso presso la Regia Accademia Navale, viene trasferito alla Capitaneria di porto di Palermo, per effettuare il tirocinio pratico. Appena nominato Tenente lascia l’Italia, dopo alcuni mesi trascorsi nella Capitaneria di Civitavecchia, per recarsi a Tripoli. Durante il viaggio a bordo del Cacciatorpedieniere Libeccio il 9 Novembre 1941 naufraga in mare aperto, a causa dello scontro a fuoco che coinvolge l’Unità con una squadra navale inglese. Il Tenente Balducci trascorre due anni della sue carriera in Africa: prima a Tripoli, come sottordine alla Sezione Tecnica e Armamento e Spedizioni, e successivamente all’Ufficio Circondariale di Tobruk, come sottordine al Comandante. A seguito della sconfitta in Africa Settentrionale, rientra in Italia nell’Aprile del 1943, a capo della sezione Leva e Mobilitazione della Capitaneria di porto di Chioggia. Ritorna a Roma a fine 1944 e nel 1945, al termine della Seconda Guerra mondiale, presta servizio presso il Compartimento marittimo di Reggio Calabria come Capo sezione economato e cassa. Nominato Capitano di Porto, dirige l’Ufficio circondariale di Sanremo. Dal 1948 al 1957 è alla Direzione Marittima di Venezia assolvendo diversi incarichi: dal Commissario Governativo a Bordo di Unità Mercantili destinate al servizio emigrazione, a quello di giudice del Tribunale Militare di Udine, dal Capo sezione Mobilitazione e Leva ad addetto al Direttore Marittimo. Durante l’alluvione del Polesine si segnala per l’attività svolta in aiuto delle popolazioni vittime del disastro ambientale. Nominato Maggiore di Porto si trasferisce a Roma dal 1957, con l’incarico di Capo Segreteria Generale e Ufficiale Addetto all’Ispettore Generale. Nel 1963 comanda per due anni il Compartimento marittimo di Castellamare di Stabia. Rientrato nella Capitale, il neopromosso Tenente Colonnello di Porto Balducci Riccitelli dirige il 1° Ufficio del Gabinetto del Ministro delle Difesa sino al 1970. Direttore Marittimo di Ancona durante il sisma del 1972, si prodiga attivamente nell’attività di soccorso alle popolazioni colpite dal tremendo terremoto, guadagnandosi la stima degli alti vertici dello Stato. Rientrato in quell’anno a Roma all’Ispettorato Generale è a capo prima del Secondo Reparto – Servizi d’Istituto e poi del 1° Reparto Personale. Viene chiamato a dirigere la Direzione Marittima della Liguria dall’agosto 1975 al luglio del 1977. E’ nominato Ammiraglio Ispettore del Corpo delle Capitanerie di porto dall’agosto 1977 al 28 agosto del 1982. Muore a Foggia il 20 aprile 2004.
È stato insignito delle seguenti decorazioni ed onorificenze:
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 10/09/1977 al 28/08/1982
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L'Ammiraglio Ispettore (CP) Alfredo Gifuni nacce il 9 settembre 1912 a Lucera in provincia di Foggia. Dopo essersi laureato in giurisprudenza nel 1935, si arruola come Ufficiale di Complemento nel Regio Esercito.
Nel 1937 vince il concorso per Sottotenenti di Porto e al termine del corso all’Accademia Navale viene trasferito alla Capitaneria di Portoferraio per completare l’iter formativo. Dopo tre anni ad Ancona, passa a Roma, presso il Ministero della Comunicazioni – Direzione Generale della Marina Mercantile alle dirette dipendenze di Giulio Ingianni. Trascorre un breve periodo a Bari tra il 1942 e il 1943 alla sezione Gente di Mare. Durante la liberazione di Napoli da parte alleata avvenuta a cavallo tra il settembre e l’ottobre 1943, il Capitano di Porto Gifuni è nella città partenopea. Svolge il periodo di Comando presso il Circondario marittimo di Molfetta dal 1946 al 1948.
Rientrato nella Capitale viene impiegato nella Direzione Generale del Naviglio presso il Ministero della Marina Mercantile. Durante i quasi tre anni alla Direzione Generale si prodiga attivamente per tutelare, sostenere e favorire l’industria navale italiana, uscita completamente distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale. Tale notevole impegno è riconosciuto dal Ministro Tambroni che lo vuole a capo della sua Segreteria Particolare fino al 1959.
Il Maggiore Gifuni viene premiato con l’avanzamento per meriti eccezionali a Tenente Colonnello nel 1958, a motivo della tempestiva applicazione dei primi solleciti provvedimenti per il recupero e la rimessa in efficienza del naviglio sinistrato o rimasto sugli scali durante il conflitto, dall’altra per lo studio, la preparazione e l’applicazione della nuova legislazione. Nel 1959 è a capo della Segreteria particolare del Ministro Tambroni nel suo nuovo incarico al dicastero del Bilancio. Dal 1960 al 1961 comanda la Capitaneria di porto di Roma, mentre dal 1961 al 1965 è a capo dell’Ufficio Studi dell’Ispettorato delle Capitanerie di porto. Nominato Colonnello di Porto, è Ufficiale Addetto al Ministro della Marina Mercantile Jervolino.
Ritorna a capo della Capitaneria di Roma prima e della Direzione Marittima del Lazio poi, nel 1966 e dal 1967 al 1968 rispettivamente. Nominato Maggiore Generale di Porto nel 1969, Ufficiale Superiore Addetto del Ministro Natali nello stesso anno, dirige, poi la Direzione Generale della Navigazione e Traffico Marittimo sino al 1971. Da quell’anno comanda il 1°Reparto dell’Ispettorato Generale sino al 1974, anno in cui nominato Ammiraglio Ispettore assume la direzione del Corpo delle Capitanerie di porto. E’ collocato in ausiliaria nel settembre del 1977.
È stato insignito delle seguenti onorificenze/decorazioni
Muore a Roma il 25 maggio 1984.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 02/04/1974 al 09/09/1977
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L'Ammiraglio Ispettore (CP) Demetrio Rando è nato a Messina il 17 giugno 1911, appena conseguita la laurea in giurisprudenza si arruola dapprima nel Regio Esercito come Ufficiale di Complemento e successivamente nel Corpo delle Capitanerie di porto nel 1935, come vincitore di concorso. Compie la sua prima esperienza lavorativa presso la Capitaneria di Catania, per poi essere trasferito a Messina nel 1938. Nominato Capitano di porto nel 1939 affronta il comando dell’Ufficio circondariale di Tobruk, per poi essere impiegato nella vicina Tripoli. Dal 1941, rientrato in Italia, assume la direzione della sezione Armamento e Spedizioni della Capitaneria di porto di Bari per poco tempo, rientrando in Sicilia, a Catania nel 1943. Dalla fine del 1943 al 1946 è il Reggente della Capitaneria di Messina, dove rimane sino al 1951, alternando all’incarico di Capo Sezione Armamento e Spedizioni quello di Commissario Governativo su navi adibite al trasporto di emigranti, mantenendo inoltre l’incarico di Giudice del Tribunale Militare di Catania. Promosso Maggiore nel 1952, trasferito a Catania, assume la direzione dell’Ufficio Lavori Portuali. Dal 1954 è impiegato nella Capitaneria di porto di Reggio Calabria, ricoprendo prima l’incarico di Comandante in II e poi quello di Direttore Marittimo. Nominato Colonnello dirige la Direzione Marittima di Palermo e successivamente quella di Genova dal 1970 al gennaio 1973. Da sempre impegnato in prima linea, Demetrio Rando è protagonista di un soccorso ad una nave in bacino nel capoluogo siciliano, meritandosi la Medaglia di Bronzo al Valor di Marina. Appena nominato Ammiraglio Ispettore, il 29 gennaio 1973 assume la guida del Corpo delle Capitanerie di porto, incarico mantenuto sino al marzo 1974.
È stato insignito delle seguenti decorazioni onorificenze:
Muore a Messina nell’agosto del 1997.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 29/01/1973 al 01/04/1974
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Il Tenente Generale di Porto Francesco Garfi nasce a Firenze il 29 Gennaio 1908. Dopo aver conseguito la laurea in Scienze Economiche e Commerciali a Firenze, presta servizio prima nel Regio Esercito nell’arma di Artiglieria, poi tramite concorso come Ufficiale del Corpo delle Capitanerie di porto. Da Sottotenente viene impiegato presso le Capitanerie di Genova e Viareggio. Promosso Capitano guida l’Ufficio circondariale marittimo di Ortona, per esser poi trasferito, come Addetto al Traffico Marittimo, nella Commissione Italiana di Armistizio con la Francia, nelle sedi di Orano e Algeri. Sarà proprio nella capitale algerina che è fatto prigioniero dagli alleati il giorno del loro sbarco in terra africana (8 novembre 1942). Imprigionato dagli alleati fino al termine della guerra, dal 1 Agosto 1945, promosso Maggiore di Porto, dirige l’Ufficio Mobilitazione e Leva della Capitaneria di Livorno, dove rimane sino al 1954 ricoprendo svariati incarichi. Dal 1954 sino al 1958, viene impiegato come insegnante ai corsi per le Capitanerie di porto presso l’Accademia Navale, per poi ricoprire, con il grado di Colonnello, prima l’incarico di Comandante in II e poi quello di Direttore Marittimo della Toscana sino al 1965, mantenendo, tra le altre incombenze, anche quella di giudice del Tribunale Militare di Firenze. Il Maggiore Generale Carfì, dopo una piccola parentesi all’Ispettorato Generale, torna in periferia al comando della Direzione Marittima della Liguria dal 1966 al 1970. Dirige il Corpo delle Capitanerie di porto con il grado di Tenente Generale di Porto Ispettore dall’ottobre 1970. Cessa dall’incarico il 28 Gennaio 1973, collocato in ausiliaria per limiti di età subito dopo.
È stato insignito delle seguenti decorazioni/onorificenze:
Scompare a Livorno il 7 Aprile 1997.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 28/10/1970 al 28/01/1973
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Il Tenente Generale di Porto Mario Battaglieri è nato nella provincia torinese il 27 ottobre 1905, Mario Battaglieri dimostra da subito il suo attaccamento al mare, diplomandosi al’Istituto Nautico di Genova. Entra in Accademia Navale quale Sottotenente di Porto nel 1933. Dal febbraio dell’anno successivo viene impiegato nella Capitaneria di La Spezia e in quella di Genova alla sezione Tecnica. Promosso capitano di porto nel 1937 dirige la seconda sezione della Capitaneria di Porto di Tripoli, da dove presta un' efficace opera durante il famoso sbarco dei “Ventimila” (esodo in massa verso le coste Libiche da parte di coloni italiani) e collabora fattivamente alla riorganizzazione del porto locale. Data la sua attitudine alla comunicazione e alla didattica, dal 1940 al 1942 è insegnante di Servizi Portuali e Marittimi presso l’Accademia Navale di Livorno. In quell’anno abbandona l’ambito didattico per quello operativo, impiegato come Comandante del porto di Tunisi durante la ritirata italiana dall’Africa. Nel porto africano dà prova sul campo delle sue qualità, guadagnandosi una croce al merito di guerra, ottenendo “il massimo rendimento nello scarico dei piroscafi e nei servizi del porto”, assicurando così rifornimenti e forniture per il fronte. Al termine della prigionia – viene fatto prigioniero dagli alleati nel maggio del 1943 - ormai finita la Seconda Guerra Mondiale, viene destinato alla Capitaneria di Porto di La Spezia. Dal settembre 1950, ormai promosso Tenente Colonnello di Porto viene trasferito a Genova a capo dell’ufficio servizi Portuali. Dal 1955 al 1958 è il Comandante in II della Capitaneria di Trieste. Dopo un breve periodo all’Ispettorato delle Capitanerie di porto, ritorna in periferia per dirigere prima la Direzione Marittima del Lazio, a Civitavecchia e poi quella del Friuli a Trieste (rispettivamente dal 1960 al 1962 e dal 1962 al 1966). Nel capoluogo giuliano ricopre, tra l’altro, anche il delicato incarico di Commissario Straordinario dell’Azienda Portuale dei Magazzini Generali di Trieste. Dal 12 Febbraio 1967 dirige l’Ispettorato Generale del Corpo delle Capitanerie di porto sino al 27 Ottobre 1970.
È stato insignito delle seguenti decorazioni/onorificenze
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 12/02/1967 al 27/10/1970
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Il Tenente Generale di Porto Domenico MODICA nasce a Trapani il 12 Febbraio 1902. Dopo aver concluso gli studi in giurisprudenza nel 1924, entra per concorso nel Corpo delle Capitanerie di Porto. Al termine del corso presso l’Accademia Navale di Livorno viene destinato a Trapani, dove ricopre tutti gli incarichi possibili, sino al 1932. Con il grado di Capitano di porto viene trasferito prima a Castellammare di Stabia e poi, con l’incarico di Comandante, all’Ufficio circondariale marittimo di Milazzo, sino al 1941. Dopo l’esperienza nella regione natia, il Maggiore di Porto Modica dirige il Regio Ufficio Portuale Fluviale di Ferrara e successivamente la sezione Armamento e Spedizioni della Capitaneria di porto di Trieste. Al termine della guerra, impiegato nella Direzione Marittima di Palermo, con il grado di Tenente Colonnello, riveste diversi incarichi, quale anche quello di Giudice del Tribunale Militare locale e di reggente. Dal 1953 a Roma, a capo della 1^ sezione della divisione generale del Naviglio del Ministero della Marina Mercantile, si segnala per l’impegno e la dedizione profusa, guadagnandosi la stima del Ministro Fernando Tambroni. Promosso Maggiore Generale di Porto dirige prima la Direzione Marittima di Catania e successivamente quella di Venezia, per sei anni dal 1959 al 1965. Dall’Ottobre 1965 al 11 febbraio 1967 ricopre l’incarico di Tenente Generale Ispettore del Corpo delle Capitanerie di porto.
È stato insignito delle seguenti decorazioni ed onorificenze:
Muore a Venezia il 21 Novembre 1992.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 18/10/1965 al 11/02/1967
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Il Tenente Generale di Porto Michele Carnino piemontese di nascita, Michele Carnino vede i natali a Cuneo il 17 ottobre 1900. Giovanissimo entra nella Regia Accademia Navale, frequentando i corsi per gli Ufficiali dello Stato Maggiore nel 1914. Partecipa sia alle operazioni navali della Prima Guerra Mondiale sia a quelle in Africa sino al 1920. Terminato il ciclo di studi e raggiunto il grado di Guardiamarina nel 1920, Carnino effettua numerosi imbarchi su altrettante Navi della Regia Marina, prediligendo però l'arma subacquea, per la quale nel 1928 ottiene l'abilitazione. In quegli anni infatti, comanda prima il sommergibile Narvalo della classe squalo e successivamente il Tazzoli. Trasferito nel 1931 nel Corpo delle Capitanerie di porto, sino al 1934 presta servizio presso la Capitaneria di Genova, mentre successivamente, con il grado di Maggiore, assume l'incarico di Comandante in II del Compartimento Marittimo di Imperia fino al 1938. Raggiunto il grado di Tenente Colonnello viene impiego allo Stato Maggiore Marina, poi al Comando della Capitaneria di porto di Gaeta, e tra il 1942 e il 1943 ricopre l'incarico di Capo Servizio Marina Mercantile nel Comando Superiore delle Forze Subacquee Italiane in Atlantico a Bordeaux (BETASOM). Dopo aver comandato la Capitaneria di porto di Viareggio, diventa Direttore Marittimo della Toscana e Comandante del porto di Livorno. Nei primi anni '50 viene destinato all'Ente Autonomo Porto di Genova, e dal 1951 al 1954, con il grado di Generale di Porto assume la guida della Direzione Marittima di Venezia. Al termine del comando veneto, con il grado di Maggiore Generale ricopre l'incarico di Direttore Marittimo della Liguria e Comandante del Porto di Genova dal 1954 al 1961. Nominato Tenente Generale di Porto dirige il Corpo delle Capitanerie sino al 17 ottobre 1965, giorno in cui, raggiunti i limiti di età, lascia il servizio attivo.
ONORIFICENZE
Scompare il 18 Gennaio 1978 a Livorno.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 03/02/1961 al 17/10/1965
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Il Tenente Generale di Porto Alfonso Federici nasce a Civitavecchia nel 1896. Entrato tramite concorso nel Corpo delle Capitanerie di porto, con il grado di Applicato di porto di 3^ classe nel 1914, viene destinato alla Capitaneria di Pizzo Calabro. In Calabria rimane per poco tempo, subito trasferito prima a Genova e poi a Civitavecchia fino al 1916. Militarizzato in seguito alla Prima Guerra Mondiale con il grado di Tenente e spedito prima nei Circondari di Gallipoli e Barletta durante gli anni del conflitto, con incarichi di comando, si trasferisce a Venezia, da dove è mandato in missione per la reggenza del Compartimento Marittimo di Rimini.
Al termine della grande guerra, promosso Tenente di Porto di 3^ classe viene trasferito a Trieste e di lì inviato in missione, per conto del governo italiano, nell’ isola di Curzola, a capo dell’ufficio di Porto di Vallegrande (Vela Luka), per ritornare poi in Italia nel Compartimento di Civitavecchia.
Nel 1923 viene promosso, in seguito all’ingresso del Corpo nei quadri della Marina Militare, Capitano di Porto. Sarà a capo dell’ufficio circondariale marittimo di Porto S. Stefano dal 1927 al 1930. Nella località toscana è il protagonista principale di un’azione eroica di soccorso a favore di un equipaggio di un bastimento.
Dal 1931, il Maggiore di Porto Federici è a Roma all’Ispettorato Generale dove, nella sua lunga permanenza – rimane nella Capitale sino al 1945 – riveste diversi ruoli. Fa parte prima dell’Ufficio della Marina Mercantile del Ministero delle Colonie e successivamente della commissione per la stesura del nuovo codice della Navigazione e del regolamento di attuazione. Assume, poi, il comando del 1° ufficio dell’Ispettorato. Colonnello di porto dal 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, è il comandante in II della Direzione Marittima del Lazio, con sede a Roma dopo i bombardamenti di Civitavecchia.
Dal 1945 al 1947 è Direttore Marittimo del Lazio, Riveste l’incarico di Direttore Marittimo della Liguria per circa un anno quando, promosso Tenente Generale nel 1955, assume la direzione del Corpo delle Capitanerie di porto.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/01/1955 al 02/02/1961
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Il Tenente Generale di Porto Francesco Serra Maninchedda nasce in Sardegna il 5 marzo 1892 a Porto Torres in provincia di Sassari. Dopo aver completato gli studi liceali entra nel 1911 nell’amministrazione delle Capitanerie di porto con il grado di Applicato di porto di 2^classe. La sua prima destinazione sarà Genova. Già in questa sede dà prova di coraggio ed ardimento – tratti costanti del suo carattere – riuscendo a trarre in salvo un barcaiolo in pericolo di vita. Attende nella sede ligure sino al 1914 per esser poi trasferito a Taranto. Trascorre gli anni della Prima Guerra Mondiale in Libia quando, militarizzato con il grado di Tenente, ha la reggenza della Capitaneria di Bengasi. Anche nella città libica si segnala per il suo spirito di sacrificio. Infatti, durante una tempesta, recupera ventidue naufraghi del piroscafo “Alba M.” meritandosi una Medaglia di Argento al Valor di Marina. Merita un’altra decorazione, questa volta di Bronzo, per aver salvato un passeggero caduto in mare da un piroscafo. Promosso Capitano dal 1920, rientra in Italia nel 1921 dopo un breve periodo a Tripoli, dove si segnala per la personale opera di soccorso nei confronti di un bagnante e di due improvvisati soccorritori. Problemi fisici, dovuti a causa di servizio, lo mantengono fuori dalle attività per ben due anni. Tornato nel 1923 a Genova, rientra in quella che sarà la sua sede fino alla Seconda Guerra Mondiale: l’Africa. Dopo un breve periodo nel 1924 a Tripoli, trascorre quasi due anni al comando degli Uffici Circondariali di Misurata e della Sirte. Rientra alla Capitaneria di Tripoli con l’incarico di Comandante in II e Vice Direttore Marittimo, con il grado di Maggiore di Porto. Anche nella sede di Tripoli Serra Maninchedda darà prova di coraggio e ardimento nelle operazioni di soccorso, guadagnandosi la stima dei collaboratori e quella dei superiori. Dal 1929 al 1941 l’ormai Colonnello Maninchedda alterna periodi a Genova a lunghi anni di comando nell’Africa Orientale, nelle sedi di Massaua e nella Direzione Marittima di Mogadiscio. Nella capitale somala viene catturato e fatto prigioniero dagli Inglesi, che lo trattengono fino al 1944. Viene riammesso al servizio solo nel 1945, e impiegato al comando della Direzione Marittima di Ancona prima e Venezia poi. Nominato Tenente Generale, dal 1951 siede al vertice dell’Ispettorato Generale del Corpo sino al 31 dicembre 1954, giorno del congedo. Muore a Roma il 14 Aprile 1959.
È stato insignito delle seguenti onorificienze:
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/02/1951 al 31/12/1954
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Il Tenente Generale di Porto Alberto Pace nasce a Vasto il 1 luglio 1889. Entra a far parte del Corpo delle Capitanerie di porto tramite concorso nel 1908 e, dopo aver frequentato il corso presso l’Accademia Navale, viene impiegato a Salerno prima e Genova poi. Nel capoluogo ligure rimane sino al 1913, anno in cui, promosso Ufficiale di Porto di 3^classe, viene impiegato presso la Capitaneria di Porto di Venezia dove vi rimane sino al 1919. Militarizzato durante il conflitto con il grado di Capitano, nel 1920 si trasferisce nella Capitaneria di Porto di Rimini. Dopo una parentesi all’Ispettorato Generale dal 1923 al 1925, trascorre quattro anni, dal 1925 al 1929, al Comando di Zara con il grado di Tenente Colonnello di Porto. Dal 1932 al 1936 guida la Capitaneria di porto di Bengasi. Dopo un breve periodo in Italia, presso il Consorzio Autonomo del Porto di Genova, va alla Direzione Marittima di Napoli, dove riveste l’incarico di Comandante in II, distinguendosi nelle operazioni di soccorso ad una nave incendiata in porto. Nel 1938, ormai Colonnello di Porto, comanda il Porto di Massaua, e successivamente, nel 1941, farà parte della Commissione d’Armistizio Italo-Francese a Gibuti del giugno 1940. Proprio a Gibuti viene fatto prigioniero dall’avanzata inglese in Africa Orientale nel dicembre 1942. Trascorre nei campi di prigionia alleati quasi tre anni, rientrando in Italia solo a guerra conclusa, nel maggio 1945. Viene impiegato al Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto, fino al 1948 quando, promosso Tenente Generale di Porto, assume l’incarico di Ispettore Generale del Corpo. Al vertice rimane solo per due anni, per essere poi trasferito alla presidenza dell’Ente Autonomo Porto di Napoli. Cessa dal servizio nel 1952.
È stato insignito delle seguenti onorificenze:
Muore a Roma il 19 Novembre 1959.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/01/1948 al 31/01/1951
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Il Tenente Generale di Porto Antonio Bisconti è stato il primo Ispettore Generale del Corpo delle Capitanerie di porto del secondo dopoguerra: Ebbe i natali a Santa Maria Capua Vetere, il 22 marzo 1885. Diplomato presso il locale Istituto Tecnico, sezione commercio e ragioneria, entrò nel Corpo con il grado di Applicato di Porto di 2^classe nell’ottobre del 1904, dopo aver superato brillantemente il concorso. La sua prima esperienza lavorativa fu a Chioggia, dove rimase sino al 1906, anno del suo primo comando al Lido di Venezia. Nel 1908 durante il maremoto a Messina, fu in servizio presso la Capitaneria di porto dello Stretto, dove, per il soccorso prestato alla popolazione, ottenne una menzione onorevole. Al passaggio di grado ad Ufficiale di Porto di 3^classe, venne trasferito a Napoli, dove si trattenne sino al 1914, anno in cui, subito dopo la militarizzazione, con il grado di Capitano, prestò servizio a Trapani. Nel 1917, nel pieno della Prima Guerra Mondiale, fu mandato al fronte, al comando della Capitaneria di porto di Grado, città austroungarica conquistata dall’esercito italiano nel 1915, persa con la rotta di Caporetto e definitivamente annessa all’Italia nel 1918. A seguito della rotta di Caporetto, fu integrato nei quadri del Reggimento Marina e per tutto il 1918 operò per la liberazione delle terre orientali sul fronte lagunare del basso Piave. Alla fine della guerra trascorse un periodo a Trieste, addetto al Governo Marittimo ex-austriaco (al capo del quale era stato designato il Generale Mazzinghi). Nel 1919 andò destinato a Fiume come capo del Governo marittimo ex-ungherese. Il Governo Marittimo, diviso nella monarchia bicefala nella sua parte austriaca, con sede a Trieste e nella parte ungherese con sede a Fiume, era l’istituzione imperiale cui era devoluto il governo di tutte le faccende marittime dello Stato, compresa l’edificazione e il mantenimento dei porti e dei fari. L’istituzione fu abolita con l’applicazione della legislazione italiana alle nuove provincie redente agli inizi degli anni venti. La permanenza di Bisconti a Fiume si prolungò per ben otto anni, essendo nominato, con l’annessione all’Italia nel 1924 e l’affermarsi delle istituzioni italiane, primo Direttore Marittimo di Fiume, con il grado di Tenente di Porto di 1^classe. Nella città quarnerina sposò, nell’ottobre del 1920, la signorina Elena His. Si laureò in scienze economiche e marittime presso l’Istituto Navale Superiore di Napoli il 23 novembre 1925. Dopo Fiume successero diversi comandi, dal 1928 al 1930 a Genova come Comandante in II, poi a Palermo e Venezia, come Direttore Marittimo. Infine ritornò in Campania, dove resse la Capitaneria partenopea dal 1937 al 1940, ed inoltre al già Maggiore Generale di Porto Antonino Bisconti fu affidato l’incarico di Commissario dell’ente autonomo del medesimo porto sino al 1943. La promozione a Generale Ispettore, alla fine di quell’anno, lo portò alla reggenza dell’Ispettorato Generale del Corpo delle Capitanerie di porto (facente funzioni di Comandante in II e a disposizione del segretariato generale del Ministero) fino al 1946. Diventò Ispettore Generale dal gennaio 1946 al 31 dicembre 1947. Collocato a disposizione dal 1 gennaio 1948, rimase in ausiliaria fino al 1958, anno in cui andò in congedo assoluto.
E’ stato insignito delle seguenti decorazioni e onorificenze:
Morì a Napoli il 26 Maggio 1974.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 15/01/1946 al 31/12/1947
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L'Ammiraglio di Divisione (FF. Comandante Generale) Aldo Ascoli nato ad Ancona il 14 settembre 1882, entra nella Regia Marina, frequentando l’Accademia Navale dal 1900 al 1904 nel Corpo dello Stato Maggiore. Nel 1906 la nomina a Sottotenente di Vascello. Durante questi anni comincia una diuturna esperienza di bordo che finirà temporaneamente durante gli anni della Grande Guerra, prendendo parte sia all’opera di soccorso ai territori devastati dal maremoto di Messina, sia alla guerra italo/turca, distinguendosi durante lo sbarco effettuato sulle coste libiche il 10 ottobre 1911 da bordo dell’Incrociatore Re Umberto. Nominato Tenente di Vascello dal luglio 1912, acquisisce la specializzazione in artiglieria durante gli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale. Destinato presso il Comando in Capo di Venezia, dà prova di grande acume tattico durante le operazioni sul fronte del Piave. Per questi meriti otterrà l’avanzamento a Capitano di Corvetta dal 16 settembre 1918. Sposa la Signorina Adele Beer il 29 maggio 1919. Dalla conclusione della Guerra riprende il suo imbarco, sino al 1923, quando assume l’incarico di Capo sezione Artiglieria presso il Comando Militare Marittimo di Venezia, mantenuto sino al 1925, anno in cui consegue il grado di Capitano di Fregata. Successivamente ricopre incarichi di comando su diverse Unità della Regia Marina. Capitano di Vascello nel 1930 comanda per i primi anni dal varo l’Incrociatore Giovanni Delle Bande Nere, dal 1932 al 1934, divenendo anche Capo di Stato Maggiore della 2° Squadra Navale. Questo il suo ultimo incarico a bordo. Per tutto il 1935 sarà il Capo di Stato Maggiore del Comando in Capo del Dipartimento Marittimo di Taranto. Nominato Contrammiraglio nel 1936, comanda il Distaccamento della Regia Marina di Massaua, in Africa Orientale, poi, rientrato in patria, il Regio Arsenale di Taranto. Transita nel grado Ammiraglio di Divisione dal 1 gennaio 1938, assumendo il Comando Militare Marittimo delle Isole dell’Egeo. E’ congedato il 31 dicembre di quell’anno, a causa della sua origine ebraica, ai sensi e per gli effetti del Regio Decreto del dicembre 1938, riguardante le “Disposizioni relative al collocamento in congedo assoluto ed al trattamento di quiescenza del personale militare delle Forze armate dello Stato di razza ebraica”. Ritiratosi a vita privata, dopo l’armistizio fuggì, nel novembre del 1943, con la famiglia a bordo di un peschereccio e dopo varie peripezie, arrivò a Bari, presentandosi al governo Badoglio. Recatosi a Taranto, si mise a disposizione della Marina e fu nominato Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto dell’Italia liberata. Ricollocato in ausiliaria, cessa dal servizio nel 1952.
È stato insignito delle seguenti decorazioni/onorificenze:
Muore a Roma il 9 giugno 1959.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 08/09/1943 al 14/01/1946
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L'Ammiragflip di Squadra Silvio Salza nato il 12 gennaio 1879 a Torino, entra nella Regia Accademia Navale il 1° agosto 1897, per la frequenza del corso normale del Corpo dello Stato Maggiore. Appena terminato l’iter formativo viene imbarcato su nave Elba partecipando alla spedizione internazionale per la Rivolta dei Boxer nel 1901, per la quale fu garantita all'Italia una concessione commerciale nell'area della città di Tientsin (l'odierna Tianjin) in Cina. Nominato Sottotenente di Vascello il 1° luglio 1901, prosegue la sua carriera compiendo imbarchi su diverse unità della Regia Marina, partecipando a tutte le più grandi operazioni di quegli anni, dall’opera di soccorso alle popolazioni di Messina e Reggio Calabria per il terremoto del dicembre 1908, al conflitto italo – turco, sfruttando la sua abilità d’artigliere. La prima guerra mondiale lo sorprende a bordo della Regia nave da battaglia Leonardo da Vinci. Durante gli anni della Grande Guerra è anche al Comando dei Treni Armati, incarico che ricopre dando prova “in ogni circostanza di salde virtù militari”. Nel 1918 rientra a bordo della torpediniera Alcione come comandante e capo squadriglia. Sbarcherà solamente nel 1920 quando, nominato Capitano di Fregata, verrà destinato presso la Commissione Interalleata di controllo a Berlino sino al 1921, e all’Istituto di Guerra Marittima di Livorno, sino al 1923. Consegue il brevetto di specializzazione superiore tecnico-scientifica nel servizio di artiglieria, balistica e chimica degli esplosivi. Dopo due anni di imbarco sul Cavour (dove assume anche l’incarico di Sottocapo di Stato Maggiore delle Forza navale del Mediterraneo) e sul Confienza, il Capitano di Vascello Salza presta servizio presso lo Stato Maggiore Marina a Roma, per poi assumere i comandi delle Regie Navi Ferruccio, Giulio Cesare, Taranto, Doria e Duilio. Nel 1931 è nominato Direttore dell’Istituto di Guerra Marittima, guadagnando la libera docenza in Storia e Politica Navale. Contrammiraglio nel 1933 diviene Aiutante di Campo Generale di Sua Maestà il Re. Comanda nel 1935 il Duca d’Aosta e nel 1936 il Delle Bande Nere. Successivamente comanda il Dipartimento Marina Militare Autonomo dell’Alto Adriatico di Venezia. Nominato Ammiraglio di Squadra nel 1938 assume l’incarico di Comandante del Corpo delle Capitanerie di Porto dal 1939 sino al 1941. In questo periodo ha anche altri incarichi quali presidente del Comitato Superiore di Coordinamento di Progetti Tecnici e fa parte della Commissione Italiana di Armistizio con la Francia (CIAF), nella delegazione di Biserta. Nel novembre 1941 lascia il Comando Generale per sedersi a capo della Delegazione Generale della CIAF, con sede ad Algeri, sino a fine 1942, quando, sebbene collocato in ausiliaria per limiti d’età, sarà richiamato per ricoprire il medesimo incarico. Richiamato per altre due volte assumerà gli incarichi di Presidente della Commissione d’inchiesta sui sinistri marittimi e di membro della Commissione d’inchiesta speciale. Cessa dal servizio nel settembre 1946. Collocato in congedo assoluto nel 1954.
È stato insignito delle seguenti onorificienze:
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 10/07/1939 al 30/06/1940
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L'Ammiraglio di Squadra Mario Falangola nato a Roma il 9 agosto 1880, entra in Accademia nel 1899. Nominato guardiamarina dello Stato Maggiore nel 1902, compie il suo primo periodo di imbarco sulla Corazzata Sardegna, a cui seguirà quello sulla gemella Calabria. Il 1 settembre 1906 viene promosso Sottotenente e nel 1911 Tenente di Vascello partecipando con l’incrociatore Garibaldi alla guerra italo-turca. Con questo grado contrae matrimonio con la Sig. Borg Wanda Caterina, da cui si separerà nel 1928. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale non lo coglie impreparato durante il suo imbarco sul sommergibile Salpa, e successivamente assumerà il comando dell’Orop. Durante l’intero arco del conflitto, si distingue in numerosi azioni di guerra, come testimoniato dalle diverse medaglie al valore a lui conferite, ma anche in studi tecnici per miglioramenti sugli apparati dei sommergibili. Per meriti di guerra viene anche promosso Capitano di Corvetta dal 1 aprile 1918. Sempre per meriti di guerra transita nel grado di Capitano di Fregata dal 16 settembre 1918, essendo al comando dei sommergibili F.7 prima e Marcello poi. All’indomani delle sue epiche gesta durante la Grande Guerra è impiegato come comandante di Regie Navi utilizzate per il trasporto costiero di gasolio e acqua come la Bronte e la Brennero. Nel 1924 è Capo Ufficio nella Base Navale di Pola e poi Addetto al Commissariato dell’Oltregiuba somalo. Dalla Somalia, dal 1925 interamente italiana, ritorna a metà di quell’anno. Il 1 maggio 1925, nominato Capitano di Vascello comanda alcune Unità navali, nell’ordine si susseguono Tigre, Leone, Volta, Mirabello e Giulio Cesare. L’imbarco è intervallato solamente da una destinazione a terra come Capo di Stato Maggiore del Comando Marina Militare di Sicilia e comandante del Difesa Marittima di Messina. Nominato Contrammiraglio dal 16 agosto 1932 assume il comando Marina in Sicilia sino al settembre 1933, passando in seguito al comando del Regio Arsenale di La Spezia. Ammiraglio di divisione dal 1 dicembre 1935, dirige l’Ispettore per la costruzione, l’allestimento e il collaudo di nuove navi fino al 1939, quando con il grado di ammiraglio di Squadra passa al Comando del Corpo delle Capitanerie di porto, in ottemperanza a quanto prescritto dal decreto del 11 novembre 1938, che prevedeva, tra le tante norme, un Ammiraglio di Squadra della Marina Militare al vertice delle Capitanerie di porto. Regge il Corpo sino al luglio del 1939, quando diviene Comandante in Capo della Squadra Sommergibili. Ritornerà al Comando delle Capitanerie dal gennaio 1942 al 8 settembre 1943, data dell’armistizio con gli alleati. Collocato in ausiliaria per età, viene posto in congedo assoluto nel 1945.
Gli sono state concesse le seguenti decorazioni/onorificenze:
Muore a Roma il 14 luglio 1967.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 03/01/1939 al 09/07/1939
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Il Tenente Generale di Porto Armando Gaeta nasce il giorno 11 febbraio 1879 a Castellamare di Stabia. Superato il concorso per Applicato di Portto di 2^ classe il 1 aprile 1899, presta servizio nella Capitaneria della propria città. Qui vi rimane per due anni, prima di essere trasferito prima a Brindisi poi a Palermo. Appena ottenuto il passaggio per concorso ad Ufficiale di Porto di 3^ classe, comanda l’Ufficio di Porto di Termini Imerese, dalla fine del 1903 a tutto il 1904. Ritorna nella Capitaneria di Castellamare in quell’anno, dove sposa la Signorina Emma Sinigagliere il 27 giugno 1909. Nel 1913, con il grado di Ufficiale di Porto di 1^ classe viene trasferito nella vicina Capitaneria di Pizzo Calabro. Durante gli anni della Grande Guerra viene militarizzato con il grado di Capitano, e successivamente transita nei quadri della Regia Marina con quello di Tenente Colonnello. Lasciata Pizzo Calabro, ritorna per poco tempo a Castellamare per poi essere destinato ad Antivari (odierna Bar), tra il 1919 e il 1920, prima degli accordi di Tirana. Rientrato in Italia gli vengono affidati diversi incarichi di prestigio nelle diverse regioni italiane, dapprima nella sua città natale, Castellamare di Stabia, dal 1920 al 1923, come Comandante della locale Capitaneria, poi come Direttore Marittimo della Sardegna dal 1923 al 1928 ed infine Direttore Marittimo del Veneto dal 1928 al 1932. Il Maggiore Generale Gaeta, da quest’anno sino al 1936, è impiegato come Regio Commissario dei Magazzini Generali di Trieste, l’ente gestore dello scalo marittimo giuliano. Al suo rientro nella Capitale lo attende la nomina a Tenente Generale di Porto Ispettore del Corpo delle Capitanerie, dal 1 gennaio 1937 al 2 gennaio 1939, in virtù del decreto del 11 novembre del 1938, che stabiliva nuove attribuzioni ed ordinamento al Comando Generale (il quale doveva essere retto da un Ammiraglio di Squadra facente parte della Regia Marina), del personale militare e civile delle Capitanerie di porto, nonché l'organizzazione interna delle stesse. Dal 2 gennaio 1939 il Tenente Generale Ispettore Gaeta è impiegato come Comandante in II del Corpo nonché come reggente dello stesso durante le assenze dei Comandanti Generali a lui successivi. Collocato in ausiliaria dal 12 febbraio 1944, viene posto in congedo assoluto dal 1 maggio 1954.
È stato insignito delle seguenti decorazioni/onorificenze:
Deceduto a Roma il 14 dicembre 1963.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/01/1937 al 02/01/1939
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Il Tenente Generale di Porto Francesco Pasciuto nasce a Gaeta nel 1876, e dopo aver concluso gli studi liceali, supera il concorso per Applicato di Porto di 2^classe il 16 aprile 1897. Agli albori del XX secolo è nominato applicato di 1^classe, e si trasferisce da Napoli, a Porto Empedocle e a Reggio Calabria. Ufficiale di 3^classe nel 1904, dopo aver affrontato con successo il concorso, ha la sua prima esperienza di Comando presso l’Ufficio di Porto di Termini Imerese. Al termine di questa, è trasferito nella Capitaneria di Genova, dove rimane per quattro anni sino al 1907, anno in cui comincia la sua attività al centro dell’Amministrazione delle Capitanerie di Porto. Per dieci anni (dal 1907 al 1917) l’Ufficiale di 2^classe Pasciuto presta servizio all’Ispettorato. Successivamente lavora anche direttamente a contatto con la politica, sedendo nel Gabinetto del Ministro della Marina, Del Bono, per due anni sino al 1920. Durante gli anni della Grande Guerra, viene militarizzato con il grado di Capitano. Al transito delle Capitanerie nei quadri della Regia Marina, assume la denominazione di Tenente Colonnello. Dirige la quinta sezione della Direzione Generale della Marina Mercantile dal marzo di quell’anno all’aprile 1924. A questa prolungata esperienza a livello ministeriale, s’aggiunge anche quella in periferia. Infatti ad un breve comando presso la Capitaneria di Bari nel 1924, segue un biennio a capo della Direzione Marittima della Campania. Regge contemporaneamente il Commissariato del Porto di Napoli. Già Colonnello di Porto, Pasciuto dal 15 febbraio 1928 al 29 gennaio 1931 comanda la Direzione Marittima di Genova. Ritorna a Roma in quell’anno e con il grado di Maggiore Generale di Porto dirige l’Ispettorato del Lavoro Marittimo e Portuale, divisione della Direzione Generale della Marina Mercantile, per cinque anni, dal 1931 al 1936. Alla nomina a Tenente Generale, conseguita il 1 luglio 1936, assume il Comando dell’Ispettorato delle Capitanerie di porto, incarico mantenuto sino al dicembre di quell’anno. Posto a disposizione dal 1 gennaio 1937, per limiti d’età, è richiamato in servizio, durante la Seconda Guerra Mondiale, al Comando della Capitaneria di porto di Spalato dal 29 giugno 1941 al 30 aprile 1942. Sino al 1944 opera come Presidente del Commissariato Autonomo del Porto di Genova. Congedato dal richiamo, viene posto in congedo assoluto dal 1 gennaio 1949.
Onorificenze e Decorazioni
Muore a Roma il 30 dicembre 1971.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/07/1936 al 31/12/1936
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Il Tenente Generale di Porto Carlo Vergara Caffarelli Di Craco, appartenente alla nobile famiglia dei Duchi di Craco, Marchesi di Savochetta e Marchesi di Comignano, nasce a Portici, nei pressi di Napoli, il 12 Febbraio 1877. Sin da piccolo dimostra grande interesse per il mare, entrando in Accademia Navale con il grado di Guardiamarina del Corpo dello Stato Maggiore. Presta servizio su numerose unità della Regia Marina, tra queste la Vittorio Emanuele, la Vespucci, la Trinacria, il Terribile e il Dandolo, sino al settembre 1905, quando con il grado di Tenente di Vascello transita nel Corpo delle Capitanerie come Ufficiale di Porto di 3^ classe. Le sue prime esperienze saranno all’interno delle strutture di Castellamare di Stabia e Napoli. Lascia la regione campana per trasferirsi prima a Civitavecchia dove contrae matrimonio con la signorina Ada Ronchey, nel 1906 e poi a Rodi, nelle locali Capitanerie di Porto. Questi erano i primi anni di governo italiano sulle isole del Dodecanneso, conquistate, insieme alla Libia, durante la guerra italo turca del 1911 - 12. Rientrerà in Italia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando militarizzato con il grado di Capitano, assume il comando del Circondario Marittimo di Pozzuoli mantenuto sino al 1918, anno in cui si trasferisce per servizio nella Capitaneria istriana di Pola. Trascorre circa dieci anni a Roma al Ministero della Marina, in seguito delle Comunicazioni, a capo della Direzione Generale Marina Mercantile, e al Ministero delle Colonie, Ufficio della Marina Mercantile. Con il grado di Colonnello di Porto nel 1928 torna nella sua regione come Direttore Marittimo di Napoli. Due anni più tardi, ottiene il trasferimento per il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto di cui diventerà Tenente Generale Ispettore nel 1936, seppur per pochi mesi, perché colpito da limiti di età e collocato in ausiliaria. Per esigenze straordinarie durante la Seconda Guerra Mondiale, viene richiamato per dirigere gli uffici del Comando del Corpo delle Capitanerie di porto a Roma dal maggio 1943 al giugno 1944, ma dopo l'8 settembre 1943 non aderì alla Repubblica Sociale Italiana, rimanendo a Roma per otto mesi in un rifugio sicuro. Posto in riserva al termine del 1944.
E’ stato insignito delle seguenti decorazioni e onorificenze:
Scompare a Roma il 7 marzo 1966.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/01/1936 al 30/06/1936
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Il Tenenete Generale di Porto Francesco Marena nasce a Bari nel 1868. Dopo aver trascorso i suoi primi anni di servizio come fuciliere telegrafista nei quadri della Regia Marina, transita nel Corpo delle Capitanerie il 12 marzo 1899 con il grado di Applicato di Porto di 2^classe. Presta servizio nella sua città natale, dove sposerà la signorina Amina Vanalesti. Dopo solo cinque anni nel grado, nel 1904, supera l’esame per diventare Ufficiale di Porto di 3^classe, trasferendosi dalla Capitaneria di Bari, che aveva a capo il futuro primo Comandante Generale del Corpo Francesco Mazzinghi, all’Ufficio di Porto di Barletta, come titolare. Dal 1908 ritorna a Bari sino al 1915, anno in cui si trasferisce nel vicino ufficio di Porto di Molfetta, come Comandante, per tutta la durata della Prima Guerra Mondiale. Nel porto pugliese si segnala per la fattiva collaborazione fornita alle varie autorità militari operanti sul territorio, essendo zona battuta da pesanti bombardamenti nemici. Per la temporanea militarizzazione del Corpo assume il grado di Capitano e successivamente, con il riconoscimento delle Capitanerie nei quadri della Regia Marina, quello di Tenente Colonnello. Poco dopo il termine della Grande Guerra lascia la regione natia per giungere in Liguria, dove ricopre l’incarico di Comandante del Porto di Genova e Direttore Marittimo della regione, ininterrottamente per nove anni dal 1919 al 1928, con il grado di Maggiore Generale di Porto. Giunto, in quell’anno, nella capitale italiana all’Ispettorato Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, attende poco più di un anno per assumere il comando del Corpo con il grado di Tenente Generale. Durante la sua reggenza, durata un quinquennio, le Capitanerie di Porto rispondono prontamente alla chiamata del conflitto italo-etiopico, concretizzando le spedizioni, mantenendo un constante afflusso di quanto richiesto dalla condotta delle azioni militari e controllando le navi addette al trasporto di uomini e mezzi per il fronte. Raggiunti i limiti di età, viene collocato a disposizione il 1 gennaio 1936.
Decorazioni:
Muore a Genova il 15 ottobre 1945.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 09/09/1930 al 31/12/1935
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Il Tenente Gnenerale di Porto Pirro Alferi Osorio è nato a Torino da nobile famiglia. Il giovane Pirro Alferi Osorio entra nel Corpo delle Capitanerie tramite concorso per Applicato di Porto di 2^ classe, il 12 febbraio 1883. Nei primi anni della sua carriera svolge servizio in Sicilia nella sede di Porto Empedocle. Dal 1885, invece ritorna sulla penisola nella capitaneria di Porto di Civitavecchia da dove si trasferirà con il grado di Ufficiale di 3^ classe a Genova. Intervallati da due anni presso la sede di Napoli, l’esperienza genovese porta al giovane Pirro utili insegnamenti e tanta esperienza nell’amministrazione marittima. Dal 1895 al 1902 è a capo dell’ufficio di Porto di Pozzuoli con il grado di Ufficiale di 2^ classe. Nello scalo campano sarà l’artefice di una valente opera di salvataggio nei confronti di numerosi equipaggi che naufragarono il giorno 9 dicembre 1897, sforzo che gli vale la nomina a Cavaliere nell’ordine della Corona d’Italia. Da quel 1902 l’Ufficiale di 1^classe Pirro Alferi Osorio si trasferirà nella capitaneria di Porto di Livorno dove nel 1904 si distingue per il suo zelo ed impegno nella direzione della stessa durante l’assenza del titolare. Nel 1909 viene promosso a Capitano di Porto. Si trasferisce poi a Venezia durante i difficili anni della Prima Guerra Mondiale. Militarizzato con il grado di Maggiore, eccelle nel Comando di questo territorio sottoposto a pesanti attacchi nemici ed a ridosso della linea del fronte di guerra per la liberazione delle terre giuliane. La Croce al merito di guerra appuntata sul suo petto è la testimonianza di questa sua attitudine al Comando. Al termine della Prima Guerra Mondiale, per effetto del transito del Corpo nei quadri della Regia Marina, è promosso al grado di Colonnello.
Dopo la permanenza veneta, torna a Livorno come Comandante del Porto e Direttore Marittimo della Toscana dal 1918 con il grado di Generale. Arriva nella sede dell’Ispettorato Centrale delle Capitanerie di Porto nel 1925. Viene nominato Tenente Generale di Porto dal 21 dicembre 1927, assumendo la nomina di Ispettore del Corpo delle Capitanerie di Porto solamente nel 1928. Colpito dai limiti di età viene posto in ausiliaria l’8 settembre 1930.
Richiamato in servizio dal 8 settembre 1930 al 30 settembre 1931, viene posto in congedo assoluto nel 1940.
E’ stato insignito delle seguenti onorificenze:
Si spegne a Livorno il 19 aprile 1941.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 21/12/1927 al 08/09/1930
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Il Tenente Generale di Porto Giulio Ingianni nato a Marsala il 18 dicembre 1876, diplomato presso l‘Istituto Tecnico Nautico di Trapani, Giulio Ingianni viene iscritto nella terza categoria della leva obbligatoria di Porto Empedocle. Entra nell’amministrazione delle Capitanerie di Porto tramite concorso nel gennaio del 1896, con la qualifica di Applicato di Porto di 2^classe, destinato presso la Capitaneria di Porto di Porto Empedocle. Dopo la promozione ad Applicato di Porto di 1^classe, conseguita nel 1898, viene trasferito nella sede di Palermo e l’anno dopo contrae matrimonio con la signorina Giulia Fodale, da cui avrà tre figlie. In questa sede permane sino al 1904, anno in cui, passato Ufficiale di Porto di 3^classe, Giulio Ingianni viene trasferito presso l’Ispettorato del Corpo delle Capitanerie di Porto a Roma. Nella capitale trascorre gran parte della sua carriera, con l’eccezione dei periodi successivi all’entrata in guerra dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, consumati con il grado di Capitano di Porto al seguito di Francesco Mazzinghi, primo Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di porto, negli scenari di conflitto del versante adriatico della penisola. Al termine della Grande Guerra partecipa a Parigi alla “Commissione delle Riparazioni di Guerra”, in cui si adopera attivamente affinché il patrimonio navale della Venezia Giulia, in particolare triestino, non sia diviso tra le potenze vincitrici del conflitto, scoraggiando, nella fattispecie, le mire inglesi sulla flotta navale ex-austriaca e quelle jugoslave. Rientra in Italia nel 1921, venendo nominato Colonnello di Porto a scelta per meriti eccezionali. Successivamente ricopre gli incarichi di Commissario Straordinario del Consorzio Autonomo del Porto di Genova e Reggente della Direzione Generale della Marina Mercantile. E’ nominato Generale Capo, Ispettore del Corpo delle Capitanerie di Porto il 19 aprile del 1925, incarico mantenuto sino al 1927, detenendo tuttavia, anche quello di Direttore Generale della Marina Mercantile, che coprirà sino al giugno/luglio 1944. Fa parte della delegazione italiana, come esperto navale, alla conferenza di Londra per la riduzione degli armamenti nell’inverno del 1930. Cessa dal servizio nel 1939, entrando a far parte del Senato del Regno di Italia con Regio Decreto del 12 ottobre 1939 ma subito richiamato in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale fino al 1944. Nel secondo dopoguerra, ormai ritirato dalla vita pubblica, viene investito del titolo di Grande Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana nel 1953, in tal maniera vengono riconosciuti a Giulio Ingianni l’impegno e la dedizione che per una vita ha dedicato alla marineria Italiana e al Corpo delle Capitanerie di Porto.
Medaglie, decorazioni e riconoscenze:
Muore a Roma il 10 luglio 1958.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto 19/04/1925 al 21/12/1927
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Il Generale di Porto Ispettore Federico Mandillo è nato a Torino il 22 febbraio 1865: Diplomato all’Istituto tecnico sezione Commercio e Ragioneria, appena ventenne, entra nelle Capitanerie di Porto tramite concorso per Applicato di Porto il 22 febbraio 1885. Destinato presso la Capitaneria di Palermo, dal 1885 al 1896, lì ottiene le varie promozioni ai gradi superiori, Applicato di1^classe nel 1887, ufficiale di Porto di 3^classe nel 1889 per concorso interno, Ufficiale di 2^ classe nel 1890. Successivamente presta servizio a Civitavecchia sino al 1899. A cavallo del secolo, dopo pochi mesi in servizio presso l’Ispettorato delle Capitanerie di Porto a Roma, Federico Mandillo viene trasferito ad Ancona, dove rimarrà sino al 1904. Alle pendici del monte Conero, dimostra tutto il suo valore, guadagnandosi una gratificazione pecuniaria per le azioni svolte a soccorso del piroscafo di nuova costruzione “Regina Elena”, incagliatosi sullo scalo di un cantiere ad Ancona durante il dicembre 1902. Ed è sempre qui che effettua la sua prima esperienza di comando per alcuni mesi, dall’agosto al dicembre 1904. Ritornato all’Ispettorato del Corpo per quattro anni, ricopre poi i ruoli di Comandante della Capitaneria di Siracusa, e di Comandante in II di quella di Napoli, dove viene elogiato per l’organizzazione degli aiuti alla popolazioni colpite da un epidemia colerica. Già Capitano di Porto, rientra a Roma solo per alcuni mesi, a Capo del 2° Reparto del Comando Generale del Corpo. Il 10 ottobre del 1911 sarà imbarcato per Tripoli, in qualità di primo Comandante della futura Capitaneria di Porto libica. Il lavoro da lui svolto sui territori della quarta sponda, sono i primi esempi di ausilio del Corpo in operazioni tipicamente militari, e gli valgono la nomina a Cavaliere nell’Ordine di SS. Maurizio e Lazzaro. Il Corpo durante gli anni del conflitto italo-turco si occupa dell’organizzazione dell'imbarco di uomini e di materiali nonché degli sbarchi sulla costa africana. Al successo delle operazioni, dovuto altresì all'efficiente funzionamento dei servizi portuali, seguì l'organizzazione dei porti nei territori occupati, in modo da assicurare il costante collegamento dell'Italia con le sponde africane. Nel 1913 rientra dall’Africa, diretto al comando del Reparto Tecnico dell’Ispettorato del Corpo delle Capitanerie, incarico mantenuto sino al 1914. Militarizzato con il grado di Tenente Colonnello, durante tutto il primo conflitto mondiale comanda il porto di Ancona, quello stesso porto dal quale partivano le gloriose azioni dei MAS del Capitano di Corvetta Luigi Rizzo. Per l’eccelsa opera d’amministrazione del porto, si guadagna una Croce al merito di Guerra. Transita nei quadri della Regia Marina con il grado di Colonnello. Dopo la Grande Guerra dirige la Direzione Marittima della Campania sino al 1920. Promosso prima Brigadiere Generale di Porto e poi Maggiore Generale di Porto in soprannumero, dal 15 marzo 1923 è a Roma, all’Ispettorato Generale, prima come Capo Divisione e poi come Sottocapo Ispettore del Corpo rispettivamente. Ne assume il Comando solo dal gennaio all’aprile 1925, prima di essere posto in ausiliaria per raggiunti limiti di età.
È stato insignito delle seguenti onorificenze/decorazioni:
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/01/1925 al 18/04/1925
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Il Generale Capo di Porto Ernesto Policastro, nasce in un piccolo centro della Lucania, Trivigno, l’11 gennaio 1862. Spinto dal suo amore per il mare, entra nel Corpo delle Capitanerie di Porto il 1 febbraio 1883, dopo aver superato il concorso. Nell’arco dei suoi primi anni lavorativi presta servizio a Castellamare di Stabia, La Maddalena, Catania e Castellamare del Golfo, nelle cui sedi ricopre incarichi minori. Nel 1887, con il grado di Applicato di Porto di 1^ classe viene trasferito all’Ufficio Marittimo di Sciacca, dove rimane per tredici lunghi anni. All’inizio del nuovo secolo da Ufficiale di Porto di 1^ ritorna nella penisola a Napoli. Dalla città partenopea andrà via solamente otto anni più tardi per la sua prima esperienza di comando a Pizzo Calabro prima e Messina poi, per il complessivo periodo tra il 1908 e il 1914.
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale viene mandato nell’isola italiana di Rodi al comando della locale Capitaneria, con il grado di Tenente Colonnello, per gli effetti della temporanea militarizzazione del Corpo avvenuta a seguito del primo conflitto mondiale. Dopo un anno, rientra in Italia, prendendo il Comando della Direzione Marittima di Livorno dal 1915 al 1918, e successivamente di Palermo per tutto il 1918. Infine presiede il Governo Marittimo di Trieste, ente asburgico con parziali omologhi compiti delle Capitanerie di Porto, dal 12 novembre 1918. Assume la denominazione di Maggiore Generale allorquando il Corpo transiterà definitivamente nei quadri della Regia Marina nel 1919 (Regio Decreto n. 2142 del 2 novembre 1919). Rimane nella città giuliana sino al 1920, anno in cui viene nominato Ispettore del Corpo delle Capitanerie, con il grado di Generale di Porto. Incarico questo che manterrà sino al 1925, quando per raggiunti limiti di età cesserà dal servizio attivo. Nominato Tenente Generale Ispettore in ausiliaria, è richiamato in servizio dal 1 giugno 1927 al 1 marzo 1929.
È stato insignito delle seguenti decorazioni ed onorificenze:
Muore a Roma il 11 gennaio 1933.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 01/05/1919 al 31/12/1924
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Il Generale di Porto Ispettore Francesco Mazzinghi, nato a Livorno il 18 dicembre 1852, compie l’anno di volontariato nel 1871-72 alle dipendenze del 27° distretto del Regio Esercito, nella sede genovese del Segretariato Generale dell’Ufficio Operazioni Militari, con il grado di caporale. Entra, nel 1874, a far parte del Corpo delle Capitanerie di Porto, fondato da poco con il R.D. n. 2438 del 1865, tramite concorso pubblico, con il grado di Applicato di Porto di 2^classe. Viene destinato nelle sedi di Livorno e Genova. Qui incontra la sua futura moglie, Maria Caterina Bersani, sposata nel 1876, Da quest’ultima sede viene trasferito a Meta di Sorrento, dove farà la sua prima esperienza di comando, con il grado appena conseguito di Ufficiale di Porto di 3^classe. Ritorna a Livorno il 1 gennaio 1882. Lascerà di nuovo la sua città solo nel 1891, dopo esser stato promosso ad Ufficiale di Porto di 1^classe, chiamato a Genova e poi a La Spezia. Dal 1899 viene impiegato presso la Divisione Porti e Spiagge del Ministero della Marina Mercantile a Roma. Viene destinato successivamente a Bari nel 1905 con il grado di Capitano di porto di 2^ classe. Con la promozione a scelta al grado di Capitano di porto di 1^Classe rientra nella sede di Livorno. Nel 1910 prende il Comando del Corpo delle Capitanerie di porto, con il grado di Generale di Porto Ispettore, divenendo il primo Comandante Generale del Corpo, che proprio in quell’anno con il R.D. n 857 vedeva sancita la nascita dell’Ispettorato Generale, con sede a Roma. Francesco Mazzinghi traghetta il Corpo durante i difficili anni a cavallo della Prima Guerra Mondiale, anni in cui le Capitanerie partecipano con i loro uomini e mezzi allo sbarco in Africa nel conflitto Italo-Turco del 1911 e successivamente si ritrovano a fronteggiare la Grande Guerra Mondiale, aiutando la Marina Militare nella mobilitazione del personale militare, nella difesa delle coste e nella requisizione di naviglio mercantile per fini bellici. Mazzinghi era al comando del Corpo durante l’opera di salvataggio dell’esercito serbo, bell’esempio di solerzia e dedizione alla nobile causa della salvaguardia della vita umana in mare. Nel 1919 viene riconosciuta la militarizzazione del Corpo, contemporaneamente quasi all’uscita di scena di Francesco Mazzinghi, colpito dai limiti di età. Nel periodo dell’occupazione militare della Venezia Giulia sarà richiamato a presiedere il Governo Marittimo di Trieste, istituzione cui era devoluto il governo di tutte le faccende marittime del litorale austriaco, poi scomparsa per l’assorbimento di questa nelle subentranti istituzioni italiane.
Medaglie, decorazioni e riconoscenze
Muore a Roma il 12 Gennaio 1938.
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto dal 1910 al 30/04/1919
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Il Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera è un Corpo della Marina Militare [34] che svolge compiti e funzioni collegate in prevalenza con l'uso del mare per i fini civili e con dipendenza funzionale da vari ministeri che si avvalgono della loro opera: primo fra tutti il «Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» che ha "ereditato", dal Ministero della marina mercantile, la maggior parte delle funzioni collegate all'uso del mare per attività connesse con la navigazione commerciale e da diporto e sul cui bilancio gravano le spese di funzionamento. Il Corpo dispone di un organico complessivo di circa 11.000 persone tra Ufficiali, Sottufficiali e Truppa.
I servizi d'istituto sono effettuati con dipendenza da diversi Organi dello Stato, dei quali il «Comando Generale del Corpo delle Capitanerie» è l'interfaccia naturale. A tale immediata e diretta dipendenza funzionale, se ne aggiungono altre che parimenti il Corpo esercita per conto di altre Amministrazioni dello Stato - tutte aventi come denominatore comune il mare e la navigazione - sia nella veste di "Organo periferico" della rispettiva Amministrazione centrale, sia quale "Organo di polizia marittima” per quanto concerne gli aspetti di tutela, di vigilanza e repressivi.
Fra queste, l’attività più importante è la gestione della “pesca marittima”, espletata per conto del Ministero per le politiche agricole alimentari e forestali – Dir. Generale Pesca ed Acquacoltura, che si esplica ai sensi della Legge n. 491/93 sia quale Organo amministrativo periferico del Ministero (tramite rilascio licenze ministeriali, attestazioni provvisorie, istruttoria pratiche concernenti benefici contributivi, ecc.) sia quale Organo di polizia marittima sulla intera filiera della pesca, dalla cattura alla successiva commercializzazione, tramite il "Centro Controllo Nazionale Pesca" (C.C.N.P.) del Comando Generale del Corpo ubicato direttamente presso detto Ministero, e tramite i "Centri Controllo Area Pesca" (C.C.A.P.), esistenti presso le Direzioni Marittime, applicando altresì in tale specifica attività anche direttive comunitarie.
Altra dipendenza funzionale del Corpo si ha col “Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare [35]”, per conto del quale le Capitanerie di Porto curano tutta l’attività connessa alla tutela dell’ambiente marino ai sensi della Legge 31 dicembre 1982, n. 979 (Disposizioni per la difesa del mare .. [36]come modif. dal D.lgs. n. 202/2007) e successiva Legge 28 gennaio 1994, n. 84 [37]e successive modificazioni [37] (Riordino della legislazione in materia portuale), nonché, per quanto applicabile, della Direttiva CE 2008/99 sulla tutela penale dell’ambiente sia intesa quale attività di prevenzione, di bonifica e repressione dell’inquinamento marino, sia quale tutela dell’ecosistema e delle specie marine protette, sia come gestione e tutela delle Riserve Marine giusta Legge 6.12.1991, n. 394 [38], attività queste che sono gestite per il tramite del "Reparto Ambientale Marino" (R.A.M.) del Corpo delle Capitanerie di Porto istituito presso il Ministero dell’Ambiente.
Naturalmente il Corpo delle Capitanerie di Porto, quale Corpo della Marina Militare, svolge anche compiti e funzioni quale Organo periferico del “Ministero della Difesa”, fra i quali vanno annoverati:
Oltre a queste attività, ricomprese fra i principali compiti d’istituto svolti dal Corpo, ve ne sono altre, svolte essenzialmente in funzione di “ Polizia Marittima ”, anche in via sussidiaria ed ancillare, in concorso con altre Forze di Polizia, per conto di altre Amministrazioni, fra le quali possono menzionarsi:
Infine, con l’entrata in vigore della Legge n. 559/95 che ha disposto il passaggio alle "Regioni" dell’amministrazione del Demanio Marittimo, ramo turistico-balneare, le Capitanerie di Porto esplicano anche "funzioni amministrative" (laddove esiste una convenzione in tale senso) e di "polizia" per conto delle Regioni.
Tali peculiari attività, svolte alle dipendenze dei suddetti Dicasteri, andranno quindi ad esplicitarsi, rispettivamente, attraverso le seguenti funzioni:
1. Il Corpo delle Capitanerie di porto dipende dalla Marina Militare, ai sensi dell' articolo 118 ed esercita, in tale ambito, le seguenti competenze:
2. Il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera concorre, in particolare, nell’ambito della Forza armata, allo svolgimento delle seguenti attività:
a) assicurare la difesa dello Stato mediante:
b) realizzare la pace e la sicurezza internazionale mediante:
c) supportare l'organo cartografico di Stato (IIMM) per quanto concerne la documentazione nautica;
d) svolgere i servizi militari attinenti al personale marittimo, alla difesa dei porti, delle installazioni militari e del naviglio mercantile indicati nel Regolamento, nonché gli altri compiti assegnati alla Marina militare.
3. Gli uffici periferici del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera dipendono, quanto ai servizi attinenti alla Marina militare, dai Comandi in capo di dipartimento militare marittimo e dai Comandi militari marittimi autonomi di zona.
1. Il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera:
2. Nell'ambito delle funzioni di cui al comma 1, il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera, attraverso le proprie articolazioni periferiche:
3. Il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera esercita ulteriori funzioni relativamente alle seguenti materie:
► Per le linee di attività richiamate dall'art. 135 del Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 - Codice dell'ordinamento militare
1. Il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera dipende funzionalmente dal Ministero dell'ambiente, della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell' articolo 8 della legge 8 luglio 1986, n. 349, e dell' articolo 3 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, esercitando funzioni di vigilanza e controllo in materia di tutela dell'ambiente marino e costiero.
2. In dipendenza delle attribuzioni di cui al comma 1, e fermo restando quanto previsto dall' articolo 12 del decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera esercita, in particolare, le sottoelencate funzioni:
► Per le linee di attività richiamate dall'art. 136 del Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 - Codice dell'ordinamento militare
1. Il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera dipende funzionalmente dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, ai sensi del decreto legislativo 26 maggio 2004, n. 153, per l'esercizio delle funzioni delegate in materia di pesca marittima.
2. In dipendenza delle attribuzioni di cui al comma 1, il Corpo delle capitanerie di porto - Guardia costiera esercita, in particolare, le sotto elencate funzioni:
► Per le linee di attività richiamate dall'art. 137 del Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 - Codice dell'ordinamento militare
1. Il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera svolge, nell'ambito delle attribuzioni di polizia giudiziaria previste dall'articolo 1235 del codice della navigazione e da altre leggi speciali, nonché ai sensi dell'articolo 57, comma 3, del codice di procedura penale, le sottoelencate funzioni, riconducibili nelle più generali competenze di altri ministeri:
L’ampiezza e la varietà delle attività svolte pongono le Capitanerie di porto come Organo di riferimento per le «attività marittime» e ne fanno un vero e proprio “sportello unico” nei rapporti con l’utenza del mare.
Il Corpo si configura come una struttura altamente specialistica, sia sotto il profilo amministrativo che tecnico-operativo, per l’espletamento di funzioni pubbliche statali che si svolgono negli spazi marittimi di interesse nazionale. Tali spazi comprendono 155.000 Kmq di acque marittime interne e territoriali, che sono a tutti gli effetti parte del territorio dello Stato, nonchè ulteriori 350.000 Kmq di acque sulle quali l'Italia ha diritti eslusivi (sfruttamento delle risorse dei fondali) o doveri (soccorso in mare e protezione dell'ambiente marino): un complesso di aree marine di estensione quasi doppia rispetto all'intero territorio nazionale che, com'è ben noto ammonta a 301.000 Kmq.
Secondo le linee di tendenza che si stanno affermando in Europa, l’Autorità marittima – Guardia costiera deve esercitare un effettivo controllo sui mari per la "salvaguardia della vita umana", per la "sicurezza della navigazione", per il "corretto svolgimento delle attività economiche" (pesca e sfruttamento della piattaforma continentale) e per la "tutela dell’ambiente marino".
► Le principali linee di attività del Corpo sono le seguenti:
Per il necessario decentramento, e per l'applicazione delle norme emanate dall'Amministrazione attiva centrale sono stati istituiti Organi posti nelle località più adatte del territorio dello Stato, che rappresentano l'espressione funzionale periferica del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
Questi organi periferici, o locali, costituiscono, nel loro insieme, la «Amministrazione diretta attiva periferica» della navigazione marittima. e ciascun organo ha giurisdizione solo su una parte del territorio stesso.
A livello periferico, il litorale dello Stato è suddiviso in circoscrizioni marittime . Queste sono le “Zone marittime”, divise in “Compartimenti marittimi”, a loro volta suddivisi in “Circondari marittimi”.
In ogni Zona esiste un "Ufficio" della zona marittima (Direzione marittima); in ogni Compartimento una "Capitaneria di porto", in ogni Circondario un "Ufficio Circondariale marittimo" (D.P.R. 699/1944).
I rispettivi responsabili (Direttori Marittimi, Capi del Compartimento e Capi del Circondario) sono definiti "Autorità marittime" (art. 2 Legge n. 84/94). Il Direttore marittimo è anche Capo del compartimento in cui ha sede l’ufficio della Direzione marittima e il Capo del compartimento è anche Capo del Circondario in cui ha sede l’ufficio compartimentale.
Il Capo del Compartimento, il Capo del Circondario e i Capi degli altri Uffici Marittimi di pendenti sono "Comandanti del Porto o dell'approdo", in cui hanno sede (art. 16 Cod. nav.).
Operano a livello locale in autonomia dai predetti organi anche le “Autorità portuali” istituite con la Legge n. 84/94 nei principali porti del Paese, con compiti di indirizzo, coordinamento e controllo delle operazioni portuali e delle altre attività esercitate in ambito portuale.
La "struttura periferica" del Corpo delle Capitanerie di porto (organizzzaione territoriale), distribuita lungo gli 8.000 chilometri dello sviluppo costiero nazionale, prevede attualmente:
VTSL - "Bonifacio Traffic" - Forte di San Vittorio
di Guardia Vecchia
"Il FORTE SAN VITTORIO", risale al XIX° secolo, si trova nell’Italia insulare, in Sardegna, in provincia di Olbia-Tempio, nel Comune di La Maddalena (Arcipelago di La Maddalena), a 159 metri s.l.m. e alle coordinate geografiche 41°13’N9°24’E. Il suo scopo era la protezione di forti e batterie dell’isola, nonché prigioni.
Le Direzioni marittime1 sono state istituite col compito di decentrare e sveltire l'Amministrazione attiva centrale. Attualmente, come anzi detto, sono 15 e hanno sede a Genova (Liguria), Livorno (Toscana), Roma (Lazio), Napoli (Campania), Reggio Calabria (Calabria), Bari (Puglia), Ancona (Marche), Pescara (Abruzzo), Ravenna (Emilia Romagna) Venezia (Veneto), Trieste (Friuli), Palermo e Catania (Sicilia), Cagliari e Olbia (Sardegna).
Le Direzioni Marittime (indirizzo telegrafico - Direziomare) non hanno attribuzioni di diretto ordine militare e, pertanto possono essere considerate «Organi esclusivi» dell'Amministrazione della Navigazione Marittima.
1 La Direzione marittima è una suddivisione amministrativa del litorale dello Stato.
Le Capitanerie di porto hanno sede nei principali porti dello Stato. Contrariamente alle Direzioni Marittime, le Capitanerie (indirizzo telegrafico - Compamare) sono anche "Organi periferici della Marina Militare".
Per i compiti loro affidati sotto tale veste, sono alle dirette dipendenze dello Stato Maggiore della Marina, dei Comandi in Capo di Dipartimento e dei Comandi Militari Marittimi Autonomi, per quanto attiene al concorso nella difesa marittima e costiera, all'esercizio della polizia militare, alla requisizione e noleggio delle navi, ecc.
Per quanto riguarda i "servizi di leva" (attualmente sospesi) e di "mobilitazione" dipendono dalla Direzione Generale della Leva (LEVADIFE).
Inoltre, per ciò che si riferisce alla "sanità marittima", le Capitanerie di Porto ricevono istruzioni dal Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociale, mentre per la "pesca" hanno rapporti col Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, relativamente alle "opere portuali" ed alla "conservazione dei porti" sono collegate con i competenti Uffici del genio Civile Opere Marittime (OO.PP.) ed hanno infine, rapporti col Ministero degli Affari Esteri, per il "servizio di emigrazione" nonché con altri "Ministeri ed Enti pubblici" per i numerosi rimanenti settori della loro competenza.
Il Corpo delle Capitanerie di porto svolge compiti funzionali nell'Amministrazione dei trasporti con adeguata presenza lungo il territorio rivierasco nazionale. L'attuazione di importanti riforme che hanno riconosciuto competenze amministrative diffuse alle Regioni (art. 105 del D.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 e art. 118, comma 1, della legge 18 ottobre 2001) hanno nel tempo modificato in parte le attribuzioni del Corpo delle Capitanerie di porto. Tuttavia, rimangono ancora presenti rilevanti funzioni amministrative, previste dal Codice della navigazione nonchè in leggi speciali.
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Gli Uffici Circondariali Marittimi (indirizzo telegrafico - Circomare) hanno attribuzioni più ristrette delle Capitanerie di Porto. Identica, però, è la natura delle funzioni.
Tali Uffici esercitano la vigilanza sul servizio degli Uffici Minori dipendenti: Ufficio Locale Marittimo (indirizzo telegrafico - Locamare) e Delegazione di Spiaggia (indirizzo telegrafico - Delemare). Provvedono per quanto riguarda l'esecuzione del servizio militare marittimo secondo le istruzioni delle Capitanerie di Porto.
Le rimanenti attribuzioni sono identiche a quelle delle Capitanerie di Porto, ma ridotte nella estensione
► Uffici dipendenti
Nei porti e negli approdi che abbiano una certa importanza e non siano sedi di Compamare e di Circomare sono istituiti:
Questi Uffici hanno funzioni ancora più ridotte rispetto agli Uffici Circondariali marittimi da cui dipendono. Provvedono per l'esecuzione del servizio militare secondo le istruzioni dell'Ufficio Circondariale Marittimo; esercitano la vigilanza sul demanio marittimo.
In particolare, le Delegazioni di Spiaggia devono essere autorizzate dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti per tenere le «Matricole» della Gente di Mare di III^ categoria e dalla Direzione Marittima per tenere il «Registro delle Navi Minori e Galleggianti» (mod. 34).
Non tengono sessioni di esami per il conseguimento dei Titoli professionali marittimi e non rilasciano, quindi, nessun titolo.
La Componente Navale della Guardia Costiera trae origine dall'attuazione della Legge 979/82 "Disposizioni per la difesa del mare" (DIFMAR). Infatti tale legge ha previsto, tra l'altro, l'istituzione:
Il Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera, dispone di una "flotta" composta da unità navali di vario tipo (costiere, d’altura), dislocate fra porti e approdi della penisola italiana e delle sue isole.
Per il «soccorso in mare» la componente navale opera in “attività costiera” svolta entro le 40 miglia dalla costa e in “attività d’altura” condotta oltre tale limite. Ciò senza porre in secondo ordine i rapporti funzionali che il Corpo intrattiene con diversi Dicasteri, per "l'esercizio del controllo sulla pesca marittima" o "la protezione dell'ambiente marino".
Il potenziamento dei Mezzi navali del Corpo delle Capitanerie di porto ha origine con la promulgazione della Legge n. 413/1998, con la quale sono stati messi in cantiere e realizzati, presso la Fincantieri di la Spezia, 6 pattugliatori della Classe 900 “Saettia/Diciotti” nonchè 28 unità d'altura a grande autonomia (AGA) della Classe 200/S, dei Cantieri Navali Rodriguez di Messina, che attualmente rappresentano i segmenti della flotta dedicati alle attività “alturiere”.
Nel febbraio 2008, è stato inoltre avviato il programma “Classe 300”, unità di circa 20 metri che rappresentano l’evoluzione della collaudata "Classe 800" da impiegarsi in attività SAR (Search Rescue) alturiero e di cui si prevede l’acquisizione nel breve termine di 9 unità delle quali 2 già consegnate e in servizio operativo.
Per quanto invece attiene la flotta del segmento “medio”, procede il completamento della messa in linea delle unità "Classe 800 SAR" per un totale di 88 unità, a cui vanno aggiunte 6 motovedette specificamente studiate "per il soccorso aereo" , e delle "Classi 2000, 500 e 700", rispettivamente in numero di 54, 76 e 12 unità, impegnate principalmente nei "servizi di istuituto" del Corpo.
Esistono inoltre, 3 unità della "Classe 450" dedicate esclusivamente al "servizio di idrambulanza" con le isole minori.
Per quanto riguarda le peculiari attività connesse al "soccorso ad aeromobili incidentati in mare" e "polizia marittima" costiera, in aderenza al documento programmatico del Corpo, sono stati avviati studi specifici per la realizzazioine di una nuova tipologia di unità navale dalle elevate caratteristiche prestazionali, flesibilità di impiego operativo, nonché, perfettamente coniugate a contenuti costi di esercizio, denominata "Classe 600", di cui si debbano considerare ulteriori 10 già in linea, di ulteriori 2 unità.
Per gli stessi compiti previsti per la Classe 600 si debbano considerare ulteriori 26 mezzi nautici di varie tipologie.
Il parco "mezzi minori", anch’esso in continua evoluzione, molto sensibile alle innovazioni tecnologiche connesse agli scafi e relative motorizzazioni, ha raggiunto la consistenza di 290 unità di svariate tipologie ed attualmente identificate con i distintivi alfanumerici: GC A – B – L.
Nel "segmento A" trovano allocazione 36 battelli serie "Hurricane" (Società Zodiac) dalle innovative caratteristiche e prestazioni, con uno scafo di circa 10 metri dotati di motorizzazione entrofuoribordo e apparati radar/tic che ne consentono l’inserimento nei più disparati contesti operativi.
Con l’aggiornamento della flotta per effetto di nuove acquisizioni e programmate radiazioni, la componente navale della Guardia Costiera appare, attualmente, un moderno e sofisticato strumento operativo. Il ricorso alle attuali tendenze costruttive degli scafi, relativamente all’utilizzo di materiali quali acciaio, leghe di alluminio e vetroresina, coniugati ad affidabili motorizzazioni ed evoluti impianti di scoperta/TLC, ha consentito la realizzazione di piattaforme navali sempre più adeguate ad assicurare una idonea copertura tecnico-operativa di tutto il territorio marittimo di giurisdizione e oltre.
La Componente di Volo del Corpo delle Capitanerie di porto è stata istituita alla fine degli anni ‘80 a seguito della Legge 31 dicembre 1982, n. 979 (DIFMAR) recante “disposizioni sulla difesa del mare”.
Il programma di sviluppo allora definito prevedeva una linea ad “ala fissa” costituita da 12 aerei di pattugliamento a medio raggio ed una linea ad “ala rotante” costituita da 24 elicotteri medi, dei quali sono stati acquisiti di fatto solo 10.
In relazione agli impegni derivanti dalla Legge 3 aprile 1994 n. 622, attuativi della convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (Amburgo 1979), che prevedono l'impiego di mezzi idonei ad un adeguato controllo e intervento su vaste aree, si è cominciata a valutare la possibilità di acquisire velivoli long range per missioni tipiche di protezione civile (grandi soccorsi, antinquinamento, ecc.). Il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha convenuto sulla necesità, per l’ala fissa, di transitare sulla linea dei più moderni ATR42MP, pattugliatori marittimi a lungo raggio, confacenti alle suddette specifiche, e per l’ala rotante, sulla linea AW139.
Tutti gli aeromobili in dotazione sono attrezzati con "sensori" di elevata capacità, in grado di assolvere alle funzioni sopra citate.
La loro scelta ha consentito di coniugare in maniera efficace il numero di aeromobili di cui il Corpo dispone con le preminenti esigenze di carattere operativo. E’ stato delineato negli ultimi anni, ed è in corso di esecuzione, il piano di sviluppo della componente aerea, realizzato per soddisfare al meglio le nuove esigenze operative. Tale piano interessa tanto la logistica con l’apertura di nuove basi (in particolare Cagliari (Sardegna), Pontecagnano ( ) e Grottaglie (Puglia), quanto i velivoli, con l’acquisizione di nuovi mezzi.
Nel corso dell’anno 2007 sono stati formalizzati i contratti per l’acquisizione di un terzo velivolo ATR42MP e di 2 elicotteri AW139. Tali nuovi mezzi entreranno in servizio entro il 2010, in concomitanza all’avvenuta "radiazione" dei rimanenti velivoli Piaggio P166DL3SEM.
E’ allo studio, inoltre, l’acquisizione di un velivolo da trasporto tattico-veloce, per l’assolvimento di specifiche missioni istituzionali.
Elicottero Agusta-BELL
AB412CP, dislocato presso le basi di Sarzana
Le attività del Corpo delle Capitaneria di porto non si limitano soltanto alla superficie del mare ed al sovrastante spazio aereo, ma si estendono anche al settore subacqueo.
Avendo oramai consolidata l’esperienza nelle attività subacquee e riconoscendo, nel contempo, la necessità di procedere ad una diffusione dei "Reparti operativi subacquei" stessi, sono stati istituiti, in ordine di tempo, 5 Nuclei Operatori Subacquei delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera nelle sedi di
Attualmente la componente subacquea si avvale di 37 operatori di ogni ruolo e grado, ai quali si aggiungono 5 infermieri specializzati in fisiopatologie subacquee. Tali operatori sono in possesso del “brevetto militare per sommozatori” rilasciato dal Comando Subacquei ed Incursori della Marina Militare. Il brevetto abilita gli operatori ad effettuare "immersioni ad aria entro i 40 metri" e "ad ossigeno entro i 12 metri" di profondità
I Nuclei operativi subacquei sono dotati di attrezzature individuali e di reparto di ultima generazione tra cui il veicolo subacqueo a controllo remoto, il «ROV» (Remote Operate Vehicle)[ [2]1] [2], denominato “Prometeo”, con finalità principalmente investigative.
Il “Prometeo” è un vettore di telecamere con capacità secondarie di prelievo di campioni. La struttura è in acciaio inox, con 4 motori elettrici, molto leggero e di piccole dimensioni. Tali caratteristiche permettono al ROV di operare fino a 300 metri di profondità e consentono agli operatori di condurre indagini “mirate” che non comportano la necessità di eseguire lunghi percorsi di ricerca in un’ampia area, quali verifiche su relitti ed ispezioni in ambienti altrimenti non accessibili.
I Nuclei sommozzatori hanno in dotazione mezzi idonei al trasporto di personale e materiali e di battelli pneumatici che li rendono completamente indipendenti ed in grado di operare in autonomia in ogni parte del territorio nazionale.
[1] I ROV sono sistemi completamente mobili di telecamere subacquee che sono controllate dalla superficie e capace di rimanere sommersi a tempo indeterminato. Queste ROV sono ideali per una varietà di applicazioni, tra cui ispezioni condotte, fiume e le ricerche in oceano, indagini diga, piattaforme del petrolio e del gas e piattaforma di lavoro, l'allevamento ittico, e le operazioni di sicurezza interna, in caso di incidenti in mare, naufraghi, maremoti, inondazioni, ecc Essi possono ridurre drasticamente i tempi di ricerca, così come i rischi e i costi elevati associati alle operazioni subacquee. Equipaggiato con il RMD-1 metal detector telecomando del ROV diventa un sistema di ricerca di alta tecnologia in grado di localizzare armi, ordigni inesplosi, oleodotti, tesori sepolti, e altri oggetti metallici.
L’articolo 16 [43] della [43]Legge 1 aprile 1981, n. 121 [43] e succ. modif., espressamente prevede le varie componenti delle “Forze di Polizia” cui spetta lo svolgimento delle funzioni di polizia, ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Rientrano pertanto nella categoria di «Forze di polizia interforze», oltre alla Polizia di Stato quale primaria tipica struttura funzionale di polizia, anche tutti gli organismi istituzionali che, pure essendo sottoposti ad autonomi ordinamenti (Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale dello Stato), svolgono o sono chiamati a svolgere funzioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Non è ricompreso, nella categoria, il Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera.
Tuttavia, di fatto, le Capitanerie di Porto esplicano "funzioni di polizia" analogamente alle Forze di polizia o Corpi di Polizia ad ordinamento militare e civile, in ragione delle specifiche funzioni di Polizia Giudiziaria esercitate nei settori d’istituto, sia pur limitati ai particolari compiti di sicurezza pubblica esercitati in ambito portuale, delle funzioni residuali di Polizia Militare, della specifica ed esclusiva competenza esercitata in alcune materie, con consequenziale potestà sanzionatoria e di accertamento delle relative violazioni, e considerando altresì le attività di indagini di Polizia Giudiziaria, anche per reati comuni, che sempre più spesso le locali Procure delegano alle Capitanerie di Porto delle rispettive giurisdizioni, oltre ai servizi di vigilanza e controllo sul demanio effettuati autonomamente o in concorso con le Forze di Polizia, della partecipazione ai Comitati prefettizi di Ordine e Sicurezza Pubblica.
Fra i compiti di istituto espletati dal Corpo delle Capitanerie di Porto rientrano quindi, come sopra meglio specificato, anche le funzioni ed i compiti di polizia, intendendo con essa sia di «polizia amministrativa», sia di «attività di pubblica sicurezza», sia di «polizia militare», sia di «polizia stradale», sia, infine, di «polizia giudiziaria».
L’attribuzione di tali funzioni di polizia va ricercata nel combinato disposto dell’art. 57 comma 3 c.p.p. con l’art. 1235 Cod. nav., laddove questi recitano che “sono Ufficiali di P.G. gli Ufficiali ...ed i Sottuffìciali del Corpo delle Capitanerie di Porto...” sebbene “..nei limiti del servizio cui sono destinati e secondo le relative attribuzioni”. Dette funzioni sono state poi riprese da leggi speciali, quali, ad esempio l'art. 22, comma 3 (Persone incaricate della vigilanza) del Decreto Legislativo 9 Gennaio 2012, n. 4 recante “Misure per il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura, a norma dell'articolo 28 della legge 4 giugno 2010, n. 96", l’art. 23 della Legge 31 dicembre 982, n° 979 e succ. modifiche (disposizioni per la difesa del mare), e gli artt. 135 comma 2° e 195 comma 5° del D.lgs. 03 aprile 2006, n° 152 in materia di ambiente, ecc.
Compiti infine di vigilanza e ronda in ambito portuale e sul demanio sono inoltre attribuiti, dall’art. 499 Reg. Cod. nav.[1] (Libro V - Disposizioni penali e disciplinari – Titolo I - Disposizioni in materia di polizia), a tutto il personale della M.M. che presta servizio nelle Capitanerie di Porto, indipendentemente quindi dalla categoria di appartenenza.
Tali attribuzioni di polizia sono limitate, tuttavia, ratione materiae, ai “reati previsti dal Codice della Navigazione” nonché “ai reati comuni commessi nel porto, qualora manchino in tale luogo Uffici di pubblica sicurezza” (art. 1235, comma 2° Cod. nav.)[2]
Detti limiti territoriali non vengono posti tuttavia per la repressione delle violazioni alle leggi sulla pesca penalmente perseguibili (L. 963/65), nonché per l’attività di prevenzione ed accertamento dei reati concernenti l’inquinamento marittimo (L. 979/82 e D.lgs. 152/2006 e successive modif.).
[1] Art. 499 Reg. Cod. nav. (Servizio di ronda) - Ai fini della sorveglianza sulla regolarità dei servizi l’Autorità marittima mercantile ha facoltà di disporre servizi di ronda. Gli Agenti in servizio di ronda possono visitare, in qualunque momento, le navi, i galleggianti e gli aeromobili nonché gli stabilimenti e le altre opere nell’ambito del demanio marittimo e del mare territoriale.
Il servizio di ronda è eseguito per mezzo di marinai o sottufficiali di porto e, ove occorra, dai carabinieri e dagli agenti di pubblica sicurezza, previa richiesta alle autorità da cui questi agenti della forza pubblica dipendono ovvero da militari del corpo equipaggi della marina militare o di altre categorie destinati presso gli uffici di porto.
[2] La nozione di “Reato Marittimo” di cui al citato art. 1235 appare troppo restrittiva, in quanto, cosi formulata, verrebbe ad escludere alcuni gravissimi reati contro la sicurezza della navigazione, quali il reato di naufragio, di danneggiamento seguito da naufragio, o di un delitto colposo di danno per naufragio o sommersione, che verrebbero pertanto con tale limitazione sottratti alla competenza dell’Autorità Marittima, che pure è il principale se non l’unico Organo dello Stato competente ex lege per tale materia.
Deve rilevarsi tuttavia come la Suprema Corte abbia confermato l’esclusione dalle funzioni piene di Polizia Giudiziaria anche per i reati comuni in capo al personale del Corpo, limitando detta qualifica in relazione al servizio affidatogli in connessione con l’attività istituzionale espletata dal Corpo delle Capitanerie di Porto ex art. 1235 Cod. nav., con esclusione quindi sia di quelle di cui all’art. 57, comma 1° c.p.p.. sia di quelle di Polizia Giudiziaria Militare di cui all’art. 301 c.p.m.p. (Cass. Pen., Sez. VI^, Sent. n° 1169 del 01.02.96 ).
Il Regolamento CE n° 562/2006 [44] emanato in data 15.03.06 prevede alcuni compiti di "Polizia di Frontiera" in capo all’Autorità Marittima, laddove non vi sia la c.d. “Guardia di Frontiera” (cioè Ufficio di Polizia di Frontiera per l’Italia).
Tali attività, classificabili quali attività di Polizia Amministrativa connesse alle operazioni di ingresso di stranieri nel territorio nazionale, sono specificate in alcune disposizioni del suddetto Regolamento, e precisamente:
Si rammenta infine l’onere posto a carico del vettore marittimo dall’art.10 comma 3° del T.U. 286/98 che dispone come “ il vettore aereo o marittimo è tenuto ad accertarsi che lo straniero trasportato sia in possesso dei documenti richiesti per l’ingresso nello Stato, riferendo alla Polizia di frontiera dell’eventuale presenza di stranieri irregolari a bordo dei mezzi di trasporto”
Analoga disposizione è disposta a carico di chi “assume lo straniero alle proprie dipendenze” senza darne conoscenza entro 24 ore all’Autorità di P.S. (art. 7 T.U. 286/98).
Al riguardo, la Suprema Corte ha statuito come costituisce comunque reato agevolare il transito dei clandestini nel territorio nazionale,anche se gli stessi siano solo di passaggio perché diretti in altri paesi UE, così sanzionando penalmente anche il semplice valico di frontiera anche se non finalizzato alla permanenza dello straniero nel territorio nazionale (Cass. Pen. – Sent. n° 6398 del 08.02.08).
L’Amministrazione della Pubblica Sicurezza e le relative attività d’istituto sono disciplinate dalla Legge 1 aprile 1981, n. 121 [43], nonché dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza ( [45]T.U.L.P.S), che ne pone al vertice il Ministro dell’Interno e, a livello periferico, rispettivamente:
L’impiego delle FF.AA. da parte del Prefetto è disciplinato dall’art. 13 della L. 121/81, che consente al Prefetto di ”disporre della Forza Pubblica....e delle altre Forze….. eventualmente poste dalla legge a sua disposizione,….e di coordinarne l’attività”.
Quanto sopra premesso, deve rilevarsi come i militari del C.E.M.M. appartenenti al Corpo delle Capitanerie di Porto rivestono la qualifica di Ufficiali ed Agenti di Polizia Giudiziaria ex art. 1235 Cod. nav., nei limiti di competenza per materie d’istituto, ma non rivestono tuttavia specifica qualifica in materia di Pubblica Sicurezza, non rientrando formalmente il Corpo fra le c.d. “Forze di Polizia” di cui all’art. 16 della L. 121/81, se non limitatamente ad alcuni aspetti che di seguito saranno meglio esaminati.
Alcuni compiti e funzioni di Pubblica Sicurezza sono tuttavia specificatamente attribuiti all’Autorità Marittima e, segnatamente, al Comandante del Porto, dagli artt. 81 e 82, comma 2 del Codice della Navigazione, in aggiunta a quelli che, in via concorsuale, anche se non certamente ancillari, sono ormai permanentemente espletati in materia di “antimmigrazione clandestina”, “traffici illeciti di armi” (embargo ex Jugoslavia) e “lotta al narcotraffico via mare” (questi ultimi su espressa disposizione dell’Autorità Giudiziaria).
A tale contesto, pertanto, appare riconducibile la ratio che ha comportato l’inserimento del personale del Corpo delle Capitanerie di Porto fra le categorie di dipendenti dell’Amministrazione che, a causa della esposizione a rischio dipendente dall’attività svolta nell’ambito delle Amministrazioni della giustizia e della difesa, o nell’esercizio di compiti di pubblica sicurezza, sono esonerate dall’obbligo del pagamento della tassa di concessione governativa prevista per il rilascio della Licenza di porto d’armi di cui al D.M. 24/03/94, n° 371 (Regolamento di attuazione dell’art. 7, comma 2° e 3° della L. 21.02.90 , n° 36).
[1] Più specificamente, l’art. 82 cod. nav. dispone che in occasione di avvenimenti che possono turbare l’ordine nei porti, nelle altre zone del demanio marittimo, ovvero sulle navi mercantili che si trovano in porto o in corso di navigazione nel mare territoriale, qualora l’Autorità di pubblica sicurezza non possa tempestivamente intervenire, l’Autorità Marittima del luogo provvede, nei casi di urgenza, a ristabilire l’ordine, richiedendo, ove sia necessario, l’intervento della forza pubblica o, in mancanza, delle Forze Armate. In forza del previsto coinvolgimento delle Forze Armate non è escluso che gli equipaggi delle Unità M.M. presenti nei porti o nell’ambito delle acque territoriali possano essere chiamati a prestare il proprio concorso in materia di ordine pubblico, nei casi in cui al citato art. 82 cod. nav., compatibilmente con l’assolvimento dei prioritari compiti di istituto e fermo restando la salvaguardia della sicurezza delle unità.
Nello svolgimento dei compiti di istituto, il personale del Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia Costiera può «imbattersi» in fatti concreti costituenti reato e trovarsi, di conseguenza, costretto ad esercitare "funzioni di polizia giudiziaria" (art. 55 c.p.p.).
Tuttavia, il personale del Corpo, può legittimamente svolgere dette funzioni solo “entro gli ambiti“ per esso rispettivamente determinati dal Codice di procedura penale e dalle numerose leggi speciali (o dai provvedimenti a esse equiparati) che si interessano della materia. Per questo motivo, si dice solitamente che la legge stabilisce la “competenza” degli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria indicando non solo quali atti possono essere compiuti dall’una o dall’altra categoria di soggetti (c.d. competenza agli atti), ma anche i limiti (di tempo, spazio e materia) entro i quali quegli atti possono esere compiuti dai vari Organi e persone cui essa attribuisce la qualifica di Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria.
Il personale delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera, pur avendo quasi sempre una “competenza piena“ quanto alle funzioni che possono svolgere, vedono tuttavia “limitata” la sfera di svolgimento di tali funzioni all’accertamento di alcune determinate categorie di reati (e non, invece, di qualunque reato) che attengono all’assolvimento dei compiti di istituto.
Per il personale del Corpo l’attività di polizia giudiziaria è generalmente un’attività “residuale” che viene svolta esclusivamente quando la normale attività amministrativa (di controllo, ispezione e vigilanza) affidata dai Comandi di appartenenza progredisce nell’accertamento di un reato e impone perciò il compimento di attività dirette ad assicurare le fonti di prova e a raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale.
Nel carattere residuale dell’attività di polizia giudiziaria degli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria a «competenza limitata» va individuata la ragione per la quale gli appartenenti al Corpo delle Capitanerie, a differenza della gran parte degli Ufficiali e degli Agenti di polizia giudiziaria a «competenza generale», possono esercitare la loro funzione solo entro definiti limiti temporali e spaziali.
E’ bene chiarire che il riferimento all’«esercizio delle funzioni» ed «ai limiti del servizio» non serve a restringere l’ambito temporale e territoriale entro il quale il personale del Corpo delle Capitanerie può e deve esercitare le sue funzioni di polizia giudiziaria.
Pur se non con qualche approssimazione, può infatti dirsi che, con riguardo ai compiti di istituto, il personale del Corpo riveste «in servizio» e «senza limiti spaziali» la qualità di Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria a seconda, ovviamente, che si tratti di Ufficiali, Sottufficiali ovvero Sottocapi e Volontari di truppa in s.p.e. ed in ferma prefissata.
Il settore d’indagine non può prescindere da fare riferimento, in primo luogo, al predetto Codice della Navigazione, che contiene i fondamenti del “diritto penale marittimo”.
In tale ambito di competenza detto personale è investito di tutti i «poteri» propri della Polizia Giudiziaria e necessari per l’espletamento delle funzioni, non esclusa quindi neppure la possibilità di adottare misure di coercizione quali il fermo o l’arresto, per evitare che un reato venga portato a ulteriori, estreme conseguenze.
"Società e Diritto"
L’uomo è un essere sociale. Per soddisfare le sue esigenze fondamentali [1] si aggrega ad altri costituendo gruppi più o meno stabili e organizzati. Possono farsi l’esempio della famiglia, che è la prima e naturale forma di aggregazione ma anche, a seconda dei tipi di esigenze da soddisfare o finalità da raggiungere, della collettività religiosa, dei partiti politici, dei sindacati, delle associazioni culturali.
Né le forme di cooperazione occasionali né quelle organizzate sarebbero però possibili e potrebbero effettivamente funzionare se la coesistenza fra gli appartenenti al gruppo sociale restasse senza una "disciplina" e tutto fosse lasciato alla spontanea iniziativa dei singoli, alla loro buona volontà o alle loro spinte egoistiche.
Da sempre, perciò, l’uomo ha compreso che le esigenze della coesistenza impongono invece un ordine nei rapporti fra i membri del gruppo e una Autorità in grado di farsi obbedire e di assicurare il rispetto delle regole di condotta che lo stesso gruppo si è posto. Ha cioè avvertito l’esigenza di dare alla collettività sociale una "organizzazione politica"; vale a dire una organizzazione cui tutte le altre fossero subordinate e che non avesse finalità specifiche (culturali, economiche, religiose come quelle dei gruppi organizzati di cui si è detto in precedenza) ma una finalità generale che precedesse tutte le altre: quella di consentire la pacifica coesistenza e lo sviluppo dei soggetti appartenenti al gruppo e di assicurare le condizioni per l’ordinato esercizio delle attività dei soggetti e per il benessere dell’intera collettività.
Nel tempo, le organizzazioni politiche hanno assunto forme diverse: dapprima appena abbozzate e poi sempre più complesse e perfezionate; dalle comunità primitive e dalle tribù nomadi (che si limitavano, per lo più, a riconoscere tutti i poteri a un capo), agli imperi, ai regni, alle signorie, fino allo stato moderno e a quello contemporaneo.
Tra le varie forme di aggregazione, lo Stato è quella che detiene i massimi poteri autoritari e che è preminente rispetto alle altre operanti nel suo ambito territoriale.
Lo Stato è dunque l’ente originario (il suo potere non deriva da nessuno) e sovrano, destinato a garantire le condizioni fondamentali e indispensabili perché, sul suo territorio, i rapporti tra i singoli si svolgano in modo ordinato e si dirigano allo sviluppo ed al benessere dell’intera collettività.
Lo Stato assicura lo svolgimento ordinato e pacifico della vita sociale mediante la predisposizione di “regole di condotta” (= norme) che vietino atti socialmente dannosi e spronino invece ad operare in modo socialmente utile.
Naturalmente lo Stato non può limitarsi a fissare delle regole di condotta; deve assicurarne l’osservanza prevedendo “conseguenze sfavorevoli“ (= sanzioni) a carico di chi trasgredisce quelle regole e creando appositi “Organi” (= Giudici, componenti delle forze di polizia, funzionari dell’ordine amministrativo) aventi la specifica funzione di prevenire e reprimere coattivamente (e cioè ricorrendo anche all’uso della forza) la loro violazione.
Il complesso delle norme emanate per il raggiungimento delle finalità dello Stato ne costituisce il “Diritto”. Tutte le norme che costituiscono il diritto dello Stato si denominano "norme giuridiche [46]"(da jus=diritto). Lo Stato ne assicura l'osservanza consentendone l'attuazione anche coattiva e prevedendo sanzioni a carico di chi ne trasgredisce il precetto e cioè il comando o il divieto in esse contenuto.
[1] L'uomo sceglie di vivere in un gruppo organizzato (società) soprattutto per motivi di:
L'esistenza di problemi di convivenza e di cooperazione, dunque, favorisce il fenomeno associativo che, per poter funzionare correttamente, deve essere;
Il «Diritto penale» è quel complesso di norme con cui lo Stato vieta determinati comportamenti, ritenuti antisociali, minacciando ai trasgressori una sanzione penale.
La funzione del diritto penale è dunque la difesa della società contro il reato per assicurare le condizioni essenziali della convivenza, predisponendo le sanzioni penali a difesa di «beni giuridici o valori ritenuti in un dato periodo storico socialmente più rilevanti».
Il «Diritto Processual Penale» è l’insieme delle norme attraverso le quali lo Stato, per mezzo dell’Autorità Giudiziaria, applica al caso concreto la norma penale e astratta. Tale diritto riguarda l’ordinamento ed il funzionamento dei Tribunali giudiziari.
Il Diritto penale si distingue, dunque, da quello processuale, perché il primo fissa quali sono i fatti illeciti e stabilisce le sanzioni d’applicare ai trasgressori, il secondo indica il rito da seguire per accertare il reato ed applicare le sanzioni.
Costituiscono il Diritto penale, però, non solamente quelle norme che prevedono i comportamenti illeciti e le rispettive sanzioni, bensì anche quelle norme che, ad esempio, stabiliscono cause di non punibilità (es. legittima difesa); quelle che prevedono forme particolari di manifestazione del reato, quali il reato commesso in concorso con altri ed ipotesi di aggravamento od attenuazione.
Le norme penali sono contenute principalmente nel «Codice Penale Rocco [47]», emanato con R.D. 19/10/1930, n. 1398 ed entrato in vigore il 17 Luglio 1931.
Il codice, che pure per oltre un cinquantennio, è rimasto immutato nella sua struttura generale, ha subito, nel corso di questo lungo periodo, numerose modifiche, soprattutto dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.
Attraverso l’intervento della Costituzionale e norme modificatrici, si è cercato di coordinare l’originario impianto normativo, modellato su una ideologia totalitaria (di ispirazione fascista), con i principi informatori dell’ordinamento democratico (ad esempio: il D.lgs. 10/8/1944 che ha abolito la pena di morte).
Pertanto la complessità del sistema delle fonti e il sovrapporsi talvolta a ritmo incessante di leggi disciplinanti la stessa materia (si pensi al diritto tributario), hanno fatto si che da più parti si auspichi una riforma totale del Codice penale.
Il codice penale si divide in tre libri:
- Libro I, che contiene la parte generale comune a tutti i reati;
- Libro II, che elenca partitamente i singoli delitti;
- Libro III, che elenca le contravvenzioni
Al Codice penale si affiancano però numerose leggi «speciali e complementari» che contengono anch’esse norme penali e che hanno reso frammentaria e particolarmente complessa la conoscenza, l’interpretazione e l’applicazione della disciplina penale vigente.
Ai fini del nostro studio possiamo ricordare alcune tra le più importanti normative succedutesi nel corso del tempo, che disciplinano, almeno nelle linee fondamentali, i compiti del Corpo delle Capitanerie di Porto, Guardia Costiera:
Con l’espressione di «Legge penale militare [48]» si indica un complesso di norme penali che hanno come destinatari essenzialmente, ma non unicamente, i militari, per la tutela della efficienza delle Forze Armate dello Stato.
Cardine di ogni legge ordinaria, e quindi anche della legge penale militare, è la Costituzione Repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Quest’ultima contiene poche norme riguardanti l’ordinamento militare ed i problemi ad esso connessi.
La legislazione penale militare si affianca alla legislazione penale comune e si presenta (almeno, all’origine) come espressione di un vero e proprio ordinamento, dotato di una sua spiccata ed unitaria fisionomia: l’ordinamento militare. Il quale vive e opera nello Stato con una propria struttura fortemente individuata, con una propria gerarchia, con un proprio «mondo» di soggetti e di interessi giuridici: quasi una piccola e caratterizzata società (il consorzio militare, per l’appunto) operante nell’ambito della più ampia società statuale.
Questa piccola e caratterizzata società ha il suo corpus di leggi e di regolamenti (di produzione statuale, naturalmente): il quale corpus, si badi, non è diretto a garantire l’esistenza e il funzionamento della società militare come realtà autonoma e fine a se stessa, bensì è ordinato a soddisfare, attraverso il regolare funzionamento dell’organizzazione militare, le più elementari e delicate esigenze di conservazione dell’intera comunità statuale.
L’ordinamento militare ha appunto una funzione strumentale nei confronti di quest’ultima: le norme che lo reggono sono poste dallo Stato proprio in vista di tale funzione strumentale. Il perno di questa impostazione è l’art. 52 Cost., che stabilisce un diretto collegamento tra l’ordinamento delle Forze Armate e l’ordinamento della Repubblica , esplicitamente ribadito, poi, dalla legge 11 luglio 1978 n. 382 e succ. modif. , la quale, delineando le «norme di principio sulla disciplina militari», ha affermato testualmente: «le Forze Armate sono al servizio della Repubblica; il loro ordinamento e la loro attività si informano ai principi costituzionali (artt. 11 e 52); loro compito è di operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale ed alle determinazioni delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte; concorrere alla salvaguardia delle libere istituzioni e svolgere compiti specifici in circostanze di pubblici».
Se proprio le Forze Armate, preposte per definizione alla difesa della Patria, hanno tra i loro compiti l’intervenire in emergenze che sono tipicamente non belliche, ciò conferma che la difesa della Patria non si collega soltanto all’impegno armato e che, sul piano della promozione del bene della collettività nazionale ed internazionale, ci sono settori di impegno che non sono bellici e che tuttavia sono qualificabili come «difesa della Patria».
In effetti l’azione contro le calamità naturali (terremoti, alluvioni, eruzioni, frane, ecc.) che così spesso colpiscono il territorio nazionale e contro le piaghe sociali (come, ad esempio, la tossicodipendenza) che affliggono vasti strati della collettività nazionale causando morti a migliaia, costituisce anch’essa un’importante aspetto dell’attività di difesa: una difesa non rientrante nello schema tipico tradizionale, ma pur sempre riconducibile a una nozione lata e validissima di «difesa».
Ai fini del nostro studio, ha importanza rilevante il carattere di «specialità» della legge penale militare. Occorre tener presente che tale termine speciale è usato nella dottrina del diritto con accezioni svariate.
In una prima accezione, l’aggettivo “speciale“ sta ad indicare una legge che non è contenuta nel codice comune, ma che è di esso integrativa. In questa accezione, speciale significa, in sostanza, “complementare”.
Il carattere della “complementarità”, è il principio per il quale il sistema penale militare è integrato, nelle parti in cui manca una specifica previsione, dalle disposizioni della legge penale comune. Il principio è enunciato dall’art. 16 c.p. ed è un corollario della specialità.
In un secondo significato, il termine “speciale” viene usato ad indicare una legge che si rivolge ad una determinata categoria di soggetti (quella dei militari), a motivo della loro qualità o della speciale condizione giuridica in cui essi vengono a trovarsi (carattere della «personalità»). Soprattutto ma non unicamente: vedremo come tra le persone soggette alla legge penale militare figurano anche i non appartenenti alle Forze Armate.
La qualità di militare[1] , è un elemento della specialità che non è riferito unicamente al soggetto attivo (= autore del reato), ma anche, in combinazioni variabili, al soggetto passivo (=persona offesa dal reato), al luogo, all’interesse leso.
Infine, la legge penale militare è «speciale» perché, per una cerchia limitata di rapporti, detta una disciplina diversa da quella contenuta dalla legge penale generale. Dalla specialità della legge penale militare deriva per essa l’applicazione dell’art. 15 c.p., per il quale quando più leggi penali regolano la stessa materia, la legge speciale deroga alla legge generale, salvo che non sia altrimenti stabilito.
La legge penale militare è speciale, perché molte sue norme incriminatrici contengono degli “elementi specializzanti“ rispetto alle norme incriminatrici comuni senza i quali si applicherebbe la norma generale.
La legge penale militare di guerra è speciale rispetto alla legge penale militare di pace: la prima è caratterizzata da un intenso carattere di “eccezionalità“ (presupposto per l’applicazione della legge penale militare di guerra è l’esistenza dello stato di guerra), rispetto alla seconda che costituisce invece l’aspetto normale della legislazione militare.
Delle tre accezioni elencate, di solito ci si riferisce alla prima quando si parla di legge speciale; ci si riferisce alla seconda quando si parla di diritto penale speciale; ci riferisce alla terza quando si parla di norma speciale.
Quest’ultima sembra, fra le tre, l’accezione più precisa del termine speciale: ed è in sostanza quella a cui il legislatore comune si riferisce nel testo dell’art. 15 («la legge o la disposizione di legge speciale deroga dalla legge o dalla disposizione di legge generale…»
Si ritiene che a definire la specialità della legge penale militare debbano appunto concorrere tutte e tre le accezioni predette.
Tali caratteristiche di specialità provengono dal fatto che la legge penale militare è ordinata al raggiungimento di finalità particolari e alla tutela di interessi giuridici speciali, che avremo occasione di ricordare e, a tutela dei quali le norme speciali creano un’area normativa in cui vige una disciplina derogante alle norme penali comuni .
Occorre qui ribadire che la specialità, comunque, non sottrae la legge penale militare all’impero dei principi costituzionali né produce una sorta di «separatezza» di tale legge rispetto alla legge penale comune.
[1] Per "militare" il codice intende in generale la persona che presta servizio con tale qualità presso una delle forze armate o dei corpi armati dello Stato. L’art. 15 c.p.m.p. statuisce l’ovvia rilevanza del possesso di tale qualità al momento del commesso reato. Attualmente risultano far parte delle forze armate in senso lato, oltrre a quelle tradizionalmente ritenute tali per essere principali garanti della difesa dello Stato (esercito, marina, aeronautica), l’Arma dei carabinieri (prima inquadrata nell’esercito, ma oggi qualificata autonoma forza armata dalla legge 31 marzo 200, n. 78) e la Guardia di Finanza (qualificata corpo militare dello Stato dalla legge 23 aprile 1959, n. 180), dopo l’avvenuta “smilitarizzazione” degli altri c.d. corpi armati dello Stato (Corpo degli agenti di custodia: Legge 15 dicembre 1990, n. 395; Corpo delle guardie di pubblica sicurezza: Legge 1° aprile 1981, n. 121). Ancora risultano avere la qualità di militari gli iscritti, chiamati in servizio, nei ruoli del Corpo speciale volontariato (ausiliario delle Forze armate dello Stato) della Associazione della Croce rossa italiana, in base all’art. 29, r.d. 10 febbraio 1936, n. 484 e gli iscritti, chiamati in servizio, nei ruoli dell’Associazione dei cavalieri italiani del sovrano militare ordine di Malta, in base all’art. 4 Legge 4 gennaio 1938, n. 23.
Il «Diritto della navigazione» è l’insiene delle norme regolanto la materia della navigazione – sia marittima, interna (cioè quella esercitata su fiumi, canali e laghi) od aerea – intesa come complesso unitario dei rapporti attinenti alla navigazione.
La navigazione è qualificata dai «mezzi» con i quali si attua (nave, aeromobile, veicolo spaziale); dall’ «ambiente» nel quale si svolge (mare, acque interne, spazio aereo, spazio extra-atmosferico); dalle «finalità» che con essa si perseguono (private o pubbliche; commerciali, di ricerca, di diporto, ecc.).
Il «Codice della navigazione [49]» vigente viene approvato, nel testo definitivo, con R.D. 30 marzo 1942, n. 327 ed entrò in vigore il 21 aprile dello stesso anno. La realizzazione di esso si deve al genio di Antonio SCIALOJA (in figura), che aveva sempre sosten uto l’unità e l’autonomi del diritto della navigazione, affermando che tale diritto non doveva limitarsi alla sola discoplina della navigazione marittima ed ai suoi rapporti commerciali, bensì estendersi a tutti i rami, sia di diritto pubblico che di diritto privato. Il Codice, infatti, dà una organica e completa sistemazione a tutti i rapporti attinenti alla navigazione marittima, interna ed aerea, prescincendo dagli scopi per i quali la stessa venga esercitata e componendo istituti privatistici e pubblicistici in un sistema rigorosamente unitario. I cinquantanni del Codice della navigazione sono stati celebrati nel 1992 con un convegno svoltosi a Cagliari il 28-30 marzo, in cui è stata valutata la tenuta del Codice con riguardo ai singoli istituti disciplinati. Nel 1995 è stata istituita invece, una commissione preesieduta dal professor Gabriele PESCATORE al fine di celebrare una riforma del Codice della navigazione, ormai richiesta da più parti.
- la prima: dedicata alla navigazione marittima ed interna (artt. 15-686);
- la seconda: dedicata alla navigazione aerea (artt. 687-1079);
- la terza: dedicata alle disposizioni penali e disciplinari (artt. 1080-1265);
- la quarta: dedicata alle disposizioni transitorie e complementari (artt. 1266-
1331).
Per l'esecuzione del Codice della Navigazione e in attuazione dell’art. 1331, il Governo ha poi emanato un apposito Regolamento: il «Regolamento per la navigazione interna» (D.P.R. 28 giugno 1949, n. 631) ed il «Regolamento per la navigazione marittima» (D.P.R. 12 febbraio 1952, n. 238).
Quanto alla parte aerea, il Codice è stato ampiamente rivisitato dal D.Lgs. 9 maggio 2005, n. 96, corretto ed integrato dal D.Lgs. 15 marzo 2006, n. 151, allo scopo di migliorare il livello di tutela dei diritti del passeggero e di sicurezza del trasporto aereo, nonché di razionalizzare e semplificare l’assetto normativo e regolamentare nel settore dell’aviazione civile e delle gestioni aeroportuali.
Il Regolamento consta di "543 articoli" ed è suddiviso in "sei libri". Ogni libro è suddiviso in Titoli, Capi e Articoli, ecc.
Il primo libro riguarda gli Organi amministrativi della navigazione, il demanio marittimo, l'attività amministrativa dei porti, la polizia ed i servizi portuali, il personale marittimo, il regime amministrativo delle navi, la polizia della navigazione, gli atti di stato civile in corso di navigazione, gli oggetti appartenenti a persone morte o scomparse in viaggio ed alcune disposizioni speciali relative al diporto ed alla pesca. Tale libro corrisponde alle norme contenute nel libro primo - parte prima del Codice.
Il libro secondo, intitolato alla proprietà della nave ed all'esercizio della navigazione, tratta della costruzione della nave, delle formalità relative alla pubblicità navale, dell'esercizio della navigazione e del contratto di arruolamento. Corrisponde al libro secondo - parte prima del Codice.
Il libro terzo, è dedicato alle obbligazioni relative all'esercizio della navigazione e riguarda, in particolare, il recupero ed il ritrovamento dei relitti. Corrisponde al libro terzo - parte prima del Codice.
Il libro quarto, intestato alle disposizioni processuali, tratta dell'Istruzione preventiva, delle cause marittime, dell'attuazione della limitazione del debito dell'armatore, dell'esecuzione forzata e delle misure cautelari. Corrisponde al libro quarto - parte prima del Codice.
Il libro quinto, intitolato alle disposizioni penali e disciplinari, riguarda le disposizioni in materia di polizia, quelle processuali ed il procedimento disciplinare. Corrisponde alla parte terza del Codice.
Il libro sesto, infine, si occupa delle disposizioni transitorie e complementari.
La sistemazione della materia nel Regolamento segue, fin dove possibile, la sistematica del Codice allo scopo di rendere agevole il rintraccio delle norme regolamentari per tutti coloro che sono chiamati ad applicare le norme del Codice, ciò giustifica la frequente esistenza di Capi formati da appena uno o due articoli.
Oltre che nel Codice e relativo Regolamento, le disposizioni in materia marittima sono contenute in altri "testi legislativi" (leggi, regolamenti speciali, testi unici). Tali testi legislativi della navigazione sono, per la quasi totalità, relativi alla materia del Diritto Pubblico Amministrativo.
Il complesso delle norme emanate per il raggiungimento delle finalità dello Stato ne costituiscono il «Diritto». Tutte le norme che costituiscono il diritto dello Stato si denominano «norme giuridiche» (da jus=diritto) fra loro coordinate (ordinamento). che danno un ordine alle attività umane. Tali norme si distinguono dalle altre (morali, religiose, etiche) perché sono socialmente garantite: lo Stato cioè, ne assicura l’osservanza consentendone l’attuazione anche contro la volontà dei soggetti cui esse si rivolgono e prevedendo «conseguenze sfavorevoli» (=sanzioni) a carico di chi ne trasgredisce il precetto e cioè il comando o il divieto in esse contenuto. La norma giuridica è un «precetto» imposto e fatto valere dall’Autorità dello Stato. Essa è costituita (elementi costitutivi) sostanzialmente da un comando, di contenuto positivo o negativo, rivolto a tutti gli individui e la cui applicazione è assicurata dall’ordinamento con una sanzione o, più generale, con la forza della legge.
Caratteristiche della norma giuridica sono la generalità e l’astrattezza e, per quanto riguarda il loro valore obbligatorio, dalla forza di “coazione” a mezzo della pubblica Autorità.
Per l’inosservanza di norme non giuridiche (come quelle morali e quelle di etichetta) lo Stato non prevede invece alcuna sanzione esterna. La loro trasgressione può comportare infatti solo effetti sulla coscienza del trasgressore oppure giudizi di disapprovazione del suo operato.
Chi trasgredisce il comando («paga il tuo debito…», «soccorri il naufrago...» ) o il divieto («non inquinare...», «non occupare arbitrariamente spazio demaniale...») commette un «iIllecito» ed è dunque assoggettato ad una «sanzione» che può essere di tipo diverso a seconda della norma violata, della gravità della violazione oltreché dei beni e degli interessi che la norma tutela. Fra i tipi sanzione di si distinguono, in specie, quelle "civili", quelle "amministrative" e quelle "penali".
Le sanzioni penali sono le più drastiche e le più infamanti perché possono consistere nella punizione personale del trasgressore.
[1] Art. 70 Cod. nav. (Impiego di navi per il soccorso) – L’Autorità marittima o, in mancanza, quella comunale (art. 69 Cod. nav.) possono ordinare che le navi che si trovano nel porto o nelle vicinanze siano messe a loro disposizione con i relativi equipaggi. […] Art. 107 Cod. nav. (Servizi per l’ordine e la sicurezza del porto) – Oltre che nei casi previsti dall’art. 70 Cod. nav., i rimorchiatori devono essere messi a disposizione delle Autorità portuali che lo richiedono per qualsiasi servizio necessario all’ordine e alla sicurezza del porto.
Il Diritto costituisce quel complesso di norme giuridiche con cui lo Stato, mediante la minaccia di una sanzione, proibisce determinati comportamenti umani che considera contrari ai fini che esso persegue. Quando alla trasgressione di una norma giuridica consegue una «sanzione penale», la norma appartiene alla categoria delle «norme penali» e il fatto illecito che essa punisce si denomina «reato».
Il reato è qualsiasi fatto illecito per il quale è prevista una sanzione penale. Pertanto per stabilire se un fatto illecito è un reato o una infrazione amministrativa o un semplice illecito civile occorre guardare al "tipo di sanzione" per esso prevista. Si potrà dire che un fatto è reato solo se è punito con una sanzione penale. Le sanzioni penali sono le più drastiche e le più infamanti perché possono consistere nella punizione personale del trasgressore.
Per «norma penale» si intende ogni disposizione di legge che vieta o impone un determinato comportamento, prevedendo, in caso di trasgressione, la irrogazione di una sanzione penale.
Le norme penali sono contenute principalmente nel "Codice Penale" (approvato con R.D. 19.01.1930, n. 1398 ed entrato in vigore il 1 .7.1931).
In effetti norme penali sono sparse e disseminate ovunque nell'ordinamento, in numero ben superiore a quelle contenute nel Codice penale, nel quale sono (o dovrebbero essere) ricomprese le incriminazioni di maggiore significato sociale, quelle in cui si identifica l'area, per così dire, «tradizionale» del Diritto penale (ad esempio, omicidio, rapina. furto, falsi, e così via dicendo).
La norma penale è quella che "comanda" o "vieta" un determinato comportamento con la "minaccia della pena". La norma, dunque, consta di due parti: precetto e sanzione.
Il «precetto» pone un comando o divieto (ad esempio, ...non uccidere), la «sanzione» stabilisce le conseguenze che seguono la trasgressione del precetto (ad esempio, ...se uccidi sarai punito).
Lo scopo del Diritto penale è "repressivo" (cioè ha lo scopo di punire le manifestazioni anti-giuridiche più gravi) ed in via subordinata "preventivo", perché la minaccia di punizione serve a scoraggiare il comportamento criminoso.
Per questo carattere il Diritto penale si distingue dal «diritto di polizia» che ha lo scopo di prevenire le manifestazioni criminose.
Infine, il Diritto penale si distingue da "diritto processuale penale", perché il primo fissa quali sono gli illeciti e stabilisce le sanzioni di applicare ai trasgressori, il secondo indica il rito da seguire per accertare il reato ed applicarne la pena.
Il diritto oggettivo[1] è costituito da un «sistema di comandi», detti norme giuridiche fra loro coordinate (ordinamento) che danno un ordine alle attività umane.
Le norme giuridiche, secondo la dottrina prevalente, presentano i seguenti "caratteri":
Le norme positive (o il c.d. diritto positivo) sono, appunto, le norme create dal legislatore secondo le regole stabilite dallo stesso ordinamento per la loro emanazione.
[1] Secondo la definizione dello Scuto è il complesso delle norme che regolano, insiene all'organizzazione della società umana, le azioni dell'uomo nella vita sociale e che sono imposte dall'autorità dello Stato per garantire i singoli individui e la collettività nel raggiungimento dei loro fini. Esso, in termini più semplici, è "norma agendi", cioè norma dei rapporti sociali da uomo a uomo imposta e fatta valere dall'autorità dell Stato come regola di vita.
Sono così chiamati tutti quei fatti o comportamenti umani riprovati dal diritto poiché contrari ad un “precetto” dell’ordinamento giuridico. I fatti-illeciti, rilevanti nel campo del diritto, che comportano l’applicazione di sanzioni, si dividono in:
- illecito civile
- illecito amministrativo
- illecito penale
- illecito penale militare
Si ha «illecito civile», allorché il privato con il proprio comportamento contrario alla norma lesiva di un diritto (assoluto come la proprietà o relativo come il diritto di un credito), procura all’individuo un «danno patrimoniale» con il conseguente obbligo giuridico di «risarcire il danno» stesso (responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 2043 c.c.). La sanzione civile è inflitta dal Giudice in sede civile.
Si ha «illecito amministrativo» allorché la trasgressione commessa da un privato, violando un «dovere generale» posto dallo Stato a presidio e tutela di interessi di rilevanza generale, per scelta del legislatore, è sottoposta a quella particolare "sanzione" chiamata appunto «amministrativa» (normalmente pecuniaria oppure di altro tipo). La sanzione amministrativa è inflitta di norma dall’Autorità amministrativa[1].
L’art. 12, commi 1 e 2 D.lgs. n. 4/2012, prevede la confisca del pescato e degli attrezzi da pesca. Colui che accerta l’infrazione deve pertanto sequestrare pescato e attrezzi redigendo apposito P.V. (si tratta di sequestro cautelare ex art. 13 Legge n. 689/81).
Si ha «illecito penale» (= reato), allorché il comportamento contrario alla norma (azione od omissione), viene punito con una «sanzione penale» (pena e misura di sicurezza).
Siccome il reato danneggia o mette in pericolo «interessi di una suprema dignità» come la vita, la libertà individuale e interessi altresì rilevanti come il patrimonio, gli interessi della pubblica amministrazione, ecc. per questo motivo il legislatore ha previsto per chi viola le norme penali sanzioni più afflittive perché tali da creare un vulnus (buco, danno) alla collettività.
Si definisce «illecito penale militare» o semplicemente reato militare, qualunque violazione della "legge penale militare", a cui è collegata l’irrogazione di una «sanzione penale militare»: ergastolo, reclusione comune e reclusione militare.
Le «sanzioni penali» sono dunque le più drastiche: possono consistere anche nella privazione della libertà personale del trasgressore (pene detentive: ergastolo, reclusione e arresto) e hanno un significato particolarmente infamante.
E in particolare, le sanzioni penali si "distinguono" da quelle amministrative perché:
[1] Esistono, tuttavia, casi rarissimi di sanzioni amministrative di competenza dell’Autorità Giudiziaria. Si pensi all’ipotesi prevista dall’art. 24 della Legge 689/81 (Connessione obiettiva con un reato)
[2] Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di “violenza” si comprendono l’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti e qualsiasi tentativo di offendere con armi (art. 43 c.p.m.p.).
Sono inflitte (di norma) dall’Autorità amministrativa (es. Capo del Compartimento marittimo, Prefetto, Sindaco del Comune).
Esistono, tuttavia, casi rarissimi di sanzioni amministrative di competenza dell’Autorità Giudiziaria. Si pensi all’ipotesi prevista dall’ art. 24 della Legge 689/81 (Connessione obiettiva con un reato):
La connessione di cui parliamo si verifica, in genere, nei casi in cui coincidono parzialmente o totalmente i comportamenti ritenuti illeciti nell’ambito del diritto penale e in quello del diritto amministrativo.
Peraltro le sanzioni amministrative possono essere:
- disciplinari (se incidono sullo status)
- art. 1249 (Potere disciplinare nella navigazione marittima….);- art. 1251 (Infrazioni disciplinari);
- art. 1252 (Pene disciplinari per l’equipaggio della navigazione marittima….);
- art. 1254 (Pene disciplinari per gli atri appartenenti al personale marittimo….);
- art. 1255 (Pene disciplinari per le persone che esercitano una attività professionale all’interno dei porti - art. 68 C. N.);
- art. 1256 (Infrazioni disciplinari del passeggero);
- art. 1257 (Pene disciplinari per i passeggeri), ecc.
- patrimoniali (se incidono sul patrimonio)
- interdittive (se incidono sull’attività)
Le sanzioni amministrative si "distinguono" da quelle penali perché:
L’ipotesi dell’art. 24 della Legge 689/81 (Connessione obiettiva con un reato) prevede che: "...qualora l’esistenza di un reato dipenda dall’accertamento di una violazione non costituente reato, e per questa non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il Giudice penale competente a conoscere del reato è pure competente a decidere sulla predetta violazione e ad applicare con la sentenza di condanna la sanzione stabilita dalla legge per la violazione stessa".
Se ricorre tale ipotesi, il Verbale di cui all’art. 17 cit. legge è trasmesso, anche senza che si sia proceduto alla notificazione prevista dal secondo comma dell’art. 14, all’Autorità Giudiziaria competente per il reato, la quale, quando invia la comunicazione giudiziaria, dispone la notifica degli estremi della violazione amministrativa agli obbligati per i quali essa non è avvenuta. Dalla notifica decorre il termine per il pagamento in misura ridotta […]".
La connessione di cui parliamo si verifica, in genere, nei casi in cui coincidono parzialmente o totalmente i comportamenti ritenuti illeciti nell’ambito del diritto penale e in quello del diritto amministrativo.
La connessione sopra descritta vale a spostare la competenza a favore del «Giudice penale» solo nel caso in cui non sia avvenuto il pagamento in misura ridotta previsto dall’art. 16 della L. 689/81.
Esiste, in genere, la fattispecie contemplata dall'art. 24 della legge n. 689/81, qualora la cognizione di un illecito influisce sulla cognizione e prova di un altro illecito entrambi commessi in occasione di una infrazione attuata da un singolo soggetto attivo.
Quando si verifica tale connessione in quanto l'esistenza di un reato dipende dall'accertamento di una violazione non costituente reato (per esempio, illecito amministrativo), e per questa non sia effettuato il pagamento in misura ridotta, la competenza a decidere sulla violazione amministrativa, è attribuita al Giudice penale competente a conoscere del reato commesso.
Ovviamente non è possibile indicare anticipatamente tutti i casi nei quali detta connessione potrà esistere
In tale ipotesi il Giudice penale è competente a decidere anche sulla «violazione amministrativa connessa». Non è, pertanto, necessario che, al ricorrere di tale ipotesi, l'accertatore provveda ad eseguire nei modi rituali la contestazione o notifica dell'illecito amministrativo, il quale per effetto del richiamato art. 24, andrà segnalato unitamente al fatto penale, alla competente "Procura della Repubblica presso il Tribunale".
Non appare poi possano sorgere particolari difficoltà attuative nel caso si debba operare contestualmente all'accertamento dell'illecito, anche il "sequestro" che, per effetto della connessione, dovrebbe riguardare esclusivamente l'aspetto penale piuttosto che quello amministrativo.
Le «norme giuridiche» sono quel complesso di statuizioni attraverso le quali lo Stato, mediante la minaccia di una «sanzione», proibisce determinati comportamenti umani che considera contrari ai fini che esso persegue.
Ogni norma, per forza di cose, è composta da due «elementi costitutivi»:
Il «precetto» è rappresentato dalla «prescrizione» e cioè dal comando o dal divieto (impliciti o espliciti) di compiere una determinata azione.
La «sanzione» è rappresentata, invece, dalla «conseguenza giuridica» che deriva dalla inosservanza del precetto.
Una norma di puro precetto senza sanzione sarebbe destinata ad avere uno scarso se non nullo effetto deterrente ed impositivo atteso che mancherebbe la possibilità per l'ordinamento giuridico di imporre l'osservanza nel caso in cui questa non si realizzi volontariamente da parte dei destinatari della norma stessa.
Se all'inosservanza delle prescrizioni contenute in una norma giuridica consegue l'applicazione di una «sanzione penale», la norma giuridica appartiene alla categoria delle «norme penali».
Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale (582), la pena è aumentata (64); se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata. La prima parte della norma, che impone l’obbligo del soccorso, è il precetto, mentre la seconda parte di essa, che prevede la pena che dovrà essere applicata nel caso di inosservanza di questo obbligo, costituisce, invece, la sanzione».
Di contro, se all'inosservanza delle prescrizioni contenute nella norma giuridica consegue l'applicazione di una «sanzione amministrativa», la norma giuridica appartiene alla categoria delle «norme amministrative».
Rispetto agli «elementi costitutivi» le norme giuridiche si distinguono in norme:
Sono «perfette» le norme penali vere e proprie (c.d. norme incriminatrici) che contengono «sia il precetto che la sanzione»: determinano gli estremi di un fatto vietato dalla legge (reato) e fissano la relativa sanzione.
Al fine del nostro studio, per chiarire, può ricorrersi ai seguenti esempi:
♦ Codice della Navigazione
♦ Inquinamento
♦ Immigrazione
Sono «imperfette o incomplete» le norme che contengono direttamente «il solo precetto o la sola sanzione».
Ad adiuvandum:
♦ Decretro legislativo 18.07.2007. n. 202 (Attuazione della direttiva 2005/35/CE)
il Comandante di una nave mercantile, senza discriminazione di bandiera, nonché i membri dell’equipaggio, il proprietario e il suo armatore, nel caso in cui la violazione sia avvenuta con il loro concorso, che violano le disposizioni di cui all’art. 4, n. 1 D.lgs. 202/07, con conseguente sversamento volontario in mare delle sostanze inquinanti di cui all’Allegato I (=idrocarburi) e all’Allegato II (=sostanze liquide nocive trasportate alla rinfusa) alla MARPOL 73/78, sono puniti con l’arresto da 6 (sei) mesi a 2 (due) anni e con l’ammenda da € 10.000 ad € 50.000. Il predetto articolo al comma 2 stabilisce che, se la violazione di cui al 1 comma causa danni permanenti o, comunque, di particolare gravità, alla qualità delle acque, alle specie animali o vegetali o a parti di queste, si applica l’arresto da 1 (uno) a 3 (tre) anni e l’ammenda da € 10.000 ad € 80.000. Il danno si considera di particolare gravità quando l’eliminazione delle sue conseguenze risulta di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali (comma 3).
La sanzione è stabilita altresì nell’art. 9, comma 1 del medesimo decreto per gli “versamanti colposi” in mare delle sostanze inquinanti suindicate che è, a sua volta, una norma imperfetta perché non contiene alcun precetto, ma solo la sanzione (dispone che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il Comandante di una nave mercantile, senza discriminazione di bandiera, nonché i membri dell’equipaggio, il proprietario e il suo armatore, nel caso in cui la violazione sia avvenuta con il loro concorso, che violano le disposizioni di cui all’art. 4, n. 1 D.lgs. 202/07, con conseguente sversamento colposo in mare delle sostanze inquinanti di cui all’Allegato I (=idrocarburi) e all’Allegato II (=sostanze liquide nocive trasportate alla rinfusa) alla MARPOL 73/78, sono puniti con l’ammenda da € 10.000 ad € 30.000.
Il predetto articolo al comma 2 stabilisce che, se la violazione di cui al 1 comma causa danni permanenti o, comunque, di particolare gravità, alla qualità delle acque, alle specie animali o vegetali o a parti di queste, si applica l’arresto da 6 (sei) mesi a 2 (due) anni e l’ammenda da € 10.000 ad € 30.000.
Il danno si considera di particolare gravità quando l’eliminazione delle sue conseguenze risulta di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali (comma 3).
♦ Decretro legislativo 18.07.2005. n. 171 (Nuovo Codice della nautica da diporto):
Il comma 4 del D.lgs. n. 171/2005 (=norma imperfetta), prevede sanzioni amministrative più lievi (misura ridotta pari a 100 €) a carico di chi non osserva una “disposizione” del D.lgs. 171/2005 o un provvedimento legalmente dato dall’Autorità competente in base al predetto decreto.
♦ Pesca marittima D.lgs. n. 4/2012
L’articolo 7, comma 1 lettera b) del D.lgs. n. 4/2012 è norma imperfetta perché contiene il divieto (precetto) di danneggiare le risorse biologiche delle acque marine con l’uso di materie esplodenti, di energia elettrica o di sostanze tossiche atte ad intorpidire, stordire o uccidere i pesci e gli altri organismi acquatici.
La sanzione è fissata all'art. 8, comma 1 per l’inosservanza del precetto (…. salvo che il fatto non costituisca più grave reato, l’arresto da 2 mesi a 2 anni o l’ammenda da 2.000 € a 12.000 €).
N.B.
L’art. 9, comma 1, prevede l’applicazione delle pene accessorie della confisca del pescato, degli attrezzi,, degli strumenti e degli apparecchi usati in contrasto con le norme stabilite dalla Legge sulla pesca.
L'articolo 7, comma 1 lettera f) del D.lgs. n. 4/2012 è norma imperfetta perché contiene il divieto (precetto) di sottrarre o asportare, senza il consenso degli aventi diritto, gli organismi acquatici oggetto dell’altrui attività di pesca, esercitata mediante attrezzi o strumenti fissi o mobili […], e ne fissa la sanzione (art. 8, 2° comma) per l’inosservanza del precetto (arresto da 1 mese a 1 anno o ammenda da 1.000 € a 6.000 €).
L’art. 9 , comma 1 lettera a) prevede l’applicazione delle pene accessorie della confisca del pescato, salvo che sia richiesto dagli aventi diritto, degli attrezzi, degli strumenti e degli apparecchi usati in contrasto con le norme stabilite dalla Legge sulla pesca nonché la sospensione della licenza di pesca
[1] [50]Concorso formale del delitto di cui all'art. 635, comma 2 n. 3 del c.p. (Danneggiamento aggravato...) nel "mare territoriale" o aree demanali in quanto bene pubblico esposto alla pubblica fede e destinato a pubblica utilità (Cass. Sez. I 20.02. 1987 n. 287).
Sono «norme in bianco» quelle che contengono una sanzione ben determinata, mentre il precetto ha carattere generico, destinato cioè ad essere specificato da elementi futuri (determinati non dalla legge, ma dall’Autorità amministrativa).
Le norme in bianco quindi sono tali in quanto prevedono soltanto la sanzione amministrativa, lasciando alla “fonte sussidiaria” (=disposizione di legge o di regolamento o provvedimento legalmente emanato dall’Autorità competente come, ad esempio, un’Ordinanza della Capitaneria di porto) la descrizione del fatto tipico.
Sono, dunque, norme penali anche le norme contenute in leggi extra penali o provvedimenti amministrativi che funzionano da precetto di norme penali in bianco.
Ai fini del nostro studio è opportuno soffermarsi sull’art. 650 c.p., i cui presupoposti sono:
Oggetto specifico della norma è quindi la «tutela dell’interesse all’osservanza individuale dei provvedimenti dati per il mantenimento dell’ordine pubblico genericamente considerato».
Si tratta di una norma penale in bianco ed a carattere ausiliario (opera cioè solo se l’inosservanza del provvedimento dell’Autorità non è punita da un’altra norma penale).
La condotta consiste nel non osservare un provvedimento (dell’Autorità amministrativa o dell’Autorità giudiziaria) dato legalmente (=provvedimento legittimo: vale a dire emesso dall’Autorità competente e con forme – anche orali – previsti dalle leggi) per una delle seguenti "tassative" ragioni:
Il reato di cui all’art. 650 c.p. non sussiste se il provvedimento non è congruamente "motivato". In particolare, nel caso dei «biglietti di convocazione» utilizzati dalle Forze di polizia (ed anche dalla Capitaneria di Porto), la persona convocata deve essere posta in condizione di conoscere quantomeno le ragioni generali per le quali è stata chiamata.
E’ stato invece ritenuto congruamente motivato il biglietto di invito contenente la dizione per…«motivi di polizia giudiziaria».
L’art. 650 c.p., non entra in gioco quando la violazione del provvedimento dell’Autorità commessa dal soggetto costituisce un reato più grave [artt. 328 (Omissione- Rifiuto di atti di ufficio), 336 (Minaccia o violenza a P.U), 337 (Resistenza a Pubblico Ufficiale), ecc.].
Così nel caso di colui che , invitato dall’Autorità di P.S. a comparire davanti ad essa, non si presenta nel termine prescritto senza giustificato motivo, troverà applicazione l’art. 15 T.U.L.P.S, che è norma specifica rispetto a quella in esame (in quanto ha un campo d’azione specializzato rispetto a quello contenuto nell’art. 650 c.p. perché sanziona l’inosservanza di provvedimenti dell’Autorità di Pubblica Sicurezza).
Attraverso un tipico atto come la «Ordinanza di polizia marittima» il Comandante del Porto-Capo del Circondario Marittimo, regola, integrando il corpo normativo in relazione alla necessità emergenti della situazione locale, le attività che si esercitano nei porti e nelle altre zone di sua competenza. Dà così attuazione a un “potere normativo” (art. 59 Reg. Cod. nav.), a carattere generale, nell’ambito della propria circoscrizione marittima, disciplinando l’uso degli spazi portuali, del demanio marittimo e del mare territoriale
Spesso si tratta di disposizioni legate a fatti limitati nel tempo o contingibili ed urgenti. Altre volte si stabiliscono regole destinate a durare, quali ad esempio la destinazione di accosti a banchine e calate, in questo caso l’Ordinanza può prendere la forma di approvazione di un regolamento ad essa legato come parte integrante dell’ordinanza stessa.
L’inosservanza delle disposizioni dell’Autorità Marittima e, quindi, anche il mancato rispetto delle suddette Ordinanze, costituisce, salvo che il fatto non sia perseguibile a titolo di reato, «illecito amministrativo» (ex. artt. 1164 e 1174 Cod. nav.) punito con sanzioni principali a carattere pecuniario e sanzioni accessorie di vario tipo; o sicuramente «illecito penale» nel caso di norme attinenti la sicurezza della navigazione (ex art. 1231 Cod. nav.).
Nell’ambito del concetto di "polizia marittima" le suddette disposizioni punitive, previste:
....assurgono al rango di «norme in bianco» e, quindi, adattabili alle situazioni concretamente verificatesi.
Nell’ambito del concetto di "polizia marittima" le disposizioni punitive, previste dall’art. 1164 Cod. nav. per i " Beni pubblici marittimi ", assurgono al rango di « norme in bianco » e, quindi adattabili alle situazioni concretamente verificatesi.
L’art. 1164 Cod. nav. è una tipica norma in bianco (amministrativa) poiché non contiene la parte precettiva, che viene rimandata a provvedimenti legalmente dati dall’Autorità competente [1] in materia di “uso del demanio marittimo” come fonti primarie (leggi) e fonti secondarie (decreti emanati dall’Ente primario ovvero organi centrali dello Stato, Ordinanze del Capo del Circondario Marittimo ossia da Enti della Pubblica Amministrazione indiretta.
In essa è invece rintracciabile la norma configurata dal legislatore come sanzionatoria di un illecito amministrativo, il quale prescrive il pagamento di una somma in euro.
L’art. 1164, comma 1 del Codice della navigazione (Inosservanza di norme sui beni pubblici), punisce, se il fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.032 € a 3.098 €, chiunque non osserva una disposizione di legge o regolamento, ovvero un provvedimento legalmente dato dall’Autorità competente [1] relativamente all’uso del demanio marittimo (artt. 28 cod. nav. e 822 cod. civ.).
Detta norma, al comma 2, punisce, salvo che il fatto costituisca reato o violazione della normativa sulle aree marine protette, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 100 e a 1.000 €, chi non osserva i divieti fissati con Ordinanza[2], della pubblica autorità in materia di “uso del demanio marittimo per finalità turistico-ricreative", dalle quali esuli lo scopo di lucro (Legge 8 luglio 2003, n. 172 “ Modifiche alla legge 11 febbraio 1971, n. 50”)
Corre l’obbligo di sottolineare che, a causa del vasto ambito al quale la norma si riferisce, il legislatore ha voluto rafforzare la “tutela degli interessi pubblici” con la “clausola della salvaguardia penale ( […] salvo che il fatto non costituisca reato).
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 1.032 €
Infrazione: Inottemperanza all’ordine di ingiunzione di sgombero qualora siano abusivamente occupate zone del demanio marittimo o vi siano eseguite innovazioni non autorizzate (art. 54 Cod. nav.).
Norma violata: Ordinanza N°24 del 2 maggio 2006 Capitaneria di Porto di Taranto;
Sanzione: Sanzione amministrativa da 1.032 € a 3.098 € (Art. 1164 1° comma del Cod. nav., mod. art. 10, 3° comma, D.lgs.507/1999)
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 1.032 €
Infrazione: Utilizzazione del bene in difformità del contenuto concessorio.
Norma violata: Art. 36 Cod. nav. e art. 24 Reg. Cod. nav.
Sanzione: Sanzione amministrativa da 1.032 € a 3.098 € (art. 1164, comma 1 Cod. nav., mod. art. 10, comma 3, D.lgs. n. 507/1999)
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 1.032 €
Infrazione: Noleggiare ombrelloni, seggiole a sdraio senza concessione
Norma violata: Ordinanza N° 24 del 2 maggio 2006 Capitaneria di Porto di Taranto;
Sanzione: Sanzione amministrativa da 1.032 € a 3.098 € (Art. 1164 1° comma del Cod. nav., mod. art. 10, comma 3, D.lgs. 507/1999)
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 1.032 €
Detta norma, al comma 2, punisce, salvo che il fatto costituisca reato o violazione della normativa sulle aree marine protette, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 100 e a 1.000 €, chi non osserva i divieti fissati con Ordinanza, della pubblica autorità in materia di “uso del demanio marittimo per finalità turistico-ricreative", dalle quali esuli lo scopo di lucro (Legge 8 luglio 2003, n. 172 “ Modifiche alla legge 11 febbraio 1971, n. 50” )
Infrazione: occupare o, in qualsiasi modo, ingombrare, la fascia di 5 metri dalla battigia che deve essere destinata esclusivamente al libero transito ed alla sosta dei mezzi di soccorso;
Norma violata: Ordinanza N°21 del 29 maggio 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 100 € a 1.000 € (art. 1164 2° comma del Cod. nav., mod. art. 10, 3° comma, Legge 171/2004);
Definizione: pagamento in misura ridotta pari a 200 €
Infrazione: Tenere alto il volume di apparecchi di diffusione sonora da ore 14.00 a ore 16.00 (ad esempio, stabilimenti balneari pubblici, centri di ristoro)
Norma violata: Ordinanza N°29 del 29 maggio 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione:Sanzione amministrativa da 100 € a 1.000 € (art. 1164 2° comma del Cod. nav., mod. art. 5, comma 2, Legge 172/2003);
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 200 €
Infrazione: Praticare in acqua qualsiasi gioco o attività che possa arrecare pericolo o molestia ad altri bagnanti;
Norma violata: Ordinanza N°21 del 29 maggio 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena ;
Sanzione: Sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 100 € a 1.000 € (art. 1164, comma 2°, Cod. nav., mod. art. 5, 2° comma, Legge 172/2003);
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 200 €
[1] Le funzioni amministrative aventi finalità turistiche e ricreative, concernenti l’utilizzazione a tali scopi del demanio marittimo, sono state demandate alle Regioni a statuto ordinario dall’art. 30 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616.
[2] Ordinanza che regola l’uso del demanio marittimo è l’Ordinanza balneare
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti INGIUNZIONE DI SGOMBERO N° _________ IL COMANDANTE DEL PORTO E CAPO DEL COMPARTIMENTO MARITTIMO DI _____________________________
VISTO: il sopralluogo effettuato in località _____________ del Comune di ________, fg. N. ___ P.lla, N.C.T. _____, in data _________________ nel corso del quale è emersa un’occupazione abusiva tramite (ad esempio pontile di mq. 15) come di seguito descritto, così come si evince dal R.S. n. _________ del _________________;
VISTO: che l’accertamento effettuato e dalle indagini svolte le opere abusive risultano mantenute ed utilizzate dal Sig._____ ___________, come sopra generalizzato, e risultano eseguite abusivamente in violazione degli artt. 36, 54 e 1161 cod. nav.; INGIUNGE
Al Sig. __________________ nato a _____________ il _____________, e residente in _________________ di provvedere al ripristino dello stato dei luoghi, relativamente alle opere di cui sopra, entro 90 (novanta) giorni dalla notifica della presente, con l’avvertenza che – in difetto – l’Amministrazione provvederà d’ufficio ed a spese dell’interessato, secondo le modalità prescritte dal Codice della Navigazione.
IL COMANDANTE
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Nell’ambito del concetto di "polizia marittima" le disposizioni punitive, previste dall’art. 1174 Cod. nav. per la "Polizia dei porti", assurgono al rango di «norme in bianco» e, quindi, adattabili alle situazioni concretamente verificatesi.
L’art. 1174 Cod. nav. (Inosservanza di norme di polizia) trova largo utilizzo e abbraccia un’infinità di situazioni all’interno delle attività che si esercitano nei porti.
Da questo punto di vista, di particolare rilievo sono il complesso dei poteri dell’Autorità marittima volti ad assicurare l’ordinata vita del porto nei suoi vari "aspetti" riguardanti:
Tale complessa funzione di polizia dei porti copre, con i limiti che più avanti verranno evidenziati (art. 82 Cod. nav.), la turbativa di ordine , con previsione di titolarità d’intervento in capo all’Autorità di pubblica sicurezza, che informa immediatamente l’Autorità Marittima, cui è riservato il compito di provvedere direttamente solo nei casi d’urgenza, informando, comunque, l’Autorità competente impossibilitata ad intervenire con tempestività.
L’art. 1174, comma 1 del Codice della navigazione, punisce, se il fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.032 € a 6.197 €, chiunque non osserva una disposizione di legge o regolamento, ovvero un provvedimento legalmente dato dall’autorità competente in materia di “polizia dei porti”….
Infrazione: esecuzioni di lavori nell’ambito del porto e a bordo delle navi senza l’autorizzazione o al di fuori delle prescrizioni
Norma violata: Ordinanza N° 01 del 10 settembre 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: sanzione amministrativa da 1.032 € a 6.197 € (Art. 1174 1° comma del Cod. nav., mod. art. 11, 4° comma, Legge 507/1999);
Definizione: pagamento in misura ridotta pari a 2.064 €.
Infrazione: non ottemperare alle prescrizioni per il bunkeraggio previste da regolamento del porto o dalle singole autorizzazioni;
Norma violata: Ordinanza N°01 del 10 settembre 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: sanzione amministrativa da 1.032 € a 6.197 € (Art. 1174 1° comma del Cod. nav., mod. art. 11, 4°comma, Legge 507/1999);
Definizione: pagamento in misura ridotta pari a 2.064 €.
Infrazione: nave che si ormeggia senza la preventiva autorizzazione o assegnazione di accosto;
Norma violata: Ordinanza N°01 del 10 settembre 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: sanzione amministrativa da 1.032 € a 6.197 € (Art. 1174 1° comma del Cod. nav., mod. art. 11, 4° comma, Legge 507/1999);
Definizione: pagamento in misura ridotta pari a 2.064 €.
Detta norma, al comma 2, punisce con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 51 € a 309 €, chi non osserva un provvedimento dell’Autorità in materia di “circolazione nell’ambito del demanio marittimo”.
Infrazione: inosservanza di un provvedimento dell’ Autorità (es. Capo del Circondario) in materia di circolazione in ambito del demanio marittimo (ad esempio, in porto nelle zone operative);
Norma violata: Ordinanza N°01 del 10 settembre 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: sanzione amministrativa da 51 € a 309 € (Art. 1174, 2° comma, Cod. nav.);
Definizione: pagamento in misura ridotta pari a 102 €.
L’art. 1174, al comma 3 (modificato dall’art. 14 del D.lgs. 6 novembre 2007, n. 203 - Attuazione della direttiva 2005/65/CE relativa al miglioramento della sicurezza nei porti), punisce, se il fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.032 € a 6.197 €, chiunque non osserva una disposizione di legge o di regolamento, ovvero un provvedimento legalmente dato dall’Autorità competente in materia di "sicurezza marittima (=security)", quale definita dall’articolo 2, n. 5 del Regolamento (CE) n. 725/2004 del parlamento europeo
Infrazione: comandante della nave che non ottempera all’obbligo della presentazione della scheda informativa di arrivo in porto (ship pre-arrival security information form) come previsto dalla SOLAS e dal Regolamento europeo 725/2004;
Norma violata: Ordinanza N° 21 del 10 settembre 2007 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: sanzione amministrativa da 1.032 € a 6.197 € (Art. 1174 3° comma del Cod. nav., mod. art. 14, 1° comma, D.lgs. 203/2007);
Definizione: pagamento in misura ridotta pari a 2.064 €.
Nell’ambito del concetto di "polizia marittima" le disposizioni punitive, previste dall’art. 1231 Cod. nav. per la "Sicurezza della navigazione", assurgono al rango di «norme in bianco» e, quindi, adattabili alle situazioni concretamente verificatesi.
L’art. 1231 Cod. nav. (Inosservanza di norme sulla sicurezza della navigazione) trova largo utilizzo e abbraccia un’infinità di situazioni all’interno delle attività marittime. Per il carattere generale ed astratto, la vastità del campo di applicazione ed i contenuti, essa è riconducibile all’art. 650. (Inosservanza di provvedimenti dell’Autorità), la cui violazione costituisce anch’essa contravvenzione punibile con l’arresto fino a 3 mesi ovvero con l’ammenda fino a 206 €.
L’importanza che tale articolo riveste nel campo della “salvaguardia della sicurezza in mare” è vivo nell’interesse dello Stato il quale, malgrado abbia nel corso degli anni depenalizzato svariate norme sia all’interno del Codice penale sia all’interno del Codice della Navigazione (esempio, artt. 1164 e 1174), ha mantenuto l’art. 1231 come norma incriminatrice.
Tra le violazioni più comuni e frequenti costituenti trasgressione all’art. 1231 Cod. nav., rientrano quelle relative alle Ordinanze di polizia marittima per quanto attiene ai limiti delle acque destinate alla balneazione.
La norma trova altresì applicabilità in materia di “abbordi in mare”. La legge 27 dicembre 1977, n. 1085 prevede diverse casistiche che concretizzano la fattispecie riconducibile alla violazione dell’art. 1231, in particolare quelle contenute nella Parte B “Regole di governo e di manovra” (ad esempio: velocità di sicurezza – Reg. 6, 1° comma; rischio di abbordaggio – Reg. 7; manovra per evitare l’abbordaggio – Reg. 8; situazione di rotte opposte – Reg. 14, ecc.).
L’art. 1231 non è applicabile nel caso in cui dal fatto derivi “un più grave reato” (ad esempio, la pura e semplice violazione della Regola 7, 8 e 14 sul rischio di abbordaggio e relative manovre per evitarlo, sarà assorbita dal reato attraente ex art. 81 c.p.).
Un’altra particolare configurazione di reato punibile ex art. 1231 Cod. nav. è senz’altro la violazione delle prescrizioni previste dagli articoli 4, 5 e 6 della Legge n. 616 del 5 giugno 1962 “Sicurezza della navigazione e della vita umana in mare”, relativamente ai “Documenti relativi alla sicurezza della navigazione ” (art. 4), ai “Certificati di sicurezza” (art. 5) e al “Rilascio e validità dei certificati di sicurezza e di navigabilità” (art. 6) previsti per le navi mercantili nazionali e straniere che toccano i porti italiani.
E ancora, è configurabile l’ipotesi di reato punibile ex art. 1231, la violazione delle prescrizioni previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 51 “Disposizioni per la prevenzione dell’inquinamento derivante dal trasporto marittimo di idrocarburi e per il controllo del traffico marittimo”, che prevede all’art. 5, n. 3 (Controllo degli spazi marittimi di interesse nazionale) per il comandante di nave mercantile nazionale che non osservi gli “schemi di separazione delle rotte”, relativamente al transito nell’ambito delle acque marittime interne e territoriali, l’arresto fino a 3 mesi ovvero l’ ammenda fino a 206 €.
In tal caso la stessa norma prevede a carico dell’armatore della nave, la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 2.066 € a 12.394 €, maggiorata, nel caso di nave da carico o da navi passeggeri, dell’importo di 2,58 € per ogni tonnellata di stazza lorda della nave. Tale sanzione è irrogata dal Capo del Compartimento marittimo competente per territorio
L’art. 1231, del codice della navigazione, punisce, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a 3 mesi ovvero l’ammenda fino a 206 €, chiunque non osserva una disposizione di legge o regolamento, ovvero un provvedimento legalmente dato dall’autorità competente in materia di “sicurezza della navigazione”….
Infrazione: navigare ad una distanza dalla costa inferiore a quella imposta dall'Autorità Marittima;
Norma violata: Ordinanza di polizia marittima N°21 del 1 settembre 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: arresto sino a 3 mesi o Ammenda sino a 206 € (Art. 1231 del Cod. nav.);
Definizione: oblazione ex art. 162-bis c.p pari a 103 €.
Infrazione: inosservanza dei divieti segnalati di interdizione alla navigazione;
Norma violata: Ordinanza di polizia marittima N°21 del 1 settembre 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: arresto sino a 3 mesi o ammenda sino a 206 € (Art. 1231 del Cod. nav.);
Definizione: oblazione ex art. 162-bis c.p. pari a 103 €:
Infrazione: navigare ad una distanza dalla costa superiore alla propria abilitazione;
Norma violata: Ordinanza di polizia marittima N°21 del 1 settembre 2005 Capitaneria di Porto di La Maddalena;
Sanzione: arresto sino a 3 mesi o ammenda sino a 206 € (Art. 1231 del Cod. nav.);
Definizione: oblazione ex art. 162-bis c.p. pari a 103 €:
L’articolo 53 del D.lgs. n. 171/2005 – nell’ambito del Titolo V che tratta delle norme sanzionatorie in materia di navigazione da diporto – indica le sanzioni previste per le violazioni commesse con unità da diporto.
In particolare:
Art. 53, n. 3: salvo che il fatto costituisca violazione della normativa sulle aree marine protette chi nell’utilizzo di un’unità da diporto non osserva una disposizione di legge o di regolamento o un provvedimento legalmente emanato dall’Autorità competente in materia di “uso del demanio marittimo”, del “mare territoriale” (art. 524 disposizioni transitorie e complementari Cod. nav.) e delle “acque interne”, ivi comprese i porti, ovvero non osserva una disposizione di legge o di regolamento in materia di “sicurezza della navigazione”, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 207 a 1.033 €.
Se il fatto è commesso con l’impiego di un «natante da diporto» la sanzione è ridotta della metà.
Il comma 3 è «norma in bianco», in quanto prevede soltanto la sanzione amministrativa, lasciando alla fonte sussidiaria la descrizione del fatto tipico (disposizione di legge o di regolamento o provvedimento legalmente emanato dall’Autorità competente come, ad esempio, un’Ordinanza della Capitaneria di porto).
Così sarà soggetto alla sanzione amministrativa di € 344 (pari al terzo della cifra massima di € 1.033, in applicazione dell’articolo 16 «pagamento in misura ridotta», della legge 689/81 chi non ottemperi ai regolamenti in materia di sicurezza della navigazione (D.M. 232/1994 per le navi da diporto e D.M. 478/1999 per le imbarcazioni e i natanti da diporto), ovvero chi contravvenga a normative riguardanti l’uso del mare territoriale – il quale si estende per una profondità di 12 miglia calcolate dalle linee di base – ovvero del demanio marittimo o delle acque interne, fatto salvo che il fatto non costituisca violazione alla normativa sulle aree protette.
Infrazione: Navigazione con jole, pattini, sandolini, mosconi, tavole a vela, e natanti a vela vela con superficie velica non superiore a 4 metri quadrati ad una distanza superiore ad 1 miglio dalla costa.
Norma violata: Art. 27, 3° comma, lettera b), del D.lgs 18/07/2005 n. 171
Sanzione: Sanzione amministrativa da 207 € a 1.033 € (Art. 53, 3° comma, del D.lgs 18/07/2005 n. 171
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 172 € (=sanzione ridotta della metà per i natanti)
Infrazione: Navigazione con imbarcazione da diporto con marcatura CE al di fuori dei limiti consentiti dalla propria categoria di progettazione A, B C e D)
Norma violata: Art. 22, 3° comma, lettera b), del D.lgs 18/07/2005 n. 171
Sanzione: Sanzione amministrativa da 207 € a 1.033 € (Art. 53, 3° comma, del D.lgs 18/07/2005 n. 171
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 344 €.
Infrazione: Navigazione con natanti senza marcatura CE ad una distanza superiore alle 6 miglia dalla costa
Norma violata: Art. 27, 3° comma, lettera a), del D.lgs 18/07/2005 n. 171
Sanzione: Sanzione amministrativa da 207 € a 1.033 € (Art. 53, 3° comma, del D.lgs 18/07/2005 n. 171
Definizione: Pagamento in misura ridotta pari a 172 € (=sanzione ridotta della metà per i natanti)
L’articolo 53, n. 3 del D.lgs. n. 171/2005, non trova applicazione se il fatto costituisce violazione della normativa sulle "aree marine protette" (Legge 6 dicembre 1991, n. 394).
I limiti geografici delle aree protette marine entro i quali è vietata la navigazione senza la prescritta autorizzazione sono definiti secondo le indicazioni dell'Istituto idrografico della Marina e individuati sul territorio con mezzi e strumenti di segnalazione conformi alla normativa emanata dall'Association Internationale de Signalisation Maritime-International Association of Marine Aids to Navigation and Lighthouse Authorities (AISM-IALA)"(Art. 2, comma 9-bis, della Legge 394/91).
Infrazione: violazione al divieto di navigare a motore al comando o alla conduzione di un'unità da diporto, che comunque non sia a conoscenza dei vincoli relativi a tale area, qualora l'area protetta marina non sia segnalata con mezzi adeguati.
Norma violata: art. 19, 3° comma, lettera e), della Legge 06/12/1991 n. 394
Sanzione: sanzione amministrativa da 200 € a 1.000 € (Art. 30, comma 1-bis, della Legge 06/12/1991 n. 394, aggiunto dall'Art. 4, 2° comma, della Legge 08/07/2003 n. 172)
Definizione: pagamento in misura ridotta pari a 333,33 €
Quando alla trasgressione di una norma giuridica consegue una «sanzione penale», la norma appartiene alla categoria delle «norme penali» e il fatto illecito che essa punisce si denomina «reato».
Da un punto di vista giuridico è reato quel comportamento umano o volontario (azione od omissione) che il legislatore ritiene contrario ai fini dello Stato ed al quale ricollega, come conseguenza, l’applicazione di una sanzione penale.
E’ proprio il tipo di sanzione ad esso ricollegata che caratterizza il reato e lo distingue da altri comportamenti umani parimenti illeciti, ma non qualificabili come reati.
A seconda della diversa pena per essi rispettivamente stabilita, i reati si suddividono in:
Dibattuta é tra gli studiosi la distinzione fra tali categorie di reati. Il Codice penale comune ha risolto in radice il problema ed all’art. 39 stabilisce che il criterio di distinzione è costituito dal diverso tipo di sanzione per essi previsto, anche se in linea di massima può dirsi che i delitti sono fattispecie criminose obiettivamente più gravi delle contravvenzioni (taluni hanno infatti definito queste ultime «delitti nani»)
Sono reati-delitti, pertanto, i reati puniti con l’ergastolo, la reclusione e/o la multa; sono reati-contravvenzioni quelli per i quali sono stabilite le pene dell’arresto e/o dell’ammenda (art. 17 c.p.).
L’ergastolo (previsto per i soli delitti) é pena detentiva «perpetua». La reclusione e l’arresto sono pene detentive «temporanee».
Queste ultime si differenziano perché vengono espiate in Istituti diversi, denominati, rispettivamente, “case di reclusione” e “case di arresto” (art. 61 legge 26/7/1975, n. 354).
La multa e l’ammenda sono invece pene «pecuniarie».
I delitti si distinguono poi in dolosi, colposi e preterintenzionali. Sono «dolosi», quando l'agente ha voluto l'evento dannoso; «colposi» quando, l'agente ha commesso il fatto a causa di imprudenza, negligenza, imperizia o inosservanza di regolamenti, ordini e discipline; «preterintenzionali», quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente (art. 43 c.p.). Di tale specie è previsto però solo l'omicidio preterintenzionale.
Si distinguono ancora in «consumati» e «tentati», a seconda che l'evento dannoso si sia verificato o no.
Infine il reato può essere continuato o complesso. Il reato è «continuato», quando con successive azioni od omissioni vengono commesse più violazioni di una medesima disposizione di legge; è «complesso», quando i fatti commessi, che da soli costituirebbero autonomi, sono indicati dalla legge come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un altro reato (es. rapina, in cui l'elemento violenza potrebbe costituire il reato di violenza privata).
Infine è necessario ricordare che la legge prevede reati di «azione pubblica» e di «azione privata». Quelli di azione privata sono reati perseguibili a querela della persona offesa, come l'ingiuria, la diffamazione, ecc.
Alla inosservanza del «precetto» contenuto nella norma penale, consegue a carico dell'autore del fatto, l'applicazione di una "sanzione penale".
Le conseguenza giuridiche del reato sono pertanto le sanzioni che il diritto prevede vengano inflitte a colui che è dichiarato colpevole di un illecito configurante un delitto o una contravvenzione.
Le sanzioni penali sono: le «pene» e le «misure di sicurezza». La duplicità dei tipi di sanzioni si spiega con l’accoglimento, da parte del Codice Penale del 1930, del «Sistema del doppio binario». In base a tale sistema, le pene avrebbero una funzione di castigo e intimidazione; le misure di sicurezza, la funzione di neutralizzare la pericolosità sociale del reo e di «risocializzarlo» all’esito del processo rieducativo che le stesse misure di sicurezza dovrebbero attuare.
► Peculiarità:
Accanto alla pena, il nostro diritto prevede, come sanzione penale, la misura di sicurezza.
► Distinzione delle pene
Il Codice penale comune suddivide le pene in due grandi categorie:
► Distinzione delle misure di sicurezza
Il Codice penale comune suddivide le misure di sicurezza in due categorie (artt. 199-240):
Sono le «conseguenze giuridiche» che l'ordinamento commina, a mezzo dell’Autorità Giudiziaria, per la violazione della legge penale. Esse incidono sulla "libertà" personale di una persona fisica o sul suo "patrimonio" e si distinguono da altre forme di reazione giuridica (sanzioni amministrative, disciplinari) per il fatto di essere applicate dal "Giudice" in sede penale.
La pena svolge diverse funzioni: da un lato quella di "punire" il colpevole per il reato commesso mentre dall’altro lato ha "funzione rieducativa" che mira alla riabilitazione del reo e al suo reinserimento in società. Il cd. doppio binario della pena previsto dal Codice, risponde al principio previsto dalla Costituzione che, all’art. 27, 3 comma, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e che debbono tendere alla rieducazione del condannato in modo da consentirgli il reinserimento nella società una volta scontata la pena.
La prevenzione generale viene affidata alla pena mentre la prevenzione speciale è affidata alle misure di sicurezza.
Il Codice distingue le pene in:
► Le «pene principali» (artt.17, 21-27 c.p.) sono quelle che nella norma penale accompagnano necessariamente la previsione del reato e che sono inflitte dal Giudice con sentenza di condanna. Possono essere:
E' prevista in astratto, entro minimi e massimi prestabiliti. ll legislatore fissa i limiti edittali della pena (c.d. fase edittale), ma spetta al Giudice determinare la misura e la qualità della pena da infliggere in concreto (c.d. fase giudiziale), in relazione a ciscun caso specifico.
Il potere del Giudice è un potere discrezionale. Egli non può infatti determinare la pena a suo piacimento (=arbitrio), ma non è neppure vincolato a infiggere una “pena fissa” prestabilita in astratto dal legislatore.
♦ Nell’esercizio del suo "potere discrezionale"(art. 132 c.p.), il Giudice deve:
♦ Nella determinazione della pena, il Giudice deve dunque tenere conto dei "criteri" fissati nell’art. 133 c.p., e cioè:
Tali criteri servono a consentire l’adeguamento della pena al fatto concreto e alla personalità del suo autore.
La gravità del reato può essere dedotta: dalla modalità della condotta, dalla gravità del danno o del pericolo cagionato e dalla intensità del dolo o del grado della colpa.
La capacità a delinquere del colpevole va invece dedotta: dai motivi che lo hanno indotto al reato; dai precedenti penali e giudiziari; dalla condotta di vita (individuale, familiare e sociale) e dalla condotta precedente e successiva al reato.
In base a quanto disposto dall’art. 17 c.p., le pene previste per i «delitti» sono l’ergastolo, la reclusione e la multa mentre per le «contravvenzioni» sono l'arresto e l'ammenda. Il successivo articolo 18 prevede poi che le pene detentive sono quelle dell’ergastolo, della reclusione e dell’arresto mentre quelle pecuniarie sono la multa e l’ammenda.
Sulla base di quanto disposto dall’art. 27 della Costituzione, la pena è «personale» (principio della personalità della pena) e pertanto potrà essere inflitta solo all’autore del reato.
La pena può essere inflitta solo dall’Autorità Giudiziaria (che la infligge con la garanzia del procedimento penale) e nei soli casi espressamente stabiliti dalla legge (principio della legalità della pena) che stabilisce poi anche i casi per cui la pena può essere revocata.
La pena è inderogabile e proporzionata al reato.
Il legislatore, in relazione alle più recenti esperienze tendenti al recupero del condannato, con la Legge 24 novembre 1981, n. 689 ha realizzato importanti modifiche al sistema penale. Hanno infatti introdotto le cosiddette «sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi» e la «conversione di pene pecuniarie», allorché viene accertata l'insolvibilità del condannato.
► Le pene accessorie, generalmente vengono applicate automaticamente e costituiscono uno degli effetti della condanna. Ci sono però dei casi in cui l’Ordinamento vincola l’applicazione di tali pene alla libera discrezionalità del Giudice. In tal caso, ai fini della loro applicabilità, è necessaria una dichiarazione diretta da parte del Giudice in sentenza che ne determinerà anche la durata.
Le «pene principali» (artt. 17, 21-27 c.p.) sono quelle che nella norma penale accompagnano necessariamente la previsione del reato e che sono inflitte dal Giudice con sentenza di condanna. Possono essere "detentive" (esse comportano la restrizione della libertà personale) e "pecuniarie" ( esse consistono nel pagamento di una somma di denaro).
► Ergastolo
Prevede l’obbligo del lavoro e l’isolamento notturno. Trascorsi 26 anni di pena e tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento, il condannato all’ergastolo può beneficiare della «Liberazione condizionale»[1] (art. 176, comma 3 c.p.). E’ disposta dal Tribunale di Sorveglianza e consiste nella possibilità per il condannato che ha dato prova di sicuro ravvedimento di espiare l’ultima parte della pena in regime di “libertà vigilata” La misura sospende l’esecuzione della parte della pena che rimane ancora da scontare.
Ricorrendone le condizioni, il condannato all’ergastolo può anche essere ammesso al regime di «Semilibertà» dopo aver espiato almeno 20 anni di pena (art. 50 L. 26/7/1975, n. 354). E’ disposta dal Tribunale di Sorveglianza e consiste nella concessione di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto penitenziario per partecipare ad attività di lavoro, di istruzione o comunque utili al reinserimento sociale. Nell’ambiente esterno, l’attività di vigilanza sui “semiliberi” è esercitata in via principale dal Centro di Servizio sociale. Ad esso spetta informare il Giudice di Sorveglianza in ordine alla evoluzione del trattamento e al conseguente reinserimento dei condannati.
► Reclusione
La pena consiste nella privazione della libertà personale per un periodo che si estende da un minimo di 15 giorni a un massimo di 24 anni. Per taluni reati (ad esempio: attentato per finalità terroristiche o di eversione - art. 280 c.p.; sequestro di persona - art. 630 c.p.; oppure quando ricorrono più circostanze aggravanti, ecc.), il limite massimo di tale pena può estendersi sino a 30 anni. Anche il condannato alla reclusione che ha dato prova di sicuro ravvedimento può essere ammesso dal Tribunale di Sorveglianza al beneficio della liberazione condizionale (artt. 176-177 c.p. e art. 70 legge 353/1975) che consiste nell’espiare l’ultima parte della pena in regime di libertà vigilata e di ottenere, all’esito, che la sua pena venga dichiarata estinta) e al regime di semilibertà (art. 48-51 legge 354/1975).
► Arresto
La pena consiste nella privazione della libertà personale da 5 giorni a 3 anni. Anche per l’arresto, la ricorrenza di circostanze aggravanti (art. 66 c.p.) o di talune ipotesi di concorso di reati (art. 78 c.p.) può determinare l’elevazione del limite massimo.
► Multa e ammenda
Le pene della multa e dell’ammenda, consistenti, entrambe, nell’obbligo di pagare una somma di denaro, si differenziano, invece, fra di loro perché la prima (multa) consiste nel pagamento, allo Stato, di una somma da 50 a 50.000 €; mentre per la seconda (ammenda) i limiti sono da 20 a 10.000 €.
Per le pene pecuniarie, come per le pene detentive, la ricorrenza di talune «aggravanti» (art. 66 c.p.) o di talune ipotesi di «concorso di reati» (art. 78 c.p.), può determinare la elevazione dei limiti massimi (per la multa, ad esempio e a seconda dei casi, fino a 10.329, 15.493, 30.987 o 64.557 €).
L’elevazione dei limiti massimi (sino al triplo) delle pene pecuniarie può dipendere anche dalle condizioni economiche del colpevole (art. 133 bis c.p.). Dalle condizioni economiche del colpevole, può dipendere anche la diminuzione delle pene medesime (sino a 1/3) ovvero la possibilità di un loro pagamento rateale (art. 133 ter)[1].
Partendo dalle considerazioni appena fatte, è opportuno puntualizzare che nella pratica dei “non addetti ai lavori“ si riscontrano improprietà terminologiche che è bene evitare, anche, e specialmente, al fine di non confondere i limiti entro i quali effettivamente deve essere collocata l’attività di polizia giudiziaria.
E’ comune l’uso del termine «contravvenzione» per indicare le semplici infrazioni amministrative e del termine «multa» per indicare la sanzione pecuniaria imposta a seguito di infrazioni amministrative.
Allo stesso modo, anche il termine «delitto» è talora usato in senso improprio, come sinonimo di omicidio. L’omicidio (artt. 575-577 c.p.) è invece solo uno dei delitti previsti dalle leggi penali anche se, forse, è il delitto per eccellenza, quello che, oltretutto, più colpisce ed allarma la coscienza sociale.
Di fatto, e pur nella consapevolezza della approssimazione, può dirsi, allora, che le contravvenzioni sono reati meno gravi dei delitti ed ai quali conseguono conseguenze meno afflittive (il condannato per un reato-contravvenzione, non può ad esempio, perdere la potestà di genitore o essere interdetto alla possibilità di ricoprire un ufficio: pene accessorie che, invece possono conseguire a carico di un condannato per delitto - artt. 34 - 28 c.p.).
E’ poi da notare che mentre le contravvenzioni sono tutte perseguibili d’ufficio, per la perseguibilità di alcuni delitti è necessaria la querela della persona offesa.
Nel nostro sistema penale è stato introdotto (articoli 53-76 della legge 24 novembre 1981, n. 689 modificata dalla legge n. 134/2003), l'istituto giuridico delle "sanzioni sostitutive", in virtù del quale il Giudice penale, anziché emettere sentenza di condanna ad una pena detentiva vera e propria può ordinare l’applicazione di una sanzione di natura diversa, «sostitutiva» della pena.
Quando non possono essere eseguite per l’impossibilità (insolvenza) del condannato di effettuare il pagamento, le pene pecuniarie (multa o ammenda) si convertono, a seconda dei casi, nelle “misure restrittive” della libertà previste dagli articoli 102, 103 e 105 della Legge 24 novembre 1981, n. 689. e cioè nella libertà controllata o nella sanzione sussidiaria del lavoro sostitutivo.
La Legge 274/2000 (attributiva al Giudice di Pace della competenza penale) ha previsto, per i casi di competenza del "Giudice di Pace", una sostituzione delle pene sanzionatorie: le pene privative della libertà sono quindi state sostituite con delle sanzioni alternative che sono:
[1] Sempre con riferimento alle condizioni economiche del condannato l’art. 133 ter, introdotto nel codice penale dalla Legge 689/81, ha previsto la possibilità per il Giudice, con sentenza di condanna o con il decreto penale, di disporre che la multa o l’ammenda venga pagata in rate mensili da un minimo di tre a un massimo di trenta rate, ciascuna delle quali, tuttavia, non può essere inferiore a € 15 (30.000 delle vecchie lire). Tale disposizione va incontro ai soggetti in stato di difficoltà economica, e capovolge i principi della precedente disciplina sanciti dal R.D. n. 207 del 1865) che favoriva, invece, i soggetti più abbienti, consentendo la rateizzazione solo a chi fornisse idonee garanzie reali o personali.
Quando non possono essere eseguite per l’impossibilità (insolvibilità) del condannato di effettuare il pagamento, le pene pecuniarie (multa o ammenda) si convertono, a seconda dei casi, nelle “misure restrittive” della libertà previste dagli articoli 102, 103 e 105 della Legge 24 novembre 1981, n. 689. e cioè:
Per effetto di detta legge, giova precisare che la durata della «libertà controllata» non può essere superiore ad 1 anno se la pena da convertire è la multa; e non può essere superiore a 6 mesi se la pena da convertire è l’ammenda. Essa comporta gli obblighi previsti all’art. 57 della Legge 689/81 e il criterio di ragguaglio ha luogo calcolando € 38 per ogni giorno di libertà controllata.
La conversione della pena pecuniaria nella sanzione sussidiaria del «lavoro sostitutivo» può avvenire solo a richiesta del condannato e quando la pena pecuniaria non è superiore a di € 520. Il criterio di ragguaglio è pari a di € 25 per ogni giorno di lavoro sostitutivo. Esso consiste in una attività non retributiva a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti di assistenza o protezione civile.
La Polizia Giudiziaria informa il "Magistrato di Sorveglianza" della eventuale inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato e inerenti alla libertà controllata o al lavoro sostitutivo. In queste ipotesi, la parte di libertà controllata o di lavoro sostitutivo non ancora eseguita si converte in un uguale periodo di reclusione o di arresto, a seconda della specie della pena pecuniaria originariamente inflitta (art. 108 L. 689/81).
Con questa espressione si fa riferimento all’istituto giuridico introdotto nel nostro sistema penale dagli articoli 53-76 della Legge 24 novembre 1981, n. 689 modificata dalla legge n. 134/2003, in virtù della quale il Giudice penale, anziché emettere sentenza di condanna ad una pena vera e propria può ordinare l’applicazione di una sanzione di natura diversa, «sostitutiva» della pena.
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi consistono nella:
La loro applicazione è subordinata ad alcune "condizioni"; possono intervenire solo quando l’autore del reato è stato condannato:
Accertata la sussistenza di tali condizioni, il Giudice può applicare la sanzione sostitutiva se ritiene che la personalità del condannato potrà essere danneggiata dall’esecuzione della pena detentiva ovvero presume che il condannato non si sottrarrà alle prescrizioni contenute nelle misure sostitutive.
Alla luce della legge 689/81, le sanzioni sostitutive hanno pertanto la funzione di consentire il reinserimento sociale di un condannato che il Giudice presume dotato di una capacità a delinquere quasi inesistente e in via subordinata perseguono anche lo scopo di rendere meno drammatici i problemi, non soltanto di sicurezza, collegati al sovraffollamento degli istituti carcerari (D.L. 187/1993).
In particolare, la pena detentiva (reclusione o arresto) "sino a 2 anni" può essere sostituita con la «semidetenzione». Essa comporta l’obbligo di trascorrere in uno specifico istituto di custodia, situato nel comune di residenza del condannato, almeno 10 ore al giorno, tenuto conto delle esigenze di lavoro e di studio. Comporta poi vari obblighi accessori previsti dall’art. 55 L. 689/81, quali, per esempio: il divieto di detenere armi, la sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto o di altro documento valido per l’espatrio, ecc. Circa la durata della pena sostitutiva il Giudice deve applicare i criteri di ragguaglio previsti dall’art. 57 della legge medesima, secondo i quali un giorno di di pena detentiva equivale ad un giorno di semidetenzione.
Quando la pena detentiva inflitta raggiunge "1 anno" può essere sostituita con la «libertà controllata». Essa obbliga a non allontanarsi dal comune di residenza ed a presentarsi almeno una volta al giorno, nelle ore fissate compatibilmente con gli impegni di lavoro e di studio presso il locale ufficio di pubblica sicurezza, o in mancanza presso il comando dei carabinieri territorialmente competente. Comporta gli obblighi accessori previsti per la semidetenzione (art. 56 L. 689/81). Circa la durata della pena sostitutiva il Giudice deve applicare i criteri di ragguaglio previsti dall’art. 57 della legge citata, secondo i quali un giorno di detenzione equivale a due giorni di libertà controllata.
Infine, se la pena detentiva inflitta raggiunge i "6 mesi" può essere sostituita con la «pena pecuniaria» della specie corrispondente. La pena pecuniaria sarà pertanto quella della multa o dell’ammenda a seconda che la pena detentiva inflitta sia quella della reclusione o dell’arresto e sarà ragguagliata al tasso di € 38 (75.000 delle vecchie lire) per ogni giorno di pena detentiva (tasso eventualmente maggiorato o diminuito e rateizzato a seconda delle condizioni economiche del condannato (artt. 133-bis e 133 ter c.p.).
Quando l’entità della pena inflitta lo consente, il Giudice sceglie fra le sanzioni sostitutive quella più idonea al reinserimento sociale del condannato (art. 50 L. 689/81)
Quando la misura sostitutiva consiste nella semidetenzione o nella libertà controllata, le modalità della sua esecuzione sono fissate dal Magistrato di Sorveglianza e trasmette all’ufficio di pubblica sicurezza del comune ove il condannato risiede ovvero, in mancanza, al comando dell’arma dei carabinieri territorialmente competente.
Ovviamente l’inosservanza degli obblighi imposti può comportare la revoca della sanzione sostitutiva (art. 66 L. 689/81)
Sono state introdotte dalla Legge 354/1975 di riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Con l’introduzione di tali misure, l’Ordinamento ha inteso valorizzare la funzione "rieducativa" della pena (art. 27 Cost.) agevolando le cd. misure alternative che si prefiggono lo scopo della risocializzazione del reo in società.
E’ prevista la revoca di tale misura sia quando il comportamento del soggetto ne rende impossibile la prosecuzione sia quando vengono a cessare le condizioni previste dalla norma (art. 47 ter).
Dopo la Sentenza della Corte Cost.le 350/1993, la detenzione domiciliare può essere concessa al padre condannato, in caso di morte della madre condannata, che conviva con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante).
La Legge n. 251/2005 (ex Cirielli) ha apportato modifiche alla misura alternativa della "detenzione domiciliare" prevedendone l’applicazione per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di una pena maggiore e ciò quando non ricorrono i presupposti per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea a evitare il pericolo che il reo commetta nuovamente altri reati. La modifica introdotta dalla Legge Cirielli non si applica ai condannati a cui sia stata applicata la recidiva reiterata e ai condannati di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario (Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti).
La detenzione domiciliare sostituisce la pena detentiva per quanti abbiano compiuto i settanti anni e non siano stati giudicati delinquenti abituali, di professione o per tendenza e che non siano stati mai condannati con l’aggravante di cui all’art. 99 c.p. (recidiva).
La Legge n. 4/2001 (di versione del DL 341/2000) ha stabilito che il Tribunale di Sorveglianza, nel prevedere l’applicazione di tali pene, ai fini della verifica dell’osservanza delle prescrizione imposte, può consentire l’utilizzo di strumenti tecnici rinviando alla disciplina prevista dall’art. 275 bis c.p.p. relativa alla misura cautelare degli arresti domiciliari.
La seconda categoria di pene prevista dal Codice penale comune è rappresentata dalle «pene accessorie». A differenza delle pene principali, le pene accessorie si riferiscono solo ad alcuni reati e «conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa». In altre parole, rappresentano un effetto automatico della condanna inflitta per taluni reati (artt.19-20 c.p.). Hanno un carattere affittivo e fortemente limitativo dei diritti costituzionalmente garantiti.
Gli esempi fatti in precedenza chiariscono che le pene accessorie sono:
► Le principali pene accessorie previste dalla legge penale comune per i «delitti»:
► Principali pene accessorie previste dalla legge penale comune per le «contravvenzioni»:
► Pena accessoria «comune» per i delitti e le contravvenzioni:
Ci sono però dei casi in cui l’Ordinamento vincola l’applicazione di tali pene alla libera discrezionalità del Giudice. In tal caso, ai fini della loro applicabilità, è necessaria una dichiarazione diretta da parte del Giudice in sentenza che ne determinerà anche la durata. Esempi di pene accessorie ulteriori rispetto a quelle previste dal Codice penale si rinvengono in numerose "leggi speciali".
La pena accessoria comune sia ai delitti che alle contravvenzioni, è quella relativa alla "pubblicazione della sentenza di condanna" (art. 36 c.p.). La misura viene disposta dal Giudice in sentenza che può ordinare la pubblicazione in uno o più giornali a spese del condannato.
In caso di ergastolo la sentenza viene pubblicata mediante affissione nel Comune ove è stata pronunciata, in quello in cui fu commesso il delitto e in quello in cui il condannato aveva l’ultima residenza.
Non è previsto un numero chiuso di pene accessorie per cui queste possono essere individuate anche se non espressamente codificate. Tipico esempio di misure non codificate sono la cancellazione dall’albo dei costruttori e dei fornitori, il divieto di espatrio ecc.
Le pene accessorie possono essere perpetue e temporanee (hanno la stessa durata della pena principale) e in nessun caso possono avere una durata superiore al limite minimo e massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria.
Specifiche «pene accessorie» sono previste da leggi speciali, e, in specie dalle leggi in materia di:
Sono inflitte solo quando il Giudice ritiene che esse (per la personalità del condannato, per il tipo e le modalità del fatto addebitatogli) possano scoraggiare il condannato dal ripetere la sua condotta criminosa.
► Possono ricordarsi:
Specifiche pene accessorie sono previste altresì dal "Codice della Navigazione", dalla "Legge sulla pesca marittima" (D.lgs. n. 4/2012) e in materia di "Inquinamento" (D.lgs. n. 202/2007).
Il Codice della Navigazione prevede agli articoli 1082 e ss., pene accessorie a carico di tutto il «personale marittimo» di cui all'art. 144:
Al fine di tutelare le risorse biologiche il cui ambiente abituale o naturale di vita sono le acque marine, nonchè di prevenire, scoraggiare ed eliminare la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, l'art. 7, comma 1 del D.lgs. n. 4/2012, fa divieto di:
In caso di cattura accessoria o accidentale di esemplari di dimensioni inferiori alla taglia minima, questi devono essere rigettati in mare.
I divieti di cui alle lettere a) e c) del comma 1 non riguardano la «pesca scientifica», nonché le altre attività espressamente autorizzate ai sensi della vigente normativa comunitaria e nazionale. Resta esclusa qualsiasi forma di commercializzazione per i prodotti di tale tipo di pesca ed è consentito detenere e trasportare le specie pescate per soli fini scientifici.
Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai prodotti dell'acquacoltura e a quelli ad essa destinati, fermo restando quanto previsto dall'articolo 16 del regolamento (CE) 1967/06.
La condanna per le contravvenzioni suindicate comporta l'applicazione - ai sensi dell'art. 9, comma 1 del D.lgs. n. 4/2012 - delle seguenti «pene accessorie»:
Qualora il pescato sia stato sequestrato l'interessato può ottenerne la restituzione previo deposito di una somma di denaro di importo equivalente al suo valore commerciale. Il tal caso oggetto della confisca è la somma depositata.
Quando sia possibile ed utile per l'ulteriore corso del procedimento si effettua, prima della restituzione, il prelievo di campioni del pescato o la sua "fotografia".
[1] [50]Concorso formale del delitto di cui all'art. 635, comma 2 n. 3 del c.p. (Danneggiamento aggravato...) nel "mare territoriale" o aree demanali in quanto bene pubblico esposto alla pubblica fede e destinato a pubblica utilità (Cass. Sez. I 20.02. 1987 n. 287).
L’articolo 10, comma 1 del D.lgs. 6 novembre 2007, n. 202 (Attuazione della direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e conseguenti sanzioni) prevede, a seguito di condanna per il reato di cui all’art. 8[1], la «pena accessoria»:
[1] L’articolo 8, comma 1 D.lgs. 202/07 dispone che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il Comandante di una nave mercantile, senza discriminazione di bandiera, nonché i membri dell’equipaggio, il proprietario e il suo armatore, nel caso in cui la violazione sia avvenuta con il loro concorso, che violano le disposizioni di cui all’art. 4, n. 1 D.lgs. 202/07, con conseguente sversamento volontario in mare delle sostanze inquinanti di cui all’Allegato I (=idrocarburi) e all’Allegato II (=sostanze liquide nocive trasportate alla rinfusa) alla MARPOL 73/78, sono puniti con l’arresto da 6 (sei) mesi a 2 (due) anni e con l’ammenda da € 10.000 ad € 50.000.
Il predetto articolo al comma 2 stabilisce che, se la violazione di cui al 1 comma causa danni permanenti o, comunque, di particolare gravità, alla qualità delle acque, alle specie animali o vegetali o a parti di queste, si applica l’arresto da 1 (uno) a 3 (tre) anni e l’ammenda da € 10.000 ad € 80.000.
Il danno si considera di particolare gravità quando l’eliminazione delle sue conseguenze risulta di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali (comma 3).
Sono state definite quali mezzi di «prevenzione individuale» della delinquenza aventi carattere educativo o curativo ovvero cautelativo, applicabili dall’Autorità Giudiziaria, in sostituzione oppure in aggiunta alla pena, nei confronti dell’autore di un reato ritenuto «socialmente pericoloso».
La pena è inflitta all'autore del reato. L'applicazione delle misure di sicurezza avviene solitamente con la sentenza; talvolta può avvenire anche con provvedimento successivo del "Magistrato di Sorveglianza" (art. 205 c.p.; att. 679 c.p.p.). Può anche essere disposta in via provvisoria prima della sentenza definitiva (quando si tratta di soggetto non imputabile) (applicazione provvisoria delle misure di sicurezza (art. 206 c.p.; artt. 312, 313 c.p.p.).
La revoca della misura di sicurezza può essere disposta dal "Magistrato di Sorveglianza", a seguito del riesame della pericolosità (art. 208 c.p. e art. 69 legge n. 354/1975) solo se la persona ad essa sottoposta ha cessato di essere socialmente pericolosa (art. 207 c.p.).
Le misure di sicurezza «personali» si distinguono, a loro volta, in "detentive" (la persona sottoposta a misura di sicurezza detentiva si denomina internato) e "non detentive".
[1] Va ricordato che al regime di libertà vigilata è sottoposto anche il condannato ammesso alla liberazione condizionale. In questo caso, però, la libertà vigilata non ha la funzione di misura di sicurezza, ma di “sostituzione” di pena.
Le misure di sicurezza «patrimoniali» sono:
► Mediante la «confisca», si evita che una cosa, attinente a un reato o di per sé criminosa, possa costituire, se lasciata nella disponibilità dell’autore del reato, un incentivo a commettere altri illeciti.
La confisca è «obbligatoria» o « facoltativa» e riguarda:
• le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato (confisca facoltativa);
• le cose che rappresentarono il profitto (vantaggio economico) o il prodotto (risultato) del reato (confisca facoltativa);
• le cose che rappresentarono il profitto (vantaggio economico) o il prodotto (risultato) del reato (confisca facoltativa);
• le cose che costituiscono il prezzo (corrispettivo) del reato (confisca obbligatoria)
• le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato (confisca obbligatoria anche se non è stata pronunciata condanna)
La confisca è perciò obbligatoria per i reati "concernenti le armi, le munizioni e gli esplosivi" (art. 6 legge 22 maggio 1975, n. 152). Le armi, le munizioni e gli esplosivi confiscati sono versati alla competente Direzione di Artiglieria per la distruzione o la rottamazione
La confisca non può pregiudicare i diritti di persone estranee al reato. Non è pertanto attuabile quando si tratta di cose che appartengono a terzi estranei od ai quali le cose siano lecitamente pervenute dopo la commissione del reato.
Dinanzi all’autore di qualsiasi reato, imputabile o non, lo Stato non può porsi solo la domanda se quel soggetto è responsabile penalmente di un certo reato, ma anche la domanda se quel soggetto è «pericoloso socialmente».
L’art. 133 c.p. dispone che, nella determinazione della pena da infliggere all’autore di un reato, il Giudice deve tener conto oltre che della gravità del reato commesso, altresì della «capacità a delinquere» del reo. Essa consiste nella tendenza o inclinazione dell’individuo a commettere fatti in contrasto con la legge penale.
Mentre l’imputabilità costituisce il presupposto necessario della responsabilità, per cui è penalmente responsabile (e perciò punibile) solo il soggetto che al momento del fatto era capace di intendere e di volere, la capacità a delinquere (capacità criminale) serve invece a «graduare la responsabilità» e, quindi, la pena da applicare per il reato commesso.
Tale capacità, che implica un vero e proprio giudizio prognostico sulla possibilità maggiore o minore che il soggetto compia nel futuro ulteriori reati , va desunta ad esempio: dai precedenti del reo e, in genere, dalla sua vita trascorsa; dal carattere, dalle sue condizioni familiari, sociali ed individuali di vita (c.d. ambiente del reo), ecc.
Un grado particolarmente intenso di capacità a delinquere è la «pericolosità sociale», cioè la elevata probabilità che il soggetto commetterà altri reati.
La pericolosità criminale influisce sulla misura della pena, preclude la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale della liberazione condizionale, come anche sulla applicazione di misure alternative alla detenzione, ed è il presupposto per l’applicazione di una misura di sicurezza.
Dinanzi alla accertata probabilità che l’autore del reato ne commetta altri in futuro, il legislatore corre ai ripari applicandogli allora una misura di sicurezza e cioè una sanzione penale che nelle intenzioni, dovrebbe neutralizzare la pericolosità del soggetto e risocializzarlo.
La misura di sicurezza può essere applicata congiuntamente alla pena (dopo che questa è stata scontata) o in alternativa alla pena stessa (quando si tratta di soggetto non imputabile, ma socialmente pericoloso).
La duplicità di sanzione si spiega con l’accoglimento, da parte del codice penale del 1930, del «sistema del doppio binario». In base a tale sistema, come già visto in precedenza, le pene avrebbero funzione di «castigo» e di intimidazione, le misure di sicurezza, la funzione di «neutralizzare la pericolosità sociale» del reo e di risocializzarlo all’esito del processo rieducativo che le stesse misure di sicurezza dovrebbero attuare.
La misura di sicurezza ha funzioni diverse della pena e non rappresenta il «castigo» inflitto per il reato commesso, ma il modo per evitare che continui a creare allarme sociale un soggetto ritenuto pericoloso.
Di conseguenza: se l’autore del reato non è imputabile, va esente da pena. Nei suoi confronti, però può essere disposta una misura di sicurezza se, malgrado la non imputabilità, il soggetto è socialmente pericoloso.
Il Codice penale esalta il rilievo della pericolosità sociale prevedendo quattro forme specifiche di «pericolosità criminale» che delineano predeterminate figure di «delinquenti pericolosi»:
Il Codice penale esalta il rilievo della pericolosità sociale prevedendo quattro forme specifiche di «pericolosità criminale» che delineano predeterminate figure di «delinquenti pericolosi»:
La «recidiva» (art. 99-101 c.p.) è la condizione personale di chi dopo essere stato precedentemente condannato (con sentenza passata in giudicato) per un reato, ne commette un altro. La recidiva può essere:
La «recidiva semplice», ricorre se un soggetto commette un reato dopo una condanna per un altro reato di diversa indole. La pena può essere aumentata fino al sesto.
La «recidiva aggravata», ricorre se un soggetto commette un nuovo reato della stessa indole (cioè denota identica tendenza a delinquere) del precedente e si distingue a sua volta in: recidiva specifica e infraquinquennale. A seconda dei casi la pena può essere aumentata fino a 1/3 o fino a 1/6
La recidiva aggravata «specifica» ricorre, quando il nuovo reato è della stessa indole del precedente.
La recidiva aggravata «infraquinquennale» ricorre, quando il nuovo reato è stato commesso nei 5 anni dalla condanna precedente.
La «recidiva reiterata», infine, ricorre quando il nuovo reato è stato commesso da chi è già recidivo (durante o dopo l’esecuzione della pena, o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente alla esecuzione della pena). Aumento della pena dalla metà fino a 2/3.
Le conseguenze della recidiva sono principalmente un aumento di pena, variabile a seconda del tipo di recidiva. Le ipotesi di recidiva possono cumularsi fra loro:
La «abitualità criminale» (artt.102-104 e 109 c.p.): è la condizione di chi con la sua persistente attività criminosa dimostra di avere acquistato una notevole attitudine a commettere reati. E’ delinquente abituale: un soggetto reiteratamente recidivo per il quale, per presunzione di legge o convinzione del Giudice, sussistono apprezzabili probabilità che commetta in futuro ancora altri fatti costituenti reato.
La «professionalità nel reato» (art. 105 c.p.): oltre alle condizioni richieste per l’abitualità la legge richiede che si accerti che il reo viva abitualmente, anche se solo in parte, dei proventi del reato, secondo un vero e proprio sistema di vita. E’ delinquente professionale: un delinquente abituale che vive abitualmente del provento dei reati commessi.
La «tendenza a delinquere» (art. 108 c.p.): si ha quando il reo riveli una speciale inclinazione al delitto che trovi la sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole. E’ delinquente per tendenza: l’autore di un delitto contro la vita o l’incolumità personale che, per la sua indole particolarmente malvagia, rivela speciale inclinazione al delitto (cc.dd. delitti di sangue).
Le dichiarazioni di abitualità, professionalità o tendenza per delinquere importano l'applicazione di misure di sicurezza e possono escludere la concessione della sospensione condizionale della pena.
Dal reato possono derivare conseguenze non solo penali ma anche civili, disciplinari, amministrative, ecc.
Generalmente, infatti, la maggior parte dei reati (delitti) determina anche delle conseguenze sul piano civilistico e, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c. “Risarcimento per fatto illecito: Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Ogni reato ha un «soggetto attivo» (=autore del reato) e un «soggetto passivo» (=il titolare dell’interesse protetto dalla norma penale).
In particolare, il «soggetto attivo» è colui (o coloro, nel caso di concorso) che ha posto in essere il comportamento vietato dalla norma incriminatrice e che nel procedimento penale assume, a seconda delle fasi o dei momenti, la qualità di indagato, di imputato, di reo o condannato e di internato.
Tutte le persone fisiche (art. 27 Cost.) possono essere soggetti attivi del reato, hanno cioè l’attitudine a porre in essere comportamenti penalmente rilevanti, senza distinzione di età, sesso od altre condizioni soggettive essendo tutte dotate di capacità penale.
Ne consegue che l’età, le situazioni di anormalità psico-fisica e le immunità non escludono il reato, ma sono rilevanti solo ai fini della concreta applicabilità della pena.
In relazione al «soggetto attivo», distinguiamo:
I reati «comuni», sono quelli posti in essere da qualunque soggetto, indipendentemente da particolari caratteristiche soggettive. In tale ipotesi la norma, generalmente, fa riferimento a «chiunque.....».
I reati «propri», sono quei reati che, a causa della particolare natura del bene giuridico protetto, che si presta ad essere offeso soltanto da soggetti particolari, possono essere commessi da chi rivesta determinate «qualifiche» o «condizioni».
Per stabilire se il reato sia comune o proprio, non è sufficiente, quindi, verificare se la norma incriminatrice usi o meno l’espressione «chiunque...», bensì occorre esaminare con attenzione la norma nel suo complesso. Un reato può essere commesso da una o più persone fisiche. Nel primo caso si è in presenza di un reato «monosoggettivo»; nel secondo di un reato «plurisoggettivo». Il fenomeno dei reati c.d. plurisoggettivi o del concorso necessario di persone si realizza quando è la stessa norma incriminatrice a richiedere per la sussistenza del reato, una pluralità di soggetti attivi. Vi sono, infatti, beni giuridici che possono essere lesi soltanto dall’azione di più soggetti. Il concorso di persone nel reato costituisce invece una forma eventuale di manifestazione del reato (come si vedrà in seguito) che si realizza allorquando più persone pongono in essere un reato che, astrattamente considerato, avrebbe potuto essere realizzato anche da una sola persona.
Non tutti gli autori di un reato ne subiscono però le conseguenze giuridiche. Le persone immuni ad esempio, non sono assoggettate a conseguenze penali; quelle socialmente non pericolose non possono essere sottoposte a misure di sicurezza; quelle incapaci di intendere e volere (=non imputabili) non possono essere condannate alla pena prevista per il reato da esse commesso.
L’art. 85 c.p. stabilisce che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”. Al secondo comma poi precisa che “E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e volere”. Non tutti gli autori di un reato ne subiscono, quindi, le conseguenze giuridiche.
La "responsabilità penale" (cioè la possibilità di essere punito per la commissione di un reato) è collegata ad un normale stato di maturità, sanità ed equilibrio dell'individuo, che, il Codice penale definisce come «imputabilità». Questa imputabilità consiste essenzialmente nella «....Capacità di intendere e di volere».
Presupposto per la punibilità dell’autore di un reato è la «sussistenza della capacità di intendere e di volere» al momento della commissione del fatto, ossia, seguendo la terminologia del codice, delle «condizioni di imputabilità» (art. 85 c.p.). L’assenza dell’una o dell’altra, pur sussistendo il reato, consente infatti al soggetto di andare esente da pena (causa soggettiva di esenzione da pena).
Per «capacità di intendere e volere» si intende sia la capacità di ogni persona di rendersi conto del valore sociale del proprio comportamento e di valutarne le ripercussioni sugli altri (intendere) sia l’idoneità della persona a determinarsi in modo autonomo, resistendo agli impulsi che gli derivano dal mondo esterno (volere).
Comunemente, sia la capacità di intendere che quella di volere si raggiungono con una completa maturità psico-fisica (sviluppo corporeo ed intellettivo sufficiente) e si mantengono con l'equilibrio e la sanità mentale.
La ragione per cui si richiede la imputabilità per l'irrogazione della pena risiede in un profondo senso di giustizia nella nostra coscienza. Ripugna, infatti, infliggere castighi a soggetti non in grado di rendersi conto di ciò che fanno e trattare conseguentemente come adulti responsabili i malati di mente ed i bambini.
La pena è un castigo per una disobbedienza e si richiede, pertanto, che chi la subisce l'avverte e la sente come il giusto corrispettivo per un comportamento riprovevole. Il requisito della imputabilità è condizione per l'irrogazione della pena. Ciò significa che la mancanza di imputabilità costituisce una causa personale di esenzione della pena (analoga alle immunità). Segue da questa impostazione che anche il bambino o il pazzo possono violare i precetti della legge penale (sono anche loro soggetti attivi di diritto penale), ma non possono poi essere puniti, per una condizione attinente alla loro persona.
La imputabilità è legata tanto al raggiungimento di un sufficiente grado di sviluppo dell'individuo quanto al permanere di un suo equilibrio psico-fisico. Infatti, anche dopo la raggiunta maturità, varie situazioni estreme possono influire su questo equilibrio eliminando del tutto o facendo diminuire sia la capacità di intendere, sia la capacità di volere, sia l'una e l'altra insieme.
L’Ordinamento giuridico prevede alcune ipotesi che "escludono" o comunque "diminuiscono" la imputabilità. Non si tratta di un numero chiuso di cause nel senso che tale capacità potrebbe essere esclusa anche in presenza di cause non espressamente previste dal Codice.
Quelle previste dal nostro Ordinamento sono:
Per ognuna di esse il Codice detta una specifica disciplina. Può dirsi, al riguardo, che le norme sulla imputabilità non si applicano quando la privazione della capacità di intendere e di volere è stata "preordinata" e cioè quando l’autore del reato si è messo in stato di incapacità proprio al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa (art. 87 c.p.).
Gli articoli 97 e 98 c.p. prevedono rispettivamente che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni” e che “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e volere; ma la pena è diminuita”.
La non punibilità è determinata dalla condizione di immaturità che caratterizza i soggetti minori. Al riguardo il nostro diritto distingue due diverse «fasce di età» del minore:
Le nuove disposizioni sul processo penale a carico degli imputati minorenni, dettate dal D.P.R. 22 settembre 1988, n. 488 «Nuove disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni», hanno accentuato notevolmente la funzione di prevenzione e rieducazione sociale del processo penale relativo ai minori. In particolare, è stata prevista una nuova causa di non punibilità che è data dalla «irrilevanza del fatto». Afferma, infatti, l’art. 27 del D.P.R. citato che... durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il Pubblico Ministero può chiedere al Giudice[1] una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minore.
Il minore riconosciuto non imputabile viene prosciolto, tuttavia, se risulta socialmente pericoloso sono applicabili nei suoi confronti le "misure di sicurezza" del riformatorio giudiziario e della libertà vigilata.
[1] E’ prevista, la possibilità per il Giudice di sospendere il processo e affidare in prova il minore ai Servizi minorili; decorso il periodo di prova, il Giudice se ritiene che quest’ultima abbia avuto esito positivo, dichiara con sentenza estinto il reato (artt. 28 e 29 del D.P.R 22.9.1988, n. 488).
Fra le cause che incidono sulla imputabilità, ha particolare rilievo il vizio di mente. L’art. 88 c.p. stabilisce che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere e volere”.
Il successivo articolo 89 prevede poi “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere e volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”.
Non basta accertare l’esistenza di una malattia mentale per escludere l’imputabilità: occorre appurare in concreto caso per caso, se, e in quale misura, tale malattia abbia effettivamente compromesso la capacità del soggetto di intendere e volere.
Per infermità deve intendersi un concetto molto più ampio rispetto a quello di malattia giungendo a comprendere anche i "disturbi psichici" di carattere non strettamente patologico. Rientra tra le infermità anche la malattia fisica (anche quelle a carattere transitorio) da cui derivi un vizio di mente.
L'incapacità di intendere e di volere può essere "totalmente esclusa" o "grandemente ridotta" da condizioni di infermità mentale. In questi casi l'imputato è esente da pena o assoggettato a pena ridotta. Pertanto, a seconda del suo grado, l’infermità può essere:
Il vizio di mente è totale (art. 88 c.p.) se al momento della commissione del fatto, l’infermità è tale da escludere del tutto la capacità di intende e volere. In tal caso il soggetto sarà dichiarato non imputabile perché totalmente infermo di mente (art. 88 c.p.); ma se riconosciuto socialmente pericoloso gli si applica la misura di sicurezza del "ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario".
E’ invece parziale (art. 89 c.p.) se la capacità di intendere e volere non è esclusa ma solo diminuita in presenza di un vizio di mente. La pena è diminuita in caso di infermità parziale.
L’art. 90 c.p. stabilisce che “gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. La rilevanza scusante degli stati emotivi o passionali è comunque ammessa in presenza di due condizioni essenziali:
Per il fenomeno dell’etilismo e per quello dell’intossicazione da stupefacenti, l’Ordinamento prevede trattamenti diversi a seconda delle circostanze[1] [50].
L’intossicazione da alcool o da sostanza stupefacente deriva dall’uso eccessivo di bevande alcoliche o di droga. può essere:
Il Codice prevede l’esclusione dell’imputabilità se l’ubriachezza (o la intossicazione da sostanze stupefacenti) è dovuta a «caso fortuito» o «forza maggiore» (art. 91 c.p.). Si tratta della cd. ubriachezza accidentale e cioè non dipendente da colpa del soggetto.
Gli artt. 92 e 93 c.p. prevedono invece una disciplina più rigorosa per le ipotesi in cui ubriachezza (il primo) e la intossicazione da sostanze stupefacenti (il secondo) sia derivata da un "fatto proprio e volontario" del soggetto agente (il soggetto si è ubriacato o drogato volontariamente o per imprudenza). In tali ipotesi è quindi previsto che chi commette il fatto ne risponde come se fosse pienamente capace di intendere e volere. Non è quindi prevista né l’esclusione né tanto meno la diminuzione della imputabilità.
Il secondo comma dell’art. 92 c.p. prevede poi un aumento di pena se lo stato di ubriachezza è preordinato al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusante. Si tratta di una ipotesi di actio libera in causa che non fa venir meno la colpevolezza.
L’art. 94 c.p. “ubriachezza abituale” stabilisce un aumento della pena nel caso in cui il reato viene commesso da un soggetto agente il cui stato di ubriachezza (o di intossicazione da stupefacenti) è abituale. Per ubriaco abituale è da intendersi la persona dedita all’uso di bevande alcoliche che si trova in stato frequente di ubriachezza.
L’ubriachezza abituale e la intossicazione abituale di sostanze stupefacenti, non esclude o diminuisce l’imputabilità ma addirittura prevede un aumento della pena.
L'imputabilità non è esclusa né diminuita quando l’intossicazione è "preordinata" (il soggetto si è ubriacato o drogato allo scopo di commettere il reato o per prepararsi una scusa). In questa seconda ipotesi, si dà luogo ad un aumento di pena.
L’articolo 95 c.p. “cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti” stabilisce espressamente che “per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute negli artt. 88 e 89”.
La cronica intossicazione potrebbe giungere a far scemare fortemente la capacità di intendere e volere del soggetto agente. In tali ipotesi, secondo l’Ordinamento, il soggetto non sarebbe imputabile.
L’intossicazione «cronica» da alcool o da sostanze stupefacenti si verifica quando per effetto dell’abuso prolungato di droga o di sostanze alcoliche, si produce una alterazione psichica del soggetto tipica del vizio di mente.
Tale situazione va distinta dall’ipotesi in cui il soggetto versi in stato di ubriachezza «abituale» (ubriachezza consuetudinaria e frequente o da chi è abitualmente dedito all’uso di droghe). In tal caso il soggetto subisce un aumento di pena e l’applicazione di una "misura di sicurezza" del «ricovero in casa di cura e custodia», poiché si ritiene che per costui lo stato di incapacità sia meramente transuente e non stabile come in caso di cronica intossicazione.
Le conseguenze della «intossicazione cronica» sono opposte rispetto a quelle della «intossicazione abituale». La prima esclude la imputabilità; la seconda, invece, non solo non la esclude, ma comporta addirittura un aumento di pena a carico dell’autore del reato. Da qui l’importanza di avere ben chiara la distinzione tra le due ipotesi.
E’intossicato abituale colui che è dedito all’alcool o alla droga e che, pur trovandosi frequentemente in stato di ubriachezza o di intossicazione da stupefacenti, attraversa, tra un periodo e l’altro, periodi di normale (o quasi normale) lucidità.
L’intossicato cronico, invece, è colui che versa in modo duraturo e continuo in stato di intossicazione: nel senso che questa non è più un effetto della assunzione dell’alcool o della droga (un effetto, cioè, che dopo essere cessato, si rinnova a seguito di ogni nuova assunzione), ma è uno stato irreversibile e permanente che non viene mai meno e che, comunque, non scompare del tutto neppure quando il soggetto non fa più uso di alcool o di droga ovvero ne fa uso limitato.
[1] [50] Ipotesi di reato:
Ogni reato offende l’interesse alla "pacifica convivenza". Offende quindi lo Stato che è il titolare di tale interesse. In astratto, perciò, lo Stato è il soggetto passivo di qualsiasi reato.
Siccome il reato danneggia o mette in pericolo «interessi di una suprema dignità» come la vita, la libertà individuale e «interessi altresì rilevanti» come il patrimonio, gli interessi della pubblica amministrazione, ecc. per questo motivo il legislatore ha previsto per chi viola le norme penali sanzioni più afflittive perché tali da creare un vulnus (buco, danno) alla collettività.
Da un punto di vista specifico e concreto, il «Soggetto passivo» del reato (nel codice si parla di «persona offesa dal reato») è il titolare del "bene o dell’interesse" (c.d. oggetto giuridico) che la norma giuridica tutela e che è pertanto leso dal comportamento umano costituente reato.
Soggetto passivo può essere un "singolo individuo" oppure una "persona giuridica", ivi compreso lo Stato.
Quando un reato "lede" o "pone in pericolo" più beni-interessi, appartenenti a persone distinte, si parla di reato «plurioffensivo».
Se i titolari degli interessi protetti sono soggetti distinti, il reato plurioffensivo ha più soggetti passivi. Se offende un numero indeterminato di persone si parla di reati "vaghi" o "vaganti".
Dal soggetto passivo del reato deve essere distinto il «Soggetto passivo della condotta» dovendosi intendere quest’ultimo come colui sul quale “materialmente“ incide la condotta criminosa. Normalmente le due qualifiche coincidono nella stessa persona.
Infine occorre distinguere, dai predetti soggetti, il «danneggiato» dal reato, cioè colui che dal reato ha subito un danno civilmente risarcibile ed è il titolare del diritto alla restituzione e al risarcimento del danno. Sebbene frequentemente il soggetto passivo del reato coincide con il danneggiato, è tuttavia possibile che ciò non accada.
Il soggetto passivo del reato è il titolare del "bene o dell’interesse" che la norma giuridica tutela e che è pertanto leso dal comportamento umano costituente reato. L’«oggetto giuridico» del reato é il bene o l’interesse protetto dalla norma penale.
Il "danno penale" (o criminale) prodotto dal reato consiste, invece, nell’offesa del bene giuridico tutelato. Tale offesa costituisce il c.d. evento giuridico, che si verifica ogni volta che si commette un reato.
L’oggetto giuridico non va poi confuso con l’«oggetto materiale dell’azione».
L’oggetto giuridico, quindi, è una entità concettuale, un valore alla cui tutela è indirizzata la norma; oggetto materiale dell’azione è invece sempre un qualcosa di concreto, di tangibile su cui incide materialmente la condotta tipica.
L’offesa (cioè l’evento giuridico) arrecata dal reato può assumere due forme: lesione o messa in pericolo, a seconda che sia concretamente leso il bene tutelato oppure sia stato soltanto minacciato.
Pertanto i reati dunque si distinguono in:
La dottrina, analizzando le singole figure criminose, ha elaborato una teoria generale del reato, che individua nella struttura dell’illecito penale una serie di elementi «costitutivi» comuni a tutte le fattispecie criminose.
Nella struttura di ogni reato si distinguono pertanto, due specie di elementi:
Gli elementi «essenziali», sono quelli senza i quali il reato stesso non può esistere, venendo a mancare uno degli elementi costitutivi indispensabili per la configurazione dell’illecito penale.
Gli elementi «accidentali», sono quelli la cui presenza non influisce sulla esistenza del reato, ma solo sulla entità della pena; si identificano nelle circostanze aggravanti ed attenuanti (artt. 61 e 62 c.p.).
L’analisi della struttura del reato ha condotto alla formazione di due diverse concezioni:
Secondo la teoria tradizionale della c.d. bipartizione si possono individuare due elementi costitutivi fondamentali:
La teoria c.d. della tripartizione, invece affianca al fatto materiale e alla colpevolezza un terzo elemento, anch’esso oggettivo, l’antigiuridicità.
Secondo la concezione tripartita questa consiste in una valutazione che compie il Giudice circa il carattere lesivo di un comportamento umano, e più precisamente la contraddizione del fatto con la norma penale ovvero la lesione del bene giuridico tutelato dalla norma penale che è stata violata.
L’antigiuridicità penale consiste, pertanto in un giudizio di relazione: quando definiamo un fatto antigiuridico, non facciamo altro che giudicare quel fatto in relazione alle norme penali, riconoscendo che esso contrasta con tali norme.
Essa manca tutte le volte che la condotta che costituirebbe reato viene posta in essere in presenza di una «causa di giustificazione» (ad esempio: legittima difesa, stato di necessità, uso legittimo delle armi).
Per alcuni autori, l’antigiuridicità non é un elemento specifico e separato dagli altri due elementi del reato (oggettivo e soggettivo), ma una qualificazione del fatto considerato nella sua totalità: é l’essenza stessa del reato.
Per concretare l'elemento oggettivo del reato occorrono una «condotta», e ove richiesto, un «evento» e un «rapporto di causalità».
La «condotta umana», è il comportamento umano che si estrinseca nel mondo esteriore, ed è suscettibile di percezione sensoria (nullum crimen sine actione). Tale definizione dell’azione appare conforme all’esigenza di rispettare il c.d. «principio di materialità», implicitamente accolto dall’art. 25 Cost. laddove parla di «fatto commesso». E’ necessario, infatti, che solo comportamenti materiali risultino passibili di sanzione penale onde impedire che un individuo possa essere colpito da una pena per una mera rappresentazione psichica peraltro non materializzatasi all’esterno (nella realtà fenomenica), almeno in atti idonei in modo non equivoco alla realizzazione di un delitto. Il semplice pensare non può, quindi, costituire reato.
La condotta può essere:
I reati di omissione, per diversità di struttura, si distinguono in:
Sono reati «omissivi propri», quelli per la cui esistenza è necessaria e sufficiente la semplice condotta negativa dell’autore del reato, non essendo richiesto anche un ulteriore effetto di tale condotta.
Sono reati «omissivi impropri», quelli nei quali il soggetto deve aver causato, con la propria omissione, ai fini della sussistenza del reato, un dato evento.
La distinzione tra reati omissivi propri ed impropri rappresenta la traduzione, nel campo dei reati omissivi, della più ampia distinzione tra reati di «pura condotta» e reati «con evento».
Nel reato omissivo proprio il precetto comanda di fare qualche cosa, impone un obbligo di fare; nel reato omissivo improprio, invece, si ha una duplicità di obblighi: quello di non cagionare un evento e quello di non omettere un dato comportamento.
La condotta dell’autore del reato può esaurirsi in un solo istante o proseguire per un certo tempo determinando il protrarsi della situazione dannosa o pericolosa. A seconda dei casi, si parla, pertanto, rispettivamente di reati «istantanei» e «permanenti».
E’ permanente quel reato nel quale l’offesa al bene giuridico si protrae nel tempo per effetti della persistente condotta del soggetto agente.
Per la sussistenza di tale reato, occorrono due "presupposti":
L' «Evento», è l’effetto o il risultato della condotta umana che il diritto prende in considerazione per ricollegare al suo verificarsi conseguenze giuridiche (es. la morte di un uomo per effetto dell’azione altrui).
Dalla molteplicità degli eventi che possono derivare dal comportamento del soggetto agente rilevante è il solo evento tipico, cioè previsto dalla norma penale; questo, quindi, può essere sia un elemento essenziale del reato che elemento aggravante.
Va anche detto che l’evento, di regola, consiste in un accadimento naturale (evento in senso naturalistico); inteso in tal senso, tuttavia, esso non è un elemento che ricorre sempre nel reato.
Vi sono, infatti, i reati c.d. di pura condotta (o formali) che si perfezionano con il semplice compimento dell’azione od omissione previste dalla norma incriminatrice
La determinazione del concetto di evento forma oggetto, nella dogmatica del diritto penale, di una tormentata polemica che vede contrapposte due concezioni:
Secondo la «concezione naturalistica» l’evento è l’effetto naturale della condotta esteriore dell’uomo, che il diritto prende in considerazione in quanto connette al suo verificarsi conseguenze giuridiche.
Dalla concezione naturalistica derivano le seguenti conseguenze:
A parere di coloro che accedono alla «concezione giuridica» (o normativa), invece, l’unico tipo di evento che può avere rilievo nel diritto è quello che consiste nella offesa (lesione o messa in pericolo) di un interesse protetto dal diritto.
Talvolta il verificarsi di un determinato evento non incide sulla sussistenza del reato, ma sulla sua gravità. In tali ipotesi parla di “reati aggravati dall’evento”, nei quali, appunto, si verifica un aumento di pena per il verificarsi di un evento ulteriore, rispetto al fatto che già costituisce reato: evento che viene posto a carico del soggetto agente come semplice conseguenza della sua azione od omissione.
Il «rapporto di causalità» (o nesso causale), consiste nella relazione tra la condotta e la conseguenza che essa produce (evento). L’autore di un fatto costituente reato è punibile solo se la condotta da lui tenuta ha causato l’evento (per cui può dirsi che questo é l’effetto della condotta).
La struttura oggettiva del reato, quindi, si incentra sulla condotta del soggetto agente e sull’evento, ma perché il reato possa dirsi perfetto ed esaurito sotto il profilo obiettivo, occorre necessariamente un “terzo elemento”: un nesso causale fra la condotta posta in essere e la conseguenza cui essa determina.
L’esigenza della presenza di questo terzo elemento è espressa dal legislatore nell’art. 40 c.p. dal quale si ricava che: «nessuno può essere considerato autore del reato, se l’evento dannoso e pericoloso che lo caratterizza, non è in relazione con il suo comportamento».
Tuttavia, di regola, l’uomo con la sua condotta non realizza l’insieme delle condizioni necessarie e sufficienti per il verificarsi dell’evento, ma solo una parte di esse. Di qui l’esigenza di stabilire quando l’uomo, nonostante il concorso di altri fattori, può essere considerato «causa» dell’evento e, quindi, dirsi autore del reato.
Al riguardo né la dottrina né la giurisprudenza offrono criteri di interpretazione certi ed uniformi.
Semplificando al massimo, si può comunque affermare che:
Gli esempi chiariscono allora che, in tema di «rapporto di causalità», ogni militare operante deve anzitutto porsi la domanda: senza l’azione o omissione l’evento si sarebbe verificato egualmente ?
Se la risposta è “Si”, il rapporto di causalità è escluso.
Se la risposta è “No”, il rapporto di causalità sussiste
Le altre cause possono essere possono preesistenti, sopravvenute e contemporanee rispetto alla condotta del soggetto agente. Possono consistere in altre condotte umane (lecite o illecite) o in avvenimenti naturali.
Dagli esempi appena fatti, emerge allora che il nostro diritto penale ha accolto il rigoroso principio della «equivalenza delle cause» o della «conditio sine qua non».
In base ad essa, per rispondere di un reato, infatti, è sufficiente aver posto in essere una «condizione» dell’evento, vale a dire un antecedente qualsiasi senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato.
Per andare esenti da pena, non rileva che a determinare l’evento siano intervenute anche altre condizioni estranee alla condotta del soggetto agente. Tale teoria, in sostanza, considera equivalenti, agli effetti del diritto, tutte le condizioni.
Contro tale teoria si è detto che essa comporta una eccessiva estensione del concetto di causa e arriva a conseguenze assurde.
In base al «principio della equivalenza», tutte le cause concorrenti sono causa dell’evento: senza che si possa distinguere tra quelle che hanno operato in via diretta e prossima e quelle che hanno avuto influenza indiretta e remota.
Il rapporto di casualità non è escluso, quindi, dal fatto che l’evento sia stato determinato, oltre che dalla condotta del soggetto attivo, anche da altre cause esterne all’operato del soggetto (siano esse antecedenti, contemporanee o successive), salvo che si tratti di ulteriori cause sopravvenute, di carattere «eccezionale» e «imprevedibile», che per l’esclusiva forza propria, sono state idonee a cagionare l’evento (art. 41 c.p.).
Hanno carattere eccezionale le cause sopravvenute il cui verificarsi era del tutto imprevedibile (perché rarissimo e anormale) nel momento in cui la condotta fu posta in essere.
In questa ipotesi, il rapporto di causalità è escluso in quanto la condotta del soggetto agente non rappresenta più una causa dell’evento, ma solo la «occasione» che consente alla causa sopravvenuta, eccezionale, di svilupparsi cagionandolo.
L’incendio all’ospedale, il sinistro stradale ed il suicidio all’ospedale rappresentano fatti del tutto imprevedibili ed eccezionali che Tizio non poteva immaginare quando colpì Caio.
Nell’ipotesi in questione il rapporto tra la condotta di Tizio e la morte di Caio fu solo occasionale; quest’ultima dipese infatti da coincidenze dovute al caso e che, al momento della condotta di Tizio, sarebbero apparse inverosimili a chiunque. Ricorrendone le condizioni, Tizio risponderà perciò non di omicidio ma solo del meno grave reato di lesioni.
Per la sussistenza del rapporto di causalità, dunque, sarebbero necessari due «elementi»:
In via di estrema approssimazione può concludersi che la condotta è causa dell’evento quando:
E’ proprio sotto quest’ultimo profilo che deve escludersi, nel quesito proposto la rilevanza causale della condotta del soggetto agente.
Perché un reato sussista non è sufficiente che sia concretamente realizzato il fatto materiale previsto dalla norma (condotta ed eventualmente l’evento, legati fra loro dal rapporto di causalità), occorre anche il verificarsi di un singolo atto deve necessariamente imputarsi alla "volontà" del soggetto agente.
L’art. 42, comma 1 c.p. stabilisce che «Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà” (nesso psichico)».
Per aversi reato, oltre al fatto materiale, occorre un nesso psichico tra il soggetto agente e l’evento lesivo; occorre, cioè, l’«attribuibilità psicologica» del singolo fatto di reato alla volontà del soggetto.
Sussiste tale nesso tutte le volte in cui la coscienza e volontà della condotta è posta in essere volontariamente; inoltre, anche quando, pur sussistendo tale esplicita volontà, con uno sforzo del volere la condotta integrante il reato poteva essere evitata dal soggetto.
In una più ampia accezione è stato sostenuto che, vi é coscienza e volontà quando l’azione od omissione sono sostenute da un «impulso volontario cosciente» (la c.d. suitas)[1] .
Un fatto non può dirsi commesso con coscienza e volontà quando la condotta vietata non può essere concretamente impedita dagli sforzi di volontà dell’agente.
La punibilità non è invece esclusa in tutti quei casi in cui ad evitare il fatto sarebbe bastato uno sforzo di attenzione o l’esercizio dei poteri di controllo presenti in ciascuno di noi.
Pertanto devono attribuirsi alla «suitas» del soggetto agente anche gli atti automatici ed abituali i quali con uno sforzo della volontà potevano essere evitati.
Viceversa gli atti istintivi e quelli riflessi in nessun caso possono essere impediti dall’agente. Questi ultimi debbono considerarsi del tutto fuori della sfera di controllo della volontà dell’agente nei confronti del quale, dunque, è da escludere la responsabilità penale dipendenza di essi.
Il concetto di colpevolezza comprende in sé l’attribuibilità (o imputazione soggettiva) del fatto illecito penalmente sanzionato.
Principio cardine del nostro sistema penale è quindi quello della «colpevolezza». Esso è il presupposto necessario del principio costituzionale della “personalità della responsabilità penale” sancito dall’art. 27 co.1 della Carta Costituzionale, e ribadito, quale fondamento e misura della pena, dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 364/88.
La colpevolezza non è solo un elemento del reato, ma è anche criterio di commisurazione della sanzione penale. Dal grado di colpevolezza del reo (oltre al danno arrecato) dipende, infatti, la sanzione da comminarsi al reo.
L’elemento soggettivo (colpevolezza) può assumere diverse forme a seconda di come, nel caso concreto, si atteggia la «volontà» dell’autore del reato. Esso può avere due “forme” fondamentali:
L'elemento soggettivo del reato può avere anche la forma della «preterintenzione», oltre che quelle, fondamentali suindicate.
[1] La suitas, è l’esistenza di un nesso psichico tra il soggetto agente e il fatto
Il dolo è la forma più grave e più frequente che assume la «volontà colpevole» del soggetto attivo del reato (art. 42 comma 2 c.p.).
Quando agisce con dolo il soggetto agente «prevede» e «vuole» sia la condotta che l’evento dai quali la legge fa dipendere l’esistenza del reato stesso. Il che significa che egli si ribella pienamente e completamente al precetto ossia al comando o al divieto contenuto nella norma penale.
In particolare il delitto è doloso (o secondo l’intenzione) "quando l’evento dannoso o pericoloso che è il risultato dell’azione o omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza di un delitto, è dal soggetto agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (art. 43 c.p.)". Contrariamente a quanto previsto dall’Ordinamento per la colpa e per la preterintenzione (sono punibili solo nei casi espressamente previsti dalla legge), il dolo è l’elemento costitutivo del fatto illecito ed è la forma più grave in cui quest’ultimo può realizzarsi. Il reato è quindi doloso quando il soggetto agente ha piena coscienza e volontà delle proprie azioni (piena consapevolezza dello stesso).
Nella struttura del dolo si individuano, pertanto, due "elementi":
L’esistenza del dolo deve essere accertata o provata dall’accusa (Pubblico Ministero) analizzando tutte le circostanze esterne (materiali e psicologiche) nelle quali il soggetto ha tenuto la condotta. L’autore del reato non può essere condannato a titolo di dolo né quando la prova del dolo manca né quando essa è contraddittoria o insufficiente.
In particolare, si considerano «voluti» tutti i risultati che costituiscono lo scopo (o gli scopi) per cui il soggetto ha operato (dolo diretto), nonché anche tutti quei risultati che sono possibili conseguenze della condotta dell’Agente dal momento che questi (ponendo in essere la condotta criminale) ha accettato implicitamente il rischio che tali risultati si verificassero (dolo indiretto o eventuale).
Nell’esempio fatto in precedenza il diportista era animato da dolo diretto. Egli ha infatti indirizzato la prora dell’unità contro il sub con l’intenzione – realizzata – di ucciderlo.
Il dolo si può distinguere in dolo «diretto» (o intenzionale), che è la più grave forma di dolo e si verifica quando il soggetto agente assume un comportamento corrispondente a quello voluto e rappresentatosi; è invece «indiretto» (o enventuale) quando da parte del soggetto agente vi è la consapevolezza che il proprio comportamento potrebbe sfociare in un fatto illecito (cioè a dire allorché il risultato della condotta, pur rappresentato, non è stato dal soggetto agente intenzionalmente o direttamente voluto).
Peraltro, nell’ambito del dolo "indiretto o eventuale" si distingue:
Nella commissione dei reati ricorrono differenti tipologie di dolo oltre a quello diretto e indiretto:
Il dolo generico (è il cd. dolo tipico e si ha quando l’agente vuole realizzare la condotta tipica incriminata dalla norma, es. omicidio) e specifico (si ha quando alla previsione e alla volontà si aggiunge il perseguimento di un fine ulteriore, es. arricchimento in caso di furto).
Il dolo di danno (il soggetto agente provoca un danno a un bene tutelato giuridicamente) e di pericolo (il soggetto ha l’intenzione di danneggiare o minacciare il bene protetto dalla norma);
Il dolo iniziale (il dolo sussiste solo nel momento iniziale della condotta criminosa), concomitante (il dolo persiste anche durante lo svolgimento della condotta criminosa) e successivo (il dolo si manifesta solo dopo il compimento di una certa condotta non dolosa).
A seconda dell’intensità, del dolo si può distinguere la premeditazione o reato di proposito (si verifica quando il colpevole cura nei minimi particolari i dettagli dell’esecuzione del reato) e il reato da impeto (si verifica quando la decisione di commettere un reato è del tutto improvvisa).
Il dolo é «generico», quando è sufficiente, per la punizione, che l’autore voglia l’evento, senza che abbia alcuna rilevanza il «motivo» per cui compie il fatto.
Da quanto si è esposto emerge che il dolo è generico quando basta che sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice e non occorre indagare sul fine perseguito dal soggetto agente.
Il dolo è «specifico», quando la legge prevede che un fatto possa essere punito solo se è compiuto per un determinato fine o uno scopo particolare (=movente), anche se questo non viene realizzato.
Dal dolo occorre, quindi, tenere nettamente distinto il «movente» del reato, ossia il motivo per cui il soggetto agente compie il fatto criminoso.
Il "dolo" è la volontà dell’autore di un reato di tenere una data condotta e di provocare un dato evento; il "movente", altro non è che la ragione intima o il motivo per cui il soggetto compie il reato, ed è normalmente irrilevante ai fini della sussistenza del reato.
Talvolta il movente può essere considerato elemento essenziale del reato. Ciò accade quando la norma prevede che un certo fatto possa essere punito solo se compiuto per un determinato fine.
In tali casi il movente, chiaramente delineato dal legislatore (si pensi all’espressione: «... al solo scopo di danneggiare la cosa altrui...» nel delitto di danneggiamento seguito da incendio previsto dall’art. 424 c.p.), diviene elemento costitutivo del reato.
Di conseguenza il dolo che sorregge siffatti reati assume, come si è detto, il nome di dolo specifico, perché si arricchisce della particolare suindicata discrezionalità del volere.
Si noti infine, che la nozione di «strage» nell’esempio esposto in precedenza è diversa dalla nozione comune. La strage in senso tecnico non è infatti l’uccisione violenta di un gran numero di persone, ma solo la condotta posta in essere per mettere in pericolo la vita di un numero indeterminato di persone.
Essa sussiste, perciò, anche se la morte delle persone non avviene. Se avviene, il reato è però punito con l’ergastolo anziché con la reclusione: ergastolo se cagiona la morte di una sola persona, reclusione non inferiore ad anni 15 negli altri casi.
Il delitto di strage viene commesso infatti da chi, fuori dei casi previsti dall’art. 285 c.p., al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità.
L’elemento materiale del delitto si concreta nel compimento di atti (violenti) aventi obiettivamente l’idoneità a creare pericolo alla vita ed alla integrità fisica della collettività. Rientrano nell’ampia previsione legislativa le esplosioni, gli spari, le emissioni di gas tossici, ecc.
Nella forma semplice la strage è reato di pericolo, nelle forme aggravate, invece, é reato di danno. Poiché il delitto in esame è il classico delitto di attentato (si consuma, infatti, col semplice compimento degli atti aventi l’idoneità a porre in pericolo la pubblica incolumità e non è richiesto alcun evento ulteriore), esso non ammette il tentativo.
Il dolo del delitto in esame è dolo specifico; non basta, cioè, che il soggetto abbia voluto compiere gli atti diretti a porre in pericolo la pubblica incolumità, ma occorre che tali atti siano stati eseguiti al fine di uccidere, ossia con l’intenzione di attentare alla vita di una o più persone.
► Dolo di danno e di pericolo
Il dolo di «danno» si ha se il soggetto agente ha voluto effettivamente ledere il bene protetto dalla norma
Il dolo di «pericolo» si ha se il soggetto agente ha voluto soltanto minacciare il bene.
► Dolo di impeto
Ricorre quando il delitto è il risultato di una decisione improvvisa e viene subito eseguito, senza nessun intervallo tra il momento conoscitivo e il momento volitivo.
► Dolo di proposito
Si ha allorché trascorre un certo lasso di tempo tra il sorgere dell’idea criminosa e la sua attuazione concreta.
Una specie del dolo di proposito è, secondo la dottrina prevalente, la «premeditazione», prevista come circostanza aggravante dell’omicidio e delle lesioni personali (artt. 577, n. 3 e 585 c.p.).
Perché questa aggravante sussista si richiede che tra la decisione di uccidere e la sua attuazione sia trascorso un apprezzabile periodo di tempo e che il proposito di uccidere sia perdurato nell’animo del soggetto agente durante tutto tale periodo.
La premeditazione consiste, quindi, in un «proposito omicida costante nel tempo». Essa può essere accertata caso per caso e tenendo conto dei molteplici fattori che hanno caratterizzato o preceduto la condotta criminosa.
Generalmente sono «indice» di premeditazione:
► Dolo iniziale, concomitante e successivo
Il dolo «iniziale» è quello che sussiste solo nel momento iniziale dell’azione od omissione.
Il dolo «concomitante» è quello che accompagna lo svolgimento dell’intera condotta.
Il dolo «successivo» è quello che si manifesta dopo il compimento della condotta (non dolosa) idonea a provocare l’evento.
Rispetto al dolo, la colpa è una forma "meno grave" che assume la «volontà colpevole» (art. 43, comma1 c.p.). Essa presuppone, infatti, che nell’autore del reato manchi la volontà di provocare l’evento: volontà che, invece, come si è visto, caratterizza il dolo.
In particolare il delitto è colposo (o contro l’intenzione) quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dal soggetto agente, ma si verifica a causa di negligenza o imperizia o imprudenza (=colpa generica) oppure per inosservanza di regole di condotta (=colpa specifica).
Si ha colpa in tutti i casi in cui il soggetto ha agito con scarsa attenzione o con leggerezza, senza cioè adottare quelle misure e quelle precauzioni che avrebbero impedito il verificarsi dell’evento.
Può dirsi, allora, che per la sussistenza della colpa occorrono "due elementi costitutivi":
L’inosservanza delle regole di condotta può determinare una responsabilità a titolo di colpa solo se è riferibile alla «coscienza e volontà» dell’autore del fatto: vale a dire, come si è sottolineato più volte, solo se essa era prevedibile ed evitabile usando i poteri di controllo e di attenzione di cui ciascun uomo dispone.
Quell’inosservanza non potrebbe invece determinare alcuna responsabilità a titolo di colpa se fosse stata dovuta a fattori cui il soggetto agente non era in grado di resistere o di sottrarsi.
Le regole di condotta (regole cautelari) che, al riguardo, assumono rilievo sono quelle dirette a prevenire il pericolo di eventi dannosi o a limitare i rischi collegati allo svolgimento di alcune attività umane.
Le regole di cui si è detto possono anche essere non scritte, ma dettate solo dalla coscienza sociale. In tal caso, la colpa che dipende dalla loro inosservanza si denomina «colpa generica».
La colpa consiste nella inosservanza di precauzioni doverose. Quando essa si verifica per omissione di cautele, per violazione di regole di prudenza, di attenzione o diligenza, si denomina «colpa generica»
La colpa generica, pertanto, è connessa alla violazione di generiche regole cautelari (non scritte) e si sostanzia quando l’evento si verifica per:
Si ha «imprudenza» quando il soggetto agente tiene una determinata condotta con “avventatezza” e “senza ponderazione”.
Dall'esempio appena fatto, il timoniere della nave risponderà del reato di omicidio colposo (art. 589 c.p.) se si accerta che il sonno fu dovuto a «motivi fisiologici» (come la stanchezza, la precedente ed abbondante consumazione del pasto, ecc.) e, quindi alla “grave imprudenza“ di essersi messo alla condotta dell’unità malgrado le non buone condizioni fisiche.
Il timoniere non risponderà invece del reato suddetto se il sonno fu dovuto a “caso fortuito” e cioè, a «cause patologiche» del tutto improvvise e imprevedibili.
La «imperizia» è rappresentata dalla “incapacità” o “scarsa abilità” o “insufficiente preparazione” a svolgere determinate attività o professioni che esigono particolari cognizioni tecniche.
La «negligenza» è l’atteggiamento psichico di chi “manca di attenzione” nel compimento di una attività, di chi agisce con “trascuratezza” e “senza accortezza”.
La «colpa specifica», consiste invece nella inosservanza di “regole scritte” e precisamente nella inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline, ecc.
Come emerge dalla indicazione fornita, l’origine delle regole scritte è la più varia perché non è solo la legge o il regolamento (ad esempio: le norme del Codice della strada, del Codice della navigazione o del rispettivi Regolamenti di esecuzione) ma può essere un qualsiasi provvedimento amministrativo (ad esempio: un ordine di servizi o di polizia, ecc.) e secondo alcune sentenze, le regole della disciplina sportiva.
Nell’ambito del concetto di colpa si possono ulteriormente distinguere fra:
Nell’ambito del concetto di colpa si possono ulteriormente distinguere una:
La «colpa incosciente» (o senza previsione), ricorre quando il soggetto agente non si rende conto che la sua condotta potrebbe provocare eventi dannosi o pericolosi: quando l’evento non è stato voluto, ma non è stato neppure previsto.
La «colpa cosciente» (o con previsione), ricorre quando il soggetto agente non ha voluto l’evento, ma lo ha previsto come possibile conseguenza della sua condotta ma ha sicura fiducia che esso non si verificherà.
La colpa cosciente è una "forma più grave" di colpa che determina un aggravamento del reato (art. 61, n. 3 c.p.) e che presenta aspetti simili al dolo indiretto (o eventuale).
La colpa cosciente si distingue dal "dolo indiretto", in quanto mentre nel "dolo indiretto il soggetto agisce anche a costo di determinare i risultati che ha previsto come probabili o possibili", nella "colpa cosciente il soggetto prevede i risultati della sua condotta, ma agisce nella certezza o la sicura fiducia di non determinarli"-
L’elemento soggettivo del reato può avere anche la forma della «preterintenzione», oltre che quelle, fondamentali e già esaminate, del dolo e della colpa.
La preterintenzione consiste nel cagionare un evento più grave di quello voluto intenzionalmente dal soggetto agente.
La preterintenzione è un "misto" di dolo e di colpa: di dolo per l’evento minore voluto; di colpa per l’evento più grave verificatosi «oltre l’intenzione» del soggetto agente, come evidenzia il fatto che, per le figure di reato preterintenzionale,
il codice penale prevede una pena (reclusione da 10 a 18 anni) che è più severa di quella della corrispondente ipotesi colposa (reclusione da 6 mesi a 5 anni), ma meno severa di quella della corrispondente ipotesi dolosa (reclusione non inferiore nel minimo a 21 anni).
Il codice prevede un unico caso di preterintenzione, l’omicidio preterintenzionale (art. 584). Esso si verifica in tutti i casi in cui la morte di un uomo è cagionata con atti diretti a commettere il delitto di percosse (art. 581 c.p.) ovvero di lesioni (artt. 582-585 c.p.).
Oltre che nel tipico e noto esempio prima riportato, si è ravvisato l’omicidio preterintenzionale previsto dall’art. 584 c.p. nell’ipotesi in cui la morte di un uomo sia cagionata da una «spinta» del soggetto agente; oppure nell’ipotesi in cui l’atteggiamento minaccioso e aggressivo dell’agente (sempreché tendente a percuotere o ledere) è tale da «terrorizzarlo» a tal punto da cagionarne la morte per arresto cardiaco; oppure ancora, nell’ipotesi in cui il soggetto agente si avventa sull’avversario il quale, mentre indietreggia, cade in un pozzo e muore.
Alcuni Giudici, però, interpretano in modo meno rigoroso la disposizione dell’art. 584 c.p., escludendone l’applicabilità nel caso di morte cagionata con una «spinta» (l’autore di questa non risponderebbe perciò di omicidio preterintenzionale, ma di omicidio colposo, in quanto la spinta in sé non può essere considerato atto diretto a percuotere o cagionare lesioni: i cioè un atto idoneo a determinare il tipo di responsabilità previsto dall’art. 584 c.p.) oppure quando la lesione cagionata dall’autore del fatto è stata molto lieve e la morte si è verificata per le precarie condizioni di salute della vittima.
Un’altra ipotesi di reato preterintenzionale, prevista dall’art. 18, comma 2 della legge 22/571978, n. 194, è l’aborto preterintenzionale, che si verifica quando l’interruzione della gravidanza è provocata da atti diretti a cagionare lesioni alla donna.
Nel delitto preterintenzionale vi è la volontà di un evento minore (percosse o lesioni), che ne rappresenta la base dolosa, e la non volontà di un evento più grave (morte o aborto), che è pur sempre conseguenza della condotta del soggetto agente.
Nel nostro ordinamento penale, vengono assimilati ai reati preterintenzionali:
L’omicidio preterintenzionale è la tipica ipotesi di responsabilità oggettiva prevista dall’Ordinamento penale che espressamente stabilisce che in casi eccezionali (e tassativamente indicati), il soggetto è chiamato a rispondere dei risultati della proprie azioni e ciò anche se di fatto non possono essergli mosse contestazioni in ordine agli stessi, neppure di semplice leggerezza.
Sono cause in presenza delle quali viene meno la colpevolezza (elemento soggettivo) del reato. L'elemento soggettivo manca quando il fatto materiale non può essere attribuito alla «coscienza e volontà» del suo autore. In queste ipotesi l’autore del fatto non può essere punito (art. 42, comma 1 c.p.).
La riferibilità del fatto alla coscienza e volontà del suo autore può essere esclusa quando il fatto è stato commesso per:
Si definisce «forza maggiore» (art. 45 c.p.), la forza esterna alla quale l’autore del fatto non era in grado di resistere: la volontà del soggetto viene sempre annullata giacché lo stesso viene costretto da una forza esterna a se stesso che, per il suo potere superiore, inevitabilmente, lo obbliga (contro la sua volontà) a compiere l’azione incriminata dall’Ordinamento.
Si dice allora che l’agente ha incontrato una «Vis maior cui resisti non potest» (=una forza così irresistibile a cui il soggetto agente non potè opporsi) e che quindi il soggetto «agitur se non agiti» (=non ha agito ma è stato fatto agire).
Si ha invece il «caso fortuito» (art. 45 c.p.) per il verificarsi di un fatto imprevisto ed imprevedibile alla condotta dell’agente o alla sua coscienza e volontà.
Il caso fortuito determina la mancanza di dolo e di colpa allorché si verifica, per effetto del comportamento del soggetto agente, un evento da lui non voluto, né da lui causato per imprudenza o negligenza.
Sia la forza maggiore che il caso fortuito escludono, dunque, l’elemento soggettivo del reato, ma mentre nell’ipotesi di caso fortuito avviene l’inserimento, nella condotta del soggetto agente, di un «fattore imprevedibile» che rende fatale il determinarsi dell’evento; invece, nel caso della forza maggiore, l’evento deriva da un «fatto naturale» alla cui azione il soggetto non può sottrarsi.
Sicché, carattere del caso fortuito è la “imprevedibilità”, mentre nella forza maggiore è la “irresistibilità”.
Si ha «costringimento fisico» (art. 46 c.p.), a seguito di una violenza esercitata da altri e alla quale il soggetto agente non poteva resistere comunque sottrarsi.
E’ la tipica ipotesi di forza maggiore in cui la forza esterna è determinata dalla violenza fisica di un altro soggetto. Il reato quindi non viene commesso da chi agisce materialmente ma da chi ha posto in essere la costrizione.
L’ipotesi vista in precedenza va tenuta distinta da quella del cosiddetto «costringimento psichico» (art. 54, comma 3 c.p.). In questo caso, infatti, nei confronti dell’autore del fatto non viene esercitata una violenza fisica alla quale non è possibile resistere, ma una «minaccia» in grado di generare in lui un vero e proprio stato di necessità e di indurlo a commettere il fatto per salvare sé o gli altri da un pericolo attuale di danno grave alla persona.
Al costringimento psichico conseguono effetti analoghi a quelli del costringimento fisico: del reato risponde, infatti, l’autore della minaccia e cioè colui che ha costretto l’autore «materiale» di questo.
Alla commissione di un reato consegue, quale effetto tipico, la «punibilità» del suo autore: vale a dire l’applicabilità a suo carico, delle sanzioni penali stabilite dalla legge in relazione al fatto criminoso verificatosi.
Tale effetto tipico può peraltro venir meno quando sopravvengono determinate situazioni che, senza cancellare il reato, estinguono però la potestà punitiva (o diritto di punire) dello Stato oppure incidono sulla esecuzione della pena.
Le situazioni di cui si parla sono le cause di estinzione degli effetti del reato e della pena, che il codice distingue in:
Le prime estinguono la punibilità in astratto, cioè escludono l’applicazione della pena all’autore di un reato, antecedente alla sentenza definitiva di condanna e, di conseguenza, limitano la potestà punitiva dello Stato.
Le seconde, invece, estinguono la punibilità in concreto; si caratterizzano perché operano su una pena concretamente inflitta ad un soggetto con sentenza passata in giudicato, senza incidere sul reato (e su i suoi effetti) in alcun modo, e senza intaccare il potere punitivo dello Stato
[1] Come è noto, alcuni reati sono perseguibile ad «azione pubblica»; altri ad «azione privata», ossia solo quando ricorrono determinate condizioni di procedibilità. In assenza di queste, l’azione penale non può essere esercitata e il procedimento penale non può essere neppure iniziato. La remissione di querela è ritenuta, dalla prevalente dottrina, un istituto di diritto processuale, e perciò non viene trattata in questa sede.
Sono previste dal codice penale dagli artt. 150-169 c.p.: estinguono la punibilità in astratto, cioè escludono l’applicazione della pena all’autore di un reato, antecedente alla sentenza definitiva di condanna e, di conseguenza, limitano la potestà punitiva dello Stato.
► La morte del reo prima della condanna
L’art. 150 c.p., stabilisce che «la morte del reo avvenuta prima della condanna estingue il reato». Poiché la responsabilità penale è personale (art. 27 Cost.), la morte di colui al quale il fatto è addebitato estingue tutti gli effetti penali del reato (incluse le pene principali e accessorie); ad essa, sopravvivono, unicamente:
Si tratta di tutte le obbligazioni inerenti al patrimonio del defunto. Agli eredi passeranno esclusivamente gli obblighi civili dipendenti dal reato nonché il carico delle spese giudiziali.
► L’amnistia propria (art. 150)
E’ un atto di clemenza con cui lo Stato rinuncia a punire, in via generale e astratta, determinate categorie di reati[1], commessi entro un termine espressamente fissato.
L’amnistia impedisce che vengano inflitte le pene principali, le pene accessorie e le misure di sicurezza; non estingue gli obblighi civili e non si applica a soggetti ritenuti pericolosi salvo che il decreto non disponga diversamente.
E’ possibile rinunciare all’amnistia, in quanto la legge deve consentire all’imputato, che lo chieda, di dimostrare la propria innocenza.
Il legislatore italiano ha fatto spesso ricorso alla amnistia specie per consentire un facile smaltimento delle pendenze processuali ed evitare il sovraffollamento degli istituti carcerari. Tale prassi legislativa è stata molto criticata sia perché tendente a vanificare gli sforzi di indagine delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria sia perché idonea ad accrescere nel cittadino la convinzione della inefficienza del sistema giudiziario e della impunità di chi delinque.
Proprio per queste ragioni l’amnistia può essere concessa solo con una legge deliberata da ciascuna delle Camere con una maggioranza particolarmente qualificata (2/3 dei componenti di ciascuna Assemblea) addirittura superiore a quella fissata per l’approvazione delle leggi costituzionali.
[1] L’ultima amnistia è stata concessa con D.P.R. 12 Aprile 1990, n. 75 e ha riguardato, in via generale, i reati (non finanziari) commessi a tutto il 24 Ottobre 1989, per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore a 4 anni.
Sono previste dal codice penale dagli artt. 150-169: estinguono la punibilità in astratto, cioè escludono l’applicazione della pena all’autore di un reato, antecedente alla sentenza definitiva di condanna e, di conseguenza, limitano la potestà punitiva dello Stato.
► La prescrizione (art. 157-171)
Consiste nella rinuncia dello Stato a far valere la sua pretesa punitiva, in considerazione del lasso di tempo trascorso dalla commissione di un reato, venendo meno l’esigenza di prevenzione generale (intimidazione) che giustifica la repressione dei reati e l’irrogazione di una pena per un fatto commesso molto tempo prima e caduto nel dimenticatoio.
Tale esigenza permane solo per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo: tali delitti sono imprescrittibili.
Per gli altri reati vigono i termini di prescrizione fissati dall’art. 157 c.p. e che sono collegati alla gravità del reato. Si va da un minimo di 2 anni (per le contravvenzioni punite con la sola ammenda) ad un massimo di 20 anni (per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena....
Per determinare il tempo necessario alla prescrizione si ha riguardo al massimo della pena stabilita per il reato, consumato o tentato, con l’aumento massimo stabilito per le eventuali aggravanti, e la diminuzione minima per le eventuali attenuanti (art. 152, comma 2).
Trascorsi i tempi previsti dall’art. 157 c.p. senza che sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna, il reato deve essere dichiarato estinto per prescrizione.
► L'oblazione nelle contravvenzioni (art. 162-162 bis c.p.)
Consiste nel pagamento, a domanda dell’interessato, di una somma in denaro (che ha l’effetto di degradare il reato in illecito amministrativo e, quindi, di estinguerlo) prima dell’apertura del dibattimento o prima del decreto di condanna. Si distingue in «oblazione automatica» e «oblazione discrezionale».
Nelle contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda (art. 162 c.p.), l’oblazione ha luogo a richiesta dell’interessato (il quale ha un vero e proprio diritto ad esservi ammesso), e consiste nel pagamento di una somma in denaro corrispondente alla terza parte del massimo della pena edittale.
Nelle contravvenzioni punite con pene alternative (art. 162 bis) è invece facoltà del Giudice ammettervi o meno l’imputato che ne abbia fatto domanda: il Giudice, infatti, può sempre respingere con ordinanza la domanda quando ritenga il fatto «grave». L’oblazione, se l’imputato vi è ammesso, ha luogo mediante il pagamento di una somma di denaro corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilità dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento.
La metà del massimo dell’ammenda deve essere depositata insieme alla domanda di oblazione. L’interessato può riproporla fino all’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado.
Sono previste dal codice penale dagli artt. 150-169: estinguono la punibilità in astratto, cioè escludono l’applicazione della pena all’autore di un reato, antecedente alla sentenza definitiva di condanna e, di conseguenza, limitano la potestà punitiva dello Stato.
► Il perdono giudiziale (art. 169 c.p.)
Consiste nella rinuncia dello Stato a condannare il colpevole di un reato in considerazione della sua età e per consentirgli un più facile recupero sociale.
Al fine della concessione del beneficio occorre che:
Il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta ed è rimesso al prudente apprezzamento del Giudice, il quale perdona il minore quando presume che si asterrà dal commettere ulteriori reati.
► La sospensione condizionale della pena (art. 163-168 c.p.)
Questo istituto opera quando l’Autorità Giudiziaria, inflitta una certa pena, ne sospende l’esecuzione a condizione che, entro un certo periodo di tempo (periodo di prova), il condannato non commetta un nuovo reato: se ciò si verifica, egli sconterà insieme la vecchia e la nuova pena.
La ratio dell’istituto è duplice:
La sospensione condizionale della pena è ordinata per 5 anni per i delitti, 2 anni per le contravvenzioni (termine che decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che concede il beneficio): se, nei termini indicati (periodo di prova) il condannato non commette un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole, e adempie gli obblighi impostigli, il reato è estinto e non ha luogo l’esecuzione delle pene (art. 167 c.p.). L’effetto sospensivo si estende alle pene principali ed a quelle accessorie. Non si estende invece alle obbligazioni civili derivanti dal reato.
Trattandosi di sospensione condizionale, l’effetto sospensivo della esecuzione della pena cessa e la sospensione viene sottoposta a revoca se, nei termini fissati (5 anni per i delitti e 2 per le contravvenzioni), il condannato subisce altra condanna.
La remissione è la "dichiarazione" (scritta o orale) con la quale la persona offesa dal reato (= querelante) o chi la rappresenta propone la revoca della querela precedentemente proposta.
Per essere efficace (e produrre la estinzione del reato), la remissione deve essere "accettata" dal querelato. Poiché la persona querelata (= autore del reato) ha interesse, se innocente, a dimostrare, attraverso il processo, la sua completa estraneità al fatto-reato che le è stato addebitato nella querela, la remissione di questa non produce effetto se il querelato la ha tacitamente od espressamente ricusata: vale a dire se alla remissione non è seguita la sua accettazione.
Le spese del procedimento sono a carico al querelato, salvo che nell’atto di remissione sia stato diversamente convenuto (art. 13 Legge 25.6.1999, n. 205)
Anche per la querela non è richiesta l’adozione di alcuna formula sacramentale purché in essa risulti con sufficienza chiarezza la volontà del querelante.
Estinguono la punibilità in concreto; si caratterizzano perché operano su una pena concretamente inflitta ad un soggetto con sentenza passata in giudicato, senza incidere sul reato (e su i suoi effetti) in alcun modo, e senza intaccare il potere punitivo dello Stato.
► La morte del reo dopo la condanna
L’art. 171 c.p. stabilisce che: “la morte del reo, avvenuta dopo la condanna, estingue il reato”.
Per gli effetti della morte sulle conseguenze penali e civili del reato si richiama quanto già rilevato all’art. 150 c.p.
► L’amnistia impropria (art. 171 c.p.)
Interviene dopo una sentenza irrevocabile di condanna. Fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie, ma lascia sussistere quegli effetti penali che non rientrano tra le pene accessorie (recidiva, abitualità, professionalità).
► L’indulto (o condono)
E’ un atto di clemenza generale indirizzato cioè alla generalità dei condannati e non al singolo condannato come le grazia.
L’indulto non opera sul reato, ma esclusivamente sulla pena principale che viene in tutto o in parte condonata o commutata in altra specie di pena dello stesso genere (art. 174 c.p.).
Estingue la pena ma non le pene accessorie a meno di diversa previsione di legge. Non estingue gli effetti penali della condanna. Non presuppone una condanna irrevocabile; la sua efficacia è circoscritta ai reati commessi fino al giorno precedente all’emanazione del decreto, salvo che il decreto stabilisca una diversa data (com’è più frequente nella pratica). Nel concorso di più reati l’indulto si applica una sola volta, dopo cumulate le pene.
► La grazia (art. 174 c.p.)
E’ un atto di clemenza particolare (cioè individuale e non generale come l’indulto) che presuppone una sentenza irrevocabile di condanna. La concessione dell’indulto è rimessa (art. 87 Cost.) al potere discrezionale del Presidente della Repubblica.
La grazia opera solo sulla pena principale, condonandola in tutto o in parte.
► La prescrizione della pena (ovvero estinzione delle pene per decorso del tempo)
Estingue la punibilità in concreto; può aver luogo solo dopo una sentenza o decreto irrevocabile di condanna non eseguiti. Ha per oggetto le pene principali, mentre è sempre esclusa per l’ergastolo.
Sono esclusi dal beneficio i recidivi reiterati, i delinquenti abituali, professionali e per tendenza.
► La liberazione condizionale
Rientra tra le misure alternative alla detenzione e rappresenta un premio concesso al condannato che durante il periodo di detenzione abbia dato prova costante di buona condotta. (art. 176 c.p.).
La liberazione condizionale sospende l’esecuzione della parte di pena che rimane da scontare.
► La riabilitazione
Ha la finalità di sottrarre il condannato, che si sia ravveduto, a quegli effetti penali che ne potrebbero pregiudicare il normale reinserimento nella società (artt. 178-181 c.p.).
La riabilitazione estingue le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna ed è concessa quando il condannato::
E’ prevista la possibilità di una revoca della riabilitazione (art. 180 c.p.).
► La non menzione della condanna nel certificato del Casellario Giudiziale
Consiste nella possibilità di non fare menzione della condanna (se detentiva, non superiore a 2 anni; se pecuniaria non superiore a € 516) nel certificato del Casellario Giudiziale spedito a richiesta di privati (art. 689 c.p.).
La non menzione della condanna è rimessa all’apprezzamento discrezionale del Giudice, che la concederà avuto riguardo alle circostanze indicate all’art. 133 c.p.
Il beneficio non può essere concesso se alla condanna conseguono pene accessorie e se il condannato ha già subito altre condanne in precedenza.
L’ordine della non menzione della condanna è revocato se il condannato commette successivamente un delitto.
La non menzione può essere considerata una causa di estinzione della pena in senso improprio.
Essa impedisce, piuttosto, un particolare effetto della condanna: quello della sua “pubblicizzazione”. In quest’ottica, la non menzione esercita l’effetto analogo a quello della riabilitazione in quanto elimina eventuali ostacoli alla risocializzazione del condannato il quale potrebbe vedersi compromesso il reinserimento nel mondo del lavoro e nella società in genere se costretto ad essere perennemente inseguito dai suoi “precedenti”.
Le «cause di giustificazione» del reato o di leicità o di esclusione della responsabilità penale (=scriminanti) sono tassativamente individuate dalla legge ed escludono l’antigiuridicità di una condotta che, in loro assenza sarebbe penalmente rilevante e sanzionabile. Sono situazioni normativamente previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico.
In presenza di tali circostanze, infatti, una condotta (altrimenti dalla legge punibile), diviene lecita e ciò in quanto una norma, desumibile dall’intero ordinamento giuridico, la ammette e/o la impone.
Le cause di giustificazione sono desumibili dall’intero Ordinamento giuridico e, pertanto, la loro efficacia non è limitata al solo diritto penale ma si estende a tutti i rami del diritto (civile e amministrativo).
Al realizzarsi di una scriminante, il bene giuridico che la norma penale intende preservare, non è più tutelato poiché in concreto vi sono altri interessi di superiore o pari livello che vengono conseguiti attraverso la condotta tenuta.
Le cause di giustificazione trovano la loro applicazione nell’intero ordinamento giuridico (non solo quindi nell’ambito della legge penale), il che comporta l’inapplicabilità anche delle sanzioni civili o amministrative, altrimenti applicabili al fatto criminoso.
Uno dei problemi più avvertiti da chi svolge attività di polizia giudiziaria è quello relativo alla individuazione delle proprie responsabilità penali in caso di interventi che comportino danni (o pericolo di danni) a cose o persone.
E’ altrettanto vero, però, che egli non ha compiuto un fatto socialmente dannoso, ma ha agito, anzi, nell’interesse della società. Più precisamente nell’adempimento di un dovere impostogli dall’art. 352 c.p. e ancor prima dall’art. 55 c.p.p. che gli prescrive di impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, ricercare gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova.
La condotta del soggetto agente è perciò lecita perché compiuta in presenza di una «causa di giustificazione» (adempimento di un dovere, art. 51 c.p.) espressamente stabilita.
E’ anzi da dire che, se l’agente si fosse comportato diversamente pur trovandosi di fronte ad una situazione che gli imponeva una perquisizione, egli poteva esser chiamato a rispondere, fra l’altro e quantomeno, del reato di cui all’art. 328 c.p., “rifiuto di atti d’ufficio (omissione)”.
Va detto allora che, in casi come quelli descritti, l’operato apparentemente illecito, della polizia giudiziaria è scusato (o giustificato) ed impedisce che il reato si perfezioni e possa essere addebitato a colui che ha compiuto il fatto.
Chi agisce nell’esercizio di un suo diritto, resta immune da colpa anche se commette reato. La norma prevede poi che “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”.
Secondo la norma quindi non commette reato neanche chi pone in essere una condotta (considerata criminosa dal codice penale), in adempimento di un suo preciso dovere. Secondo tale disposizione quindi, l’agente non commette reato quando non ha alcuna facoltà di scelta e deve porre in essere la condotta “criminosa” in adempimento di un preciso obbligo impartitogli. Del fatto risponderà eventualmente il superiore gerarchico. La norma tende a far prevalere la tutela dell’interesse di chi agisce esercitando un diritto/dovere rispetto alla tutela degli interessi eventualmente configgenti.
Pertanto, nella ipotesi in esame i fatti eventualmente commessi nell’adempimento di un dovere non sono punibili quando il dovere è imposto da una «norma giuridica» o da «un ordine legittimo» (art. 51 c.p.).
► Il dovere può derivare:
Per il primo tipo di legittimità devono esistere i presupposti richiesti dalla legge, pertanto, non si deve dare esecuzione ad un ordine manifestamente criminoso.
► Per la legittimità formale dell’ordine è invece richiesto che:
Se l’ordinanza contiene i suddetti requisiti, l’U.P.G. andrà comunque esente da pena anche se nell’eseguire l’ordinanza stessa ha commesso fatti che, in astratto, potrebbero costituire reato (come il «sequestro» delle persone nei cui confronti la misura è stata applicata; la «violazione del domicilio» per procedere alla sua cattura; la «violenza privata» per ammanettarla.
L’adempimento di un dovere derivante da un ordine legittimo della Pubblica Autorità presuppone un rapporto di subordinazione nascente dal diritto ed un conseguente dovere di obbedienza.
Dalla dizione della legge appare chiaro che la scriminante in tal caso è ammessa solo se l’ordine è legittimo. Il che implica l’esercizio di una facoltà di sindacato sia pure limitata alla legalità esteriore dell’ordine ricevuto e cioè alla forma, alla competenza dell’autorità da cui promana e alla attinenza o meno alle funzioni del subordinato. Questi, infatti, ha, di regola, tale facoltà e, se non l’esercita, agisce a suo rischio e pericolo, come si ricava dal primo e secondo capoverso dell’art. 51 c.p. dove è stabilito che se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde non solo il che ha dato l’ordine ma anche chi lo ha eseguito, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.
In via generale, il subordinato può andare esente da pena solo se ha esercitato il potere e il dovere di controllare la legittimità dell’ordine impartitogli.
Quando l’ordine è illegittimo e, malgrado ciò, viene eseguito, del reato commesso rispondono sia chi ha impartito l’ordine sia chi vi ha dato attuazione.
La scriminante tuttavia è ammessa oltre che nel caso dell’errore di fatto di cui si è detto, anche nel caso del subordinato al quale la legge non consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine come accade per i militari e gli appartenenti alle forze di polizia che sono tenuti per legge a una obbedienza particolarmente pronta e rigorosa, ai sensi del dell’ultimo capoverso dell’art. 51 c.p.
In questi casi il subordinato non può sindacare la legittimità dell’ordine e, pertanto, non è punibile per il reato eventualmente commesso in esecuzione dell’ordine medesimo.
Il subordinato, cioè, può invocare a propria scusa il fatto di avere agito nell’adempimento di un dovere e del reato risponderà solo chi ha impartito l’ordine (salvo che si tratti di un ordine palesemente delittuoso - art. 4 Legge 11/7/1979, n. 382 (sulla disciplina militare) ... «il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e informare al più presto il superiore», e art 66 Legge 1/4/1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza)... «l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza al quale viene impartito un ordine la cui esecuzione costituisce manifestamente reato, non lo esegue e informa immediatamente i superiori».
Questa scriminante rappresenta un residuo di «autotutela» che l’Ordinamento riconosce al cittadino nei soli in casi in cui l’intervento dell’Autorità non può risultare tempestivo. Affinché la condotta non venga punita occorre che vi sia un «pericolo attuale» (per sé stessi o anche per altri) derivante da un’aggressione ingiusta posta in essere da un terzo e che non vi siano altri modi per evitarla, sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa.
In questi casi l’Ordinamento riconosce al soggetto che ha agito una forma di tutela autorizzandolo a reagire nei confronti dell’aggressione con un’azione che normalmente è considerata reato dal Codice Penale. L’azione deve quindi essere necessaria e proporzionata all’offesa. L’Ordinamento precisa che per aggressione si intende qualsiasi offesa di un diritto (personale e/o patrimoniale), ingiusta (contraria al diritto) che si concretizzi in un pericolo attuale. La reazione deve poi essere necessaria (non deve essere possibile un’altra forma alternativa di reazione che sia meno dannosa per l’aggressore) e proporzionata all’offesa (secondo la dottrina più recente la proporzione deve sussistere tra il male minacciato e quello che verrebbe inflitto).
Nei casi previsti dall’art. 614[1], 1° e 2° comma c.p., sussiste il rapporto di proporzione di cui all’art. 52, 1° comma c.p. se taluno legittimamente presente su in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo di coazione, idoneo al fine di difendere:
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale[2].
Purché vi sia un pericolo attuale per il proprio, ovvero per l’altrui diritto (c.d. soccorso difensivo), il soggetto può agire nei confronti dell’aggressore, con un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che tale reazione sia assolutamente necessaria per salvare il diritto minacciato e sia proporzionale all’offesa.
Perché l’esimente della legittima difesa sia ammissibile occorrono perciò due presupposti essenziali, e cioè:
[1] Art. 614 c.p. (Violazione di domicilio) – Chiunque si introduce nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero si introduce clandestinamente o con inganno, è punito con la reclusione fino a 3 (tre) anni. Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro la espressa volontà di chi ha diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. Il reato è punibile a querela della persona offesa […]
[2] Questo comma è stato aggiunto dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59.
Perché l’esimente della legittima difesa sia ammissibile occorrono perciò "due presupposti" essenziali, e cioè:
L’art. 52 c.p. indica in quali casi l’aggressione può definirsi "ingiusta" e la reazione "legittima".
► Perché l’aggressione possa definirsi "ingiusta" è necessario che:
► Requisiti della "reazione" perché ricorra tale scriminante, sono:
La reazione è certamente proporzionata e perciò legittima quando il male provocato all’aggressore è inferiore o appena superiore a quello subito.
La proporzione deve sussistere fra il male minacciato e quello inflitto nonché fra i mezzi a disposizione e quelli da lui usati.
In via di approssimazione, può dirsi che:
E’ difficile stabilire in astratto se dall’esempio appena fatto sia o meno applicabile la causa di giustificazione della legittima difesa.
C’è da chiedersi: ma il bene della ”incolumità” del Comandante di motovedetta della Guardia Costiera doveva davvero soccombere rispetto al diritto alla “vita” dello scafista ?
A voi la risposta !!
[1] E’ un primo elemento che distingue tale scriminante dallo «stato di necessità» che richiede un danno esclusivamente di natura personale.
Tale scriminante ha natura sussidiaria e si applica solo quando non può trovare applicazione la legittima difesa e l’adempimento di un dovere. Per poter beneficiare della scriminante occorre essere un «Pubblico Ufficiale».
Il Pubblico Ufficiale appartenente alla forza pubblica, è autorizzato a far uso delle armi e degli altri mezzi di coazione fisica (sfollagente, cani, idranti, gas lacrimogeni) quando (art. 53 c.p. e art. 14 Legge 22/5/75, n. 152):
L’art. 53 c.p., consente infatti l’impiego della forza fisica solo in presenza di alcuni reati ovvero di violenza o resistenza. Il mezzo deve essere, cioè, sempre necessario e proporzionato.
Quella prevista dall’art. 53 c.p. è una causa di giustificazione «propria», nel senso che la possono invocare solo i soggetti da essa stessa indicati.
In primo luogo possono invocarla solo i Pubblici Ufficiali, e neppure tutti: poiché, infatti, come vedremo, la scriminante opera solo quando il Pubblico Ufficiale fa uso delle armi per adempiere ad un dovere del suo ufficio, in pratica possono invocarla solo quei pubblici Ufficiali che, per motivi di ufficio, possono portare armi senza licenza. E cioè i soggetti indicati nell’art. 73 del Regolamento al T.U.L.P.S. (R.D. 6 maggio 1940, n. 635)[1]
Oltre al Pubblico Ufficiale che può portare armi senza licenza, l’uso legittimo delle armi è applicabile anche a tutti i soggetti che, su legale richiesta del Pubblico Ufficiale, gli prestino assistenza: la richiesta del Pubblico Ufficiale al privato è legale quando è stata fatta nei limiti e nei casi previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p.
Il legislatore ha, dunque, sancito una «riserva di competenza» a favore del circa le situazioni in cui è legittimo il ricorso all’uso delle armi o da altro mezzo di coazione fisica. In ogni caso la richiesta deve essere formulata espressamente dal Pubblico Ufficiale e deve avvenire prima dell’uso delle armi. Non scrimina, dunque, l’eventuale consenso prestato «a posteriori».
La causa di giustificazione opera sia nel caso in cui il Pubblico Ufficiale abbia personalmente fatto uso delle armi, che nel caso in cui egli abbia ordinato ad altri a far uso delle armi; tuttavia, mentre il Pubblico Ufficiale che fa direttamente uso o ordina di far uso delle armi è scriminato in base all’art. 53 c.p., chi ne fa uso per ordine del superiore è scriminato in base all’adempimento del dovere se ed in quanto ne sussistono i presupposti.
Condizioni di applicabilità (necessità e resistenza):
La prima condizione richiesta per la sussistenza dell’uso legittimo delle armi è che il soggetto sia determinato dal fine di adempiere un dovere del suo ufficio: l’uso legittimo delle armi deve essere diretto ad eliminare un ostacolo che si è frapposto tra lui e il dovere da adempiere[2].
Inoltre il soggetto deve essere costretto a far uso delle armi dalla «necessità»: con l’espresso richiamo alla necessità il legislatore ha voluto chiarire che, in ogni caso, l’uso delle armi costituisce l’extrema ratio, cui si può fare ricorso soltanto quando il fine non può raggiungersi in altro modo, salvaguardando sempre l’integrità fisica degli individui (ad esempio, ricorrendo all’uso di idranti, lacrimogeni, ecc.).
► L’uso delle armi viene ritenuto necessario nei casi in cui occorre:
Vi è «violenza» da respingere, quando nei confronti del Pubblico Ufficiale viene impiegata una forza fisica o morale diretta a costringerlo a compiere un atto contrario ai suoi doveri di ufficio o ad omettere il compimento di un atto di ufficio. Non è richiesto che essa configuri il reato previsto dall’art. 336 c.p. (violenza o minaccia a ), essendo sufficiente una qualsiasi violenza, anche fine a se stessa purché si concretizzi in un atteggiamento minaccioso in atto.
Vi è, invece, «resistenza» da vincere, quando da parte di terzi, viene tenuto un atteggiamento diretto ad impedire od ostacolare il Pubblico Ufficiale mentre compie un atto del suo ufficio
Si discute se nell’ambito della "resistenza" rientri oltre quella «attiva» (che si concreta nell’effettiva opposizione di una forza illegittima) anche quella «passiva» quale l’inerzia o la fuga per impedire al Pubblico Ufficiale di adempiere un dovere di ufficio.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente la «fuga» costituisce una ipotesi tipica di «resistenza passiva», per cui, in linea generale, si elude il ricorso all’uso delle armi. In tale caso infatti manca un rapporto di proporzione fra l’uso delle armi e il carattere non violento della resistenza opposta.
La giurisprudenza infatti sostiene che l’uso delle armi contro chi si sottrae con la fuga ad una intimidazione o all’arresto non è legittimo, salvo le eccezioni previste da specifiche disposizioni di legge quali quelle in materia di contrabbando, passaggio abusivo delle frontiere, custodia dei detenuti.
L’art. 53 c.p. prende poi in considerazione anche un’altra ipotesi di uso legittimo delle armi. Essa si verifica per impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona (secondo parte della dottrina tale ipotesi ha dato addirittura alla forza pubblica la «licenza di uccidere»).
L’ipotesi è stata introdotta con l’art. 14 della Legge 22 maggio 1975, n. 152 (Legge Reale). Di uso legittimo può parlarsi solo quando tali reati hanno raggiunto la soglia del tentativo e non si è ancora consolidata la lesione degli interessi da essi offesi.
L’ultimo comma dell’art. 52 c.p. richiama gli altri casi in cui la legge consente l’uso delle armi.
[1] I Pubblici Ufficiali appartenenti alla Forza Pubblica: polizia giudiziaria, pubblica sicurezza nonché militari in servizio di pubblica sicurezza.
[2] Vengono esclusi dalla previsione di legge non solo quei casi in cui il soggetto abbia di mira un fine privato (ad esempio, uno scopo di vendetta), ma anche i casi in cui il soggetto abbia per fine l’adempimento di una facoltà e non di un dovere del proprio ufficio.
L’ultimo comma dell’art. 52 c.p. richiama gli altri casi in cui la legge consente l’uso delle armi.
In tali casi, naturalmente, l’uso delle armi è legittimo quando ricorrono le condizioni indicate nelle stesse norme che lo prevedono, senza che siano richieste anche le condizioni di cui all’art. 53 c.p.. In particolare, in materia di contrabbando, passaggio abusivo di frontiere e custodia di detenuti, l’uso delle armi è legittimo anche chi si sottrae con la fuga ad un’intimazione di fermarsi o all’arresto (Cass. 4 febbraio 1982, n. 3722).
Si rileva come il personale del Corpo delle Capitanerie di Porto rientra fra le categorie previste dal D.M. 24.03.94, n° 371, che è esentato – in ragione del rischio professionale cui è esposto - dal pagamento della tassa di concessione governativa per porto d’armi, di cui all’art. 42 del T.U.L.P.S.
Il T.U.L.P.S. e le successive disposizioni in materia di armi contemplano alcune ipotesi di esenzione dall’obbligo di denuncia che normalmente grava a carico di chiunque – a qualsiasi titolo – detenga delle armi.
Al riguardo le unità mercantili rientrano fra le “altre istituzioni” che – a norma dell’art.10 della Legge n. 110/75 – sono esentate dall’obbligo di denuncia delle armi di bordo (ivi comprese le pistole Very).
Tale facoltà si evince dal disposto dell’art. 170 comma 6° Cod. nav. laddove riporta che il "Ruolo Equipaggio" (Parte B) deve contenere la descrizione delle armi e munizioni in dotazione alla nave (vedasi altresì Circolare n° 3102710 del 07.09.77 di Maricogecap).
Pertanto tale descrizione dovrebbe essere parimenti riportata nel "Registro Copia Ruoli", ove lo stesso riporta le annotazioni contenute nel Ruolo Equipaggio.
Per quanto concerne invece l’acquisto delle armi medesime, occorre comunque il Nulla-Osta del Questore ai sensi dell’art. 35 T.U.L.P.S.
In ogni caso l’Autorità di P.S. può disporre al riguardo verifiche e controlli nonché le misure cautelari ritenute necessarie a tutela dell’ordine pubblico (art. 38 T.U.L.P.S.).
La detenzione e l’uso in navigazione di pistole lanciarazzi very, i razzi di segnalazione ed altri artifizi usati a bordo per soccorso ed agli stessi assimilabili sono invece disciplinati dall’art. 2 della Legge 18.04.75, n° 110; mentre la vendita degli stessi è sottoposta alle disposizioni di cui all’art. 5 della Legge 08.08.77, n° 533, che pone in carico al Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti i criteri per l’abilitazione alla vendita dei suddetti artifizi in ambito portuale.
Quanto sopra oltre alle eventuali norme e disposizioni portuali locali in materia di security.
Per quanto concerne gli "spettacoli pirotecnici" effettuati nell’ambito del demanio pubblico marittimo o all’interno dei bacini portuali, i soggetti che esplicano tale attività devono possedere,rispettivamente:
In presenza di un pericolo attuale di un grave danno alla persona, il soggetto interessato può compiere, in danno di un terzo, un fatto previsto dalla legge come reato.
Ai fini della esclusione del reato, occorre che tale comportamento sia necessario per salvarsi, che sia proporzionato al pericolo e che non sia stato posto in essere e/o provocato dal soggetto agente.
Si differenzia dalla legittima difesa per il bene tutelato (solo diritti personali) e per il fatto che il danno non viene provocato all’aggressore ma a un soggetto terzo incolpevole.
L’articolo 2045 c.c. “stato di necessità” stabilisce che “quando chi ha compiuto un fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice”. Il primo comma prevede anche la fattispecie del cd. soccorso di necessità che ricorre quando l’azione lesiva di un interesse protetto proviene non dal soggetto minacciato ma da un terzo soccorritore.
La scriminante consente, quindi, a chi si trova in una situazione di grave pericolo di uscirne, anche e addirittura, commettendo reati a scapito di terzi innocenti (e non aggressori).
Ricorrendo il pericolo attuale di un danno grave alla persona (il bene della vita o della incolumità personale) e purché la situazione di pericolo non sia stata causata dallo stesso soggetto (con dolo o colpa), il soggetto può compiere in danno di un terzo un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che questa sia assolutamente necessaria per salvarsi e sia proporzionata al pericolo, e sempre che il soggetto non abbia un particolare dovere di esporsi al pericolo stesso (art. 54 c.p.).
► Perché ricorra lo stato di necessità occorre, dunque:
Come nella legittima difesa anche nell’ipotesi dell’art. 54 c.p. l’azione necessitata può essere determinata dall’esigenza di preservare oltre che un diritto dell’agente un diritto di un terzo.
L’art. 54, 3° comma estende l’ambito della scriminante anche all’ipotesi del costringimento psichico che si ha allorché un soggetto commette un reato perché indotto dalla altrui minaccia.
► Tale scriminante si differenzia, però, dalla legittima difesa perché:
L’ultimo comma dell’art. 54 statuisce che, se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
Tutte le cause di giustificazione hanno perciò limiti di ammissibilità, eccedendo i quali il reato torna a sussistere.
La considerazione introduce ad un tema più generale che è quello del rapporto fra i diritti e i doveri spettanti e incombenti su chiunque svolge funzioni o servizi pubblici.
Lo svolgimento di tali funzioni e servizi dà luogo ad un complesso di «diritti privilegiati», ma, nel contempo, di «obblighi più stringenti».
Ma è proprio per questo motivo che, all’inverso, il codice punisce più gravemente alcuni fatti se commessi dal anziché dal privato oppure prevede come reati condotte che non sono tali se tenute dal semplice cittadino.
[1] Si parla di «indennizzo» e non di «risarcimento», in quanto l’azione compiuta in stato di necessità è un’azione lecita. L’obbligo di risarcimento, invece, si ricollega al compimento di atti illeciti.
Le «cause di giustificazione» (o esimenti) vanno distinte dalle «cause di esclusione della colpevolezza» (o scusanti) e dalle «cause di non punibilità» in senso stretto.
Il reato può presentarsi in "forme diverse". La più semplice è (e, si potrebbe dire, prototipica) costituita dalla consumazione da parte di un singolo autore: in questo caso il soggetto realizza da solo e compiutamente la fattispecie incriminatrice (ad esempio, cagiona la morte di un uomo), in assenza di cause dei giustificazione e con la colpevolezza necessaria a fondare la responsabilità. Il reato può tuttavia manifestarsi in forme diverse che attengono:
In riferimento a queste forme di manifestazione si distingue perciò il reato:
Il Codice penale utilizza con frequenza l'espressione «circostanza» riferendola indiscriminatamente alle circostanze aggravanti o attenuanti ed alle circostanze di esclusione della pena (art. 59 comma 1 c.p.).
In senso tecnico, il termine «circostanza» è riservato invece alle sole "circostanze aggravanti o attenuanti", che possono essere definite come gli elementi accidentali o accessori del reato, i quali, senza influire sulla sua esistenza giuridica, modificano l'entità della pena, in termini quantitativi ovvero anche qualitativi (comportando, cioè, il passaggio da una specie di pena ad un'altra: ad esempio, art. 703 commi 1 e 2 c.p.).
Le circostanze in quanto "elementi accessori" del reato, a differenza degli elementi essenziali (oggettivo e soggettivo), non sono indispensabili per l'esistenza del reato (che di per sè, nella sua struttura, è perfetto), ma si limitano ad incidere sulla sua gravità. La loro presenza trasforma il reato da «semplice» in «circostanziato», determinando una modificazione della pena, generandone un aggravamento e/o una riduzione.
Tali circostanze hanno la funzione di ridurre il divario tra l’astrattezza della norma di reato e la varietà delle situazioni in cui la condotta incriminata viene posta in essere.
La loro principale funzione è quella di “adeguare la pena al caso concreto“ attribuendo rilevanza a fattori e situazioni, diversi dagli elementi essenziali, la cui presenza accresce o diminuisce il disvalore sociale del fatto e giustifica quindi un aggravamento o una attenuazione della sanzione prevista per il reato semplice (non circostanziato).
Per adeguare la sanzione penale all’effettiva gravità del fatto, interviene allora la previsione delle circostanze: che saranno «attenuanti», nel caso in cui il furto è stato commesso per finalità umanitarie o quando trattasi del furto di una mela (rispettivamente quelle degli artt. 62 nn.1 e 4 c.p.) e, «aggravanti», allorché il furto è stato commesso per acquisire l’arma o per il furto nel caveau.
Da qui una prima distinzione delle circostanze a seconda che importino un aumento o una diminuzione (di regola fino a un terzo) della pena prevista per il reato:
Oltre che in aggravanti e attenuanti (che, cioè, come si è detto, comportano un aumento o una diminuzione della pena prevista per il reato semplice) le circostanze possono distinguersi in:
Quando il reato è circostanziato, la pena si applica tenendo conto dei criteri di calcolo e di valutazione espressamente indicati negli artt. 59-60, 63-69 c.p. Le circostanze attenuanti, se esistenti, sono sempre valutate a favore dell’autore del reato anche se egli ne ignorava l’esistenza ed anche se le riteneva insussistenti; quelle aggravanti, sono valutate a carico dell’autore del reato solo quando egli ne conosceva l’esistenza o la ignorava per colpa (art. 59 c.p.).
Le osservazioni svolte a proposito delle circostanze del reato, sono importanti anche al fine di determinare la pena in funzione della competenza del Giudice o del Pubblico Ministero (art. 4 e 51 c.p.) ovvero la pena per procedere all’arresto in flagranza e al fermo di indiziato di delitto (artt. 379, 278 c.p.p.).
Quando il reato è circostanziato, la pena si applica tenendo conto di specifici criteri di calcolo e di valutazione. E’ di particolare importanza il potere, attribuito al Giudice, di procedere al «giudizio di comparazione» fra le circostanze aggravanti ed attenuanti. Si mettono sulla bilancia (art. 113 c.p.) le aggravanti da una parte e le attenuanti dall'altra e se ne pesa la rispettiva rilevanza. Se il giudizio è di “equivalenza”, la pena viene stabilita come se si trattasse di reato semplice. Se è di “prevalenza”, delle aggravanti o delle attenuanti, il calcolo va fatto tenendo conto delle circostanze ritenute prevalenti (le altre vengono praticamente cancellate).
Peraltro il legislatore è incline ad escludere il giudizio di comparazione per i reati di maggiore gravità e in particolare per i reati terroristici e per quelli relativi ad organizzazioni di tipo mafioso e nelle ipotesi di reati a grave allarme sociale come l'omicidio nei confronti di un congiunto (genitore, fratello o sorella).
Sono elementi di fatto o situazioni che possono accompagnare l'azione o l'omissione illecita prevista come reato che il legislatore ha preso in considerazione come motivo di «inasprimento» della pena (aumento della pena o applicazione di una pena di specie diversa e più grave).
Si distinguono in circostanze «aggravanti comuni» e «aggravanti specifiche o speciali», a seconda che si tratti di circostanze applicabili, in linea di principio, a qualsiasi reato (artt. 61 e 62 c.p.), ovvero riferibili a un singolo reato o gruppi di reati (artt. 576, 577 e 625 c.p.).
L’articolo 61 c.p. “circostanze aggravanti comuni” prevede 11 aggravanti e sono:
A norma dell’art. 1 DL. 625/79, è prevista un ulteriore aggravante comune per tutti i reati dolosi ovvero quella di "aver commesso il fatto per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico"
► Esemplificando:
Possono indicarsi quali esempi di circostanze aggravanti specifiche quelle previste per i delitti contro la vita (aver agito contro il coniuge, i familiari, con premeditazione, ecc.) e la incolumità (aver agito con armi, aver cagionato lesioni gravi o gravissime...) ecc.
Sono elementi di fatto non essenziali per la configurazione del reato e dei quali il Giudice può tenere conto per diminuire la pena o per irrogare una pena di specie meno grave.
La legge prevede tre specie di attenuanti e cioè quelle «comuni» di cui all'art. 62 c.p.; quelle «generiche» di cui all'art. 62 bis c.p. e quelle «speciali», previste cioè per singole figure di reato.
L'articolo 62 c.p. “circostanze attenuanti comuni” prevede 6 attenuanti e sono:
Costituiscono le circostanze generiche quelle che il Giudice indipendentemente dalle attenuanti previste nell'art. 62, può prendere in considerazione qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.
La legge n. 288/1944 ha introdotto l’art. 62 bis c.p. che, nel 2005 è stato sostituito dalla L. 251 (meglio conosciuta come Legge Cirielli) con la attuale disposizione.
Il primo comma di detto articolo, stabilisce che “il Giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell’applicazione di questo capo, coma una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62”.
La legge Cirielli ha quindi previsto l’applicabilità delle attenuanti generiche (ovvero delle circostanze diverse da quelle previste dall’art. 62 del c.p.) nel caso in cui il Giudice le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tra gli elementi a disposizione del Giudice ai fini della valutazione vi è la gravità del reato, la capacità di delinquere del reo ecc.
► Circostanze oggettive e soggettive
Le circostanze «oggettive» come statuisce l'art. 70 c.p., sono quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione (ad esempio, art. 61 n. 4 c.p.), la gravità dell'offesa (ad esempio, art. 61 n. 7 c.p.) e le condizioni o qualità della persona offesa (ad esempio, art. 61 n. 10 c.p.)
Sono «soggettive», quelle riferite alla graduazione dell'elemento soggettivo e che concernono cioè l'intensità del dolo o il grado della colpa (ad esempio, art. 61 n. 3 c.p.), le condizioni o qualità del colpevole (ad esempio, art. 61 n. 9 c.p.), i rapporti tra colpevole e offeso (ad esempio, art. 577 n. 1 c.,p.), o inerenti alla persona del colpevole e cioè che riguardano «la imputabilità e la recidiva» (ad esempio, artt. 98 comma 1 e 99 c.p.
Le circostanze soggettive non si estendono ai concorrenti nel reato (artt. 60 e 118 c.p.).
► Classificazione delle Circostanze: ad effetto comune e ad effetto speciale
Le circostanze possono distinguersi, ancora, in: circostanze ad «effetto comune» e ad «effetto speciale».
Sono «ad effetto comune», le circostanze che comportano un aumento o una diminuzione non superiore ad un terzo della pena-base indicata dal codice, il che avviene anche quando il legislatore tace sull’efficacia della circostanza (v. ad esempio, artt. 61, 62, 339 n. 1 c.p.).
Ogni qual volta la legge si limita a prescrivere che la pena sia aumentata o diminuita, senza indicarne l'entità, si intende che l'aumento sia fino ad un terzo e si è in presenza quindi di circostanze ad effetto comune.
Sono «ad effetto speciale», quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo della pena-base (v. ad esempio, artt. 99 n. 3, 424 n. 2, 628 n. 3 c.p.
L’art. 624 c.p. punisce il furto con la reclusione fino a 3 anni e con la multa da 30 a 516 €.
L’art. 625 c.p. (circostanze aggravanti) punisce il furto se il fatto è commesso con destrezza ovvero strappando di dosso alla persona o di mano la cosa, con la reclusione da 1 anno a 6 anni e la multa da 103 a 1032 €.
Nella vecchia formulazione dell’art. 59 c.p. “Circostanze non conosciute o erroneamente supposte” (rimasta in vigore fino al 1990) le circostanze venivano attribuite in base a un criterio obiettivo per cui esse, sostanzialmente, venivano riconosciute e ciò a prescindere dall’effettiva conoscenza (o meno) del soggetto agente e se il soggetto si rappresentava per errore come esistente una circostanza, questa non veniva valutata né a suo carico né a suo favore. Si trattava di una disciplina rigida che prevedeva l’applicazione di tali circostanze per il solo fatto di esistere.
Nel 1990 poi è entrata in vigore la Legge 7 febbraio 1990 n. 19 “Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale e destituzione dei pubblici dipendenti” che ha riformulato (modificandolo) l’art. 59 del c.p. e ha stabilito che “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”.
Il legislatore ha quindi previsto un nuovo criterio di imputazione delle circostanze, più precisamente per quelle aggravanti, che da oggettivo è stato modificato in soggettivo. Pertanto, perché tali circostanze possano essere riconosciute, occorre un coefficiente soggettivo rispettivamente costituito o dallo loro effettiva conoscenza o dallo loro colpevole ignoranza. Inalterata è invece rimasta la disciplina per l’applicazione delle circostanze attenuanti (imputazione obiettiva).
Pertanto l’applicazione delle circostanze aggravanti dipende dall’effettiva conoscenza delle stesse da parte del reo al momento della commissione del reato (o comunque dal fatto che le stesse sono state ignorate per colpa o per errore determinato da colpa) mentre l’applicazione delle circostanze attenuanti non dipende dall’effettiva conoscenza del soggetto.
La modifica introdotta trova ispirazione al principio (tutelato dalla Costituzione) della colpevolezza e per la soggettività della responsabilità penale.
Una disciplina particolare è prevista per l’ipotesi di errore sulla persona offesa da un reato. Il primo comma dell’articolo 60 c.p. “Errore sulla persona dell’offeso” stabilisce infatti che “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole” e al secondo comma “sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti”.
A seconda del grado di realizzazione, il reato si distingue in «consumato» o «tentato».
Il reato è «consumato», quando l’autore realizza completamente gli elementi essenziali previsti dalla norma.
La legge penale punisce non solo chi realizza un delitto completo di tutti i suoi elementi essenziali ma anche chi compie atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica: in tali casi si parla di delitto tentato (art. 56 c.p.).
Il delitto «tentato» è, quindi, quello che non realizza pienamente il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice e che, per cause indipendenti dalla volontà del suo autore, si «blocca», invece, in una fase precedente a tale realizzazione.
► I presupposti del delitto tentato sono:
I requisiti della idoneità e della univocità degli atti richiesti dalla legge per la configurabilità del tentativo, devono essere necessariamente presenti entrambi e non possono essere alternativi.
Non è sempre facile stabilire quando si è in presenza di un reato tentato (o tentativo). Prima della consumazione (o dell’inizio di essa nei reati permanenti), la commissione del reato (doloso) è infatti normalmente preceduta da una sequenza articolata di atti: tali atti, però, possono dar luogo al tentativo solo quando si collocano in una determinata fase del procedimento criminoso ed hanno determinate caratteristiche.
I requisiti della idoneità e della univocità degli atti richiesti dalla legge per la configurabilità del «tentativo», devono essere necessariamente presenti entrambi e non possono essere alternativi. Non è sempre facile stabilire quando si è in presenza di un reato tentato (o tentativo). Prima della consumazione (o dell’inizio di essa nei reati permanenti), la commissione del reato (doloso) è infatti normalmente preceduta da una «sequenza articolata di atti»: tali atti, però, possono dar luogo al tentativo solo quando si collocano in una determinata "fase del procedimento criminoso" ed hanno determinate caratteristiche.
► Tipicamente la commissione di un reato si articola nella:
La «fase di ideazione» è quella che si svolge nella mente dell’autore del fatto e consiste nel concepire il proposito criminoso e nel decidere di realizzarlo. E’ riscontrabile solo nei reati dolosi.
Se alla risoluzione di commettere il reato, non segue la sua concreta realizzazione, il soggetto non è punibile. Al più, potrà essere sottoposto ad una misura di sicurezza quando la risoluzione consiste in un accordo con altre persone per commettere un reato (art. 115 c.p.).
La «fase di preparazione» è quella caratterizzata dalla predisposizione dei mezzi e dalla ricerca delle occasioni.
La «fase di esecuzione», infine, è quella della realizzazione del progetto criminoso. Il suo epilogo è rappresentato dalla «consumazione».
Il tentativo si colloca tra la fase della preparazione e quella dell’esecuzione.
Da un punto di vista sostanziale, il delitto tentato ha dunque un più basso livello di offensività rispetto al delitto consumato ed è perciò punito meno severamente.
Si pensi, allora, a un delitto punito da 3 a 12 anni di reclusione: se si tratta di delitto solo tentato, la pena potrà variare da 1 anno (massima diminuzione nel minimo) a 8 anni di reclusione (minima diminuzione nel massimo).
Va ricordato, che il tentativo non è compatibile con tutti i reati. La legge punisce il tentativo solo rispetto ai "delitti dolosi" (non anche rispetto a quelli colposi ed alle contravvenzioni), in quanto richiede il compimento di “atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere il delitto” e con pene ovviamente minori rispetto a quelle previste per il delitto consumato.
Il tentativo non è poi compatibile con i delitti di attentato. In questi, infatti, vi è un’anticipazione della soglia della punibilità e gli atti idonei ed univoci che negli altri reati consentono la configurabilità del delitto tentato integrano qui il reato consumato.
► Riassumendo:
Il tentativo non è compatibile:
Un reato può essere commesso da una o più persone. Nel primo caso si è in presenza di un reato "mono-soggettivo"; nel secondo, del cosiddetto "concorso di persone" nel reato (art. 110 c.p. e seguenti) quando esse forniscono consapevolmente un contributo rilevante alla sua realizzazione.
► I requisiti del concorso di persone si possono così riassumere:
► Il concorso può essere:
Il concorso è «materiale», quando il concorrente compie alcuno od alcuni degli atti che costituiscono l’elemento oggettivo del reato.
Nell’ambito del concorso materiale e a seconda del «ruolo», ricoperto, si distingue tra:
Il concorso è, invece, «morale», quando il contributo causale del concorrente consiste nel dare impulso psichico al proposito criminoso di chi materialmente partecipa alla commissione del reato.
Nel caso del concorso morale, la partecipazione criminosa assume le forme della «determinazione», e della «istigazione».
E’, invece, un semplice istigatore colui che con altri partecipa alla decisione di commettere un reato; oppure colui che, prima dell’omicidio, promette all’autore materiale che lo aiuterà ad occultare il cadavere della vittima o colui che, prima della rapina, si accorda con i rapinatori per la consegna o lo smercio del bottino rapinato.
Il concorso di persone è configurabile anche nei reati colposi. Si denomina allora cooperazione nel delitto colposo (art. 113 c.p.), e si verifica quando ciascuno dei soggetti (cooperanti) sono consapevoli di partecipare all’azione od omissione che, assieme alla sua condotta, è causa dell’evento non voluto.
Può dirsi che si ha «concorso di reati» nel caso in cui una persona che ha violato più volte (violazione plurima) la legge penale, deve rispondere nello stesso tempo di più reati.
Non si ha concorso di reati nei casi in cui la legge, nella previsione tipica della singola norma incriminatrice, fa rientrare più fatti che, singolarmente considerati, costituiscono reati diversi.
La violazione plurima della legge penale può peraltro intervenire con forme e modalità diverse e, talvolta, può essere solo apparente (in quanto sostanzialmente si viola un’unica norma).
Il concorso di reati assolve la funzione di limitare l’entità della pena da applicare a chi deve essere giudicato per più reati.
Quando un soggetto deve rispondere di più reati, si verifica il concorso di reati, che può essere: formale o materiale
In entrambe le forme il concorso può può essere «eterogeneo» od «omogeneo», a seconda che si tratti della violazione della stessa disposizione incriminatrice o di disposizioni diverse.
Si verifica quando più norme appaiono, prima facie, applicabili ad un medesimo fatto avente rilevanza penale, mentre una soltanto di esse risulta applicabile. Ciò avviene o perché è la legge stessa ad escludere l'applicazione di una delle disposizioni concorrenti oppure perché l'applicazione di una soltanto risulta dall'operatività dei principi di specialità, di consunzione o di assorbimento.
Le disposizioni sul concorso di reato e, in particolare, sul concorso formale eterogeneo (art. 81 c.p.) non si applicano quando la pluralità delle violazioni alla legge penale è solo apparente. La circostanza che una sola condotta integri più figure di reato, non importa necessariamente, infatti, una pluralità di violazioni e, quindi, un concorso di reati; ma può importare, anche e soltanto, un semplice concorso apparente di norme che si risolve applicando al fatto concreto, e in base al principio di specialità fissato dall'art. 15 c.p., una soltanto delle figure di reato che la condotta ha concretato.
Per fare un esempio, in ipotesi di delitto di rapina risulterebbero contemporaneamente applicabili altresì le norme sul furto e quelle sulla violenza privata. La specialità della previsione criminosa avente per oggetto la rapina comporta che si applichi, per contro, la sola disposizione che prevede questo delitto.
► Presupposti sono:
Pertanto, in presenza di concorso apparente di norme non si applicherà - per la determinazione della pena - il principio del cumulo delle pene ma l'applicazione della sola norma che è speciale rispetto all'atra (principio di specialità).
In base al «principio di specialità» (art. 15 c.p.)...quando più leggi o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione della legge generale (norma generale), salvo che sia disposto diversamente.
Per norma speciale si intende quella che contiene tutti gli elementi compresi nella fattispecie generale e che in più, presenta elementi "aggiuntivi".
Si ha «concorso formale» quando un soggetto con una sola azione od omissione viola più volte la legge penale, commettendo così più reati.
Il concorso formale a sua volta può essere "omogeneo" o "eterogeneo".
E’ «omogeneo», quando con una sola azione od omissione si compiono «più violazioni della medesima disposizione di legge».
E' «eterogeneo», quando con una sola azione od omissione si violano «diverse disposizioni di legge».
Il concorso formale è omogeneo nella prima ipotesi (duplice omicidio: Tizio viola per due volte la stessa disposizione di legge, l’art. 575 c.p.) ed eterogeneo nella seconda (omicidio e lesioni: Tizio viola sia la disposizione dell’art. 575 c.p. che quella degli artt. 582 e 585 c.p.).
Per quanto attiene al "trattamento sanzionatorio", nel caso di concorso formale di reati, il criterio per la determinazione della pena è quello del c.d «cumulo giuridico»: la pena complessiva da infliggere si determina, cioè, applicando la sola pena relativa al reato più grave aumentata fino al triplo (art. 81 commi 1 e 3 c.p.).
Si tratta di un trattamento meno rigoroso rispetto a quello previsto per il concorso materiale (criterio del «cumulo materiale»): applicando la sola pena relativa al reato più grave, aumentata tuttavia di una certa aliquota nella quale rifluiscono così le pene degli altri reati concorrenti.
Se si tratta di concorso materiale egli potrà essere condannato addirittura alla pena di 6 anni di reclusione (essendo di 3 anni la pena massima per ciascun reato di lesioni e dovendosi procedere alla somma aritmetica delle pene per i due reati commessi).
Se si tratta di concorso formale (è l’ipotesi in cui le lesioni vengono cagionate con una sola azione od omissione), egli (avendo riguardo alla pena massima di 3 anni prevista per ciascun reato di lesioni) potrà essere condannato invece alla pena di 3 anni ed un giorno di reclusione (3 anni per il primo reato + 1 giorno per il secondo).
Il principio secondo il quale il cumulo giuridico determina un trattamento di maggior favore rispetto al cumulo materiale può essere dedotto anche dal tenore dell’art. 81 comma 3 c.p. dove si precisa che, nel caso di cumulo giuridico l’aumento applicabile non può mai essere superiore a quello che potrebbe aversi in caso di cumulo materiale.
Il «concorso materiale» (o reale) è caratterizzato dal fatto che con più azioni od omissioni un soggetto «viola più volte la stessa legge» ovvero «differenti disposizioni di legge».
Il concorso materiale può essere omogeneo o eterogeneo.
E’ «omogeneo», quando le condotte comportano la violazione plurima della stessa disposizione di legge;
E' «eterogeneo», quando le condotte comportano la violazione di differenti disposizioni di legge.
Il concorso di reati è eterogeneo: l’autore dei fatti ha violato prima la disposizione dell’art. 624 e 625 c.p. (furto aggravato della vettura) e poi quella dell’art. 626 commi 1 e 3 (rapina a mano armata). Sarebbe stato un concorso omogeneo se Tizio avesse prima rapinato l’auto e poi rapinato la banca (due rapine) oppure avesse prima rubato l’auto e poi scippato il portavalori (due furti).
Per quanto attiene al "trattamento sanzionatorio", nel caso di concorso materiale, il criterio per la determinazione della pena è quello del c.d. «cumulo materiale delle pene» (tot crimina, tot poenae): la pena complessiva da infliggere al responsabile si determina, cioè, sommando in modo aritmetico le pene da infliggere per i vari reati in concorso (tante pene quanti sono i reati commessi).
Il principio del cumulo materiale subisce alcuni correttivi in presenza di particolari condanne oppure quando l’incremento della pena, determinato sommando le varie sanzioni, imporrebbe effetti sproporzionati rispetto al fatto compiuto e alla sua gravità. Si tratta di un sistema di cumulo materiale temperato poiché vengono fissati dei limiti insuperabili di pena.
Quando si è in presenza di più delitti ciascuno dei quali punito con la reclusione non inferiore a 24 anni, non si sommano i tempi della reclusione (per tre delitti, ad esempio, 24+24+24=72 anni di reclusione), ma si infligge l’ergastolo (art. 73 c.p.).
Quando si è in presenza di più delitti puniti con le pene detentive temporanee (reclusione o arresto), la somma di esse deve fermarsi, per la reclusione, ad un massimo di 30 anni e, per l’arresto, di 6. Si pensi, ad esempio, ad un rapinatore condannato per 5 rapine e, per ognuna di esse, a 10 anni di reclusione; la pena complessiva da infliggere sarà di 340 anni di reclusione e non di 50 come sarebbe se si procedesse alla somma aritmetica (art. 78 c.p.).
La disciplina dettata dal codice penale per il concorso materiale di reati si applica sia nel caso che una stessa persona sia giudicata per più fatti, sia nel caso che contro di essa debbano eseguirsi più condanne (art. 71 e 80 c.p.).
I reati commessi da un unico agente possono essere legati da un vincolo (rilevante ai fini della pena: art. 61 n. 2 c.p.):
Il «reato continuato» rappresenta una particolare ipotesi di concorso materiale trattato specificamente in quanto i vari fatti illeciti posti in essere dal reo, fanno parte tutti di un medesimo e unitario disegno criminoso.
Tale peculiarità comporta come conseguenza una minore severità in sede di applicazione della pena rispetto a quella che invece viene prevista per il concorso materiale e ciò in quanto la struttura del reato dimostra una minore riprovevolezza in capo all’agente.
L’articolo 81 del c.p. stabilisce che sussiste reato continuato quando un soggetto, con più di azioni e/o omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette (anche in tempi diversi) diverse violazioni della stessa norma o di diversa disposizione della legge penale.
Alla luce di tale norma i requisiti del reato sono:
Per quanto attiene al primo requisito occorre che ci sia una pluralità di condotte autonome che danno luogo ad altrettanti disegni criminosi. Occorre dunque che ogni singola violazione integri tutti gli estremi di quel singolo reato.
Il tempo in cui queste azioni possono essere commesse non rileva giacché tra un’azione e un’altra può intercorrere un notevole lasso di tempo senza per questo venir meno la fattispecie di reato.
La pluralità di azioni non va intesa solo ed esclusivamente in senso naturalistico e ciò in quanto le azioni debbono poter essere unificate all’interno di un’azione giuridicamente unitaria.
Per pluralità di violazioni, va detto che l’art. 81 c.p. ammette la configurabilità di tale tipo di reato anche in presenza della commissione di illeciti diversi e non ha rilevanza il fatto che gli stessi siano dotati di caratteri fondamentali comuni.
La caratteristica principale della fattispecie è però la univocità del disegno criminoso. La teoria più accreditata vuole che l’univocità del disegno presupponga, oltre all’elemento intellettivo della rappresentazione anticipata, un ulteriore elemento finalistico costituito dall’unicità dello scopo. Il reo pone in essere diversi episodi illeciti tesi alla realizzazione di un unico scopo (progetto unitario).
Per il reato continuato l’Ordinamento prevede l’applicazione della pena prevista per il concorso formale di reati (ovvero pena prevista per il reato più grave con aumento fino a triplo). Il terzo comma dell’art. 81 c.p. stabilisce poi che “nei casi preveduti da quest’articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti”.
Infine, l’ultimo comma prevede che “[…] l’aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave”.
E’ facile comprendere che il "regolare e proficuo svolgimento (o meglio, il buon andamento e la imparzialità) delle attività della Pubblica amministrazione" può essere turbato sia dalle condotte di quelle stesse persone che sono chiamate ad esercitare tali funzioni sia dalle condotte dei privati che vengono in contatto con gli organi della Pubblica amministrazione e che tendono a condizionarli.
Nel titolo III del libro II del Codice penale, sono previsti e puniti i «fatti» che impediscono il «regolare e proficuo svolgimento della attività statale (amministrazione della giustizia) diretta ad applicare ai casi concreti le norme del diritto». E’ facile comprendere che l’interesse a iniziare tempestivamente il procedimento penale e pervenire alla punizione degli autori del reato non può essere raggiunto se, chi ha l’obbligo di farlo (Pubblico Ufficiale, incaricato di pubblico servizio, Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria), omette di riferire all’Autorità Giudiziaria la circostanza di avere acquisito una notizia di reato: in questa ipotesi, infatti, l’Autorità Giudiziaria non è in grado di iniziare il procedimento penale.
► Presupposto del fatto:
Occorre accertare innanzitutto che il Pubblico Ufficiale sia venuto a conoscenza di un reato perseguibile di ufficio, o nell’esercizio delle sue funzioni o a causa delle sue funzioni.
In questa ipotesi, non rientrando il reato nella sfera di nostra competenza, comunque in qualità di Pubblici Ufficiali, abbiamo l’obbligo di fare denuncia o direttamente all’Autorità giudiziaria o alla Stazione dei Carabinieri di Palau.
Peraltro, se il Pubblico Ufficiale è un Ufficiale o Agente di Polizia Giudiziaria (v. artt. 55 e 57 c.p.p.) basta accertare che abbia avuto notizia del reato: non importa in quale modo abbia avuto la notizia.
In questa ipotesi, rientrando il reato di inquinamento da nave nella sfera di nostra competenza (art. 23 Legge 979/82) in qualità di Ufficiali o Agenti di Polizia Giudiziaria, su di noi incombe istituzionalmente l’obbligo di «prendere notizia di reato» e di fare rapporto (=relazionare) al Dirigente dell’ufficio da cui dipendiamo per la successiva comunicazione della N.d.R. all’Autorità Giudiziaria.
Oppure, al caso in cui il personale di guardia in Capitaneria, viene a conoscenza, in occasione della procedura di sbarco di un marittimo, del «mancato aggiornamento, da parte dell’armatore, del piano di sicurezza dell’ambiente di lavoro» (artt. 6, comma 2 e 35 D.lgs. 271/99).
In questa ipotesi, rientrando il reato nella sfera di nostra competenza (art. 20 e ss. D.lgs. 271/99) in qualità di Ufficiali o Agenti di Polizia Giudiziaria, su di noi incombe istituzionalmente l’obbligo di «prendere notizia di reato» e di fare rapporto (=relazionare) al Dirigente dell’ufficio da cui dipendiamo per la successiva comunicazione della N.d.R. all’Autorità Giudiziaria.
► Elementi essenziali:
Accertato che il Pubblico Ufficiale sia venuto a conoscenza di un reato nell’esercizio o a causa delle sue funzioni – o semplicemente che sia venuto comunque a conoscenza di un reato, se quel Pubblico Ufficiale è un Ufficiale o un Agente di polizia giudiziaria – occorre accertare:
Qualora l’omissione o il ritardo fosse dipeso da negligenza, imprudenza o imperizia di fatto non costituirebbe reato, ma grave mancanza punibile in sede disciplinare (artt. 16 e 17 disp. Att. c.p.p.).
Ai sensi dell’art. 357 c.p., come novellato dalla Legge 26 aprile 1990, n. 86 e n. 181 del 1992, la "qualità" di Pubblico Ufficiale deve essere riconosciuta a quei soggetti che, pubblici dipendenti o semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volontà della Pubblica Amministrazione oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati (Cass. 4.6.1992, n. 6685).
Secondo recente giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 11.7.1992, n. 7958), nel concetto di «poteri autoritativi» rientrano non solo quelli "coercitivi", ma anche tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di un potere discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su un piano non paritetico rispetto all’Autorità.
Rientrano nel concetto di «poteri certificativi» tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado.
Dalla definizione legislativa si deduce che "l’elemento" che caratterizza il Pubblico Ufficiale è l’esercizio di una funzione pubblica, intesa come ogni attività che realizza i fini propri dello Stato.
Tuttavia, poiché ancor oggi la dottrina pubblicistica non ha fornito una nozione univoca e sicura di pubblica funzione, vi è in concreto, in dottrina e giurisprudenza, molta incertezza circa l’esatta definizione in astratto del Pubblico Ufficiale , per cui vi sono, al riguardo, molteplici teorie.
Per alcuni autori la qualifica di Pubblico Ufficiale va attribuita a:
1. soggetti che concorrono a formare o formano la volontà dell’ente pubblico ovvero lo rappresentano all’esterno.
2. tutti coloro che sono muniti di poteri autoritativi.
3. tutti coloro che sono muniti di poteri di certificazione.
► La qualifica di Pubblico Ufficiale è stata riconosciuta ai seguenti soggetti:
Sono "incaricati di un pubblico servizio", ai sensi dell’art. 358 c.p., come novellato dall’art. 18 della Legge n. 86 del 1990, coloro i quali, pur agendo nell’ambito di un’attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione, mancano dei poteri tipici di questa, purché non svolgano semplici mansioni di ordine, né prestino opera meramente materiale.
Il pubblico servizio è dunque attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dalla mancanza dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è solo in rapporto di accessorietà o complementarità (Cass. Sez. Un. 11.7.1992, n. 7958).
Peraltro, anche con riferimento alla definizione dell’incaricato di un pubblico servizio non mancano, in dottrina, diversità di opinioni e di teorie per la difficoltà di definire il pubblico servizio.
In via di aggioenamento - Legge Anticorruzione
Nel titolo II del libro II del Codice penale, sono previsti e puniti «i fatti» che impediscono o turbano il regolare svolgimento di ogni attività dello Stato e degli enti pubblici.
E’ facile comprendere che il regolare e proficuo svolgimento (o meglio, il buon andamento e la imparzialità) delle attività della pubblica amministrazione può essere "turbato" sia dalle condotte di quelle stesse persone che sono chiamate ad esercitare tali attività (Pubblici Ufficiali, incaricati di un pubblico servizio che vengono meno ai loro doveri….) sia dalle condotte dei privati che vengono in contatto con gli organi della pubblica amministrazione e che tendono a condizionarli.
Commette l'ipotesi di reato previta dall'art. 314 c.p., il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.
Soggetto attivo di un tale reato può essere solo il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (è quindi un reato proprio).
Presupposto del reato è il possesso o comunque la disponibilità della cosa da parte del pubblico funzionario, cioè la possibilità dello stesso di disporre la cosa, al di fuori della sfera altrui di vigilanza, sia in virtù di una situazione di fatto sia in conseguenza della funzione esplicata nell’ambito dell’Amministrazione.
Oggetto materiale del reato è il danaro o altra cosa mobile. La nuova formulazione dell’art. 314 c.p. non prescrive più che il denaro o la cosa mobile, oggetto del delitto, debba appartenere alla Pubblica Amministrazione, ma esige solo che essa si trovi nel possesso o nella disponibilità del soggetto attivo.
Il fatto materiale consiste nella appropriazione del denaro o della cosa mobile posseduti per ragione dell’ufficio o del servizio da parte del Pubblico Ufficiale.
L’art. 1 della Legge 26 aprile 1990, n. 86 recante modifiche in tema di delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione contempla poi l’ipotesi di «peculato d’uso» che si realizza quando il soggetto utilizza temporaneamente, per finalità private, cose fungibili con il proposito di restituirle, proposito che poi effettivamente realizza.
Per "uso temporaneo" non si intende un uso istantaneo, bensì limitato nel tempo, in modo da non compromettere seriamente la funzionalità della pubblica amministrazione (Cass. 16.5.1997, n. 4651).
Commette tale reato (art. 316 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità.
L’errore del privato deve essere "spontaneo", ed il funzionario deve essere in buona fede all’atto del ricevimento della cosa; se l’errore è "procurato dolosamente" da quest’ultimo ricorrerà, infatti, una diversa ipotesi criminosa, e cioè la "concussione" di cui all’art. 317 c.p.
Commette tale reato (art. 317 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, abusando delle sue qualità e dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare e a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, danaro o altra utilità.
Soggetto attivo può essere sia il Pubblico Ufficiale che l’incaricato di un pubblico servizio, mentre soggetti passivi del reato sono contemporaneamente la Pubblica Amministrazione e la persona che subisce il danno derivante dall’abuso (pertanto il reato è plurioffensivo).
L’elemento oggettivo del reato esige:
L’abuso della funzione deve avere come effetto il costringimento o l’induzione della vittima a dare o promettere danaro o altra utilità non dovuta: il fatto costitutivo del reato, quindi, consiste nel «costringere» o nell’«indurre» (personalmente o a mezzo di terzi che operino come semplici nuncii), per il timore derivante dalla qualità o dai poteri dell’Agente, taluno alla promessa alla dazione.
"Costringere" significa usare violenza o minaccia per esercitare una pressione su un soggetto al fine di determinarlo a compiere un atto positivo o negativo che incide sul suo patrimonio. Non è necessaria una coercizione diretta, ma è sufficiente anche una coercizione indiretta ovvero una minaccia esplicita o implicita (Cass. 9.11.1982, n. 10559).
La "induzione", invece, si oggettiva in una attività dialettica dell’Agente che avvalendosi della sua autorità e ricorrendo ad argomentazioni di indole varia, fondate su elementi non privi di obiettiva veridicità, riesce a convincere il soggetto passivo alla datazione o alla promessa (Cass. 14.1.1983, n. 2819.
In questo caso la condotta non è vincolata a forme predeterminate e tassative, ma può estrinsecarsi in qualsiasi modo: è sufficiente che sia in concreto idonea ad influenzare l’intelletto e la volontà della vittima,convincendola della opportunità, per evitare il peggio, di aderire alla richiesta (Cass. 13.1.1968).
Rientra indubbiamente nell’ampio concetto di induzione anche l’attività che comporti un «inganno» della vittima, sia nella forma degli artifici o raggiri che nella forma della semplice menzogna o del finto consiglio.
In linea generale, ricorre il reato di "corruzione" (artt. 318-322) in tutti i casi in cui, per effetto di un accordo intervenuto fra un Pubblico Ufficiale ed un privato cittadino, il primo accetta dal secondo, per un atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni, un «compenso» che non gli sia dovuto.
Oggetto della tutela penale delle norme incriminatici in questione è l’interesse della Pubblica Amministrazione alla imparzialità, onestà e correttezza dei propri funzionari.
Il Codice distingue due forme fondamentali di corruzione:
► Nell’ambito di ciascuna ipotesi, il codice distingue, inoltre, tra:
Esaminando distintamente le quattro ipotesi criminose possiamo dire che rispondono del reato di «corruzione impropria antecedente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che rivesta la qualità di impiegato che, per compiere un atto del suo ufficio riceve, per sé o per un terzo, in danaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa,nonché colui che dà o promette la retribuzione.
Rispondono del reato di «corruzione impropria susseguente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che riceve la retribuzione indebita per un atto d’ufficio da lui già compiuto.
Di tale reato risponde solo il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio e non anche il corruttore.
Rispondono del reato di «corruzione propria antecedente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, per ottenere o ritardare un atto del suo ufficio o per fare un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità.
Rispondono del reato di «corruzione propria susseguente» il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che riceve denaro o l’utilità per aver agito contro i doveri del suo ufficio o per aver omesso o ritardato un atto di ufficio, nonché colui che ha dato il danaro o l’utilità.
La corruzione pur avendo in comune con la concussione l’abuso delle funzioni e l’illiceità del profitto se ne differenzia per la posizione in cui si trovano le parti è per l’elemento psicologico. Nella corruzione le parti si trovano in condizioni di parità ed il privato è libero di porre in essere, d’accordo con il un illecito rapporto.
Nella concussione invece è caratteristica la posizione di preminenza del il Pubblico Ufficiale, di conseguenza, la determinazione all’illecito è la conseguenza della coartazione della volontà del privato soggiogata dall’impossibilità di conseguire in altro modo l’utile sperato.
Commette tale reato (art. 322 c.p.), chiunque offra o prometta denaro al pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per indurlo a compiere un atto del proprio ufficio o servizio (istigazione alla corruzione impropria) ovvero indurlo ad omettere o ritardare un atto dell’ufficio o servizio o fare un atto contrario ai doveri d’ufficio (istigazione alla corruzione propria), nel caso in cui l’offerta o la promessa non venga accettata.
E’ pertanto un reato "monosoggettivo" perché è essenziale la «mancata accettazione» da parte del funzionario. E’ quindi un tentativo di corruzione previsto come reato autonomo per reagire ad un fatto che è grave insidia alla rettitudine e al disinteresse che devono accompagnare il funzionario, il tentativo pertanto non è configurabile.
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato[1], commette tale reato (art. 323 c.p.), il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
Il reato di abuso di ufficio così delineato è frutto di modifiche introdotte dalla Legge 16 luglio 1997, n. 234.
L’aspetto più significativo della nuova formulazione dell’art. 323 c.p. è rappresentato dal fatto che la configurabilità del reato è ancorata al verificarsi di un «evento di danno», consistente nell’aver procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero nell’aver arrecato ad altri un danno ingiusto. In tal modo il legislatore ha inteso individuare con maggiore precisione le condotte al fine di ridurre i margini di interpretazione affidata alla giurisprudenza.
Il reato in questione, non è più un reato di pericolo, come nella precedente formulazione, e ai fini della consumazione occorre che si sia verificato un «danno ingiusto» o che si sia procurato un «ingiusto vantaggio patrimoniale». La soglia della punibilità non si arresta più al pericolo di un vantaggio o di un danno, ma viene spostata in avanti al momento in cui vantaggio e danno da potenziali si trasformano in attuali.
Altro elemento di novità dell’articolo in esame riguarda la necessità della violazione di norme di legge o di regolamento realizzata dal il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio. Anche questo aspetto serve a circoscrivere la configurabilità dell’abuso mediante omissione: infatti, l’abuso può essere integrato anche da un comportamento omissivo che violi l’obbligo di fare imposto delle norme.
La condotta punita può consistere anche nella violazione dell’obbligo di astensione, non solo quando sussista un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ma anche «negli altri casi prescritti». Questa espressione generica pone problemi sia sotto il profilo della tassatività che sotto quello della riserva di legge.
L’oggetto giuridico del reato in esame è rappresentato dal «buon andamento e dall’imparzialità della Pubblica Amministrazione da condotte viziate dall’affarismo privato dei suoi dipendenti» e soggetto attivo può essere il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio: si tratta, dunque, di un reato proprio.
[1] Ad esempio, è più grave reato la concussione (art. 318 c.p.)
Il "segreto d’ufficio" costituisce uno dei doveri fondamentali del Pubblico Ufficiale. Secondo la dottrina prevalente, il segreto è definibile come la situazione corrispondente ad un interesse giuridicamente apprezzabile di un soggetto a che un determinato contenuto di esperienza non sia rivelato a altri.
Il segreto è d’ufficio quando abbia ad oggetto «notizie d’ufficio», per tali intendendosi tutte le cognizioni facenti parte della competenza dell’ufficio o del servizio cui è addetto il soggetto obbligato al segreto. Tale obbligo può derivare da una legge, da un regolamento, da una consuetudine, ovvero dalla natura stessa della notizia, ricollegabile al tipo di attività svolta dall’agente, che può recar danno alla Pubblica Amministrazione.
L’art. 326 c.p. prevede "tre distinte figure" di reato configurabili come casi di inosservanza di segreto d’ufficio:
Se il profitto non è di natura patrimoniale, ovvero lo scopo è di cagionare ad altri un danno ingiusto, la pena è minore (art. 15 della Legge 26.4.1990).
Oggetto specifico della tutela penale è l’interesse della Pubblica Amministrazione, intesa in senso lato con riferimento anche alle funzioni legislative e giurisdizionali dello Stato, al normale svolgimento delle proprie attività.
L’elemento materiale del delitto doloso consiste nel portare a conoscenza di persona non autorizzata a riceverla la notizia d’ufficio destinata a restare segreta ovvero nel tenere un comportamento, positivo o negativo, che comunque faciliti al non autorizzato la cognizione della notizia.
Nella ipotesi, relativa alla agevolazione colposa, invece, la conoscenza del segreto da parte del non autorizzato avviene a seguito di negligenza del come nel caso in cui lo stesso lasci incustodito un importante documento riservato.
Con la nuova formulazione, introdotta dall’art. 16 della legge 26 aprile 1990, l’attuale art. 328 comma 1 c.p. punisce una condotta di rifiuto dell’atto d’ufficio.
Non è richiesta, quindi, la semplice omissione ma un’omissione qualificata da una manifestazione di volontà contraria al compimento dell’atto che potrà essere espressa (quando il soggetto tenuto ha dichiarato di non voler agire) o tacita (quando egli sia rimasto inerte alle sollecitazioni rivoltegli). E’ inoltre necessario che l’atto «per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo».
Quanto all’ipotesi prevista al secondo comma dell’art. 328, commette tale delitto il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, fuori dei casi previsti dal primo comma, entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo.
La condotta punita è, in questo caso, l’omissione, e cioè il mancato compimento dell’atto dovuto.
In tale categoria rientrano tutti quei reati commessi in danno della Pubblica Amministrazione da soggetti estranei al suo apparato organizzativo.
Oggetto specifico è la tutela dell’interesse della Pubblica Amministrazione alla libertà di decisione dei Pubblici Ufficiali, cioè a che i Pubblici Ufficiali decidano quali atteggiamenti, relativi al servizio, debbano assumere senza essere in alcun modo influenzati dagli estranei.
Di essi i principali sono:
► Violenza o minaccia a un Pubblico Ufficiale (art. 336 c.p.)
Commette questo reato chiunque usa violenza o minaccia a un Pubblico Ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per costringerlo:
E’ necessario sottolineare che l’attività a cui l’agente mira deve essere "futura". Qualora infatti essa fosse già in corso ed il reo mirasse ad opporvisi con violenza o minaccia si configurerebbe l’ipotesi ex art. 337 c.p. (Resistenza).
► Resistenza a un Pubblico Ufficiale (art. 337 c.p.)
Commette tale reato chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un Pubblico Ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza.
L’elemento oggettivo richiede una «violenza» o «minaccia» esercitata contestualmente al compimento dell’atto d’ufficio da parte del Pubblico Ufficiale.
Non è necessario che la violenza o la minaccia sia esercitata direttamente sulla persona del Pubblico Ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio per impedirgli il compimento di un atto del suo ufficio o servizio, ma è sufficiente che essa si estrinsechi su cose, purché anche in tal caso si ponga come ostacolo al concreto compimento dell’attività. Neppure è necessario che la violenza o minaccia pongano in pericolo l’incolumità fisica del Pubblico Ufficiale bastando che esse impediscano l’esercizio dell’atto d’ufficio (Cass. 20.10.1997, n. 9442).
Non integra né violenza né minaccia la c.d. «resistenza meramente passiva» e, quindi, essa non integra il delitto in esame, neppure nel caso in cui il funzionario sia costretto ad usare la forza per vincerla.
Discusso è il problema se e quando la «fuga» possa configurare resistenza a Pubblico Ufficiale. Pacifico è che la semplice fuga a piedi non può mai configurare il reato in esame, in quanto in essa non è ravvisabile né violenza né minaccia (Cass. 13.10.1986, n. 10813).
► La giurisprudenza ha precisato, comunque, che costituisce resistenza a Pubblico Ufficiale:
► Oltraggio a Pubblico Ufficiale (art. 341bis c.p.)
Commette questo reato chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni .[1] [51]
Abrogato dall’art. 8 Legge 25 giugno 1999 n.205 e introdotto dall’art. 1 comma 8 della Legge 15 luglio 2009, n. 94, l’art. 341 bis c.p. nonostante il dettato di cui ai citati articoli, sanziona penalmente, con la reclusione fino a tre anni, la condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio, a causa o nell’esercizio delle sue funzioni. Viene dunque delimitato il locus commissi delicti - in luogo pubblico o aperto al pubblico - e vengono tutelati onore e prestigio, non alternativamente come nel dettato di cui all’abrogato art. 341 c.p..
La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, così come nel precedente art. 341 c.p. una analoga previsione aggravava la pena prevedendo la reclusione da uno a tre anni. Il reato si estingue nel caso in cui l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima.
In simmetria con quanto ex art. 596 c. IV c.p. se la verità del fatto è provata o se, per esso, l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile.
► Millantato credito (art. 348 c.p.)
Commette tale reato chiunque, millantando un credito presso un Pubblico Ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un o impiegato o di doverlo remunerare.
Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente ottiene la dazione e la promessa.
Il reato può concorrere con quello di "truffa" qualora il millantato credito sia uno dei raggiri utilizzati per indurre in errore.
[1] [51] Art. 594 (Ingiuria) e 61 n. 10 c.p. (circostanze aggravanti comuni)
Tutto ciò che è vero può essere alterato, vale a dire falsificato, per ingannare una o più persone determinate ovvero per ingannare un numero indeterminato di persone (= il Pubblico).
La falsificazione finalizzata ad ingannare una o più persone determinate può dar luogo al reato di "truffa" (o a reati simili); la falsità finalizzata ad ingannare il Pubblico Ufficiale da luogo, invece, ai delitti contro la fede pubblica dettagliatamente elencati nel titolo VII del libro II del codice.
I delitti contro la fede pubblica sono perciò i delitti di «falso» e cioè i delitti mediante i quali, alterando il vero, si mette in pericolo:
Si tratta, dunque, di “reati di pericolo” perché le condotte di falsificazione sono punite non in quanto ingannano la pubblica fede (= fiducia), ma in quanto sono idonee a farlo. Questa idoneità va esclusa quando si tratta di «falso grossolano».
Il falso grossolano è quello che può essere accertato da «chiunque…» ed a prima vista. In questi casi, il falso non è punibile perché si tratta di reato impossibile per inidoneità dell'azione (art. 49 comma 2 c.p.).
In base a tale definizione, non sono mai grossolani, perciò, il falso che poteva essere accertato solo da un esperto oppure quello che ha ingannato, comunque, la vittima predestinata.
Il codice ripartisce i delitti contro la fede pubblica in quattro Capi, a seconda dell’oggetto materiale della falsità:
Oggetto di tali reati sono i «documenti pubblici o privati» di cui si vuole tutelare la genuinità e veridicità in quanto mezzi di prova.
Pertanto, la società moderna ha necessità di documentare in maniera sicura e durevole le situazioni che hanno rilievo giuridico e deve perciò tutelarsi, anche mediante la previsione di sanzioni penali, da condotte idonee a mettere in pericolo tale esigenza di certezza.
Per questo motivo, protegge la genuinità e la veridicità degli atti che documentano situazioni e rapporti economicamente o giuridicamente rilevanti.
La genuinità e la veridicità vengono tutelate punendo chi causa la:
- falsità materiale degli atti (artt. 476-477-482 c.p.);
- falsità ideologica (artt. 478-479-480 c.p.).
In questi casi si è di fronte ad un «falso materiale». La falsità, infatti, incide sulla esistenza materiale dell’atto (che non proviene da colui che apparentemente sembra essere l’autore) oppure sulla sua materia che è alterata mediante aggiunte e cancellature. Si dice anche che l’atto, in queste ipotesi, è alterato nella sua «genuinità».
La falsità materiale può assumere due forme:
Si è invece in presenza di un «falso ideologico» quando non viene intaccata la genuinità dell’atto, ma la sua «veridicità»: ossia il suo tenore, il suo contenuto.
Si ha in tutti i casi in cui il documento, né contraffatto né alterato, contiene dichiarazioni menzognere: chi redige l’atto attesta cosa diversa da quel che è stato detto od è realmente accaduto e, nella sostanza redige un atto il cui contenuto non corrisponde a verità.
Affinché i reati in questione si realizzino è necessario:
Dagli esempi appena fatti emerge che i documenti tutelati possono essere di diverso tipo e provenienza. Semplificando al massimo, può dirsi che la principale distinzione è quella fra «documenti pubblici» e «scritture private».
Sono "documenti pubblici" quelli che provengono da un Pubblico Ufficiale o incaricato di un pubblico servizio (artt. 357 e 358 c.p.) e che sono redatti dall’uno o dall’altro di tali soggetti quando è nell’esercizio delle sue funzioni e delle sue attribuzioni.
Sono "scritture private" (o documenti privati) tutti quei documenti provenienti da soggetti sprovvisti della qualifica di Pubblico Ufficiale o di incaricato di servizio oppure redatti da costoro, ma al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni o attribuzioni.
Quando la falsità riguarda un documento pubblico, il reato assume naturalmente maggiore gravità, a seconda del tipo di documento (certificazioni e autorizzazioni amministrative, atti pubblici o copie autentiche di atti pubblici o privati, gli attestati)[1], e del fatto che l’autore sia o meno un pubblico o un privato.
Quando invece alle scritture private, per la falsificazione di talune di esse, il codice penale prevede una pena analoga a quella prevista per gli atti pubblici falsificati dal privato.
Le scritture private prese in considerazione sono il testamento olografo e i titoli di credito (cambiali, assegni, vaglia postali e telegrafici). I reati che le riguardano sono perseguibili a querela.
[1] Gli atti pubblici sono documenti redatti dai Pubblici Ufficiali o dai pubblici impiegati incaricati di un pubblico servizio nell’esercizio delle loro funzioni o attribuzioni (ad esempio: i verbali della P.G., i contratti di arruolamento dei marittimi, i diplomi di studio, la cartella clinica redatta dal medico addetto all’ospedale, i certificati rilasciati dal medico di porto, l’atto di un notaio e l’autenticazione della firma redatta da un notaio, ecc.).
Le certificazioni amministrative sono documenti redatti da un Pubblico Ufficiale per attestare (confermare, comprovare, ribadire) l’esistenza di una determinata situazione o di un determinato fatto giuridico (ad esempio: la carta di identità, il passaporto, la targa dell’autovettura). Le certificazioni amministrative si distinguono dagli atti pubblici, in quanto questi ultimi vengono posti in essere per creare una nuova situazione giuridica; gli altri per dichiarare una situazione giuridica già esistente. Per esemplificare: il notaio che redige un atto di vendita (atto pubblico) crea una nuova situazione giuridica: la proprietà in capo a chi acquista. Il funzionario che rilascia una carta di identità (certificazione) attesta, invece, nel documento delle risultanze emergenti da altri atti in suo possesso.
Come prevede l’art. 476 c.p. lo commette il Pubblico Ufficiale (reato proprio) che, nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero.
La condotta consiste nel formare (creare qualcosa che prima non esisteva) in tutto o in parte un atto falso (equivale a contraffare); e nell’alterare (modificare qualcosa di preesistente) un atto vero.
Il reato si consuma con il verificarsi della contraffazione o della alterazione.
Si procede d’ufficio e la competenza è del "Tribunale monocratico". Il colpevole è punito con la reclusione da 1 a 6 anni.
Se la falsità riguarda un atto che faccia fede fino a querela di falso la reclusione è da 3 a 10 anni.
► Falsità materiale commessa dal Pubblico Ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative
Come prevede l’art. 477 c.p. lo commette il Pubblico Ufficiale che, nell’esercizio delle sue funzioni, contraffa o altera certificati o autorizzazioni amministrative, ovvero, mediante contraffazione o alterazione, fa apparire adempiute le condizioni richieste per la loro veridicità.
Appare chiaro che sono due le ipotesi delittuose e che di esse la seconda consiste nella "contraffazione" non dell’atto come tale, ma di alcuni suoi elementi, quali per esempio il visto, la vidimazione, la legalizzazione di firme, ecc. "Contraffazione" si deve intendere formazione di un atto ad imitazione di un atto vero.
Il colpevole è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni (Tribunale monocratico).
Come prevede l’art. 479 c.p. lo commette il Pubblico Ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
Il colpevole è punito, ai sensi dell’art. 476 c.p., con la reclusione da 1 a 6 anni, oppure, se la falsità concerne un atto o parte di un atto che faccia fede fino a querela di falso, con la reclusione d 3 a 10 anni.
► Falsità ideologica commessa dal Pubblico Ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative
Come prevede l’art. 480 c.p., lo commette il Pubblico Ufficiale che, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente, in certificati o autorizzazioni amministrative, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
Il colpevole è punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni.
In tale categoria rientrano tutti quei comportamenti che sono idonei a "sorprendere la buona fede" delle Autorità, o di un numero indeterminato di persone, relativamente alla identità, allo stato o alle qualità di un individuo.
► Falsa attestazione o dichiarazione a un Pubblico Ufficiale sulla identità personale sulla identità o su qualità proprie o altrui (art. 495 c.p.)
Commette tale reato (art. 495 c.p.), chiunque dichiara o attesta falsamente al Pubblico Ufficiale, in un atto pubblico, l'identità o lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona ovvero chi commette il fatto in una dichiarazione destinata ad essere riprodotta in un atto pubblico.
Oggetto specifico è la «tutela della fede pubblica» da condotte dirette ad alterare gli elementi di identificazione di una persona o le sue qualità di rilievo sociale.
La condotta consiste nel dichiarare o attestare falsamente ad un relativamente alla propria o altra persona:
Le dichiarazioni devono essere rese in "atto pubblico" (Verbale) ovvero devono essere inserite in atto pubblico. Il reato si consuma nel momento in cui le dichiarazioni vengono rese ed indipendentemente quindi dal fatto che siano state o meno riprodotte nell’atto pubblico (il reato quindi non viene meno anche se il dichiarante ritratta le sue dichiarazioni prima della conclusione dell’atto).
► False dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 496 c.p.)
Commette tale reato (art. 496 c.p.), chiunque interrogato sulla identità, sullo stato o su altre qualità della propria o dell'altrui persona, fa mendaci dichiarazioni a un Pubblico Ufficiale, o a persona incaricata di un pubblico servizio, nell'esercizio delle funzioni o del servizio.
Occorre ai fini della punibilità che il Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio "abbia richiesto" – nell’esercizio delle funzioni o del servizio – al soggetto di fornire indicazioni sulla identità, sullo stato o sulle qualità della propria persona e dell’altrui persona; che il soggetto "abbia aderito all’invito" (se rifiuta: art. 651 c.p.) e "abbia fatto dichiarazioni mendaci"; che il soggetto fosse consapevole delle qualità del richiedente e della falsità delle proprie dichiarazioni.
Come si vede qui non si hanno dichiarazioni destinate ad essere riprodotte in un atto pubblico; perciò l’ipotesi in esame differisce da quella prevista dall’articolo precedente.
In tal caso si realizza un’ipotesi di concorso di reati, perché commessi in tempi diversi, sia pure con la stessa finalità, ma con diverse violazioni di norme giuridiche, delle quali una protegge la pubblica falsa documentazione e l’altra la pubblica fede personale.
Il colpevole è punito con la reclusione da 15 giorni a 1 oppure con la multa da 5 € a 516 €.
Il regolare e proficuo svolgimento (o meglio, il buon andamento) delle attività della Pubblica Amministrazione può essere turbato dalle condotte (abusi) di quelle stesse persone che sono chiamate ad esercitare tali pubbliche attività.
Nel titolo XII, Capo III, Sezioni II e IV del Codice penale, sono previsti e puniti «i fatti» commessi dai Pubblici Ufficiali che, con la perfetta consapevolezza di agire fuori dei casi consentiti dalla legge e di abusare, quindi, dei poteri inerenti alla pubblica funzione, offendono oltre all’interesse relativo al regolare svolgimento della Pubblica Amministrazione (interesse secondario), altresì gli interessi (primari) relativi alla libertà della persona:
► Arresto illegale (art. 606 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 606 c .p., il Pubblico Ufficiale (357) che procede ad un arresto (380 ss. c.p.p.), con la consapevolezza di abusare dei poteri[1], inerenti alla pubblica funzione (Cass. 22 novembre 1982, Rosa).
Ai fini della punibilità occorre sottolineare che deve sussistere la volontà (dolo) da parte del Pubblico Ufficiale, di procedere all’arresto con la consapevolezza di agire fuori dei casi previsti dalla legge.
Se manca la volontà (ad esempio, errore dovuto a ignoranza) il fatto potrà essere punito soltanto in sede disciplinare.
Il colpevole è punito con la reclusione fino a tre anni.
► Abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 608 c.p., il Pubblico Ufficiale che, per ragioni del suo ufficio, sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la custodia, anche temporanea, o che sia a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell’Autorità competente.
Occorre ai fini della punibilità che il Pubblico Ufficiale abbia adottato un provvedimento non consentito dalla legge per effetto del quale la libertà fisica della persona arrestata o detenuta o affidata sia rimasta limitata oltre i termini legali.
Il delitto può concorrere materialmente (concorso di reato) con altri delitti i quali offendono beni ed interessi della persona diversi dalla libertà fisica (ad esempio, percosse, lesioni, ingiurie, minacce, ecc.)
Il colpevole è punito con la reclusione fino a trenta mesi.
La stessa pena si applica se il fatto è commesso da un altro Pubblico Ufficiale (357), rivestito, per ragione del suo ufficio, di una qualsiasi autorità sulla persona custodita.
► Perquisizione e ispezione personali arbitrarie (art. 609 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 609 c.p., il Pubblico Ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue una perquisizione (352, 247-252 c.p.p.) o un’ispezione personale (245 c.p.p.).
Occorre che, fuori dei casi in cui la legge autorizza a procedere ad una ispezione o perquisizione personale, il Pubblico Ufficiale abbia provveduto a uno di tali atti con la perfetta consapevolezza di agire fuori dei casi consentiti dalla legge; oppure, nei casi in cui l’ispezione o la perquisizione fosse autorizzata dalla legge, che lo stesso non abbia osservate le formalità prescritte, con la consapevolezza dell’abuso.
Si rammenta che l’art. 354 comma 3 c.p.p. vieta agli Ufficiali di polizia giudiziaria l’ispezione personale del soggetto.
Quando con la perquisizione o l’ispezione arbitraria vengono offesi altri beni, oltre a quello della libertà personale della persona sottoposta agli atti suddetti (ad esempio, libertà sessuale, pudore, onore), si avrà concorso materiale di delitti.
Il colpevole è punito con la reclusione fino ad un anno.
► Violazione di domicilio commessa da un Pubblico Ufficiale (art. 615 c.p.)
Commette il reato di cui all'art. 615 c.p., il Pubblico Ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni (323), s’introduce o si trattiene nei luoghi indicati nell’articolo 614 c.p. (abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi)
Occorre, ai fini della punibilità, che il Pubblico Ufficiale sia "competente" (presupposto) ad effettuare una perquisizione domiciliare (se lo stesso agisce fuori della sfera dei suoi poteri, risponde del delitto di cui all’art. 614 in concorso materiale col delitto previsto dall’art. 347 - Cass. 28 giugno 1940, Salvetti); che lo stesso si sia introdotto o trattenuto nei luoghi indicati nell’art. 614 c.p. illegittimamente oppure si sia introdotto nei luoghi stessi senza osservare le formalità prescritte dalla legge.
Occorre, infine, che il Pubblico Ufficiale abbia commesso l’azione rendendosi ben conto di commettere un abuso (se difetta la coscienza dell’abuso si avrà soltanto una grave mancanza disciplinare).
La pena è della reclusione da uno a cinque anni se l’abuso consiste nell’introdursi o nel trattenersi nell’abitazione.
Se l’abuso consiste nell’introdursi nei detti luoghi senza l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge (250, 352 c.p.p.), la pena è della reclusione fino a un anno.
[1] L’abuso di potere comprende l’usurpazione del potere non conferito dalla legge, l’eccesso di competenza, l’azione fuori dei casi consentiti dalla legge e la mancata osservanza delle formalità prescritte dalla legge.
In tale categoria rientrano tutti quei fatti che ostacolano l’attività dello Stato diretta ad assicurare l’ordine e la tranquillità pubblica.
L’ordine e il buon assetto ed il regolare andamento della vita sociale; la tranquillità pubblica – che rappresenta l’aspetto soggettivo dell’ordine – è la serenità d’animo che deriva al popolo dalla assenza di motivi di allarme, di commozione, di molestia.
► Inosservanza dei provvedimenti da parte dell'Autorità (art. 650 c.p.)
Commette il reato di cui all’art. 650 c.p., chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o d'igiene.
Oggetto specifico è la tutela dell’interesse all’osservanza individuale dei provvedimenti dati per il mantenimento dell’ordine pubblico genericamente considerato.
Si tratta di una norma penale in bianco ed a carattere ausiliario (opera cioè solo se l’inosservanza del provvedimento dell’Autorità non è punita da un’altra norma penale).
La condotta consiste nel non osservare un provvedimento (dell’Autorità amministrativa o dell’Autorità giudiziaria) dato legalmente (=provvedimento legittimo: vale a dire emesso dall’Autorità competente e con forme – anche orali – previsti dalle leggi) per una delle seguenti tassative ragioni:
Il reato non sussiste se il provvedimento non è congruamente motivato. In particolare, nel caso dei «biglietti di convocazione» utilizzati dalle Forze di polizia (ed anche dalla Capitaneria di Porto), la persona convocata deve essere posta in condizione di conoscere quantomeno le ragioni generali per le quali è stata chiamata.
► Rifiuto d'indicazioni sulla propria identità personale (art. 651 c.p.)
Commette il reato di cui all’art. 651 c.p., chiunque richiesto da un Pubblico Ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, rifiuta di dare indicazioni sulla propria identità personale, sul proprio stato, o su altre qualità personali.
Occorre accertare che il Pubblico Ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, abbia richiesto al soggetto di dare le proprie generalità; o che il soggetto abbia manifestato in qualunque modo, ma chiaramente, di non voler rispondere alla richiesta; ovvero che il soggetto abbia voluto non aderire alla richiesta, sapendo che il richiedente era un nell’esercizio delle sue funzioni o non sapendolo per un suo errore colposo.
Il rifiuto di fornire la prova delle proprie generalità "non costituisce questa contravvenzione" allorquando il soggetto declina le proprie generalità a voce, rifiutando di esibire il documento di identità (artt. 4 e 157 T.U.L.P.S.).
Il reato sussiste anche nel caso che, "dopo il rifiuto" il soggetto fornisca spontaneamente le generalità (Cass. 23 febbraio 1985, Cardinato).
Se il soggetto, invece di tacere, declina generalità false, commette il delitto di cui all’art. 496 c.p.
Ai fini del nostro studio, appare opportuno analizzare le fattispecie penalmente rilevanti che possono concretizzarsi a seguito dell’evento costituito dalla «navigazione marittima», e che possono di massima verificarsi per le seguenti violazioni, rispettivamente contemplate dal Codice Penale, dal Codice della Navigazione e da altre Leggi speciali:
Si tratta di un reato di creazione giurisprudenziale che si verifica quando l’offesa commessa dall’agente a un bene giuridico tutelato dall’Ordinamento giuridico, si protrae nel tempo per effetto di una sua condotta persistente e volontaria.
Si tratta dunque di un "reato di durata" caratterizzato dal fatto che l'evento lesivo e la sua consumazione perdurano per un certo periodo di tempo.
Il reato si compone di due fasi:
Nei reati permanenti acquista rilevanza giuridica non solo la condotta criminosa del soggetto agente che realizza la lesione del bene ma anche e soprattutto quella successiva di mantenimento.
Tale reato cessa nel momento in cui il reo mette fine alla sua condotta volontaria di mantenimento dello stato antigiuridico.
I requisiti di tale fattispecie sono dunque: carattere continuativo del comportamento criminoso e la volontà e la persistenza della condotta dell’agente.
Il carattere della permanenza non è un elemento caratteristico di questa particolare figura di illecito (giacché il reato si perfeziona con il semplice verificarsi del primo evento) ma va a incidere sulla determinazione della pena.
► Nel nostro Ordinamento penale sono previste diverse figure del reato permanente tra i quali:
Non è pacifica in dottrina la distinzione fra il "reato continuato" e il "reato permanente" e la stessa distinzione normativa non è da tutti condivisa. La differenza consisterebbe infatti nella eventuale pluralità di azioni da considerarsi singolarmente reati ripetuti (reiterati), ovvero nella configurabilità di un reato unico, all'interno di un arco temporale rilevante durante il quale perduri una situazione di illecito.
"Il Procedimento Penale"
Concetto di procedimento
Il diritto penale ricomprende tutte le norme che sanzionano con la pena un fatto illecito denominato reato. Poiché la pena è la più drastica, infamante e intimidatoria delle sanzioni, essa può essere inflitta solo dallo Stato (e cioè dall’unica istituzione finalizzata ad assicurare lo svolgimento ordinato e pacifico della vita in comune) e solo all’esito un “procedimento” rigorosamente regolato, affidato all’Autorità giudiziaria e quindi particolarmente garantito che rappresenta, appunto, il «procedimento penale»[1].
Il procedimento penale è il meccanismo attraverso il quale gli Organi giudiziari (Polizia Giudiziaria, Pubblico Ministero e Giudice) pervengono attraverso vari momenti e varie fasi all'accertamento, positivo o negativo di un reato e alla applicazione al caso concreto della norma che stabilisce essere stata violata.
All'accertamento del reato ed ai suoi effetti punitivi, si perviene, dunque, attraverso il «procedimento penale». Esso prevede il compimento di atti da parte dei vari Soggetti (la Polizia Giudiziaria, il Pubblico Ministero, l'imputato, il difensore....) e si articola in vari momenti e varie fasi (come quella delle indagini preliminari, del giudizio di primo grado, dell'appello...).
La nostra procedura penale, fondata sul sistema accusatorio, è calibrata sulla distinzione tra la «fase delle indagini preliminari», svolte dalla Polizia Giudiziaria sotto la direzione del Pubblico Ministero o da quest’ultimo personalmente, e la «fase del processo» celebrata innanzi ad un Giudice nel contraddittorio tra Pubblico Ministero ed imputato.
► Il procedimento, pertanto, comprende:
L’ampio significato del termine "procedimento" si riflette nella terminologia del codice vigente che lo utilizza in riferimento sia ad entrambe le fasi procedimentali (la pre-processuale e la processuale), sia soltanto alla fase delle indagini preliminari (pre-processuale)
Sia l’individuazione dei “Soggetti” del procedimento penale sia l’individuazione e la disciplina dei loro compiti e funzioni sono regolate da norme che si denominano processuali penali e che, per la loro gran parte, sono collocate nel Codice di Procedura Penale e in altre disposizioni ad esso complementari.
[1] Il termine «procedimento» esprime l’idea comune del procedere..., del proseguire..., del susseguirsi di una serie di atti in ordinata e prestabilita sequela verso una meta o finalità.
Lo Stato è l'ente originario (il suo potere non deriva da nessuno) e sovrano, destinato a garantire le condizioni fondamentali e indispensabili perché, sul suo territorio, i rapporti tra i singoli si svolgano in modo ordinato e si dirigano allo sviluppo ed al benessere dell’intera collettività.
Al conseguimento delle finalità di conservazione e sviluppo della comunità stabilita sul suo territorio, lo Stato provvede con una serie di attività che costituiscono le sue “funzioni”.
In particolare, l'attività del personale del Corpo delle Capitanerie di Porto, Guardia Costiera (così come per le altre forze e organi di polizia) si colloca all'interno del più ampio contesto della "funzione amministrativa " dello Stato che, in via principale, ha il fine di mantenere l’ordine interno mediante l' «Attività di Polizia», ossia l'attività rivolta a prevenire condotte in grado di turbare l’ordine e la sicurezza pubblica oltre ché a reprimere le violazioni già verificatesi di norme penali, impedendone gli eventuali ulteriori effetti.
La funzione legislativa, giurisdizionale e amministrativa
Mediante la «funzione legislativa» lo Stato detta ai suoi consociati delle regole di condotta «norme» che vietano atti socialmente dannosi e spronano invece ad operare in senso vantaggioso. Poiché il complesso delle norme emanate dallo stato ne costituisce il «Diritto», può anche dirsi che la funzione legislativa è quella mediante la quale lo Stato pone e modifica il suo diritto.
L’osservanza del diritto - e quindi delle norme che ha emanato con l'esercizio della funzione legislativa - è realizzata dallo Stato mediante l’esercizio della «funzione giurisdizionale» (semplicemente giurisdizione). Tale funzione è ritenuta spesso la più delicata (se non la più importante) delle tre funzioni in quanto con essa si attribuisce ad un uomo (Giudice) la grave e talora drammatica responsabilità di giudicare il proprio simile. La giurisdizione consiste pertanto nel potere attribuito dallo Stato ai Giudici che hanno la funzione, all’esito di una ordinata sequenza di atti denominata «procedimento», di dichiarare se nel caso specifico la norma è stata violata nonché, di conseguenza, di infliggere e far applicare anche coattivamente, le «sanzioni» che dalla stessa norma violata sono previste in caso di sua infrazione. A differenza della funzione legislativa, che ha carattere generale ed astratto, quella giurisdizionale ha dunque anzitutto un carattere concreto.
Proprio partendo dall’esempio appena fatto, può allora dirsi che, a seconda del tipo di norme che deve essere applicato nei casi concreti la "giurisdizione" può essere distinta in:
La "giurisdizione penale" riguarda la capacità di giudicare fatti e situazioni relativi a violazioni di norme penalmente sanzionate.
La "giurisdizione penale militare" costituisce una specie della giurisdizione penale in quanto riguarda la capacità di giudicare fatti e situazioni relative a violazioni di norme penali militari commesse dagli appartenenti alle Forze Armate.
La "giurisdizione civile" che riguarda la capacità di giudicare fatti e questioni attinenti a violazioni di «diritti soggettivi»[1] tutelati dall’ordinamento.
La "giurisdizione amministrativa" che riguarda la capacità di giudicare fatti e questioni relativi a violazioni di interessi (cc.dd. legittimi) nei rapporti fra privati e pubblica amministrazione.
► In particolare:
Mediante la «funzione amministrativa», lo Stato realizza gli interessi pubblici che, mediante la funzione legislativa, ha assegnato a se stesso in via preventiva ed astratta. Nell’attuale ordinamento del nostro Stato, i principali fini della funzione amministrativa sono quelli di:
La "conservazione dell’ordine interno e della sicurezza esterna" è attuata, in via prioritaria, mediante l’«attività di polizia» e cioè, mediante quell'attività amministrativa tesa alla prevenzione e repressione dei fatti che possono turbare la tranquillità, il benessere e la pacifica convivenza dei cittadini e che, con riferimento allo specifico oggetto degli interventi, solitamente si suddivide poi in:
La "conservazione della sicurezza esterna" è invece attuata dallo Stato sia mediante attività rivolte alla cura delle pacifiche relazioni con gli altri Stati sia mediante attività rivolte alla preparazione di mezzi di difesa militare (come la predisposizione di armamenti, il reclutamento dei militari e il loro addestramento)
La "finanza pubblica" si estrinseca, sia nella raccolta dei tributi sia nel controllo e nella regolamentazione dei modi di erogazione delle spese.
La "cura del benessere materiale della collettività" si esplica in prevalenza nel settore della previdenza, della sanità, dei lavori pubblici e delle comunicazioni (con la creazione di un efficiente sistema sanitario e di assistenza, con la costruzione di alloggi, strade, ospedali, con la predisposizione dei servizi postali e telefonici) ma che può esplicarsi altresì incoraggiando o esercitando direttamente attività economiche nel campo dell’agricoltura, dell’industria, del commercio.
La "cura del benessere morale della collettività" si esplica principalmente assicurando l’istruzione pubblica e incrementando le attività fisiche e sportive oltreché quelle culturali o di spettacolo.
[1] Diritti soggettivi pubblici: diritto all’uso dei beni demaniali, di ammissione alle scuole pubbliche, diritto alla libertà personale e patrimoniale, di libertà di pensiero, diritto all’elettorato e all’aspirazione alle cariche pubbliche, ecc.
Dovendo tentare di collocare in un giusto ambito le “funzioni” attribuite alla Polizia Giudiziaria, e per effetto, a chi appartenendo al personale del Corpo delle Capitanerie di Porto, Guardia Costiera, ha - sia pure limitatamente a taluni reati - la qualità di Ufficiale ed Agente di polizia giudiziaria, può dirsi, anzitutto, che la «Polizia Giudiziaria» è un soggetto del procedimento penale (artt. 55-59 c.p.p.) e. partecipa con gli altri soggetti (e in specie con gli altri soggetti pubblici del procedimento: il Pubblico Ministero e il Giudice) a stabilire se un fatto concreto che è stato commesso costituisce reato, chi ne è responsabile e quale pena merita.
La sua attività si colloca, pertanto, dopo la commissione di un fatto illecito che astrattamente può costituire reato e come abbiamo detto più volte, la funzione della polizia giudiziaria è una funzione diretta all’accertamento e alla repressione di un reato che è stato commesso ed alla ricerca del suo autore o autori per assicurarli alla giustizia.
Nello svolgimento dei ruoli assegnati il Pubblico Ministero e l’indagato/imputato fruiscono, rispettivamente, dell’ausilio della Polizia Giudiziaria e del Difensore.
La Polizia Giudiziaria ha la funzione di ricercare le fonti di prova e di compiere attività ed accertamenti volti a consentire il Pubblico Ministero di stabilire la “fondatezza” della notizia di reato.
Il difensore ha la funzione di assistere tecnicamente l’indagato/imputato e di consentire che il processo-duello giudiziario si svolga «ad armi pari»: cosa che non potrebbe accadere se dovessero fronteggiarsi un accusatore competente come il Pubblico Ministero e un accusato digiuno di diritto come l’imputato.
Accanto ai soggetti necessari fin qui indicati (Giudice, Pubblico Ministero, Polizia Giudiziaria, indagato/imputato e difensore), si muovono, sulla scena del processo, altri soggetti che possono essere definiti «eventuali»; la loro presenza nel procedimento può essere spontanea o provocata (artt. 348, comma 4 e 359 c.p.p.) [1] e non è mai indispensabile.
Tra i soggetti eventuali una specifica considerazione meritano:
[1] Art. 348, 4° comma c.p.p. - La polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega del Pubblico Ministero, compie atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee (c.d. ausiliari di polizia giudiziaria) le quali non possono rifiutare la propria opera.
Art. 359 c.p.p. (Consulenti tecnici del Ministero) – Il Pubblico Ministero, quando procede ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze, può nominare (art. 225 c.p.p. e art 73 att.) e avvalersi di consulenti, che non possono rifiutare la loro opera. Il consulente può essere autorizzato dal P.M. ad assistere a singoli atti di indagine.
L’art. 232 c.p.p. (Liquidazione del compenso al perito) – Il compenso al perito è liquidato con decreto del Giudice che ha disposto la perizia, secondo le norme delle leggi speciali (art. 73 att). Per i compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori, si veda la Legge 8 luglio 1980, n. 319 e, per i successivi adeguamenti, il D.P.R. 27 luglio 1988, n. 352 e il D.M. 30 maggio 2002 del Ministero Giustizia
Il termine «Autorità Giudiziaria» (=A.G.) è sinonimo di Magistratura cioè a dire il complesso degli Organi che amministrano la giustizia. Istituzionalmente ha competenza in materia di reati e si ripartisce in:
Il Codice di procedura penale [52] si apre con la normativa intitolata al "Giudice", proprio per segnalare la centralità della "funzione giurisdizionale", che è quella di gran lunga preminente nel processo. Tocca al Giudice, infatti, risolvere la controversia fra il Pubblico Ministero ed imputato, esprimendo la sua valutazione sugli elementi raccolti nel processo. Nell'assolvere questo compito il Giudice gode di ampia indipendenza, egli è soggetto solo alla legge, e deve essere estraneo agli interessi in conflitto.
Il nostro ordinamento giuridico prevede «tre gradi di giudizio», nel cui contesto si sviluppa uno schema processuale unitario: un organo che esercita la pubblica accusa (funzione requirente) nei confronti di un difensore (avvocato); il tutto davanti ad un Organo imparziale e terzo che viene definito "organo giudicante" che emetterà una sentenza di condanna o di assoluzione.
La Magistratura giudicante è organizzata secondo il principio (contenuto nell'art. 101 della Costituzione) per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Quindi, nonostante vi siano diversi giudici e vari gradi del giudizio,non esiste fra i giudici nessuna gerarchia.
La Magistratura, pur essendo formata di dipendenti pubblici, gode di una particolare autonomia nei confronti degli altri due poteri fondamentali dello Stato (quello legislativo del Parlamento e quello esecutivo del Governo).
I "magistrati di carriera" (Giudici e Pubblici Ministeri) sono distribuiti in senso orizzontale (o geografico) in 24 distretti di Corte d'Appello (oltre che 3 sezioni distaccate di esse) ed in Roma presso la Corte di cassazione., oltre che nelle Procure della Repubblica presso i vari Uffici giudiziari. Nell'ambito di ciascun distretto esistono gli uffici giudiziari di primo e secondo grado (appello)
A decorrere dal 2 giugno 1999, in seguito alla riforma del "Giudice unico di primo grado" (D.lgs. n. 51/98 e successive norme), vi è stato l'assorbimento delle Preture e delle relative Procure della Repubblica rispettivamente nei Tribunali ordinari e nelle corrispondenti Procure, mentre nulla è stato innovato nell'organizzazione dei restanti uffici giudiziari.
Per quanto attiene all'amministrazione della giustizia penale e qui considerando anche gli uffici del Pubblico Ministero, si hanno:
In base al «numero delle persone» necessarie ad integrare la composizione dell’Organo decidente, si hanno:
I magistrati del Pubblico Ministero (che non sono giudici, non avendo funzioni di giudizio) operano, usualmente in composizione monocratica e solo eccezionalmente, ove lo ritengono (ad esempio in indagini complesse), si aggregano in pool.
I magistrati (giudici e pubblici ministeri), quali «persona fisica», possono essere di "carriera" (o professionali o togati), se sono legati allo Stato da rapporto di impiego ovvero, nel caso opposto, "onorari" (o laici).
Sono magistrati onorari monocratici i Giudici di pace ed in Giudici onorari di tribunale (G.O.T.), nonché i componenti privati di organi collegiali (di Corte d'Assise di primo e secondo grado, nonché gli esperti del tribunale per i minorenni, quelli della corrispondente Corte d'Appello per i minorenni e quelli del Tribunale di sorveglianza).
Sulla base della «natura delle funzioni» si hanno:
In base alla «ampiezza della loro cognizione», si hanno:
La «giurisdizione penale» è il potere attribuito a determinati Organi dello Stato (Giudici penali) di accertare, secondo regole e garanzie ben brecise (procedimento o processo penale) se un determinato fatto commesso da un uomo (c.d. fattispecie concreta) corrisponde o meno alla sua previsione generale (c.d. fattispecie astratta) contenuta in una legge penale. In una legge, cioè, che precede, per cho commette quel fatto (reato) un particolare tipo di sanzione (ergastolo, reclusione e/o multa; arresto e/o ammenda), detta, appunto, sanzione penale o pena.
Le leggi, infatti, contengono disposizioni generali ed astratte, dettate, cioè, per qualunque persona e per qualunque caso. Pertanto, quando si verifica la concreta violazione di una norma penale, è compito della giurisdizione penale accertare se l’imputato ha commesso o meno quel determinato reato e, in caso di accertamento positivo, applicargli la relartiva sanzione tenendo conto delle particolari modalità con le quali il reato è stato realizzato.
Il Giudice può esercitare la funzione giurisdizionale solo se un Organo dello Stato (Pubblico Ministero) gli formula la richiesta di decidere su una accusa (imputazione) mossa a carico di un soggetto (imputato). E’ mediante tale richiesta che il Pubblico Ministero esercita l’azione penale.
Il Pubblico Ministero deve esercitare l’azione penale quando, al termine delle indagini preliminari, svolte con l’ausilio della Polizia Giudiziaria, ritiene di aver acquisito "elementi idonei" a sostenere l’accusa di fronte al Giudice.
Sia il Giudice che il Pubblico Ministero fanno parte della «Magistratura» . Istituzionalmente ha competenza in materia di reati e si ripartisce:
Il "Procuratore della Repubblica presso il Giudice unico" (=Tribunale ordinario) rappresenta la magistratura «inquirente», e cioè quella che inizia e conduce le indagini. Questo organo è il “dirigente” della Polizia Giudiziaria nel territorio di sua competenza. A lui la Polizia Giudiziaria deve inviare le “segnalazioni” e al medesimo il privato cittadino può indirizzare una denuncia o una segnalazione per illeciti penali (=reati).
Il nostro ordinamento giuridico prevede «tre gradi di giudizio», nel cui contesto si sviluppa uno schema processuale unitario: un Organo che esercita la pubblica accusa (funzione requirente) nei confronti di un difensore (avvocato); il tutto davanti ad un Organo imparziale e terzo che viene definito organo giudicante che emetterà una sentenza di condanna o di assoluzione.
► Il Giudizio di primo grado
In primo grado esistono un organo «requirente» e un organo «giudicante».
Un "Procuratore della Repubblica presso il Giudice unico" (Dlgs. N. 51/98)[1] eserciterà la pubblica accusa presso il "Tribunale giudicante" – il quale fungerà, a seconda dei casi, da organo di giudizio monocratico o collegiale.
Un «organo speciale» insediato presso ogni Tribunale formato da sei giudici popolari e da due giudici togati si chiama "Corte d’assise" e giudica su reati di massima gravità come ad esempio l’omicidio volontario.
Una distinzione selettiva, che corrisponde più o meno concettualmente a gradi di gravità dei reati, fa si che alcuni illeciti penali siano sanciti come di competenza del Tribunale in «composizione monocratica» (meno gravi, più frequenti) altri del Tribunale in «composizione collegiale» (più gravi).
Il Tribunale in composizione monocratica (un solo Giudice) giudica reati di "facile accertamento" e per lo più quelli punibili con la "pena della reclusione non superiore ai 10 anni".
Il Tribunale in composizione collegiale (tre giudici: un presidente e due a latere) giudica viceversa quei reati per cui è prevista la "pena della reclusione superiore ai 10 anni" e per tutte quelle fattispecie che sfuggono alla sfera di competenza della Corte d’Assise.
Il Tribunale al termine del processo (che si chiama anche dibattimento o rito ordinario) emette una “sentenza” che può essere impugnata (c.d. gravame) sia dall’imputato (se viene condannato) sia dal P.M. (ove la sentenza sia di assoluzione contro la sua richiesta di condanna)[2] .
Il Tribunale in composizione monocratica è anche "Giudice d’Appello" avverso le "sentenze del Giudice di pace".
► Il Giudizio di secondo grado (=Appello)
La "Corte di appello", che in genere ha competenza su tutti i Tribunali della Regione, svilupperà il giudizio di secondo grado[3] .
La pubblica accusa sarà esercitata da un solo Organo requirente che si chiama “Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello” e che è il diretto superiore del procuratori presso i Tribunali di tutta la Regione.
La sentenza della Corte di appello può essere ancora impugnata (=ricorso) sia dall’imputato (se viene condannato) sia dal procuratore generale (ove la sentenza sia di assoluzione contro la sua richiesta di condanna).
► Il Giudizio di terzo grado (=Ricorso)
L’ultimo grado di giudizio viene esercitato dalla "Suprema Corte di Cassazione" che si trova a Roma e giudica su tutte le sentenze di tutte le Corti di appello del Paese. La pubblica accusa sarà esercitata da un solo organo requirente che si chiama "Procuratore Generale presso la Corte di cassazione".
Contro la sentenza della Cassazione non è più possibile nessuna impugnazione e si dice che questa sentenza è definitiva ovvero, in termine tecnico, è «passata in giudicato». Soltanto da questo momento la sentenza spiega tutti i suoi effetti e, ad esempio, viene registrata sul certificato penale e diventa esecutiva.
Questo Organo supremo della giustizia assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge. Esso è Giudice di «legittimità» in quanto non giudica sul fatto (come i Giudici di 1° e 2° grado cc.dd. di merito) ma sul modo in cui il diritto è stato applicato al fatto.
Quando ritiene che tale applicazione non sia stata corretta, la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di cancellare (=cassare) il provvedimento che davanti ad essa è stato impugnato e di rimetterlo ad un Giudice c.d .del rinvio ovvero annullarlo senza rinvio nei casi espressamente previsti all’art. 620 c.p.p.[4]
[1] In attuazione della legge delega 16 luglio 1997, n. 254, il D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 ha introdotto nel nostro ordinamento il “Giudice unico di primo grado” (il Tribunale ordinario), che riunisce in un unico ufficio la pretura e il tribunale. La legge 16 giugno 1998, n. 188 ha reso operante dal 2 giugno 1999 tale unificazione. Con D.L. 24.5.1999, n. 145, convertito in legge 234/1999, è stata differita al 2.1.2001 l’operatività in campo penale della riforma.
[2] Ai sensi dell’art. art. 593 c.p.p., come sostituito dall’art. 1 Legge. n. 46/2006 (c.d. Pecorella), l’imputato e il PM possono impugnare la sentenza di proscioglimento solo se le richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello sia basata su nuove e decisive prove. Il Giudice dell’appello, qualora in via preliminare non disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, dichiara inammissibile l’appello con Ordinanza impugnabile in Cassazione.
La condanna può essere impugnata sempre, tranne che in alcuni casi (art. 593 c.p.p.):
[3] Vedi ricorso immediato per Cassazione o “per saltum” (art. 569 c.p.p.)
[4] Art. 620 c.p.p.: lett. a) se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se il reato è estinto (150 ss. C.p.) o se l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita (336 ss, 649); lett. b) se il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario; […] lett. l) in gni altro caso in cui la corte ritiene superfluo il rinvio ovvero per essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare procedimenti necessari.
Per competenza penale si intende la «porzione di giurisdizione» che è attribuita a ciascun Giudice, con riferimento:
1. alla materia
2. allo spazio territoriale nel quale ciascuno Giudice opera
3. alla connessione
Attraverso il rispetto delle regole sulla competenza viene chiammato a giudicare su determinati fatti-reato il c.d. Giudice naturale individuato con criteri predeterminati e astratti prima della commissione del fatto (art. 25 Cost.).
Ogni reato si caratterizza per il suo titolo (nomen juris) o per la sua gravità (desunta da tipo e dalla misura della pena prevista); inoltre rileva il luogo ove venne commesso ed i legami con altri reati; possono ancora assumere rilevanza le caratteristiche personali del suo presunto autore (infatti, se di età compresa tra i 14 anni ed i 18 anni non ancora compiuti, verrà giudicato dal Tribunale per i minorenni).
Questi parametri costituiscono appunto la "misura della giurisdizione" dei Giudici, e cioè la loro competenza.
La competenza è disciplinata secondo "criteri" che tengono conto di:
La «competenza per materia» consiste nella sfera di giurisdizione appartenente a ciascun tipo di Giudice-ufficio ratione materiae. Essa individua, tra una molteplicità di giudici-ufficio, coesistenti nel medesimo territorio (ad esempio, tra Giudice di pace e Tribunale monocratico) quello competente secondo il tipo di reato (materia).
Nell’ambito di un determinato territorio uno solo (ad esempio, il Tribunale collegiale) è il Giudice-ufficio astrattamente competente per un dato tipo di reato (ad esempio, inquinamento marino).
In grado di appello, la competenza per materia è determinata secondo il criterio funzionale e, quindi, di sovraordinazione funzionale (Corte di appello rispetto al Tribunale, monocratico o collegiale; Corte d’assise di appello rispetto alla Corte di assise di 1° grado).
In terzo grado è sempre competente, per materia e territorio, la Corte di cassazione, che è l’unico Giudice di legittimità nello Stato.
Il «Giudice di Pace» appartiene all'ordine giudiziario così come il magistrato ordinario ma, a differenza di questo, è un magistrato onorario a titolo temporaneo (laureato in Scienze giuridiche ovvero ex magistrato, ex avvocato, insegnante di materie giuridiche). Rimane in carica quattro anni e alla scadenza può essere confermato una sola volta per altri quattro anni. Al compimento del 75° anno il Giudice di Pace cessa dalle sue funzioni. Egli è tenuto ad osservare i doveri previsti per i magistrati ed è soggetto a responsabilità disciplinare.
Il Giudice di Pace dal 1º ottobre 2001 è anche un giudice penale (ma è entrato effettivamente in funzione il 1º gennaio 2002): il decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, ha attribuito alla sua cognizione, una larga parte dei reati di lieve e di facile accertamento cc.dd. di microcriminalità, consistente in forme illegalità minori per gravità, ma molto diffuse nell’ambiente sociale e tra gli altri, alcuni reati di notevole diffusione:
Tra le fattispecie delittuose previste dal "Codice della Navigazione" affidate alla tutela penale del Giudice di pace, rientrano:
Il processo davanti al Giudice di pace ha luogo normalmente per iniziativa del Pubblico Ministero. Il Pubblico Ministero dopo aver disposto le necessarie investigazioni, se ravvisa elementi sufficienti per sottoporre a processo il soggetto indagato, richiede il suo rinvio a giudizio.
Anche la persona offesa, per i reati perseguibili a querela, può chiedere al giudice l'instaurazione del processo. In questi casi, l'offeso può presentare un "ricorso diretto" al Giudice di Pace, depositandolo nella segreteria del Pubblico Ministero, che provvede alla formalizzazione dell'addebito.
Il Giudice di Pace, se non ritiene il ricorso infondato o inammissibile, dispone la convocazione delle parti innanzi a sé.
Il processo penale innanzi al Giudice di Pace è caratterizzato dalla particolare attenzione a favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra imputato e persona offesa.
Il giudice, sentita la persona offesa, può dichiarare estinto il reato se l'autore della violazione dimostra di aver provveduto alla riparazione del danno causato e di avere eliminato la situazione di pericolo eventualmente determinata.
È inoltre previsto che il Giudice di Pace possa astenersi dal procedere quando risulti, per l'esiguità dell'offesa e l'occasionalità del comportamento, la particolare "tenuità" del fatto (tenuto conto anche del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento arrecherebbe alle esigenze di lavoro, famiglia o salute dell'imputato), sempre che l'offeso non si opponga.
L'imputato e la persona offesa sono difesi da un avvocato. Alle persone che non hanno i mezzi per far fronte alle spese di un procedimento penale è assicurato, anche davanti al Giudice di Pace, il gratuito patrocinio, cioè la difesa a carico dello Stato.
A seguito della riforma apportata dalla Legge 16 dicembre 1999, n. 479 [53][1] (c.d. legge CAROTTI dal nome del parlamentare, relatore alla Camera dei Deputati), in materia penale, il Giudice Unico di primo grado[2] è unicamente il Tribunale, il quale giudica, in alcuni casi, in «composizione collegiale» (tre magistrati) e in altri in «composizione monocratica».Trattandosi di un unico Giudice che lavora in composizione monocratica e collegiale non vi è una vera e propria ripartizione di competenza, ma piuttosto di attribuzione degli affari all’interno del medesimo ufficio.
Le funzioni del Tribunale monocratico possono essere affidate anche ai giudici "onorari del tribunale" (G.O.T.)[3] «in caso di impedimento o mancanza dei Giudici ordinari».
Innanzi al Tribunale monocratico possono esercitare le funzioni di Pubblico Ministero soggetti non togati (i cc.dd. Delegati dal P.M.), ma limitatamente ai reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio (art. 58 legge 479/99, che ha modificato l’art. 72, comma 3 Ord. Giudiziario).
Dal 2 gennaio 2008 è stata attribuita al Giudice del tribunale monocratico la "convalida" dei provvedimenti del «Prefetto» in materia di espulsione dal territorio dello stato, e dei provvedimenti di accompagnamento alla frontiera o di trattenimento in un centro di accoglienza temporanea emanati dal Questore (secondo quanto previsto dal Decreto Legge 29.12.2007, n. 249, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 1 del 2 gennaio 2008).
[1]
La legge 479/99, pubblicata sulla G.U. n. 296 del 18.12.1999 è entrata in vigore il 2.1.2000 ed è stata ulteriormente modificata dall’art. 2bis, D.L. 7.4.2000, n. 82 (conv. in L. 144/2000).
Appare opportuno evidenziare che l’endiade «Giudice unico di primo grado» non è sinonimo di «Giudice monocratico»
[3]
Ai sensi dell’art. 10 D.lgs 51/98, i G.O.T. non possono svolgere le funzioni di Giudice per le indagini preliminari, né di Giudice dell’Udienza Preliminare.
E' organo collegiale giudicante i reati (quale che ne sia la gravità o tipo - art. 3 D.P.R. 2.9.1988, n. 448) attribuiti ai minori di 18 anni, al fine di assicurare al giovane una effettiva, piena attuazione del suo diritto all'educazione e cioè ad una adeguata strutturazione di personalità e ad un regolare processo di socializzazione.
Innazitutto sono previsti dei tribunali "specializzati", che risiedono presso i Tribunali che sono sede di Corte d'Appello (il Tribunale, in ogni capoluogo ha una sezione dedicata ai minori), e presso i quali sono costituite delle Procure della Repubblica per i minorenni, altrettanto specializzate. La finalità risocializzante e recuperatoria dei procedimenti a carico di minori giustifica la concentrazione innanzi al Giudice specializzato ratione personae (età minore degli anni 18).
Presso il Tribunale per i minorenni viene costituito l'ufficio del Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) (art. 50bis, R.D. n. 12/1941, aggiunto all'art. 14 del D.P.R. n. 449/88), che agisce singolarmente per i provvedimenti da adottarsi durante la fase delle indagini, mentre risulta integrato da due giudici onorari, un uomo e una donna, in sede di Udienza preliminare.
La «Corte di assise» è un organo collegiale composto da 8 giudici, di cui 2 togati (uno è il presidente, l’altro il giudice "a latere") ed altri 6 ordinari (che vengono definiti giudici popolari) estratti a sorte tra i cittadini di nazionalità italiana, senza alcuna distinzione di sesso, in una età compresa tra i 30 e i 65 anni; requisito minimo è il titolo di studio: diploma di licenza media inferiore per i giudici popolari del 1° grado e diploma di licenza media superiore per i giudici popolari del 2° grado.
La Corte è articolazione autonoma del Tribunale. I magistrati ed i giudici popolari costituiscono un collegio unico. In particolare i giudici popolari della Corte d'Assise realizzano la partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia, in esecuzione dell'art. 102 Cost., relativamente ai reati che hanno maggior risonanza nel campo sociale.
La Corte d'Assise ha competenza a giudicare i "delitti più gravi", quali omicidio, omicidio preterintenzionale, strage, ed "i più gravi delitti politici", oltre ad alcuni delitti comportanti valutazioni etico-professionali (per es. omicidio del consenziente), mentre solitamente è priva di competenza nel giudicare reati che richiedano conoscenze tecnico-giuridiche che i giudici popolari, di regola, non hanno.
Con la Legge Grassi viene definitivamente disciplinata la Corte d’Assise, che attualmente è divisa in due gradi:
E' un organo collegiale, che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d'Appello. Ogni distretto di Corte d'Appello ha un'estensione pressapoco equivalente a quella di una Regione.
In materia penale «esercita giurisdizione» sulle decisioni pronunciate in 1° grado dal Giudice unico del tribunale nelle due diverse composizioni.
Ogni Corte d'Appello è suddivisa in sezioni e ha la stessa composizione del Tribunale collegiale (tre magistrati, di cui uno presidente e gli altri due a latere). Esistono anche sezioni staccate delle Corti d'Appello nei comuni indicati in una apposita tabella.
La «Corte d’assise d’appello» è un organo collegiale la cui composizione comprende sia giudici togati (cioé magistrati di carriera) che giudici "laici", cioé giudici popolari.
La Corte d'Assise d'appello svolge funzione di giudice d'appello delle sentenze emesse in 1° grado dalla Corte d'Assise: è un organo collegiale composto da 8 giudici, di cui 2 togati (uno è il presidente, l’altro il giudice "a latere") ed altri 6 ordinari (che vengono definiti giudici popolari) estratti a sorte tra i cittadini di nazionalità italiana, senza alcuna distinzione di sesso, in una età compresa tra i 30 e i 65 anni; requisito minimo è il titolo di studio: diploma di licenza media superiore.
La «Corte di Cassazione» è l'organo giudicante posto al vertice della organizzazione giudiziaria ordinaria, essendo il Tribunale di ultima istanza nel sistema giurisdizionale ordinario (penale e civile) italiano: ha sede (unica) a Roma, e giurisdizione su tutto il territorio dello Stato.
La Corte si articola in diverse sezioni (civile, penale e del lavoro). Nei casi più importanti o nei casi per i quali vi siano orientamenti contrastanti delle diverse sezioni, la Cassazione si riunisce in Sezioni Unite (SS.UU.). Le decisioni assunte dalla Corte di Cassazione in tale composizione sono di un'autorevolezza tale da somigliare a dei "precedenti vincolanti", concetto altrimenti estraneo all'ordinamento italiano.
La Cassazione riunita in Sezioni Unite, inoltre, ha il compito di "giudice della giurisdizione": essa deve, cioè. esprimersi ogni qual volta vi sia un conflitto di giurisdizione (tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali, come quella amministrativa).
La Corte di Cassazione ha il compito di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge (art. 65 R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 sull'ordinamento giudiziario).
Di regola, giudica in seguito ad un «gravame» successivo ad una pronuncia di una Corte d'Appello, fintantoché il gravame sia possibile, e cioè finché la questione non sia coperta da giudicato. Non giudica sul fatto, ma sul diritto, controllando che le sentenze pronunciate dai giudici di merito (cioé quelli che valutano direttamente i fatti) siano conformi alla legge: ciò significa che non può occuparsi di riesaminare le prove, bensì può solo verificare che sia stata applicata correttamente la legge e che il processo nei gradi precedenti si sia svolto secondo le regole (vale a dire, che sia stata correttamente applicata anche la legge processuale, oltre che quella del merito della causa).
In Italia la Corte Suprema di Cassazione è al vertice della giurisdizione ordinaria; tra le principali funzioni che le sono attribuite dalla legge fondamentale sull'ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n. 12 (art. 65) vi è quella di assicurare "l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni". Una delle caratteristiche fondamentali della sua missione essenzialmente nomofilattica ed unificatrice, finalizzata ad assicurare la certezza nell'interpretazione della legge (oltre ad emettere sentenze di terzo grado) è costituita dal fatto che, in linea di principio, le disposizioni in vigore non consentono alla Corte di Cassazione di conoscere dei fatti di una causa salvo quando essi risultino dagli atti già acquisiti nel procedimento nelle fasi che precedono il processo e soltanto nella misura in cui sia necessario conoscerli per valutare i rimedi che la legge permette di utilizzare per motivare un ricorso presso la Corte stessa.
Il ricorso in Cassazione può essere presentato avverso i provvedimenti emessi dai Giudici ordinari nel grado di appello o nel grado unico: i motivi esposti per sostenere il ricorso possono essere, in materia civile, la violazione del diritto materiale (errores in iudicando) o procedurale (errores in procedendo), i vizi della motivazione (mancanza, insufficienza o contraddizione) della sentenza impugnata; o, ancora, i motivi relativi alla giurisdizione. Un regime simile è previsto per il ricorso in Cassazione in materia penale.
Quando la Corte rileva uno dei vizi summenzionati, ha il potere-dovere non soltanto di cassare la decisione del giudice del grado inferiore, ma anche di enunciare il principio di diritto che il provvedimento impugnato dovrà osservare: principio cui anche il giudice del rinvio non potrà fare a meno di conformarsi quando procederà al riesame dei fatti relativi alla causa. I principi stabiliti dalla Corte di Cassazione non sono, invece, vincolanti per i giudici, in generale, quando questi devono decidere cause diverse, rispetto alle quali la decisione della Corte Suprema può comunque considerarsi un "precedente" influente. In realtà, i giudici delle giurisdizioni inferiori si conformano alle decisioni della Corte di Cassazione nella maggioranza dei casi.
Non è necessaria alcuna autorizzazione speciale per presentare un ricorso innanzi alla Corte Suprema.
Secondo l'articolo 111 della Costituzione ogni cittadino può ricorrere alla Corte di Cassazione per violazione di legge contro qualunque provvedimento dell'autorità giudiziaria, senza dover esperire alcun appello in materia civile o penale, o contro qualunque provvedimento che limiti la libertà personale.
Alla Corte di Cassazione è anche attribuito il compito di stabilire la giurisdizione (vale a dire, di indicare, quando si crea un conflitto tra il giudice ordinario e quello speciale, italiano o straniero, chi abbia il potere di trattare la causa) e la competenza (vale a dire, di risolvere un conflitto tra due giudici di merito).
La Corte di Cassazione svolge anche funzioni non giurisdizionali in materia di elezioni legislative e di referendum popolare per l'abrogazione di leggi.
Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.): giudice singolo (=monocratico) inserito nell’organico di ciscun Tribunale e al quale spetta, a seconda dei casi, sia l’adozione dei provvedimenti che vengono richiesti dal Pubblico Ministero durante le indagini preliminari (ad esempio, l’applicazione della custodia cautelare, l’autorizzazione alle intercettazioni telefoniche o ambienatli, ecc.) sia la pronuncia di provvedimenti che definiscono il giudizio in alcune ipotesi di di procedimenti speciali che saltano il dibattimento (ad esempio, la pronuncia della sentenza di patteggiamento o del decreto penale di condanna).
Il Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale per i minorenni: giudice monocratico (di carriera) avente, in via generale, le stesse competenze del G.I.P. nel procedimento a carico di imputati maggiorenni.
Il Giudice per l’udienza preliminare (G.U.P.) è un giudice singolo (=monocratico) che appartiene all’ufficio del Giudice per le indagini preliminari e dinanzi al quale si celebra (se il tipo di procedimento la prevede) l’udienza preliminare (oltre che l’eventuale giudizio abbreviato) quando risulta che il G.I.P. delegato al procedimento (art. 328 c.p.p.) ha già adottato, prima della setssa udienza preliminare, provvedimenti che hanno comportato valutazioni sul merito della imputazione (art. 34 commi da 2bis a 2 quater c.p.p.).
Il Giudice dell’udienza preliminare per i minorenni: giudice collegiale composto da un magistrato di carriera e da due cittadini (uomo e donna) in qualità di esperti – componenti privati.
Nei procedimenti a carico di imputati minorenni, la giurisdizione non è dunque mai esercitata né dalla Corte d'assise né dal Tribunale ordinario né dal Giudice di pace.
Nel novero dei giudici ordinari rientra il Giudice di di sorveglianza (o uffico di sorveglianza), le cui funzioni, pur essendo prese in considerazione anche delle disposizioni sul procedimento penale, trovano più ampio sviluppo in quelle dell’ordinamento penitenziario (L. 26.7.1975, n. 354) perché riguardano specialmente la gestione della pena: (=il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati). Le compotenze del giudice di sorveglianza sono distribuite tra:
Presso ogni distretto e per ogni sezione distaccata di Corte d'Appello è istituito il Tribunale di Sorveglianza (giudice collegiale), al quale sono devoluti gli affari in materia di misure alternative alla detenzione e di revoca anticipata delle misure di sicurezza in grado di appello.
Il Tribunale è composto da tutti i magistrati di sorveglianza in servizio nel distretto e da professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia.
I provvedimenti vengono adottati da un collegio composto da un presidente (magistrato di cassazione), da un magistrato di sorveglianza e da due degli esperti.
Il magistarto di sorveglianza (giudice monocratico), è organo cuoi è demandato l'obbligo di vigilare sulla organizzaione degli istituti di prevenzione e pena, prospettando al Ministro di Giustizia le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo al trattamento rieducativo.
Nel confronto di coloro che hanno commesso il reato quando erano minori dei 18 (diciotto) anni, le attribuzioni del giudice di sorveglianza sono esercitate, per la parte spettante al tribunale di sorveglianza, dal tribunale per i minorenni e, per quella spettante al magistrato di sorveglianza, da un magistrato addetto allo stesso tribunale (=magistrato di sorveglianza per i minorennni).
La loro competenza cessa al compimento del 25° anno di età del condannato.
Il Tribunale del riesame è un istituto creato dal legislatore per far fronte a quella esigenza di sottoporre ad un controllo esterno, non solo di legittimità ma anche di merito, i provvedimenti restrittivi della libertà personale, caratterizzato da tempi rapidi e da una natura pienamente devolutiva. Si inserisce nella tematica relativa ai rapporti tra libertà personale, esigenze processuali e diritto di difesa.
E' istituito presso il Tribunale del capoluogo della Provincia in cui ha sede il giudice, contro la cui ordinanza di limitazione della libertà personale (custodia cautelare in carcere, arresti domiciliari) l'imputato ha chiesto il riesame. La richiesta, che può riferirsi anche al sequestro di beni, può essere fatta entro 10 (dieci) giorni dall'esecuzione o notificazione del provvedimento e il tribunale, entro altri dieci giorni, se non dichiara l'inammissibilità della richiesta, annulla, riforma o conferma l'ordinanza.
La «competenza per territorio», consiste nell’attribuzione del potere di decidere su un reato a quel Giudice, competente per materia, che essendo insediato sul territorio in cui il fatto reato è stato commesso (ratione loci), ha destato maggior allarme sociale ed é più facile ricercare le prove. Per queste ragioni, il codice fissa la regola generale in base alla quale la competenza per territorio è determinata dal luogo di verificazione dell’evento: competente è il Giudice del luogo in cui l’evento del reato è stato realizzato (locus perpetrati delicti).
Tuttavia, qualora l’evento sia rappresentato dalla morte, competente è il Giudice del luogo di verificazione della condotta (azione o omissione) e non più dell’evento (art. 8 e 9).
In tema di delitto tentato, in cui per definizione manca l’evento (art. 56 c.p.), la competenza è collegata all’ultimo atto diretto a commettere il delitto e cioè all’ultimo segmento della condotta. Per il reato permanente è competente il Giudice del luogo in cui ha avuto inizio.
Il territorio compreso nella competenza dei vari Giudici è delimitato (locus commissi delicti) dal:
► Esemplificando:
il Tribunale esercita le sua funzione nell’ambito di un territorio denominato circondario; la Corte di assise, invece, nell’ambito di un territorio denominato circolo e comprendente di solito più circondari.
La «competenza per connessione» attribuisce a un solo Giudice il potere di decidere su procedimenti collegati fra loro da vincoli particolarmente intensi e, in specie, da vincoli di persone, di finalità, di tempo e di luogo (=procedimenti connessi).
In via di approssimazione, può dirsi che la competenza per connessione deroga ai criteri generali della competenza per materia o per territorio e serve a evitare che debbano essere “celebrati” più processi in relazione a fatti che presentano elementi comuni e per i quali è perciò opportuna la trattazione unitaria.
La competenza e l’attribuzione per connessione sono determinate dal rapporto di collegamento tra un procedimento principale (attraente) e uno o più procedimenti secondari (attratti).
La connessione tra procedimenti modifica la competenza e può giustificare la loro «riunione» (artt. 12 e 17) nelle seguenti tassative "ipotesi":
I reati commessi da un unico agente possono essere legati da un vincolo (rilevante ai fini della pena: art. 61 n. 2 c.p.):
Una particolare disciplina della «connessione» è prevista nel processo innanzi al Giudice di pace».
Una particolare disciplina della connessione è prevista nel processo innanzi al “Giudice di pace”. In tale sede si distingue tra:
La prima è quella che si realizza fra procedimenti relativi a uno o più reati appartenenti alla competenza del Giudice di pace e uno o più reati appartenenti alla competenza del Tribunale o della Corte di assise.
E’ regolamentata dall’ art. 6 Dlgs 274/2000 e opera solo nel caso di persona imputata di più reati, commessi con una sola azione od omissione (concorso formale di reati – art. 81, comma 1 c.p.).
Come già detto, si tratta di una precisa scelta del legislatore che ha voluto limitare l’applicazione della connessione a quei soli casi in cui è più elevato il rischio di giudicati contrastanti, come appunto accade quando reati commessi con un’unica condotta, sono giudicati separatamente.
Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza del Giudice di pace e altri a quella della Corte di assise o del Tribunale, è competente per tutti il «Giudice superiore». Come se già visto, in questo caso opera un’apposita disciplina in ordine alle norme sostanziali e processuali, che il Giudice «diverso» dal Giudice di pace è tenuto ad osservare.
La seconda invece, è quella che riguarda i rapporti fra procedimenti che sono tutti di competenza del Giudice di pace. E’ regolamentata dall’art. 7 cit. Dlgs che prevede le seguenti ipotesi di connessione omogenea innanzi al Giudice di pace:
Nel caso di connessione innanzi al Giudice di pace, se i reati sono stati commessi in luoghi diversi, la competenza per territorio appartiene per tutti al Giudice di pace del luogo in cui è stato commesso il «primo reato». Se non è possibile determinare in tal modo la competenza, questa appartiene al Giudice di pace del luogo in cui è iniziato il primo dei procedimenti connessi (art. 8), dovendosi intendere come tale il Giudice ove per primo il P.M. ha provveduto all’iscrizione della notizia di reato (art. 4).
ll «Pubblico Ministero» (=P.M.) è figura indefettibile in qualsiasi procedimento penale, essendo «soggetto necessario» nella fase investigativa e «parte essenziale» nel processo.
Nella prima fase (pre-processuale), il P.M. è il dominus delle indagini preliminari; egli è responsabile delle indagini necessarie per l’esercizio, o meno, dell’azione penale e, quindi, preliminari ad essa e si avvale della Polizia Giudiziaria, che collabora con lui (longa manus). Il P.M. ha funzioni di giustizia, anche se non giurisdizionali. Le sue funzioni hanno i caratteri della pubblicità e dell’obiettività.
La natura dell’azione penale (obbligatoria) e, il valore del bene della libertà personale, messo a rischio dal suo esercizio, esigono che la funzione di accusa sia affidata ad un organo pubblico, che agisca nell’interesse della collettività.
La nostra Costituzione, a garanzia di tali interessi pubblici, affida la funzione di P.M. a magistrati nominati per concorso (art. 106 Cost.) e rende per essi obbligatorio l’esercizio dell’azione penale (art. 109 Cost.).
Il P.M. deve essere un magistrato obiettivo perché a lui sono affidati gli stessi interessi di libertà dell’imputato, rientrando nel panorama delle sue funzioni di giustizia anche la tutela di essi, quando siano conformi a legge.
L’obiettività del P.M. è evidenziata dalla sua esclusiva soggezione alla legge, nell’interesse generale e, in quanto pur sempre connessa al suo ruolo di parte, tuttavia, è quantitativamente minore della imparzialità del Giudice, istituzionalmente super partes.
Egli è comunque tenuto a «svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini» (art. 358 c.p.p.).
La classificazione delle funzioni del P.M. rispecchia la sua posizione nel corso del procedimento prima di “soggetto” e poi di “parte” processuale.
Presso ogni Tribunale e ogni Corte d'Appello e presso la Corte di Cassazione è costituito un Ufficio del Pubblico Ministero. I vari uffici del P.M. sono strutturati in livelli organizzativi “paralleli” a quelli dei corrispondenti uffici giudicanti.
[1] La requisitoria può riferirsi al rito (es. giudizio immediato, giudizio per decreto, citazione di testi, cross examination, periti o consulenti tecnici) ovvero al merito (es. applicazione della pena patteggiata, richiesta di condanna)i o controesame dei testi delle parti ovvero richiesta di patteggiamento, ecc.
I vari Uffici del P.M. sono strutturati in livelli organizzativi “paralleli” a quelli dei corrispondenti Uffici giudicanti.
A seguito della scomparsa dell’antica figura ibrida di un "Pretore-P.M.", che sotto la vigilanza dell’abrogato Codice svolgeva entrambe le funzioni e poi della riforma del Giudice unico di primo grado e della conseguente soppressione delle 165 Preture della Repubblica presso le Preture circondariali, le «funzioni di Pubblico Ministero» sono esercitate:
Tra i diversi uffici del P.M. non esiste un rapporto di dipendenza gerarchica, ma una semplice relazione di mera subordinazione, collegata alla progressione del processo al grado di giudizio successivo. In ciascun grado di giudizio, legittimato ad esercitare le funzioni di P.M. è unicamente l'ufficio costituito presso il corrispondente Giudice, salvo le ipotesi espressamente contemplate (e quindi eccezionali). Il Pubblico Ministero esercita le proprie funzioni nello stesso ambito di competenza del Giudice.
Innanzi al Tribunale in composizione monocratica, a seguito di delega nominativa del Procuratore Capo, le funzioni di accusa possono essere esercitate sia da magistrati di carriera appartenenti alla Procura presso lo stesso tribunale ordinario, sia dai cc.dd. «Delegati del P.M.» ossia vice procuratori onorari, Ufficiali di polizia giudiziaria (per esigenze di obiettività, necessariamente diversi da quelli che hanno partecipato alle indagini), uditori giudiziari in tirocinio (art. 22 D.P.R 22.9.1988, n. 449 e art. 4 D.lgs 28.7.1989, n. 273). Tali delegati sono, però, legittimati a partecipare solo alle udienze di convalida dell’arresto o fermo, dibattimentale o camerale, nonché a formulare al G.I.P. la richiesta di decreto penale. La loro legittimazione è comunque limitata ai procedimenti del “Tribunale monocratico” relativi ai reati meno gravi e, quindi, limitatamente a quelli per i quali, non essendo contemplata l’Udienza Preliminare, il P.M. potrebbe direttamente emettere decreto di citazione a giudizio.
Anche innanzi al Giudice di pace in sede penale è prevista una minore qualificazione professionale del P.M., anche perché presso di esso non esiste alcun autonomo ufficio di Procura.
[1] Istituto del "gravame"
[2] La disposizione consente al Pubblico Ministero del giudizio di primo grado di seguire il procedimento per tutto il suo cammino. Essa si collega alle altre disposizioni processali secondo le quali il Pubblico Ministero originariamente designato non va, almeno tendenzialmente, sostituito durante le indagini (art. 3 att. c.p.p.) né durante l'udienza di primo e secondo grado.
La «Procura della Repubblica» è l’ufficio del Pubblico Ministero, un organo dello Stato composto da magistrati ordinari cui sono assegnate le così dette funzioni “requirenti”: loro compito è infatti quello di proporre richieste in materia penale o civile sulle quali toccherà poi ai giudici (la magistratura così detta “giudicante”) pronunciarsi con provvedimenti idonei a diventare definitivi.
In particolare, al Pubblico Ministero sono attribuite dalla legge sull’ordinamento giudiziario e dal codice di procedura penale numerose funzioni:
Il P.M. deve intervenire inoltre obbligatoriamente in alcune cause civili (es.: cause in materia matrimoniale, cause relative alla cittadinanza, ai rapporti familiari, alle interdizioni e inabilitazioni): la sua eventuale assenza determina la nullità del processo.
è cioè l’organo cui spetta accertare la fondatezza delle notizie di reato che provengono da denunce delle forze di Polizia, da querele o esposti di privati, da referti degli organi medici, e chiedere di conseguenza al giudice la dichiarazione della colpevolezza di un soggetto (imputato) e la conseguente condanna del medesimo, ovvero, in mancanza di elementi di prova, la dichiarazione di infondatezza della notizia di reato (così detta archiviazione).
Allo scopo di sostenere l’accusa davanti al Giudice, il P.M. svolge le indagini preliminari (per questo con riferimento ai P.M. si parla anche di magistratura “inquirente”); dirige l’attività della Polizia giudiziaria; può chiedere ad un apposito giudice, detto giudice per le indagini preliminari – GIP, l’emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale (custodia cautelare in carcere, arresti domiciliari ecc.), che hanno funzione cautelare, servono cioè di impedire che i reati commessi possano ripetersi o che ne vengano occultate le prove o che l’autore del fatto possa darsi alla fuga. Il P.M. inoltre interviene obbligatoriamente nelle udienze penali. Il P.M. infine è l’organo competente per l’esecuzione dei provvedimenti di condanna emessi dal giudice: spetta a lui, una volta che una sentenza sia diventata irrevocabile, disporre che il condannato venga assoggettato alla pena, detentiva o pecuniaria, prevista, determinando il preciso ammontare della sanzione da irrogare, nonché delle eventuali sanzioni accessorie.
Il Procuratore della Repubblica assegna a se stesso e ai colleghi – secondo dei criteri prestabiliti – i procedimenti penali che nascono dalle notizie di reato trasmesse alla Procura della Repubblica, nonché dei procedimenti civili che prevedono l’intervento del P.M. e, più in generale, organizza il lavoro dell’Ufficio.
Ogni Magistrato svolge le indagini relative ai procedimenti che gli sono stati assegnati e prende parte alle udienze penali per i processi instaurati a seguito delle indagini.
Per migliorare la qualità delle indagini attraverso la specializzazione, in molte Procure della Repubblica sono stati costituiti gruppi di lavoro che si occupano delle indagini relative a determinati tipi di reato:
Ogni sostituto è assegnato a due gruppi di lavoro, seguendo le indagini sui procedimenti delle relative materie. Ogni gruppo è coordinato e seguito da un Procuratore Aggiunto.
Con il Decreto Legislativo 20 febbraio 2006, n.106 (pubblicato sulla GU n. 66 del 20.3.2006) sono state dettate le nuove disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150 (c.d. Riforma dell’ordinamento giudiziario).
Le nuove disposizioni prevedono in particolare che:
Vertice istituzionale e giurisdizionale dell’ufficio è il “Procuratore della Repubblica”, (presso i tribunali per i minorenni e i tribunali ordinari) spettano poteri di organizzazione e di direzione dell’Ufficio secondo le norme poste in materia dalla legge sull’ordinamento giudiziario.
Negli uffici, di maggiori dimensioni, delle procure della Repubblica presso i tribunali ordinari, il Procuratore viene coadiuvato nelle sue funzioni dal “Procuratore Aggiunto“ (in numero non superiore a quello risultante dalla proporzione di un procuratore aggiunto per ogni dieci sostituti addetti all’uffico) e dai “Sostituti procuratori”: la assegnazione dei procedimenti ai vari magistrati spetta al Procuratore nel rispetto di criteri predeterminati.
Presso le Procure operano inoltre i “Vice procuratori onorari“, che fanno parte della magistratura onoraria, cioè non sono reclutati secondo le ordinarie procedure concorsuali ma vengono nominati dal Consiglio Superiore della Magistratura, (CSM) con incarichi limitati nel tempo, tra soggetti aventi particolari requisiti.
A loro possono essere delegate dal Procuratore funzioni relative alla partecipazione all’udienza penale, ma non quelle relative allo svolgimento delle indagini ed all’esercizio dell’azione penale.
Per la trattazione di alcuni reati di "particolare gravità e complessità" (reati di mafia, reati di terrorismo, reati legati al traffico degli stupefacenti, reati di sequestro di persona a fini di estorsione), a partire dal 1992 sono state istituite, presso ogni Procura della Repubblica presso il tribunale ordinario avente sede nel capoluogo del distretto di Corte di Appello (c.d. distrettuale), le “Direzioni Distrettuali Antimafia” (D.D.A.), coordinate a livello nazionale dalla “Direzione Nazionale Antimafia”, (D.I.A.) con sede a Roma, al cui vertice c’è il “Procuratore Nazionale Antimafia”.
A capo di ogni Direzione distrettuale c’è il Procuratore della Repubblica (procuratore aggiunto) o un magistrato da lui delegato, che assumono la funzione di “Procuratore distrettuale antimafia”. Alla D.D.A. sono poi assegnati, per periodi di tempo limitati, uno o più “Sostituti” addetti all’ufficio.
Presso le sezioni distaccate di Corte d’appello le funzioni di procuratore generale sono esercitate dall’Avvocato Generale, a norma dell’art. 59 dell’Ordinamento Giuidiziiario.
Per garantire l'obbligatorietà dell'azione penale di fronte ad eventuali ritardi od omissioni delle Procure, in caso di obiettive situazioni di inerzia del P.M. designato o del suo dirigente, è attribuito il potere di «avocazione» al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello (P.G.).
L'avocazione consiste quindi nella eccezionale «auto-assunzione», da parte del P.G., della funzione investigativa e di promuovimento dell'azione penale in riferimento a procedimenti penali in fase investigativa, in luogo del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale che per qualche motivo non opera o non è in grado di adempiere ai propri compiti.
L’avocazione trova, quindi, fondamento in obiettive situazioni di inerzia o di incompatibilità del P.M.: per rimuoverle e, quindi, ristabilire il corretto corso del procedimento, il P.G. il potere-dovere di auto-sostituirsi al P.M. interessato.
L'avocazione può essere «obbligatoria» o «facoltativa», a seconda la fattispecie giustificatrice di essa si presti o meno a valutazioni discrezionali del P.G.
La «Procura Nazionale Antimafia» (P.N.A.) è stata istituita presso la Procura Generale della Corte di Cassazione (art. 76bis e 76ter Ord. Giud., introdotti dalla L. 8/1992, modif. da L. 356/1992).
Ad essa sono funzionalmente collegate le c.d. Direzione Distrettuali Antimafia (D.N.A.), (c.d. superprocure) costituenti, a loro volta, articolazioni interne delle Procure della Repubblica presso i tribunali aventi sede nei capoluoghi del distretto della Corte d'Appello.
Al suo vertice è destinato il "Procuratore nazionale Antimafia" (P.N.A.), un magistrato di Cassazione dotato di specifiche capacità ed attitudini, scelto tra i magistrati i quali abbiano svolto per almeno 10 anni le funzioni di P.M. o di Giudice istruttore. La sua nomina è di competenza del C.S.M.
Presso la «Direzione» le funzioni di «sostituto» sono svolte dai magistrati di qualifica non inferiore a quella di magistrato di Corte d'Appello.
Le funzioni dell Procura Nazionale Antimafia consistono soprattutto in un'attività di coordinamento e di impulso dei procuratori distrettuali e della polizia giudiziaria per assicurare la completezza e la tempestività delle indagini in ordine ai delitti di criminalità organizzata (art. 52, comma 3bis c.p.p.) anche se commessi nel territorio delle cd. procure periferiche dello stesso distretto.
Parallela alla estensione distrettuale della D.D.A. sono le competenze del G.I.P. e del G.U.P. del capoluogo del distretto, anch'esse di tipo distrettuale.
In pratica, quando per le indagini relative ad un grave omicidio di camorra procede la D.D.A., che ha sede presso la Procura del Tribunale del capoluogo della Corte d'Appello ove è sito il Giudice competente (art. 51, comma 3bis c.p.p), le funzioni di G.I.P. sono svolte dal Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale del predetto capoluogo (art. 328, comma 1bis c.p.p.). A titolo esemplificativo, se il delitto di mafia è commesso ad Avellino, le indagini saranno svolte dalla D.D.A. presso la Procura della Repubblica di Napoli e le funzioni di G.I.P. da un magistrato del Tribunale di Napoli. Inoltre, dopo l'esercizio dell'azione penale, nonché le funzioni di Giudice dell'udienza preliminare (G.U.P.) devono essere svolte da un magistrato del Tribunale del capoluogo (G.U.P. di Napoli).
A tali strutture giudiziarie corrispondono, sul piano degli organi investigativi di polizia Giudiziaria, la «Direzione Investigativa Antimafia» (D.I.A.) ed i Servizi Speciali di polizia, centrali e regionali.
Il Codice di rito colloca la “Polizia Giudiziaria” tra i soggetti del procedimento penale (artt. 55-59 c.p.p.). Si tratta di una scelta sistematica che sottolinea lo stretto rapporto della Polizia Giudiziaria con l’Ufficio del Pubblico Ministero e la centralità dei compiti a essa affidati nelle delicate fasi di avvio del procedimento penale.
Approfondendo ulteriormente le nozioni generali sopra esposte, può dunque notarsi che per «attività di polizia giudiziaria» si intende solo quella, svolta dai relativi Ufficiali ed Agenti, dopo che si è verificato un reato, per reprimerlo, prendendone notizia, impedendo che venga portato a conseguenze ulteriori, ricercandone gli autori, compiendo gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliendo quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale (art. 55 c.p.p.).
L’attività di polizia giudiziaria, proprio perché collegata all’accertamento ed alla repressione di un reato già commesso, si colloca all’interno del procedimento penale.
Le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte dai relativi Uifficiali ed Agenti. La distinzione tra Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria è rilevante sia per quanto riguarda la organizzazione interna delle varie “unità” di polizia giudiziaria (art. 56 c.p.p. e art. 5 e ss. att.) sia per quanto riguarda la competenza a compiere determinati atti.
A quest’ultimo proposito, le disposizioni dettate dal Codice di rito e dalle norme di attuazione (D.lgs. n. 271/89) stabiliscono che, in via generale, gli atti di polizia giudiziaria possono essere compiuti, indistintamente, dagli Ufficiali e dagli Agenti e che alla regola si fa eccezione solo per quegli atti di cui il compimento è espressamente “riservato” agli Ufficiali di polizia giudiziaria in via “assoluta” o “relativa”.
La riserva è «assoluta» quando l’atto, per la sua complessità e delicatezza, può essere compiuto esclusivamente dagli Ufficiali di polizia giudiziaria e cioè dai soggetti che, per la qualifica rivestita, sono titolari di più collaudate capacità tecnico-professionali.
E «relativa» quando l’atto può essere compiuto anche dagli Agenti di polizia giudiziaria nei casi di particolare necessità e urgenza (=nei casi che esigono l’immediato svolgimento di attività operativa)
Nelle ipotesi di riserva relativa, la necessità e urgenza che legittimano l’intervento degli Agenti di polizia giudiziaria non devono essere espressamente motivate, ma possono essere desunte anche da elementi collegati alla concreta situazione di indagine.
L’Agente di polizia giudiziaria che compie un atto in assenza di una situazione di necessità e urgenza può risponderne disciplinarmente
Nella ipotesi di riserva assoluta, l’atto compiuto da Agenti di polizia giudiziaria è invece considerato illeggittimo (Cass. 4408/98).
La Polizia Giudiziaria nell’ambito della loro competenza può trovarsi, quando agisce o di iniziativa o su delega del Pubblico Ministero, nella necessità di compiere atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche che essa non possiede.
Fra gli “ausiliari” di polizia giudiziaria rientrano, ad esempio, il funzionario ASL, il Chimico di porto o il veterinario a cui la Capitaneria di Porto deve spesso ricorrere per far certificare, rispettivamente, l’entità, le caratteristiche e la natura di un “agente” inquinante ovvero per le opportune verifiche nei mercati ittici, ecc.
In questi casi la polizia giudiziaria può avvalersi di «persone idonee» e cioè di persone in possesso delle competenze tecniche necessarie ad operare in quel determinato settore che forma oggetto dell’attività di polizia giudiziaria (art. 348, 4° comma c.p.p.)
► Tali soggetti:
Fra le persone idonee di cui si tratta va compreso anche l’interprete del quale la polizia giudiziaria deve necessariamente avvalersi per:
L’obbligo di avvalersi dell’interprete sorge anche quando l’Ufficiale di polizia giudiziaria ha personalmente conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare.
Anche quando si avvale di persona idonea a norma dell’art. 348, 1° comma c.p.p., l’Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria continua pur sempre ad assumere la «paternità dell’atto»: spetta a lui formulare i quesiti necessari, controllare l’attività del tecnico, consacrare in Verbale o (annotazione) le operazioni effettuate e i risultati conseguiti allegando, quando sia il caso, gli elaborati tecnici redatti.
Ciò vuol dire che, sotto il profilo formale, gli atti compiuti dall’ausiliare hanno la stessa natura ed efficacia degli atti compiuti dall’autorità che si è avvalsa dell’opera dell’ausiliare.
I «compensi» agli ausiliari saranno liquidati a norma dell’art. 11 legge 8.7.1980, n. 319 come modif. dal D.M. 30.5.2002 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’Autorità Giudiziaria).
Si definisce «indagato», in termine non strettamente tecnico, colui che il Codice di procedura penale denomina «persona sottoposta alle indagini preliminari».
E', in sostanza, la persona fisica che non ha ancora assunto la qualità formale di «imputato» ma nei cui confronti sono svolte le indagini relativamente a fatti che possono costituire reato.
Peraltro, talvolta il Codice usa il termine «indiziato», inteso come persona nei cui confronti gravano elementi di prova (indizi) di reaità. Indiziato è quindi sinonimo di indagato, anmche se il termine di indagato descrive una mera posizione procedurale passiva, mentre quello di indiziato la qualità sostanziale di persona pregiudicata da un'ipotesi di reità.
La posizione di indagato e indiziato sono configurabili solo durante la "fase (pre-processuale) delle indagini preliminari".
La qualità di indagato o indiziato di reato sorge anche prima dell'invio della "informazione di garanzia" (art. 369 c.p.p.), che è spedita per posta dal P.M. per informare l'interessato di indagini a suo carico. L'informativa in questione mira, infatti, a salvaguardare i diritti e le facoltà difensive (garanzie, appunto) e rimane confinata ai rapporti interni tra P.M. ed indagato. In particolare la qualità di indagato si acquista nel momento in cui un soggetto è indicato come tale nella notizia di reato (art. 347, comma 2 c.p.p.) e cioé prima ancora che il P.M. la iscriva negli appositi registri (art. 335 c.p.p.) ed ancor prima che la persona riceva comunicazioni delle indagini a suo carico svolte.
La qualità di indagato (o indiziato) cessa con l'archiviazione del procedimento oppure si consolida in quella di «imputato».
Per l'indagato il riacquisto (=reviviscenza) della qualità di indagato si verifica solo nel caso di riapertura delle indagini (art. 414 c.p.,p.).
L'Imputato, è nel procedimento penale, la persona (fisica) alla quale è attribuita la commissione del reato e nei cui confronti il P.M. esercita (promuove o prosegue) l'azione penale.
Ai sensi dell'art. 60 c.p.p. la qualità di imputato è assunta dall'interessato da momento in cui è formulata a suo carico una imputazione e cioé quando dalla fase pre-processulae delle indagini si passa a quella del processo innanzi ad un Giudice.
La qualità di imputato è, dunque, legata a specifici e formali atti del procedimento, nei quali si concreta l'effettivo esercizio dell'azione penale da parte del Pubblico Ministero. Prima e al di fuori di questi atti potrà parlarsi soltanto di persona sottoposta alle indagini, di indiziato, di indagato e simili.
La qualità di imputato è conservata in ogni stato e grado del processo, sino a “definitiva pronuncia di condanna o di proscioglimento”. Essa è però riacquisita in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere e in caso di revisione del processo. Ai sensi dell'art. 27 della Costitutzione l'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Egli ha diritto al rispetto delle norme di procedura penale, cioé all'assistenza della difesa, alla libertà di giustificarsi, alla formulazione dell'imputazione, ecc.
Perduta la qualità di imputato, l'interessato assume quella di prosciolto o condannato (definitivo); in questo caso inizia la fase della esecuzione della pena.
L'attività di polizia giudiziaria, proprio perché collegata all'accertamento ed alla repressione di un reato già commesso, si colloca all'interno del procedimento penale. Di solito, anzi, ne costituisce il primo momento poiché il procedimento sorge quando la Polizia Giudiziaria (o anche, ma in concreto assai più raramente, il Pubblico Ministero) acquisisce la notizia di un reato compiuto o in atto. Tale informazione sul reato può giungere alla Polizia Giudiziaria da una fonte esterna (la denuncia o la querela della vittima del reato o di un qualsiasi privato; un referto medico; la segnalazione di un Pubblico Ufficiale), ma può anche dipendere da una iniziativa autonoma della stessa Polizia Giudiziaria: poiché a questa spetta isituzionalmente il compito di ricercare anche di propria iniziativa tali informazioni.
Una volta acquisita la notizia di reato commesso, la Polizia Giudiziaria è tenuta a svolgere indagini ed a riferirne (al più tardi entro 48 ore) al Pubblico Ministero cui spetta, da quel momento, la direzione delle indagini stesse. Le indagini svolte dalla Polizia Giudiziaria e dal Pubblico Ministero si denominano «indagini preliminari» perché servono a stabilire se la notizia di reato è fondata o meno e, in caso positivo, a consentire al Pubblico Ministero di esercitare l'azione penale a carico di colui al quale il reato è attribuito (imputato).
Il Pubblico Ministero esercita l'azione penale quando ritiene di aver acquisito durante le indagini elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Se ritiene invece che tali elementi non siano idonei a sostenere l'accusa e che, pertanto, non essendo essa dimostrabile il processo avrebbe, come esito scontato, l'assoluzione dell'imputato, il Pubblico Ministero non esercita l'azione penale, ma chiede al Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) l'archiviazione del procedimento penale (artt. 55, 326, 405, 408 c.p.p.).
Nel corso della fase iniziale del procedimento penale, la Polizia Giudiziaria svolge dunque un ruolo fondamentale in stretto e continuativo contatto con il Pubblico Ministero.
Ed è fuori dubbio che dalle modalità di conduzione delle indagini preliminari dipende, nella gran parte dei casi, l'esito dell'intero procedimento.
Alla Polizia Giudiziaria ed al P.M. spetta, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, compiere ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti all’azione penale.
Le indagini sono svolte unitariamente dalla P.G. e dal P.M.: questi dispone direttamente della prima e ne ha la direzione.
Per la realizzazione dei propri compiti istituzionali, la Polizia Giudiziaria è stata strutturata in «Sezioni» e «Servizi»: fermo restando che, ad un primo e più ampio livello, i Magistrati possono servirsi di qualsiasi organo di polizia giudiziaria
Si sottolinea che nel contempo tutti gli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria appartenenti a tutte le forze di polizia e ad altri organi sono obbligati per legge di svolgere indagini a seguito di una notizia di reato.
L'Autorità Amministrativa – sia essa Stato o Ente Locale – ha il compito di preservare l’ordine pubblico, la tranquillità sociale, la sicurezza delle persone, la tutela della proprietà.
La «polizia» intesa in senso generale (dal greco polis =città ovvero politeia =cittadino) è costituita dal complesso di attività che lo Stato e altri enti pubblici svolgono per assicurare le condizioni di un ordinato e tranquillo vivere civile sociale. Questa attività può essere diretta a «prevenire condotte in grado di turbare l’ordine e la sicurezza pubblica» oltre ché a «reprimere le violazioni già verificatesi di norme penali impedendone gli eventuali ulteriori effetti».
► Per «attività di polizia amministrativa» si intende quel complesso di attività (ante delictum) svolta dallo Stato o da altri enti pubblici, volta a realizzare le misure amministrative (ordinanze, provvedimenti, decreti, ordini, diffide, ecc.), di vigilanza ed osservazione:
L’attività di polizia amministrativa in senso ampio, comprende la polizia marittima, demaniale, ambientale, forestale, sanitaria, di frontiera, urbanistica, ecc.
Tale attività amministrativa può esercitarsi sia in forma regolamentare – disciplinando cioè le attività concernenti una specifica materia (ad esempio, polizia urbanistica, demaniale, ecc.) – costituendo quindi la c.d. “Polizia Amministrativa in senso stretto” – sia in forma repressiva oltre che preventiva, intesa come vigilanza sulle attività medesime al fine di prevenire e quindi reprimere ogni comportamento illecito o imprudente – costituendo in tal caso la c.d. “Polizia di Sicurezza”.
La Polizia Amministrativa si pone quindi come regolamentazione delle attività umane; la Polizia di Sicurezza si pone invece quale controllo e repressione delle stesse.
Una particolare specie di Polizia Amministrativa si ha ad esempio nella c.d. ”Polizia Portuale”: essa consiste sia in Polizia Amministrativa in senso stretto (esplicantesi attraverso il potere di Ordinanza), sia in Polizia di Sicurezza, finalizzata alla prevenzione dei pericoli in ambito portuale,sia generici che specifici.
Le Capitanerie di Porto – quale Organo periferico dell’Amministrazione Marittima dello Stato – espletano al riguardo sia funzioni prettamente amministrative (la c.d. ”amministrazione attiva”), sia funzioni di Polizia Amministrativa (effettuata in forma regolamentare) che funzioni di Polizia di Sicurezza (effettuata in forma operativa), sia, infine, funzioni di Polizia Giudiziaria.
► La «attività di polizia giudiziaria», invvece, è costituita da complesso di attività (post delictum) che hanno lo scopo di accertare e reprimere i reati, ed a ricercare i responsabili per assicurarli alla giustizia.
L’attività di polizia giudiziaria interviene, quindi, in una fase patologica data dalla violazione di un ordine giuridico ed è essenzialmente finalizzata allo svolgimento di attività repressive. Il suo interesse è, quindi, prevalentemente circoscritto alle norme penali. Inoltre la stessa è volta a vigilare sulla preservazione dell’ordine, sull’incolumità fisica delle persone e sulla tutela ella proprietà, mediante l’adozione di provvedimenti e misure sia di natura preventiva che, prevalentemente, repressiva.
Ciò vuol dire che non può parlarsi di attività di polizia giudiziaria tutte le volte in cui le Forze o gli organi di polizia e comunque i soggetti stessi cui è attribuita la qualità di Ufficiali o Agenti di polizia giudiziaria (art. 57 n. 3 c.p.p.), si limitano a svolgere attività di polizia amministrativa e cioè a «controllare» che i privati rispettino le limitazioni che la legge impone al loro operato e svolgano la propria attività senza procurare danni agli altri consociati. In questa situazione, infatti, chi svolge attività di polizia amministrativa agisce con finalità preventiva, di controllo delle attività altrui o di garanzia dell’ordine e della sicurezza dei cittadini: e non con le finalità di informarsi su reati già commessi o in atto e di reprimerli individuandone l’autore.
Mentre l’esercizio dell’attività amministrativa fa capo alla Autorità amministrativa (ad esempio, l’Autorità marittima), quello della polizia giudiziaria fa capo all’Autorità Giudiziaria.
L’Autorità amministrativa ha il compito di preservare l’ordine, la tranquillità, la sicurezza delle persone, la proprietà, la moralità, contro eventuali atti illeciti del privato. Viceversa l’Autorità Giudiziaria interviene quando l’azione antigiuridica è già avvenuta, per infliggere la sanzione prevista dalla legge penale.
E’ naturale, peraltro, che nella gran parte dei casi, dell’avvenuto verificarsi di un reato si prenda notizia proprio durante l’attività di polizia amministrativa e che, in questi casi, l’acquisizione della notizia di reato “modifica la qualità” del personale di polizia operante.
Nell’ambito della polizia amministrativa, si suole individuare, la «polizia di sicurezza» che potrebbe definirsi come quella branca dell’attività di polizia amministrativa, è precisamente quella che la legge commette all’Autorità di pubblica sicurezza, diretta a vigilare sull’ordine inteso come ordine sociale, sui diritti e sulla sicurezza fisica delle persone, contro ogni comportamento illecito e imprudente.
A questo scopo, l’Autorità di pubblica sicurezza[1] adotta le misure ed i provvedimenti, sia preventivi che repressivi, previsti dalla legge.
La polizia di sicurezza è essenzialmente attività di «prevenzione», cioè tendente ad impedire lo svolgimento di atti o attività contrastanti con l’ordinamento giuridico, oppure comunque in grado di infrangere l’ordinata e sicura convivenza civile.
La Polizia di Sicurezza, può – per quanto concerne le materie d’interesse del Corpo delle Capitanerie di porto – suddividersi come segue:
Naturalmente le funzioni di polizia sopra citate sono esercitate normalmente quale Polizia Amministrativa nei modi e nelle forme di cui alla Legge 689/81; per le violazioni penali previste dalle medesime leggi si procede invece quale Polizia Giudiziaria applicando invece le forme ed i modi stabiliti dal c.p.p.
La Polizia di Sicurezza può essere esercitata solo dallo Stato: è quella parte della Polizia Amministrativa intesa a vigilare sull’Ordine Pubblico inteso come ordine sociale, sui diritti e sulla sicurezza delle persone, contro ogni comportamento illecito o imprudente – tramite provvedimenti sia preventivi che repressivi – previsti ex lege.
L’Autorità Amministrativa (Stato o Enti Locali) ha il compito di preservare l’ordine, la tranquillità sociale, la sicurezza delle persone, la proprietà; l’Autorità Giudiziaria interviene invece successivamente - quando l’ordine è stato violato - per infliggere la relativa sanzione.
[1] La Prefettura è l’organo periferico del Ministero dell’interni che esercita in ogni provincia le funzioni dell’amministrazione generale dello Stato. E’ retta dal Prefetto che è la più alta autorità dello Stato in quel territorio. Egli vigila sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni ad eccezione dell’amministrazione della giustizia, dell’amministrazione militare e di quella ferroviaria, tutela l’ordine e sovraintende alla pubblica sicurezza. Egli dispone della forza pubblica (forze di polizia e forze militari comandate in ordine ) e ne coordina le attività. Il Questore è l’autorità provinciale di pubblica sicurezza che ha la direzione, la responsabilità ed il coordinamento a livello tecnico-operativo dei servizi di ordine e sicurezza pubblica e di impiego della forza pubblica. Al Prefetto spettano scelte politico-amministrative mentre al questore prettamente scelte tecnico-operative nella concreta azione di polizia.
Nell'ambito del procedimento penale ed in particolare nelle indagini preliminari le Forze ed i Corpi di polizia che, nel loro complesso, congiuntamente ad altre figure compongono gli Organi di polizia giudiziaria in senso ampio, rivestono un ruolo di spicco, in quanto nella stragranza maggioranza dei casi un'indagine nasce perché una notizia di reato è portata a conoscenza dell'Autorità Giudiziaria attraverso lo svolgimento di attività d'iniziativa della Polizia Giudiziaria
E’ utile evidenziare che la Legge 1 aprile 1981, n. 121 [43] che ha sancito il “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza”, all’art. 16 espressamente preve le varie componenti delle “Forze di Polizia” cui spetta lo svolgimento delle funzioni di polizia, ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica
La citata legge è stata modificata dal Decreto Legislativo 19 agosto 2016, n. 177, [54]recante "Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo Forestale dello Stato, ai sensi dell'articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 20l5, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche".
► Queste sono:
Vengono, altresì, considerati “forze di polizia” e possono essere chiamati a concorrere nell’espletamento dei servizi di ordine e sicurezza pubblica:
Le forze di polizia così individuate riguardano soltanto la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica considerati in generale. In altri termini, l’art. 16 della Legge n. 121/81, ricomprende nella categoria di forze di polizia, oltre alla Polizia di Stato quale primaria tipica struttura funzionale di polizia, anche tutti gli organismi istituzionali che, pure essendo sottoposti ad autonomi ordinamenti, svolgano o siano chiamati a svolgere funzioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Funzioni di polizia «limitatamente» all’accertamento di determinati reati (art. 57, 3° comma c.p.p.), spettano, poi ad altri «soggetti» nelle materie attribuite alla loro specifica competenza.
In materia di «tutella dell'ordine», si rammenta, che il personale del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Coostiera può intervenire esclusivamente nelle ipotesi di cui all’art. 82 Cod. nav. (disordini nei porti e sulle navi).
Ad adiuvandum si menziona il R.D. del 13/1/1931, n. 724, con il quale è disposto che «…i Nocchieri di porto fanno parte integrante della forza pubblica e delle forze militari dello Stato, e sono preposti, in concorso con gli altri Agenti della forza pubblica, alla tutela della sicurezza e delle persone nei porti e nelle rade dove esercitano funzioni esecutive e di polizia giudiziaria ed amministrative».
Il Corpo delle Capitanerie di Porto, pur non essendo incluso tra le forze di polizia, può essere considerato, di fatto, un «corpo di polizia» (in funzione di polizia giudiziaria), laddove si consideri che trattasi di un organismo chiamato per legge a disimpegnare, fra l’altro, compiti di polizia amministrativa e giudiziaria.
E ancora, in materia di ordine pubblico, a mente dell’art. 18 della citata Legge n. 121/81, il Comandante Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto può essere chiamato dal Ministro dell’interno a partecipare alla riunione del Comitato Nazionale per l’ordine e sicurezza pubblica (G8 - Genova).
Le forze e gli organi di polizia possono essere utilizzate anche in «servizio di pubblico soccorso». L'impiego delle forze di polizia per il soccorso pubblico in occasione di calamità naturali è stato previsto anche dal D.P.R. 6 febbraio 1981, n. 66. (Regolamento di esecuzione della Legge 8 dicembre 1970, n. 996, reacante norme sul soccorso e l'assistenza alle popolazioni colpite da calamità e sulla protezione civile) che ha attribuito al Prefetto, in veste di Organo ordinario titolare di funzioni di protezione civile, la dsiponibilità delle forze dell'ordine non solo per i servizi straordinari di vigilanza e tutela richiesti dall'emergenza, ma anche per assicurare il soccorso pubblico per le prime urgenti necessità.
[1] In forza del previsto coinvolgimento delle Forze Armate non è escluso che gli equipaggi delle Unità M.M. presenti nei porti o nell’ambito delle acque territoriali possano essere chiamati a prestare il proprio concorso in materia di ordine , nei casi in cui al citato art. 82 cod. nav., compatibilmente con l’assolvimento dei prioritari compiti di istituto e fermo restando la salvaguardia della sicurezza delle unità
Le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte, nell’ambito delle proprie competenze e attribuzioni, da tutti coloro cui il Codice di procedura penale [55] o specifiche leggi attribuiscono la «qualifica» di Ufficiali o Agenti di polizia giudiziaria (art. 55, comma 3 c.p.p.).
Per ottenere risultati ottimali dall’attività di polizia giudiziaria, il Codice di rito prevede, tuttavia, particolari «organismi» e «strutture», sempre composte da Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria, appositamente istituiti per compiere attività di indagine in modo continuativo e permanente e collegati, più o meno intensamente, con l’Autorità giudiziaria e, in particolare, con il Pubblico Ministero al quale la legge attribuisce il potere di dirigere le indagini (art. 327 c.p.p.).
L’art. 109 Cost. prevede che l’Autorità giudiziaria «dispone» direttamente della Polizia Giudiziaria. Il potere di piena utilizzazione e direzione della Polizia Giudiziaria rende ciascun Procuratore della Repubblica, giuridicamente Capo (o direttore) della Polizia Giudiziaria nell’ambito del proprio circondario.
A seconda della dipendenza solo funzionale o anche organica della Polizia Giudiziaria dal Pubblio Ministero, la Polizia Giudiziaria può essere così "tripartita" (art. 56 e artt. 5-12 att. c.p.p.):
Le «Sezioni» di polizia giudiziaria, hanno una totale dipendenza "funzionale-operativa" ed una ampia dipendenza organica dal P.M. Sedi operative delle Sezioni di P.G. sono le Procure della Repubblica presso il Tribunale ordinario e quello presso il Tribunale per i minorenni. Non sono istituite presso le Procure Generali presso le Corti di appello.
Nei casi di «avocazione» (e cioè nei casi in cui il Procuratore Generale si autosostituisce, per giustificati motivi, al Procuratore della Repubblica nello svolgimento delle indagini) il Procuratore Generale può peraltro disporre di tutte le Sezioni del "distretto", fermi restando i suoi poteri di coordinamento e sorveglianza.
Le Sezioni svolgono attività di polizia giudiziaria in modo permanente ed esclusivo e ricevono direttive solo dal Pubblico Ministero e non anche dalle istituzioni di provenienza.
La loro composizione è «interforze» (art. 16 Legge n. 121/81 e succ. modif.): della Sezione fanno parte Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria appartenenti alla Polizia di Stato, alla Forza Arnata dei Carabinieri e al Corpo della Guardia di Finanza specificamente addestrati nell’accertamento e repressione di particolari reati (ad esempio, come quelli ambientali, urbanistici, marittimi, ecc.).
La scelta del personale da assegnare alle Sezioni spetta al relativo Procuratore della Repubblica, che vi provvede di intesa con il Procuratore Generale (P.G.), mediante una designazione vincolante per l’Amministrazione di provenienza (artt. 5-20 D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271 ed art. 17 L.1 aprile 1981, n. 121).
Alle Sezioni possono essere «applicati», in soprannumero, Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad “Organi” diversi dalle tre forze di polizia fin qui indicate.
Fanno parte dei «Servizi» di polizia giudiziaria quegli Uffici ed unità ai quali è affidato dalle rispettive Amministrazioni o dagli organismi previsti dalla legge, il compito di svolgere, in via prioritaria e continuativa, le funzioni di polizia giudiziaria
Per questi vi è una più intensa dipendenza funzionale, con taluni marginali profili di dipendenza anche organica. I servizi sono adibiti in via permanente, anche se giuridicamente non esclusiva, a funzioni di polizia giudiziaria., ma nell’ambito dell’ istituzioni di appartenenza, sicché ricevono direttive sia da queste, sia dal Pubblico Ministero.
Il personale che fa parte dei Servizi rimane gerarchicamente ed organizzativamente inquadrato nei Corpi di appartenenza, ma le disposizioni di attuazione attribuiscono all’Autorità giudiziaria un controllo sulla mobilità (ad esempio: allontanamento anche provvisorio dalla sede, promozioni, ecc.) del personale addetto ai servizi (artt. 12, 14 e 15 att.).
L’Ufficiale di P.G. preposto al Servizio di P.G. è responsabile dell’efficienza del Reparto verso il Procuratore della Repubblica presso il locale Tribunale (art. 59. 2° comma c.p.p.) [1]
Accanto alle Sezioni ed ai Servizi, svolgono funzioni di polizia giudiziaria anche «generici organi» di polizia giudiziaria. Per questi vige un livello minimale di dipendenza solo funzionale. Trattasi di tutti quegli organismi obbligati per legge ad espletare indagini ma normalmente investiti di funzioni amministrative.
Tali generici organi di polizia giudiziaria differiscono dalla restante categoria dei generici Pubblici Ufficiali per il fatto che essi sono obbligati ad iniziare o a continuare indagini, anche su richiesta del Pubblico Ministero, mentre gli altri Pubblici Ufficiali sono tenuti solo a fare denuncia (art. 361 c.p.p.).
Si tratta degli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria che non sono inseriti nei servizi e nelle sezioni, ai quali, tuttavia, la legge fa obbligo di compiere indagini a seguito di notizia di reato e che possono avere una «competenza generale» (e cioè in ordine a qualunque reato) o «limitata» (e cioè solo in ordine a determinati reati).
Tali organi devono eseguire, nell’espletamento dell’attività di polizia giudiziaria, le direttive del Pubblico Ministero, ma è bene ribadire, comunque, che ferma tale subordinazione, tali organi continuano ad essere subordinati anche ai loro superiori gerarchici per tutto ciò che non abbia attinenza ai compiti di polizia giudiziaria.
Va da sé, poi che anche nell’espletamento dei compiti di polizia giudiziaria, continueranno ad operare le distinzioni di grado e qualifica derivanti dai rapporti gerarchici stabiliti dall’ordinamento di appartenenza. Gli inferiori sono tenuti ad eseguire gli ordini dei Superiori, salvo che tali ordini siano manifestamente criminosi.
La differenza tra Sezioni e Servizi si fonda sulla diversità delle dipendenze funzionali e organica dal P.M., emblematicamente palesata dalla diversa ubicazione della sede di servizio.
Le Sezioni di P.G., hanno sede presso la Procura della Repubblica; i Servizi, presso i Comandi di appartenenza (le sedi delle Questure, dei Comandi dei CC., della G.d.F., delle Capitanerie di Porto, ecc.).
[1] Art. 59, n. 2 c.p.p. (Subordinazione della polizia giudiziaria) - Il Pubblico Ufficiale preposto ai servizi di polizia giudiziaria (NODM, NOIP e NOE) è responsabile verso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dove ha sede il servizio dell’attività di polizia giudiziaria svolta da lui stesso e dal personale dipendente
Il personale di Polizia Giudiziaria è costituito dai soggetti obbligati per legge ad esperire indagini per accertare reati oltre che a sporgere denuncia (art. 361 c.p.)
Non hanno qualità di organo di polizia giudiziaria, invece, tutti quei Pubblici Ufficiali e incaricati di un pubblico servizio che pur avendo l’obbligo di denuncia (art. 331), non hanno il potere-dovere di compiere attività investigativa processuale.
Peraltro, l’obbligo di denuncia è limitato ai fatti-reati appresi a causa e nell’esercizio delle proprie funzioni amministrative.
La qualifica di Ufficiale o Agente di P.G. compete ad ampie categorie di pubblici dipendenti (civili, militari e militarizzate).
A seconda della ampiezza della loro "sfera operativa", gli organi di P.G. si suddividono in:
Da qui la «bipartizione» che fa il codice fra gli Ufficiali ed Agenti a “competenza generale” e quelli a “competenza limitata”.
Tutti esercitano le "funzioni" di polizia giudiziaria di cui all’art. 55 c.p.p.. Tuttavia, esse spettano, nella loro intierezza, solo agli Ufficiali di P.G., senza distinzione, nel loro ambito, di qualifiche o profili professionali, né di gradi, salve le esigenze di coordinamento, comando o direzione interne e specifiche della propria Amministrazione....
Le funzioni di P.G., spettano solo in parte ai semplici Agenti di P.G., in considerazione della loro minore presunta qualificazione, in rapporto al minore grado o livello impiegatizio.
La casistica degli organi secondari di P.G. comprende Ufficiali ed Agenti di P.G. ai quali è conferito l’incarico di accertare e ricercare solo determinate specie di reati e precisamente quelle nelle quali essi possono imbattersi nello svolgimento del servizio cui sono destinati (…competenza settoriale o limitata) e secondo le rispettive attribuzioni (…in riferimento ai diversi poteri conferiti, rispettivamente, agli Ufficiali ed agli Agenti, specie con riguardo alla legittimazione a compiere, da parte dei primi, tutti gli atti di polizia giudiziaria e, da parte dei secondi, solo alcuni di essi).
Sono equiparati al «privato», gli Ufficiali e gli Agenti di polizia giudiziaria a competenza limitata, quando operano al di fuori delle loro specifiche attribuzioni o del servizio cui sono destinati.
La Polizia Giudiziaria è centro propulsivo del procedimento penale e, come soggetto del procedimento, ha la titolarità di poteri investigativi che sono autonomi fino a quando il P.M., cui essa deve riferire la notizia di reato sensa ritardo, non abbia assunto la direzione delle indagin ed impartito le direttive necessarie (art. 348 c.p.p.). Va sottolineato tuttavia che anche dopo l'assunzione della direzione delle indagini da parte del P.M., la Polizia Giudiziaria può svolgere indagini di propria iniziativa.
Il momento dell’intervento della Polizia Giudiziaria è per forza di cose connesso ad un reato ed è ben diverso dal carattere preventivo della polizia amministrativa, assumendo in realtà una finalità più schiettamente repressiva.
Tale momento di intervento è caratterizzato da diversi «obblighi e doveri» e, in particolare, ha il compito di (art. 55 c.p.p.)
[1] Art. 30 (Uso del demanio marittimo) – L’amministrazione dei trasporti regola l’uso del demanio marittimo e vi esercita la polizia (art. 1164, comma 1 cod. nav.)
Art. 27 Reg. cod. nav. (Vigilanza) – L’esercizio della concessione è soggetto alle norme di polizia sul demanio marittimo (art. 30 cod. nav.). L’Autorità marittima vigila sull’osservanza delle norme stesse e delle condizioni cui è sottoposta la concessione.
[…]
Le funzioni di polizia giudiziaria tendono tutte alla ricostruzione del fatto-reato ed alla individuazione del presunto autore.
► Esse sono così classificabili:
Gli elementi di fatto raccolti in sede di interruzione del reato sono, a loro volta, utili ai fini della funzione investigativa.
Quando un "Ufficiale" o "Agente" di polizia giudiziaria interviene nei confronti di un soggetto sospettato di un reato o nel momento in cui sta commettendo un reato:
Attenzione !
L’art. 349 c.p.p. sancisce che di questo accompagnamento coattivo ai fini identificativi deve essere subito notiziato il Procuratore della Repubblica del posto.
Se la persona si oppone con la forza all’accompagnamento, commette il reato di resistenza a Pubblico Ufficiale (art. 337 c.p.) per il quale è possibile l’arresto in flagranza.
Qualora l’U.P.G. non voglia, per motivi di opportunità o per altro, ricorrere all’uso della forza per l’accompagnamento coattivo, cercherà di identificare, attraverso altri mezzi (ad esempio: targa dell’autovettura, informazioni, testimonianze, ecc.) la persona, trasmettendo l’informativa di reato al Procuratore della Repubblica presso il tribunale competente al quale illustrerà dettagliatamente l’evoluzione dei fatti.
In nessun caso è possibile far uso delle eventuali armi in tali circostanze, a meno che non vi sia costretto dalla necessità di difendere la propria integrità fisica da un pericolo attuale ed inevitabile, e sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa e non sussista l’alternativa di un comportamento diverso oppure qualora il militare operante sia costoro all’uso delle armi per respingere una violenza o vincere una resistenza.
Attenzione !
la cosiddetta “resistenza passiva” (rifiuto senza minacce o violenza ed atteggiamento passivo ed inerte) non integra il reato di resistenza ma soltanto il reato di cui all’art. 650 e/o 61 c.p.
In uno Stato democratico, ove massima tutela viene riconosciuta ai diritti del cittadino ed i limiti alla libertà costituzionali sono oggetto di precise garanzie, i compiti degli Organi preposti alle funzioni di polizia devono essere svolti mantenendo, sempre, il “giusto equilibrio” tra l’esplicazione di un «atto autoritativo» qual è normalmente l’atto posto in essere dal Pubblico Ufficiale, ed il rispetto dei diritti della persona che ne subisce gli effetti.
L’identificazione di una persona rappresenta, ad esempio, più che un invito a declinare le proprie generalità personali e quant’altro possa valere ad identificarla compiutamente, un ordine dell’Autorità che, nel quadro dei principi anzidetti, va considerato un potere da esercitare, non solo con la puntuale osservanza delle norme che la regolano, ma anche con atteggiamenti e comportamenti improntati alla buona educazione, al rispetto della persona ed alla salvaguardia dell’immagine dell’Amministrazione di appartenenza.
Alla necessaria fermezza nell’intervento deve, pertanto, coniugarsi la cortesia nei modi e nel linguaggio, qualunque sia o appaia il soggetto destinatario del controllo d’identità; in tal modo, non solo si rappresenta la funzione esercitata con adeguato livello di professionalità, ma, contestualmente, si evita una giusta rimostranza o addirittura, il tentativo di far passare per arbitrario l’atto medesimo.
Allo scopo di scongiurare possibili malintesi o incertezze, la richiesta dei documenti identificativi è opportuno che sia effettuata comunque da personale in “uniforme”.
Qualora gli operatori siano in abiti civili e sia necessario ed improrogabile procedere al controllo, devono essere attuate tutte le possibili cautele per consentire al cittadino un inequivocabile riconoscimento.
Proprio la necessità di garantire la sicurezza della collettività e degli operanti rappresenta l’ulteriore criterio cui uniformare alcune elementari regole di condotta nel corso degli interventi da parte del personale del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera.
E’ necessario, quindi, in presenza dell’utente, mantenere costante un atteggiamento fermo e prudente: pur nel rispetto delle libertà del cittadino, è importante adottare ogni accorgimento teso a garantire la propria e altrui incolumità.
Anche quando le persone fermate, oggetto dell’attività di identificazione, mostrano tranquillità e disponibilità agli accertamenti di polizia, deve essere tenuta sempre elevata e vigile la concentrazione operativa, al fine di scongiurare ogni reazione ed essere pronti a fronteggiare inattese situazioni d’emergenza.
Quando decide di procedere al controllo di una o più persone, e qualora non sia necessario attivarsi presso il proprio Comando, il militare del Corpo deve ponderare, oltre alla tecnica di avvicinamento e di approccio, il luogo più idoneo all’intervento stesso.
L’approccio con le persone deve, possibilmente, avvenire con l’utilizzo della «tecnica di protezione ravvicinata», che consiste nell’operare sempre con il sostegno, a distanza, di uno o più collaboratori in posizione reattiva, ossia pronti a fronteggiare l’eventuale reazione del fermato ovvero di terze persone presenti nelle vicinanze.
Non tutti gli operatori, quindi, devono trovarsi contemporaneamente impegnati nel controllo: mentre uno procede alla identificazione ed agli accertamenti conseguenti, l’altro o gli altri devono tenersi a distanza pronti ad intervenire.
Giova sottolineare che una procedura operativa adeguata rappresenta un valido deterrente nei confronti dell’utente reticente o malintenzionato, il quale, al contrario, in presenza di atteggiamenti rilassati ed eccessivamente fiduciosi dei tutori dell’ordine, potrebbero approfittare di un momento opportuno per sottrarsi con forza al controllo.
Dell’avvio dell’attività di controllo, nonché del luogo in cui il personale del Corpo opera, è opportuno informare via radio/telefonino la Centrale Operativa del proprio Ufficio che, in caso di emergenza, sarà in condizione di attivare tempestivamente le misure di conseguenza.
Le norme di attuazione del Codice di procedura penale (artt. 16-19) regolamentano il tema delle "sanzioni disciplinari" che possono essere applicate agli Ufficiali ed agli Agenti di polizia giudiziaria che, violando le norme relative all’esercizio delle loro «funzioni», e cioè:
►Iniziativa: l’azione disciplinare è promossa dal Procuratore Generale presso la Corte di appello del "distretto" in cui presta servizio l’U.P.G. o l’A.P.G. Dell'inizio dell'azione disciplinare è data comunicazione all'amministrazione dalla quale dipende l'Ufficiale o l'Agente di polizia giudiziaria in questione.
►Contestazione: l'addebito viene contestato all'incolpato per iscritto. La contestazione, che indica succintamente il fatto e la specifica trasgressione della quale l'incolpato è chiamato a rispondere, è notificata all'incolpato e contiene l'avviso che fino a 5 giorni prima dell'udienza, egli ha la facoltà di presentare memorie, produrre documenti e richiedere l'audizione di testimoni.
►Competenza: competente a giudicare dell’infrazione disciplinare è una apposita "Commissione" (composta da due magistrati e da un Ufficiale di polizia giudiziaria appartenente alla stessa amministrazione dell’incolpato) avente sede presso la Corte d’Appello e i cui componenti sono nominati dal consiglio giudiziario, per i magistrati, e dai soggetti indicati nell’art. 17 co.3 att., per gli appartenenti alle Forze di Polizia. Nel procedimento disciplinare l’accusa è rappresentata dal Procuratore Generale (P.G.) che ha promosso l’azione disciplinare o da un suo sostituto.
►Le garanzie difensive: l’incolpato ha facoltàdi nominare un difensore di fiducia (che può anche essere un appartenente alla sua Amministrazione) o da un difensore di ufficio (designato a norma dell’art. 97).
►Notifica del provvedimento: all'esito dell'iter procedimentale, il Procuratore Generale comunica il provvedimento all'amministrazione di appartenenza dell'Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria nei cui confronti è stata promossa l'azione disciplinare.
►Impugnazione: avverso la decisione emessa della Commissione, sia l'incolpato che il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello possono ricorrere ad una "Commissione Centrale" (di 2° grado) che ha sede presso il Ministero di Giustizia ed il cui provvedimento conclusivo non è ricorribile in Cassazione. L'accusa è esercitata da un magistrato della Procura Generale presso la Corte di cassazione.
All’esito del procedimento, all’Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria, ritenuto responsabile della trasgressione disciplinare è inflitta la sanzione della «censura» o, nei casi più gravi, la «sospensione dall’impiego» per un tempo non superiore a sei mesi.
Agli Ufficiali o agli Agenti addetti alle Sezioni di polizia giudiziaria potrà essere altresì irrogata la sanzione dell'esonero dal servizio presso le sezioni. Nei confronti dell'Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria. incolpato può essere disposta anche la "sospensione cautelare" dalle funzioni di polizia giudiziaria.
Va precisato che il procedimento disciplinare sia in 1° che in 2° grado, nonostante l'intervento dell'Autorità Giudiziaria e le forme proprie di un procedimento giurisdizionale, resta un procedimento di natura amministrativa.
L’Ufficiale o l’Agente che viola i doveri inerenti alle funzioni di polizia giudiziaria può essere assoggettato solo al procedimento disciplinare appena delineato (art. 16 comma 3 att.) e non anche (congiuntamente o alternativamente) al procedimento disciplinare che le varie amministrazioni prevedono per i loro appartenenti che trasgrediscono ad ordini emanati ovvero violino doveri generici o specifici del servizio o della disciplina militare.
E', infatti, evidente che le sanzioni dinanzi citate, previste dalle disposizioni di attuazione al nuovo codice di rito non possono essere certo assorbire provvedimenti di diversa natura quali ad esempio la destituzione, o profili di rilevanza disciplinare peculiari, per ciascuna amministrazione di appartenenza, come ad esempio quelle previste dalla L. 121/81 e dal successivo decreto di attuazione D.P.R. 737/81 per gli appartenenti alla polizia di Stato.
Il procedimento disciplinare promosso per la violazione commessa nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, non esclude, viceversa, che per la stessa violazione possa essere dato inizio anche a un «procedimento penale». Per il medesimo fatto, perciò, può prospettarsi l’ipotesi di dare autonomi procedimenti: quello disciplinare o quello penale.
Gli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria a competenza generale o limitata (fra cui gli appartenenti al Corpo) sono legittimati a compiere, sia pure per accertare solo determinate categorie di reati, tutti gli atti di polizia giudiziaria. Va peraltro rilevato che mentre gli Ufficiali di polizia giudiziaria possono svolgere qualsiasi atto, gli Agenti possono compierne alcuni e non altri.
La distinzione tra Ufficiali ed Agenti di polizia giudizraia è rilevante sia per quanto riguarda la organizzazione interna delle varie unità di polizia giudiziaria sia per quanto riguarda la competenza a compiere determinati atti.
A quest’ultimo proposito, le disposizioni dettate dal Codice di rito e dalle norme di attuazione stabiliscono che, gli atti di polizia giudiziaria possono esssere compiuti, indistintamente, dagli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria e che alla regola si fa eccezione solo per quegli atti il cui compimento è espressamente “riservato” agli Ufficiali di polizia giudiziaria in via assoluta o relativa.
La riserva è assoluta quando l’atto, per la sua complesità e delicatezza, può essere compiuto dagli Ufficiali di polizia giudiziaria e cioè dai soggetti che, per le qualifica rivestita, sono titolari di più collaudate capacità tecnico-professionali.
La riserva è relativa quando l’atto può essere compiuto anche dagli Agenti di polizia giudiziaria nei casi di particolare necessità e urgenza, cioè a dire, nei casi che esigono l’immediato svolgimento di attività operativa (art. 113 att.)..
Nelle ipotesi di riserva relativa, la necessità e urgenza che legittimano l’intervento degli Agenti di polizia giudiziaria non devono essere espressamente motivate, ma possono essere desunte anche da elementi collegati alla concreta situazione di indagine.
L’agente che compie un atto in assenza di una situazione di necessità e urgenza può rispondere disciplinarmente. Nell’ipotesi di riserva assoluta, l’atto compiuto da Agenti di polizia giudiziaria è invece considerato illegittimo (Cass. 4408/98).
► In particolare gli «Ufficiali di P.G.» possono procedere, ad esempio:
Va rilevato che mentre gli Ufficiali di polizia giudiziaria possono svolgere qualsiasi atto, gli Agenti possono compierne alcuni e non altri.
► In particolare gli «Agenti di P.G.» possono procedere ad esempio:
La Polizia Giudiziaria è «soggetto» procedimentale, ma non anche parte processuale. E’ soggetto perché, nella fase pre-processuale, è titolare di proprie potestà e funzioni investigative, anche parzialmente autonome da quelle del P.M. (ad esempio: arresto, fermo, atti di indagine) ed anche perché ha una propria funzione esecutiva di direttive e di atti delegati dal P.M. (artt. 347 e 370 c.p.p.).
La P.G. non è parte perché innanzi al Giudice non può iniziare, né proseguire l’azione penale, di cui unico ed esclusivo titolare è il P.M. . L’Ufficiale di P.G. benché possa fungere da P.M. nei riti dibattimentali innanzi al Giudice monocratico, ivi non rappresenta il proprio Corpo o Arma di appartenenza, ma il Procuratore della Repubblica delegante (art. 22 D.P.R. 449/1988, modificato dall’art. 72 Ord. Giud.).
Ha carattere "preliminare" (art. 347 c.p.p.) perché è volta a fornire al P.M. l’imput investigativo: spettando poi al P.M. stesso sviluppare l’indicazione ricevuta finalizzandola processualmente.
Questo vuol dire che dal momento in cui il P.M. ha concretamente assunto la direzione delle indagini, la P.G. ha il dovere di muoversi entro le linee da lui tracciate, salvo a riacquistare sfere di autonomia più o meno ampie in relazione ad indagini richieste da elementi successivamente emersi (art. 348 co.3 c.p.p.).
Ha carattere "ausiliario" perché spetta al P.M. la direzione delle indagini e disporre direttamente della P.G.
Nel primo caso, ampia è la discrezionalità della Polizia Giudiziaria; nel secondo caso è assai limitata (art. 348 comma 3). In ogni caso, la P.G. conserva la titolarità della c.d. indagine parallela, che nella sua autonomia, può sempre espletare, pur essendo comunque obbligata anche a svolgere le indagini commissionate dal P.M.
Si aggiunga che a seguito del trasferimento di alcune competenze penali in capo al Giudice di Pace, l’attività di iniziativa della Polizia Giudiziaria, nelle materie affidate al Giudice onorario, ha subito un ampliamento potendo la P.G., oltre che condurre le indagini, procedere, in determinati casi, alla citazione diretta in giudizio della persona indagata.
L’attività autonoma è quella che la P.G. è legittimata e tenuta a compiere in base a «propri autonomi poteri» che le derivano direttamente dalla legge e non da richieste od ordini del P.M.
Consiste nel compimento di qualsiasi legittima attività, tipica o atipica, di informazione, investigazione e assicurazione diretta alla ricostruzione del fatto e alla individuazione dell’autore o dei presunti autori del reato.
L’attività autonoma ha come momento iniziale quello dell’acquisizione della N.d.R., perdura certamente fino a che la notizia criminis non viene comunicata al P.M. (art. 347 c.p.p.) e può continuare fino a che questi non assume concretamente e di fatto la direzione delle indagini.
Una volta che il P.M., ricevuta la comunicazione di N.d.R. ha assunto concretamente la direzione delle indagini, egli può compierle personalmente oppure avvalendosi della P.G. In questo secondo caso, può limitarsi a impartire alla P.G. delle «direttive» di indagine oppure può ad essa «delegare» il compimento di specifici atti (artt. 348 co.3 e 370 co.1). Se il P.M. si limita ad impartire direttive di indagine, l’attività della polizia giudiziaria si denomina «attività guidata». Se, invece, il P.M. delega alla polizia giudiziaria specifici atti, l’attività della P.G. si denomina «attività delegata».
L’attività guidata è, pertanto quella che la Polizia Giudiziaria svolge nell’ambito delle direttive del P.M. e, cioè, entro le linee generali (=obiettivi di indagine) da lui tracciate. Le circostanze che il P.M. abbia impartito direttive di indagine, non impedisce alla polizia giudiziaria di seguire proprie «piste» di indagine o sulla base di quanto richiesto da elementi successivamente emersi (=attività successiva) o in attuazione di proprie idee investigative (=attività parallela).
In questi casi, la Polizia Giudiziaria, come in tutti i casi in cui il P.M. si limita ad impartire direttive, resta libera di scegliere i mezzi e il tipo di investigazione più idonei per raggiungere l’obiettivo di indagine indicatole.
Sarà, perciò, autorizzata a perseguire l’obiettivo di indagine assumendo informazioni da potenziali testimoni, eseguendo osservazioni di persone e pedinamenti, acquisendo dati sulla personalità dei membri dell’equipaggio del motopesca oppure compiendo altra attività ritenuta necessaria od opportuna, e ponendo in essere, altresì, tutte quelle attività informali, rientranti nelle regole della buona tecnica di indagine e quindi non vietate...
L’attività delegata consiste, invece, nel compimento da parte della polizia giudiziaria, di atti specificamente richiesti e indicati dal P.M. intervenuto nella direzione delle indagini.
A differenza di quello compiuto su direttiva, l’atto delegato ha lo stesso regime dell’atto compiuto personalmente dal P.M, ed è evidente che solo da uno specifico provvedimento del P.M. (=delega) può essere argomentata tale ammissibilità.
La «delega» deve, pertanto, assumere la forma scritta, ma ciò non impedisce, tuttavia, che, quando sussistono ragioni di urgenza o necessità, possa essere data oralmente e poi ribadita per iscritto.
La Polizia Giudiziaria in quanto soggetto del procedimento, è titolare di autonomi funzioni investigative che esercita mediante «atti tipici» (artt. 244-271 c.p.p.) e anche di «atti atipici» (art. 189).
Nella sua attività di ricerca delle fonti di prova, la Polizia giudiziaria pone in essere:
Il procedimento penale ha inizio con l'acquisizione della notizia di reato da parte della Polizia Giudiziaria (art. 330 c.p.p.) o del Pubblico Ministero. All'acquisizione segue una prima fase della procedura (fase delle indagini preliminari) che ha per protagonista la Polizia Giudiziaria la quale, fino a quando il P.M. non ha impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini..., raccoglie ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto ed alla individuazione del colpevole (art. 348, comma 1 c.p.p.).
La Polizia Giudiziaria ha il compito di informarsi sul fatto ma anche di informare tempestivamente il P.M. dell'intervenuta acquisizione della notizia di reato.
Le indagini compiutre dal P.M. e dalla Polizia Giudiziaria mirano a consentire al P.M. di assumere le sue determinazioni in ordine o meno dell'azione penale (art. 326 c.p.p.).
Gli Organi che svolgono le indagini preliminari, sono il «Pubblico Ministero» e la «Polizia Giudiziaria». Nel modello processuale vigente il Pubblico Ministero è solo organo inquirente e di azione penale con funzioni direttive della Polizia giudiziaria che è l’altro organo deputato delle indagini. In particolare il P.M., pur essendo Autorità giudiziaria, svolge un ruolo di parte, in posizione di sostanziale parità con la persona indagata.
Da ciò deriva che il P.M. non ha poteri sulla libertà personale di quest’ultima (salvo il potere-dovere di fermo che ha, però carattere provvisorio ed eccezionale).
L’attuale sistema non attribuisce al Pubblico Ministero e alla Polizia giudiziaria il potere di formare la prova e di incidere sui diritti costituzionali garantiti dell’indagato/imputato. Tali poteri, infatti, possono appartenere solo ad un soggetto che non svolge né funzione di investigazione né funzione di accusa e che, invece, è rigorosamente estraneo alla contesa tra le parti (Pubblico Ministero e imputato).
Anche se la fase delle indagini preliminari ha natura essenzialmente investigativa, è tuttavia previsto, che durante la fase operi un Giudice: il Giudice per le indagini preliminari (=G.I.P). Questo Giudice che è singolo (monocratico) e privo di qualsiasi funzione investigativa, è istituito presso i Tribunali ordinari ed i Tribunali per i minorenni (ove opera, come Giudice collegiale nell’Udienza Preliminare).
Il G.I.P., non svolge indagini preliminari, ma esercita su di esse «funzioni di controllo». Interviene, infatti, in funzione di garanzia delle posizioni di libertà dell’indagato ed in funzione di controllo e garanzia sui tempi di svolgimento delle indagini e sull’esercizio dell’azione penale.
Spetta ancora al GIP autorizzare il compimento delle intercettazioni telefoniche (art. 267) richieste dal P.M.: trattandosi, infatti, di un mezzo insidioso che può incidere sulla riservatezza delle relazioni personali dell’indagato, non è consentito a chiunque captarne le comunicazioni, ma solo a chi indaga su certi reati particolarmente gravi e dietro autorizzazione del Giudice. Il GIP proroga i termini previsti per le indagini (artt. 406-415) ovvero provvede sulla richiesta di archiviazione (artt. 408 ss.)
Il tal modo il G.I.P. controlla che le indagini siano correttamente svolte e che non si verifichino delle irregolarità investigative che incidano sul corretto andamento del procedimento penale.
Abbiamo detto in precedenza che il G.I.P. è l’organo delle indagini in Tribunale, presso il quale svolge le sue funzioni anche con riferimento ai procedimenti per reati di competenza della Corte d’Assise.
Nei procedimenti di mafia, le funzioni di GIP sono svolte da un magistrato operante nel Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di Appello «c.d. G.I.P. distrettuale».
Il G.I.P. è, altresì, organo con poteri di decisione nella fase successiva alla chiusura delle indagini e nell’esercizio dell’azione penale in quanto chiamato a decidere sul rinvio a giudizio dell’indagato.
Questa duplicità di ruoli distingue il Giudice per le indagini preliminari dagli altri Giudici ordinari ai quali spettano sempre poteri di decisione, connessi, per lo più, allo svolgersi di una udienza dibattimentale.
E', nel nuovo Codice di procedura penale, il Giudice cui competono gli «atti giurisdizionali» più importanti nella fase delle indagini preliminari.
Il Giudice per le indagini preliminari (detto nel linguaggio corrente G.I.P.), non svolge indagini preliminari, ma sostanzialmente esercita il «controllo» sulle attività di ricerca della prova a «garanzia» dei diritti di coloro nei cui confronti tale attività viene effettuata.
► Il G.I.P. interviene infatti:
Il Pubblico Ministero è organo inquirente rispetto al quale il cittadino assume posizione di soggezione, almeno sino a che non viene formalmente esercitata l'azione penale: al G.I.P. sono rimesse tutte le decisioni che maggiormente incidono sulla conduzione del procedimento o che più da vicino concernono la libertà dell'indagato (intercettazioni telefoniche, incidente probatorio, convalida del fermo e dell'arresto, applicazione di misure cautelari, convalida del sequestro, ecc.)
In casi eccezionali, tassativamente elencati dall'art. 392 c.p.p., è previsto che singoli atti possano essere "richiesti" sia dallo stesso P.M. che dalle altre parti interessate al G.I.P. e che, in tal modo, l'assunzione di tali atti avvenga dinanzi al G.I.P. e nel contraddittorio tra gli interessati. Si chiama, dunque, «incidente probatorio» lo speciale procedimento per mezzo del quale si assume una prova dinanzi al G.I.P.
Infine, è sottoposta al vaglio di fondatezza del G.I.P. anche la "richiesta di rinvio a giudizio" (nelle sue varie forme: rinvio a giudizio ordinario, giudizio immediato) nonché le altre forme di definizione abbreviata del procedimento, quali il giudizio abbreviato, l'applicazione della pena su richiesta delle parti.
Il G.I.P. proroga i termini previsti per le indagini (artt. 406-415) ovvero provvede sulla richiesta di archiviazione (artt. 408 ss.)
Il G.I.P. svolge le proprie funzioni presso il Tribunale, presso il quale svolge le sue funzioni anche con riferimento ai procedimenti per reati di competenza della Corte d’Assise.
Nei procedimenti di mafia, le funzioni di G.I.P. sono svolte da un magistrato operante nel Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di Appello c.d. G.I.P. distrettuale.
Normalmente le prove vengono acquisite al dibattimento. In via eccezionale, vi sono dei casi in cui il legislatore, in previsione dei rischi che il rinvio al dibattimento presenta nell’attesa (rischio di inquinamento della loro genuinità, modificazione, alterazione naturale o indotta, scomparsa), dispone che certe prove possano essere raccolte prima, nella fase delle indagini preliminari, ma non dal P.M., bensì da un Giudice, il G.I.P., attraverso lo strumento dell’«incidente probatorio».
L’incidente probatorio consiste quindi nella anticipata acquisizione della prova non rinviabile al dibattimento. Non potendo la prova attendere il dibattimento, i meccanismi dibattimentali di formazione della prova sono anticipatamente azionati innanzi allo stesso G.I.P., nel contraddittorio delle potenziali parti e con le stesse formalità della “cross examination” (=esame incrociato). Trattasi, invero, di vero e proprio incidente (o parentesi o segmento) processuale.
Mediante l'incidente probatorio, il G.I.P. compie dunque un atto che potrebbe essere tardivo tentare di compiere in dibattimento e il cui compimento da parte della Polizia Giudiziaria o del P.M., invece, non potrebbe produrre effetti ai fini della decisione del Giudice del dibattimento (poiché si configurerebbe quale atto di indagine e cioé come un atto inidoneo a costituire prova).
► I casi di incidente probatorio sono tassativamente elencati dall'art. 392 c.p.p., e si verificano quando:
Gli atti compiuti con incidente probatorio sono, fin dall’inizio, acquisiti al fascicolo del dibattimento e hanno la stessa utilizzabilità di quelli compiuti in giudizio.
Poiché l’incidente probatorio prevede il contraddittorio delle potenziali parti (Pubblico Ministero, difensore e, nella gran parte dei casi, anche l’indagato), di conseguenza, fa scoprire al Pubblico Ministero la direzione delle indagini.
Occorre, quindi, fare un uso molto accorto dell’incidente probatorio: Pubblico Ministero e Polizia giudiziaria devono valutare attentamente se ricorrere ad esso o rischiare che la prova si inquini o si deteriori o divenga impossibile la ripetizione.
Nel precedente sistema processuale sin dal primo atto di istruzione il Giudice Istruttore o il Pubblico Ministero doveva inviare all'imputato la «comunicazione giudiziaria» (c. d. avviso di garanzia).
Nel nuovo modello processuale, invece, la stessa comunicazione «c.d. informazione di garanzia» va inviata solo se vi è nelle indagini preliminari il compimento di un atto al quale il difensore ha diritto di assistere (art. 369 c.p.p.).
I difensori hanno altresì il diritto di assistere, ma senza avviso, per gli atti di "perquisizione" o di "sequestro" (art. 365 c.p.p.), atti «c.d a sorpresa».
Pertanto tutti gli altri atti di indagine possono essere compiuti (ad esempio, esame di persone che possono riferire sulla notizia di reato - futuri testimoni) senza l'invio della informazione di garanzia.
La fase delle indagini preliminari è «perimetrata» entro precisi confini temporali. Il legislatore, nell'intento di assicurare ritmi accelerati alla fase dell indagini e di tutelare possibili interessi dell'indagato e della persona offesa ad una tempestiva definizione delle indagini, ha prefissato termini "massimi" di durata.
Il termine di durata delle indagini è di 1 (un) anno quando si procede per uno dei delitti indicati nell’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. e cioè che riguardano ipotesi di delitti riconducibili al concetto di criminalità organizzata (eversiva, terroristica o tipo mafioso). Per gli altri reati, il termine delle indagini è di soli 6 (sei) mesi.
Il termine delle indagini preliminari (sia esso di sei mesi o di un anno) può essere "prorogato" una o più volte dal G.I.P. su richiesta del Pubblico Ministero. La richiesta di proroga contiene l’indicazione della notizia di reato e l’esposizione dei motivi che la giustificano. Deve essere notificata (a cura del G.I.P.) all’indagato e alla persona offesa che, nella notizia di reato (ad esempio, nella querela o nella denuncia) o successivamente alla sua presentazione, ha dichiarato di volerne essere informata.
La notificazione della richiesta di proroga non è prevista quando si procede per uno dei delitti di mafia.
La proroga è concessa o negata dal G.I.P. La prima proroga, di durata non superiore a 6 (sei) mesi, può essere concessa per qualsiasi giusta causa. Le altre, solo quando la giusta causa consiste nella particolare complessità delle indagini o nella oggettiva impossibilità di concluderle.
In totale, computate tutte le proroghe, la durata delle indagini non può superare i 18 (diciotto) mesi.
Il termine di durata delle indagini può essere di "quattro anni" quando si procede per i delitti di più grave allarme sociale (art. 407 comma 2 lett. b c.p.p.).
Entro i termini prefissati il Pubblico Ministero, valutati i risultati delle indagini compiute, deve operare la scelta fra l’archiviazione o l’esercizio dell’azione penale.
La notizia di reato deve essere ritenuta "infondata" dal Pubblico Ministero quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio e ciò al fine di evitare processi e dibattimenti inutili.
Sulla richiesta di archiviazione, è particolarmente intenso il controllo del G.I.P. che quando è in disaccordo rispetto alle conclusioni del P.M. può anche "imporgli di compiere nuove indagini o di formulare l’imputazione".
L'impostazione garantistica che ha animato la c.d. riforma del Giudice Unico ha accresciuto i diritti dell'imputato anche in riferimento al momemto conclusivo delle indagini.
All'approssimarsi della scadenza del termine per le indagini, "originario" (mesi 6 o, per i reati di criminalità organizzata, anni 1) o "prorogato", il P.M. può limitarsi a richiedere l'archiviazione (per improcedibilità dell'azione penale, per infondatezza della notizia criminis o per essere ignoti gli autori) senza altri adempimenti.
Quando, invece, intende esercitare l'azione penale (mediante richiesta di rinvio a giudizio per i reati attribuiti al Tribunale colleggiale o, nei casi consentiti, al Tribunale monocratico, overo mediante citazione diretta a giudizio innanzi al tribunale monocratico), il P.M. procedente fa "notificare" all'indagato e al suo difensore, prima della scadenza del termine delle indagini preliminari (art. 415 comma 2 c.p.p.), se non deve formulare la richiesta di archiviazione ai sensi degli artt. 408 e 411 c.p.p., l'avviso delle concluse indagini (art. 415bis c.p.p.).
La richiesta di rinvio a giudizio è nulla se non è preceduta dall’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p., nonché dall’invito a presentarsi per rendere interrogatorio ai sensi dell’art. 375 co. 3 c.p.p. qualora la persona sottoposta alle indagini a seguito del predetto avviso abbia chiesto di essere sottoposta a interrogatorio.
E’ questo il momento in cui inizia il «processo vero e proprio» ed in cui la persona sottoposta alle indagini acquista la qualità di «imputato».
Quando il P.M. esercita l’azione penale mediante la “richiesta di rinvio a giudizio” si apre una fase giurisdizionale nella quale il "Giudice dell’Udienza Preliminare" (G.U.P.) nel pieno contraddittorio delle parti, verifica se l’ipotesi di accusa formulata dal P.M. appare o no fornita di quel tanto di fondatezza che giustifica il giudizio.
La sede a ciò destinata è la «Udienza Preliminare», che funziona come una sorta di "filtro" rispetto alle accuse mosse dal P.M. e di garanzia per l’imputato.
Il Giudice fissa la data dell’udienza entro 5 (cinque) giorni dal deposito da parte del P.M. della richiesta di rinvio a giudizio.
L’udienza si svolge in camera di consiglio con la necessaria presenza del P.M. e del difensore dell’imputato (laddove questi non compaia e sempre che sia stato ritualmente avvisato, il Giudice deve nominargli un sostituto, ai sensi dell’art. 97 co. 4 c.p.p.).
Nel corso dell’udienza, il Pubblico Ministero e il difensore formulano e illustrano le loro rispettive «conclusioni» utilizzando gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini.
L’Udienza Preliminare svolge nel procedimento penale una "funzione di controllo giurisdizionale", in ordine alla consistenza degli elementi addotti dal Pubblico Ministero a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio.
L’udienza è anche la sede deputata alla "definizione anticipata del processo", ove le parti facciano richiesta di «rito abbreviato» o di «applicazione di pena su richiesta» (c.d. riti alternativi al dibattimento o pre-dibattimentali).
Il legislatore ha previsto che per tutti i reati, siano essi attribuiti alla cognizione del Giudice collegiale o del Giudice monocratico, si proceda con Udienza Preliminare, fatta eccezione per alcune ipotesi di reato per le quali, in relazione alla minore rilevanza (contravvenzioni, delitti puniti con la reclusione non superiore a quattro anni) o alla ampia diffusione (furto aggravato, ricettazione), non è apparso opportuno prevedere il controllo del Giudice sulla richiesta di giudizio del Pubblico Ministero (art. 550 e ss.c.p.p.).
In sostanza, l’Udienza Preliminare, in contraddittorio tra le parti, dinanzi al Giudice terzo (G.U.P.), rappresenta un passaggio obbligatorio per la gran parte dei processi di primo grado. E’ caratteristica tipica del Giudizio Ordinario e può avere luogo solo dopo che il processo è già iniziato e, quindi, dopo che è stata promossa l’azione penale e l’indagato ha acquisito la qualità di imputato.
L'art. 415 bis c.p.p.[1] dispone che, prima della scadenza del termine delle indagini preliminari, anche se prorogato, il P.M., se non deve formulare richiesta di archiviazione, fa notificare alla persona sottoposta alle indagini e al difensore «avviso della conclusione delle indagini preliminari».
L’atto è finalizzato a consentire all’indagato un "contraddittorio anticipato" allo scopo di evitargli incriminazioni infondate o non adeguatamente ponderate. Pertanto, l’avviso deve contenere l’enunciazione del fatto-reato addebitato e deve essere accompagnato dal deposito dell’intero fascicolo del P.M.
Nei successivi 20 giorni l’indagato ha facoltà di presentare elementi a sua difesa, prendere visione ed estrarne copia degli atti di indagine e può presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa alle investigazioni difensive, nonché presentarsi per rilasciare dichiarazioni spontanee, ovvero chiedere di essere sottoposto a interrogatorio o di compiere ulteriori atti di indagine, che devono essere "espletati dal Pubblico Ministero", nei successivi trenta giorni, termine prorogabile dal G.I.P per una sola volta, al massimo, fino a sessanta giorni.
E’ evidente che se all’esito delle investigazioni svolte la notizia di reato si è rilevata priva di fondamento, o, in ogni caso, l’azione penale non può essere iniziata per altri motivi non vi è ragione di sollecitare l’indagato a prospettare ulteriori approfondimenti.
L’avviso della conclusione delle indagini "contiene":
a) di presentare memorie;
b) di produrre documenti;
c) di depositare documentazione relativa alle investigazioni difensive;
d) di chiedere al P.M. di compiere atti di indagine;
e) di presentarsi per rilasciare dichiarazioni;
f) di chiedere di essere sottoposto a interrogatorio
[1] L’art. 415 bis c.p.p. è stato introdotto dall’art. 17 co. 2 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 c.d. Legge Carotti, dal nome del relatore alla camera dei Deputati ed entrata in vigore il 3 gennaio 2000.
[2] L’interrogatorio al quale l’indagato può richiedere di essere sottoposto acquista un più pregnante ed autentico significato ai fini dell’esercizio della funzione difensiva, in quanto reso alla luce del bagaglio di conoscenze e della consapevolezza della vicenda processuale che derivano dalla previa consultazione ella documentazione relativa alle indagini espletate.
Il Giudice può esercitare la "funzione giurisdizionale" solo se un organo dello Stato (il Pubblico Ministero) gli formula la richiesta di decidere su una accusa (imputazione) mossa a carico di un soggetto (imputato). E' mediante tale richiesta che il P.M. esercita l'azione penale.
Il P.M. deve esercitare l'«azione penale» quando, al termine delle indagini preliminari, svolte con l'ausilio della Polizia Giudiziaria, ritiene di aver acquisito elementi idonei a sostenere l'accusa di fronte al Giudice.
Nel nostro sistema, il P.M. non può dunque decidere a sua discrezione se esercitare o meno l'azione penale. La sua decisione deve tener conto solo dell'interesse all'osservanza della legge e non può essere condizionata da interferenze esterne, da ragioni di opportunità (anche politica), da circostanze occasionali (collegate alla particolarità del fatto o del suo autore) o, infine, dalla necessità di far prevalere interessi particolari.
Il momento iniziale dell'esercizio dell'azione penale coincide con la formulazione dell'imputazione (es. redazione della richiesta di rinvio a giudizio) e non con quello della sua conseguente comunicazione, che di norma avviene mediante notifica (es. notifica della richiesta suindicata). La cognizione è, quindi, sempre successiva al momento in cui si assume la qualità di imputato e cioè al momento della formazione dell'atto di vocatio in jus.
L’Udienza Preliminare è la caratteristica tipica del "giudizio ordinario". Essa può avere luogo solo dopo che il processo è già iniziato e, quindi, dopo che è stata promossa l’azione penale e l’indagato ha acquisito la qualità di imputato.
Per il giudizio ordinario, l’Udienza Preliminare esiste indefettibilmente per i reati attribuiti al Tribunale collegiale, e solo per taluni reati attribuiti alla cognizione del Tribunale monocratico ed in particolare per quelli in ordine ai quali non è consentita la «citazione diretta a giudizio» emessa dal P.M. (artt. 33 bis, 33 ter, 549 e 550).
La mancanza dell’Udienza Preliminare costituisce la ragione dell’attribuzione al P.M. delle «funzioni propulsive» del procedimento, altrimenti spettante al G.U.P.
Il «decreto di citazione diretta a giudizio» (art. 550 e ss. c.p.p.) emesso direttamente dallo stesso P.M. ha il pregio di accelerare l’iter e di semplificare gli adempimenti procedurali, ma anche il difetto del provvisorio obnubilamento della posizione del Giudice e quindi dei valori di giurisdizione (terzietà ed imparzialità), che egli incarna.
Peraltro, anche per tutti i predetti reati si procede con il rito dell’Udienza preliminare se essi sono connessi con altri reati per i quali sia prevista l’Udienza Preliminare.
L'Udienza preliminare è la caratteristica tipica del "giudizio ordinario" e può avere luogo solo dopo che il processo è già iniziato e, quindi, dopo che è stata promossa l’azione penale e l’indagato ha acquisito la qualità di imputato.
Per il giudizio ordinario, l'Udienza preliminare esiste indefettibilmente per i reati attribuiti al "Tribunale collegiale", e solo per taluni reati attribuiti alla cognizione del "Tribunale monocratico" ed in particolare per quelli in ordine ai quali non è consentita la "citazione diretta a giudizio" emessa dal P.M. (art. 550 e ss. c.p.p.).
L'Udienza preliminare consiste nell'udienza destinata alla verifica preliminare, a fini esclusivamente procedurali, della fondatezza dell'accusa. Essa manca innanzi al "Giudice di pace". Non è così per i reati destinati al "Tribunale monocratico", la cui cognizione comprende anche delitti punibili con la pena della reclusione fino a 10 anni; pertanto, per i reati-delitti si hanno procedimenti sia con Udienza preliminare, sia senza di essa, con afflusso, in questo caso, del processo direttamente al Giudice dibattimentale tramite "citazione diretta" disposta dallo stesso P.M. (artt. 649 e 550 c.p.p.).
Pertanto, la disciplina dell'Udienza preliminare è identica sia per i delitti destinati al Tribunale collegiale, sia per quelli destinati al Tribunale monocratico, nei casi in cui quest'ultimo essa è previsto
Il Giudice dell'Udienza preliminare (G.U.P.) deve vagliare l'intero fascicolo delle indagini e ha, una funzione diversa dal Giudice preposto al controllo di singoli atti di indagine (G.I.P.). Il G.U.P. interviene al termine della fase investigativa per decidere, sulla base dell'intero fascicolo, se accogliere la richiesta del P.M. di rinvio a giudizio.
Il Giudice fissa la data dell’Udienza entro 5 (cinque) giorni dal deposito da parte del P.M. della richiesta di rinvio a giudizio. L’Udienza si svolge in "camera di consiglio" con la necessaria presenza del P.M. e del difensore dell’imputato (laddove questi non compaia e sempre che sia stato ritualmente avvisato, il Giudice deve nominargli un sostituto, ai sensi dell’art. 97, comma. 4 c.p.p.).
Nel corso dell’Udienza, il Pubblico Ministero e il difensore formulano e illustrano le loro rispettive conclusioni utilizzando gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini.
L’Udienza preliminare svolge nel procedimento penale una funzione di «controllo giurisdizionale», in ordine alla consistenza degli elementi addotti dal Pubblico Ministero a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio.
L’Udienza è anche la sede deputata alla definizione "anticipata" del processo, ove le parti facciano richiesta di «rito abbreviato» o di «applicazione di pena su richiesta» (c.d. riti alternativi al dibattimento o pre-dibattimentali).
Il legislatore ha previsto che per tutti i reati, siano essi attribuiti alla cognizione del Giudice collegiale o del Giudice monocratico, si proceda con Udienza preliminare, fatta eccezione per alcune ipotesi di reato per le quali, in relazione alla minore rilevanza (contravvenzioni, delitti puniti con la reclusione non superiore a quattro anni) o alla ampia diffusione (furto aggravato, ricettazione), non è apparso opportuno prevedere il controllo del Giudice sulla richiesta di giudizio del Pubblico Ministero (art. 550 e ss. c.p.p.).
In sostanza, l’Udienza preliminare, in contraddittorio tra le parti, dinanzi al Giudice terzo, rappresenta un passaggio obbligatorio per la gran parte dei processi di primo grado.
[1] Ai sensi dell’art. 428 c.p.p. come sostituito dall’art. 4 Legge n. 46/2006, la sentenza pronunciata dal GUP in sede di udienza preliminare di non luogo a procedere è inappellabile ma ricorribile in Cassazione sempre per il PM; per l’imputato non è possibile quando è stato assolto con formula piena.
A seguito del «decreto che dispone il giudizio», viene formato il c.d. fascicolo per il dibattimento. Questo fascicolo ha un contenuto assai esiguo, poiché, come si è detto, la prova deve tendenzialmente formarsi nel dibattimento al quale il Giudice deve pervenire senza essersi precostituito un convincimento attraverso la lettura delle «carte».
Gli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, sono i soli che il Giudice della fase dibattimentale potrà conoscere prima dell’apertura del dibattimento e che, insieme agli atti compiuti o acquisiti nel dibattimento stesso, potrà utilizzare pienamente ai fini della decisione.
Tutti gli altri di indagine, compresi quelli compiuti dopo l’esercizio all’azione penale e quelli acquisiti dal Giudice nell’Udienza Preliminare, vanno raccolti nel c.d. fascicolo del Pubblico Ministero, che potrà essere consultato e utilizzato soltanto dalle parti e, al quale, quindi, il Giudice del dibattimento non potrà avere accesso.
Il sistema del «doppio fascicolo» serve a impedire che il Giudice del dibattimento possa formarsi il suo convincimento prima dell’udienza: attraverso la lettura degli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari e, quindi, senza il contraddittorio orale e, e cioè in una fase diversa separata da quella del giudizio.
In questa sede si dà un breve cenno ai riti, introdotti dal nuovo Codice di procedura penale per sfoltire il dibattimento da tutti quei processi, in cui per varie ragioni appare opportuna una trattazione più rapida.
La filosofia che accompagna tali procedimenti è quella di eliminare alcune fasi del processo (udienza preliminare, dibattimento o entrambe), in modo tale da deflazionare il normale iter processuale.
Il procedimento che si svolge secondo il modello ordinario presenta notevoli costi di tempo o di mezzi. Tali costi si accentrano in particolare, nell'Udienza preliminare e nel dibattimento. E in particolare l'Udienza preliminare richiede un considerevole uso di risorse umane e di mezzi materiali ed è superflua nei casi di evidenza delle risultanze di prova acquisite durante le indagini.
Proprio per tali motivi, il legislatore ha ritenuto di dover semplificare il meccanismo processuale tipico prevedendo che, in casi del genere, possa saltarsi l'Udienza preliminare e possa procedersi direttamente al dibattimento con le forme e le modalità del «giudizio direttissimo» o del «giudizio immediato».
Il giudizio direttissimo e il giudizio immediato rappresentano dunque i modelli differenziati (o alternativi o semplificativi) che, nell'attuale sistema processuale, si volgono a semplificare e ad accelerare l'ingresso al dibattimento evitando i costi dell'Udienza preliminare.
Altri procedimenti speciali si rivolgono, invece, a ottenere la definizione della vicenda processuale evitando il dibattimento e, quindi, in pratica, abbreviando in modo considerevole i tempi di durata del processo.
La celebrazione del dibattimento è inutile quando le parti sono disponibili a farne a meno e a preferire un giudizio fondato sulle carte già esistenti ovvero quando le parti sono addirittura d'accordo sulla pena che è congruo irrogare.
Da qui la determinazione del legislatore di prevedere che, in ipotesi del genere, il dibattimento venga saltato ricorrendo, rispettivamente, alle più agili procedure del «giudizio abbreviato» e della «applicazione su richiesta o patteggiamento»: i due più importanti ed innovativi procedimenti alternativi che, nel sistema attuale, consentono di evitare il dibattimento.
In entrambi i casi, il legislatore ha ritenuto di dover prevedere che alla rinuncia al dibattimento da parte dell'imputato si accompagni un "premio" (riduzione della pena in caso di condanna) per la sua condotta collaborativa e la sua disponibilità a semplificare il meccanismo processuale e a consentire una definizione più rapida o anticipata.
E' evidente l'economia di tempo e di energie, che consentono di trattare meglio e più rapidamente i processi che richiedono, invece, la celebrazione del rito ordinario.
I procedimenti speciali del giudizio abbreviato e del patteggiamento possono innestarsi anche nel corso degli altri procedimenti speciali (giudizio direttissimo, giudizio immediato, decreto penale di condanna.
Alcuni di tali riti speciali richiedono il consenso delle parti, e comportano allora delle limitazioni alla facoltà di appello (così il giudizio abbreviato e la pena richiesta dalle parti, per la quale l'appello è addirittura escluso); altri invece sono posti in essere dalla volontà del solo P.M. (giudizio direttissimo e per decreto) ovvero del P.M. o dell'imputato (giudizio immediato).
Il Giudizio Abbreviato (art. 438-443 c.p.p.) è un giudizio «pre-dibattimentale» (diretto ad evitare il dibattimento), del tipo premiale, che ha luogo di regola in Udienza camerale innazi al G.U.P. (Giudice dell’udienza preliminare): vale a dire un giudice singolo (monocratico) anche quando si tratta di decidere su reati che sarebbero di competenza di un giudice collegiale come il Tribunale e la Corte d'Assise.
Esso consiste in un accordo tra le parti (l'imputato che formula la richiesta ed il P.M. che vi acconsente) e nella valutazione del G.U.P. di poter decidere allo «stato degli atti delle indagini preliminari», che hanno qui piena valenza probatoria.
L'accordo verte sul rito e non sulla pena nel senso che esso mira soltanto ad evitare il dibattimento: (per questo motivo è denominato anche patteggiamento sul rito per distinguerlo dal patteggiamento vero e proprio).
Il giudizio abbraviato si svolge in camera di consiglio, senza l'interveno del pubblico, con la partecipazione necessaria del P.M. e del difensore dell'imputato e con la possibilità di intervento della parte civile che abbia accettato il giudizio abbraviato.
Conseguentemente il giudizio abbreviato potrà concludersi con una "sentenza di condanna" che con una "sentenza di proscioglimento".
L'imputato che sceglie questo rito ha il vantaggio, in caso di condanna, di ottenere la riduzione della pena nella misura c.d. secca (fissa) di un terzo in modo che la pena irrogata è pari a due terzi (ad esempio, mesi due) rispetto a quella (ad esempio, tre mesi) che sarebbe altrimenti applicata.
La riduzione della pena determinata in concreto, e cioè anche dopo la valutazione di eventuali circostanze, rappresenta il “premio” offerto dal legislatore all'imputato che ha collaborato all'economia processuale.
Il rito è ammissibile anche per i delitti ipoteticamente punibili con l'ergastolo. In tal caso, alla pena dell'ergastolo, è sotituita quella di 30 anni di reclusione.
E' applicabile anche nel caso di processo a carico di minorenni (art. 25 D.P.R. n. 448/1988).
Poiché la finalità del giudizio abbreviato è quella di rendere pià rapida la definizione del processo, sono previsti del limiti alla appellabilità delle sentenze. I limiti valgono sia per il P.M. che per l'imputato.
Il P.M. non può appellare, in specie, le sentenze di condanna che non hanno modificato il titolo del reato. L'imputato, invece, non può appellare le sentenze di condanna alla sola pena pecuniaria ovvero le sentenze di proscioglimento.
L'Applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) (art. 444-448 c.p.p.) consiste in un procedimento speciale «pre-dibattimentale» di tipo premiale.
Le sedi nelle quali può svolgersi il patteggiamento sono varie perché l'accordo può sorgere sia nella fase delle indagini preliminari sia nell'udienza preliminare, sia, ancora successivamente, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. Esso può inserirsi durante lo svolgimento di altri procedimenti speciali.
A differenza del rito abbraviato, riservato alla volontà unilaterale dell'imputato, il patteggiamento presuppone un accordo tra il P.M. e l'imputato non solo sul rito (come nel giudizio abbraviato), ma anche sul merito (sulla pena da irrogare) e cioé sia il giudizio sulla responsabilità che la determinazione della pena da applicare.
Il rito del pattaggiamento è privileggiato dal Codice perché arreca notevoli economie processuali e potenzialmente soddisfa anche le esigenze dell'accusa (la rinuncia dell'imputato a far valere la propria innocenza, una implicita ammissioine di colpevolezza ed accettazione della pena).
Al patteggiamento può farsi ricorso quando si tratta di reati sanzionabili con sanzioni sostitutive (art. 53 e ss. L. 689/81) ovvero con pena pecuniaria (multa o ammenda) o detentiva purché, in quest'ultimo caso, la pena determinata in concreto (e cioé valutate tutte le circostanze e la speciale diminunete «fino ad un terzo» prevista per l'imputato che sceglie questa procedura) non superi i 2 anni di reclusione o di arresto.
Compito del Giudice resta quello di verificare che la qualificazione giuridica del fatto (titolo del reato) e la valutazione delle circostanze aggravanti e attenuanti sia corretta, e se è congrua la pena proposta, senza necessità di un espresso accertamento della responsabilità del giudicabile.
La sentenza con la quale il Giudice applica la pena richiesta è generalmente inappellabile. Essa non ha la natura della sentenza di condanna (perché non contiene il pieno accertamento della responsabilità dell'imputato e quindi un giudizio di colpevolezza).
Il vantaggio più evidente che consegue al patteggiamento è rappresentato, oltre dalla possibilità per l'imputato di ottenere una riduzione fino a un terzo della pena (non supeiore ad un terzo), dal fatto che la sentenza con la quale il Giudice applica la pena richiesta non produce alcuni degli effetti negativi generalmente conseguenti alle sentenze di condanna.
Il patteggiamento taglia fuori la parte civile, che non può in alcun modo sindacare sull'accordo imputato-pubblico ministero e neppure chiedere la condanna al risarcimento del danno. Il Giudice può però riconoscere alla parte civile il diritto di ottenere dall'imputato il pagamento delle spese processuali. per il risarcimento dei danni, la parte offesa deve invece rivolgersi al giudice in sede civile.
Il Giudizio direttissimo (art. 449-452 c.p.p.) è un riro speciale «dibattimentale», di tipo non premiale, azionabile unilateralmente e unicamente dal P.M.
Il rito (alla pari del giudizio immediato), salta l'udienza preliminare, con economia di tempo e di attività processuali, ed affluisce direttamente innanzi al Giudice dibattimentale.
Nei casi in cui è ammissibile il giudizio direttissimo, la presentazione dell'imputato da parte del P.M. al Giudice del dibattimento deve avvenire, se si tratta di persona arrestata in flagranza, entro 48 ore dall'arresto (se il P.M. vuole che si proceda alla convalida dell'arresto ed al contestuale giudizio) o entro 15 giorni dall'arresto in flagranza se questo è già stato convalidato autonomamente dal G.I.P.
Entrambe le ipotesi di giudizio direttissimo presuppongono che l'imputato non sia stato posto in libertà, ma che si trovi in stato di arresto o di custodia cautelare (misura coercitiva quest'ultima, adottata dal G.I.P. all'esito dell'autonoma udienza di convalida).
Se si tratta di imputato che ha reso confessione, il P.M. presenta l'imputato (se detenuto) o lo cita a comparire (se in stato di libertà) a un'udienza non successiva al 15 giorno dalla iscrizione nel Registro delle notizie di reato (artt. 335 e 449, comma 5 c.p.p.).
In tutti i casi di giudizio direttissimo, l'imputato deve essere avvertito della facoltà di chiedere un termine per preparere la difesa non superiore a 10 giorni (art. 451, comma 6 c.p.p.) ovvero della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento della pena e, per le caratteristiche del giudizio direttissimo nelle ipotesi di sua trasformazione in abbreviato (art. 452 c.p.p.).
Il Giudizio immediato (art. 453 c.p.p.) costituisce una forma di rapida definizione del procedimento penale, consistente in un procedimento speciale, del tipo non premiale, attivabile unilateralmente dal P.M. e, ovviamente, in chiave difensiva, dall'imputato che, saltando l'Udienza preliminare, perviene direttamente al giudizio, previa verifica di ammissibilità effettuata dal G.I.P., che emette il decreto di citazione a giudizio.
Questo rito viene scelto quando le prove raccolte dall'accusa sono evidenti e non sono ancora trascorsi 90 giorni dalla data di ricezione della notizia criminis, anche quando questa sia a carico di ignoti, e non già dal momento in cui l'interessato ha assunto la qualità di indagato. A garanzia contro troppo facili richieste di giudizio è inoltre previsto che l'imputato debba essere previamente interrogato, in modo che possa far presenti eventuali circostanze a propria difesa.
Il giudizio immediato è quindi disposto dal G.I.P. con suo "decreto di citazione a giudizio", a seguito della richiesta di una delle parti interessate. Esso si caratterizza, quindi, per il salto dell'Udienza preliminare e, quindi per il passaggio «immediato» dalla fase delle indagini preliminari al giudizio dibattimentale.
Il decreto del G.I.P. che dispone il giudizio immediato deve contenere l'avviso che l'imputato può richiedere, in sua alternativa, i due riti premiali predibattimentali (il giudizio abbreviato e patteggiamento), tranne quando quel rito sia stato richiesto dallo stesso imputato
Il giudizio immediato non ha connotati di premialità (né riduzioni di pena, né altri benefici), nemmeno quando è richiesto dall'imputato, giacché non comporta, nella fase del dibattimento, alcuna economia processuale.
Il giudizio immediato non è contemplato nei procedimenti innanzi al Tribunale monocratico e al Giudice di pace. Innanzi al primo, il rito è in genere più agile e sollecito, sicché non è parsa necessaria l'ulteriore accelerazione del giudizio immediato. Innanzi al Giudice di pace manca sempre l'udienza preliminare, sicché ivi il processo previene sempre «immediatamente» al giudizio.
Il giudizio immediato differisce da quello "direttissimo", perché questo è attivato in termini temporali più ridotti, prevede solo due casistiche di ammissibilità (arresto e confessione) ed è azionabile solo dal P.M. e con atto emesso direttamente da costui e non già dal G.I.P.
Nel rito immediato il G.I.P. ha una funzione di verifica solo procedurale, che lo abilita a controllare la prova di reità, esclusivamente ai fini dell'impulso processuale, ma non di dichiarare la colpevolezza o l'innocenza. Il G.I.P. è investito unicamente del potere di accogliere o rigettare la richiesta di giudizio immediato.
Il Procedimento per decreto (art. 459-464 c.p.p.) può ritenersi l'ultimo dei procedimenti speciali, del tipo premiale, diretti ad evitare il «dibattimento». A dire il vero, esso evita anche l'udienza preliminare sicché ha una doppia portata di semplificazione del meccanismo processuale.
Esso può trovare applicazione nei casi in cui si procede per reati (anche di competenza del Tribunale) perseguibili di ufficio, per i quali è prevista una «pena pecuniaria» ovvero, alternativamente, una «pena detentiva», ma il P.M. ritiene che debba applicarsi solo la prima.
Se il P.M. ritiene che per il reato debba applicarsi "solo la pena pecuniaria", chiede al G.I.P. di pronunciare un «decreto penale» che condanni l'imputato alla pena indicata nella richiesta.
La "richiesta" del P.M. rappresenta il presupposto del decreto e deve essere formulata entro 6 mesi dalla data in cui il nome della persona cui è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato di cui all'art. 335 c.p.p.
Il P.M. ha facoltà di richiedere l'applicazione di una pena diminuita sino alla metà rispetto al minimo e ciò costituisce un indubbio vantaggio per l'imputato.
Avverso il decreto penale l'imputato può proporre "opposizione" e chiedere, in alternativa, il giudizio dibattimentale, il giudizio abbreviato, il patteggiamento o l'oblazione.
Nel giudizio conseguente all'opposizione, il Giudice revoca il decreto di condanna e può applicare una pena anche diversa (ad esempio, detentiva e non pecuniaria) e più grave di quella fissata nel decreto.
Il momento centrale del giudizio è costituito dal «dibattimento» che si svolge pubblicamente (artt. 471 e ss. c.p.p.) e del quale l'«istruzione dibattimentale» (artt. 496-515 c.p.p.) rappresenta il momento centrale.
Poiché il Giudice giunge al dibattimento senza avere preventiva conoscenza dei risultati delle indagini in precedenza svolte dal Pubblico Ministero e dalla Polizia Giudiziaria è questa la sede nella quale, con il rispetto del principio dell'oralità, deve nascere la prova sulla quale l'Organo giurisdizionale dovrà fondare la propria decisione.
La formazione della prova avviene attraverso il meccanismo dell' «esame incrociato» (al quale, peraltro, l'imputato può essere sottoposto solo se vi consente o ne fa richiesta: art. 208 c.p.p.) delle parti, dei testimoni, periti e consulenti tecnici ad opera del Pubblico Ministero e dei difensori.
Nel corso dell'esame, ma solo dopo che il soggetto che vi è sottoposto abbia già deposto su un fatto o una circostanza, il Pubblico Ministero o il difensore possono procedere alle opportune «contestazioni» servendosi delle dichiarazioni precedentemente rese dal soggetto e contenute nel fascicolo del Pubblico Ministero (artt. 433, 500, 503 c.p.p.).
E' tuttavia da tener presente che, in linea generale ed in base al principio secondo cui la «la prova deve formarsi oralmente» ed attraverso la dialettica partecipazione del Pubblico Ministero e del difensore, «la dichiarazione utilizzata per la contestazione anche se letta dalla parte, non può costituire prova dei fatti in essa affermati», ma «può essere valutata dal Giudice per stabilire la credibilità della persona esaminata» (artt. 500, commi 3 e 503, comma 4 c.p.p.).
Solo eccezionalmente talune dichiarazioni in precedenza rese, e dopo essere state utilizzate per le contestazioni, sono acquisite al fascicolo per il dibattimento diventando così «prove» che il Giudice può senz'altro utilizzare per la decisione.
Si tratta, per quanto riguarda la Polizia Giudiziaria, delle dichiarazioni assunte «...nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nella immediatezza dei fatti» (art. 500 comma 4 c.p.p.).
Dopo la «discussione finale», nella quale Pubblico Ministero e difensore formulano le rispettive conclusioni, il Giudice «delibera la sentenza» che potrà essere di condanna o di proscioglimento[1] e quest'ultima, a sua volta, di non doversi procedere (se l'azione penale non dovrà essere iniziata o non deve essere proseguita o se il reato è estinto) o di assoluzione.
► Accanto al modello ordinario descritto, il Codice di ritto prevede «procedimenti speciali» che tendono a ridurre i tempi del procedimento, evitando il dibattimento...
► oppure l'udienza preliminare...
[1] Sempre a proposito della sentenza di proscioglimento va segnalata l'importante novità costituita dalla abolizione della formula di proscioglimento per insufficienza di prove e ciò in quanto le situazioni di dubbio vengono equiparate alla mancanza di prova.
Tutte le «sentenze» emesse dai "Tribunali" e dalle "Corti di appello" formano la «giurisprudenza» che si chiama "di merito". Tutte le sentenze emesse dalla "Corte di Cassazione" formano la «giurisprudenza» che si chiama di "legittimità".
Ogni sentenza (che può essere lunga decine di pagine) è poi riasunta in un "estratto" di poche righe che si chiama «massima».
Le massime della Cassazione sono naturalmente più autorevoli perchè provengono dall'Organo di vertice.
L'insieme della giurisprudenza non crea (e non potrebbe mai creare) nuove norme. Tuttavia appare di primaria importanza perchè essa indirizza e guida l'interpretazione e l'applicazione delle norme esistenti determinando orientamenti precisi ed a volte colmando di fatto inesattezze o lacune normative con la prassi appunto interpretativa.
Il Giudice di Pace appartiene all'ordine giudiziario così come il magistrato ordinario ma, a differenza di questo, è un «magistrato onorario» a titolo temporaneo (laureato in Scienze giuridiche ovvero ex magistrato, ex avvocato, insegnante di materie giuridiche). Rimane in carica quattro anni e alla scadenza può essere confermato una sola volta per altri quattro anni. Al compimento del 75° anno il Giudice di Pace cessa dalle sue funzioni. Egli è tenuto ad osservare i doveri previsti per i magistrati ed è soggetto a responsabilità disciplinare.
Il Giudice di Pace dal 1º ottobre 2001 è anche un giudice penale (ma è entrato effettivamente in funzione il 1º gennaio 2002): il decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, ha attribuito alla sua cognizione, una larga parte dei reati di lieve e di facile accertamento cc.dd. di microcriminalità, consistente in forme illegalità minori per gravità, ma molto diffuse nell’ambiente sociale e tra gli altri, alcuni reati di notevole diffusione, contro la persona, quali le percosse e le lesioni, l'omissione di soccorso; contro l'onore, quali l'ingiuria e la diffamazione; contro il patrimonio quali il danneggiamento e l'ingresso abusivo nel fondo altrui.
Rilevasi peraltro come i reati di cui agli artt. 1096 e 1119 Cod. nav. sono piuttosto rari, e comunque di difficile accertamento da parte della Polizia Giudiziaria.
Si evidenzia inoltre come l’art. 1103 impone la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai titoli o dalla professione; tuttavia, poiché il G.d.P. non ha – ex art. 55 D.Lgs. 274 / 2000 - alcun potere di emettere pene diverse da quelle stabilite dal Decreto stesso, le pene accessorie suddette non appaiono più irrogabili.
► Attività di indagine ex art. 11 d.lgs. 274/2000
Con l’introduzione della figura del Giudice di Pace nell’ordinamento nazionale – e la estensione delle competenze esercitate dallo stesso anche in materia penale – si sono contestualmente ampliate le funzioni procedurali ed i compiti che la Polizia Giudiziaria deve esercitare per le fattispecie di reato ricadenti sotto la competenza del G.d.P., in ispecie – per quanto concerne le Capitanerie di Porto - per reati di lesione personale conseguenti agli infortuni marittimi e per quelli indicati agli articoli 1095, 1096 e 1119 Cod. nav.
Una modifica in senso restrittivo delle competenze penali del G.d.P. vi è stata recentemente in materia di «circolazione stradale», laddove molte violazioni penalmente sanzionate sono tornate nella competenza dell’ A.G. ordinaria, e sottratti, quindi, al G.d.P.
A quest’ultimo Organo giudiziario è rimasta la sola competenza per il reato di cui all’art. 590 c.p. (lesioni colpose lievi) - reato punibile a querela di parte la cui commissione – a seguito o in conseguenza di incidente stradale - costituisce, giusta comma 3° dello stesso articolo – specifica violazione di competenza del G.d.P. - mentre le lesioni gravi e gravissime restano di competenza del Tribunale.
Tale evento peraltro è la conseguenza più frequente sia in caso di incidente stradale anche di media gravità – e che comporta anche la contestuale adozione del provvedimento di sospensione della patente (provvedimento questo di competenza del Prefetto), sia per eventi occorsi in corso di navigazione, e segnatamente per le lesioni e gli infortuni commessi in violazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. 271/99 in materia di sicurezza del lavoro marittimo e portuale.
In presenza di tali fattispecie di reato, infatti, la Polizia Giudiziaria è tenuta all’inoltro della specifica “Relazione” di indagini di cui all’art. 11 del D.Lgs. 274/2000, entro il termine di 4 mesi dall’accertamento del fatto.
Detta relazione deve contenere una "enunciazione del fatto illecito commesso con indicazione degli articoli di legge che si suppongono violati, e concludersi quindi con la richiesta al P.M. di chiedere la comparizione dell’indagato innanzi al Giudice di Pace, ovvero proporre l’emissione di un provvedimento di archiviazione per difetto di querela – qualora detto atto non sia stato prodotto dal danneggiato o dai suoi tutori o eredi entro 3 mesi dal fatto".
Si rileva come - in caso di presentazione di querela per lesioni a seguito di incidente stradale - la Circolare Ministeriale n° 300/2007 del Ministero dell’Interno prevede il contestuale «sequestro» del veicolo a mezzo del quale è stato commesso l’illecito stradale che ha causato le lesioni stesse.
Con la riforma operata dalla Legge 30.07.05, n° 155, invece, la Polizia Giudiziaria non ha più il potere-dovere di citazione diretta a giudizio dell’imputato – potere che è ritornato sotto l’egida del P.M – ferma restando la condizione di procedibilità di cui all’art. 120 c.p..
Il Pubblico Ministero dopo aver disposto le necessarie investigazioni, se ravvisa elementi sufficienti per sottoporre a processo il soggetto indagato, richiede il suo rinvio a giudizio.
Anche la persona offesa, per i reati perseguibili a querela, può chiedere al giudice l'instaurazione del processo. In questi casi, l'offeso può presentare un "ricorso diretto" al Giudice di Pace, depositandolo nella segreteria del Pubblico Ministero, che provvede alla formalizzazione dell'addebito.
Il Giudice di Pace, se non ritiene il ricorso infondato o inammissibile, dispone la convocazione delle parti innanzi a sé.
Il processo penale innanzi al Giudice di Pace è caratterizzato dalla particolare attenzione a favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra imputato e persona offesa.
Il Giudice, sentita la persona offesa, può dichiarare «estinto il reato» se l'autore della violazione dimostra di aver provveduto alla riparazione del danno causato e di avere eliminato la situazione di pericolo eventualmente determinata.
È inoltre previsto che il Giudice di Pace possa astenersi dal procedere quando risulti, per l'esiguità dell'offesa e l'occasionalità del comportamento, la particolare "tenuità" del fatto (tenuto conto anche del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento arrecherebbe alle esigenze di lavoro, famiglia o salute dell'imputato), sempre che l'offeso non si opponga.
In caso di condanna il Giudice di Pace "non applica" pene detentive, ma "pene pecuniarie" oppure, nei casi più garvi, sanzioni "paradetentive":
L'imputato e la persona offesa sono difesi da un avvocato. Alle persone che non hanno i mezzi per far fronte alle spese di un procedimento penale è assicurato, anche davanti al Giudice di Pace, il gratuito patrocinio, cioè la difesa a carico dello Stato.
Gli organi delle indagini preliminari sono il Pubblico Ministero e la Polizia Giudiziaria. I due organi svolgono la loro attività in stretto e continuativo rapporto e gestiscono congiuntamente le indagini. Tutta l'attività di polizia giudiziaria ha, al pari di quella svolta dal P.M., il fine di consentire a quest'ultimo di assumere le sue determinazioni in ordine all'esercizio o meno dell'azione penale. (art. 326 c.p.p.). Si dirige cioè alla ricerca e acquisizione delle fonti di prova oltre che al compimento di un complesso di attività e accertamenti volti a permettere al P.M. di stabilire la fondatezza della notizia di reato e di decidere quindi sulla sussistenza o meno dei presupposti per dare inizio al processo penale.
► Nell'ambito di questa finalità, l'attività di indagine della polizia giudiziaria possono distinguersi in:
Tale attività riguarda sia le ipotesi in cui si interrompe un’attività criminosa nella fase del tentativo di impedire la consumazione del reato, sia le ipotesi in cui un reato è già stato consumato ma se ne vogliono impedire le ulteriori conseguenze offensive.
Il personale delle Capitanerie di Porto (facente parte di una Servizio ovvero Nucleo di polizia giudiziaria) riceve la notizia di reato di un prelevamento (=furto) di sabbia dal demanio marittimo (acquisizione di notizia di reato). Si porta su posto; pur senza cogliere in flagranza l’autore del fatto, accerta, dalle tracce di pneumatici lasciate sull’arenile, che il prelevamento della sabbia è stato commesso con un veicolo e assume le dichiarazioni di persone che sono a conoscenza dell’episodio le quali forniscono elementi utili (targa del veicolo, generalità, ecc.) all’individuazione dell’autore (attività di investigazione). Effettua una perquisizione nel domicilio di questi e vi rinviene una certa quantità di sabbia fine in parta impastata con del cemento e la sequestra (attività di investigazione seguita da attività di assicurazione). Della notizia di reato acquisita e dell’attività svolta, informa il P.M. (attività di informazione) continuando autonomamente le indagini fino a che il P.M. medesimo non assume la direzione delle indagini.
[1] Esistono varie categorie di prove. Una distinzione ricorrente si effettua tra:
La Polizia Giudiziaria deve svolgere le proprie indagini sotto la direzione del Pubblico Ministero, ma può agire anche di propria iniziativa nei casi in cui ciò sia necessario.
Poiché è al P.M che compete la direzione delle indagini è evidente che egli deve essere tempestivamente informato delle «notizie di reato» acquisite dalla polizia giudiziaria.
Le indagini sono strumentali alle determinazioni inerenti all'esercizio o meno dell'azione penale (art. 326 c.p.p.), e, come, tali richiedono che il Pubblico Ministero o la Polizia Giudiziaria abbia ricevuto una notizia di reato (o come si suole dire la notizia criminis) "generica" o "specifica", a seconda che il reato sia stato commesso da una o più persone non identificate o identificate.
L'acquisizione di una notizia di reato, sia pur generica, da parte del Pubblico Ministero o dalla Polizia Giudiziaria è indispensabile perché tali organi possano iniziare le indagini preliminari.
L’aspetto dell’acquisizione della Notizia di reato (=N.d.R) corrisponde al compito di informarsi (=prendere notizia dei reati) e non è esclusivo della Polizia Giudiziaria poiché anche il Pubblico Ministero può prendere notizia dei reati. La notizia di reato può essere “ricevuta” o “acquisita di iniziativa”.
Nel primo caso la Polizia Giudiziaria può pervenire a conoscenza di una notizia di reato "ricevendola" da altri attraverso atti tipici o qualificati, cioé espressamemte disciplinati dal Codice di rito a tale scopo: si parla, in tal caso, di «notizia nominata» =qualificata).
Nel secondo caso, l’acquisisce di iniziativa: ciò accade non solo quando la Polizia Giudiziaria constata direttamente il reato (ad esempio, coglie taluno mentre lo sta commettendo: flagranza di reato), ma anche quando perviene a conoscenza del reato attraverso vie che non sono quelle espressamente disciplinate dal Codice: si parla, allora, di notizia di reato «innominata» o atipica (=non qualificata), cioé non disciplinata dalla legge che si contrappone alle notizie di reato qualificate e proprio a causa della sua natura può assumere forme e contenuto vari
La N.d.R. non può considerarsi acquisita se si è ancora alla ricerca della informazione o si sta svolgendo un’attività di verifica o di controllo su una informazione generica; comme accade quando si sorveglia una determinata zona della costa perché in Capitaneria è giunta voce che colà si commerciano, in tempo di fermo biologico, clandestinamente prodotti ittici.
In questi casi, la Polizia Giudiziaria svolge un ruolo variamente attivo, poiché il veicolo e la fonte dell’informazione appresa non sono qualificati e quindi, a seconda della loro natura, esigono un complesso di verifiche e di indagini prima di assurgere a notizia di reato in senso tecnico.
La notizia di reato deve ritenersi acquisita quando si siano appresi gli elementi essenziali di un fatto costituente reato anche quando non se ne conosce l'autore.
ll Pubblico Ministero e la Polizia Giudiziaria non hanno solo il dovere di prendere notizia dei reati di propria iniziativa, ma anche quello di "ricevere" le notizie di reato a essi presentate o trasmesse. Gli articoli 331 - 334 disciplinano, nel titolo II del libro V, la «notizia di reato»:
Mentre nel titolo III, con gli articoli 336-344, sono regolate le «condizioni di procedibilità»:
Si tratta - a parte l'autorizzazione a procedere - di quelle che vengono tradizionalmente definite «fonti qualificate di notizie di reato» (c.d. nominate) in quanto espressamente previste e disciplinate dalla legge processuale.
La denuncia ed il referto hanno una semplice funzione informativa; la querela, la richiesta e l'autorizzazione a procedere condizionano, con riferimento ai reati per i quali sono previste, la procedibilità e cioé il compimento degli atti dell'indagine preliminare, costituendone un presupposto essenziale.
In tema di attività di informazione, si contrappongono alle notizie qualificate di reato, le «notizie non qualificate di reato» (c.d. innominate).
Esse impongono alla Polizia Giudiziaria un ruolo variamente attivo che si sviluppa in una serie di verifiche e di investigazioni preventive finalizzate, tutte , a dare connotazioni di vera e propria notizia di reato a informazioni originariamente imprecise e sommarie o comunque inutilizzabili nel procedimento penale.
E’ l’atto (la dichiarazione) con il quale il Pubblico Ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio o un privato, anche diverso dall’offeso dal reato, ovvero un Ufficiale di polizia giudiziaria, informa il Procuratore della Repubblica, o un Ufficiale di polizia giudiziaria (art. 357 c.p.), di un fatto che possa costituire reato perseguibile d’ufficio (artt. 331 – 333 c.p.p. e art. 1236 Cod.nav.).
Il Pubblico Ufficiale non deve appartenere alla Polizia Giudiziaria: per quest’ultimo, infatti, l’obbligo di riferire la notizia di reato è disciplinato dall’art. 347 c.p.p.
Se la notizia è appresa fuori dell’esercizio e non a causa delle funzioni svolte, si applicano le norme sulla denuncia di privati (art. 333 c.p.). Essa non conferisce al soggetto nessuna potestà di esperire atti di polizia giudiziaria (ad esempio, identificazione, perquisizione, sequestro, arresto).
La presentazione e trasmissione della denuncia (rigorosamente in forma scritta) deve essere fatta dal Pubblico Ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio direttamente al P.M. o a un Ufficiale di Polizia giudiziaria (e non anche ad un Agente di P.G.).
Non esiste un termine perentorio per la denuncia al P.M. o a un U.P.G. da parte del Pubblico Ufficiale: la sua presentazione o trasmissione va effettuata, pertanto, senza ritardo o comunque senza frapporre indugi ingiustificabili.
L’omissione o il ritardo nella presentazione della denuncia sono sanzionati dagli artt. 361, comma 1, 362 e 363 c.p.
La denuncia da parte di Pubblici Ufficiali o incaricati di un pubblico servizio deve necessariamente contenere:
Quando più persone sono obbligate alla denuncia per il medesimo fatto esse possono anche redigere e sottoscrivere un unico atto.
Quando la denuncia è facoltativa non è previsto alcun termine per la sua presentazione mentre, nei casi di denuncia obbligatoria, apposite disposizioni stabiliscono il termine entro il quale essa deve essere fatta
La denuncia può essere presentata per iscritto e deve essere sottoscritta, oppure oralmente, ed in tal caso viene raccolta in un "processo verbale" dall’Autorità che la riceve.
La denuncia costituisce notizia criminis anche se non venga indicato l’autore del fatto.
Per la denuncia da parte dei privati non è previsto un contenuto formale tipico e il denunciante può limitarsi alla semplice esposizione del fatto.
[1] Chiunque rinvenga un’arma o parte di essa è tenuto ad effettuarne immediatamente il deposito presso l’Autorità locale di Pubblica Sicurezza o, in mancanza, al più vicino comando dei carabinieri (art. 20 co. 5 L.110/1975)
[2] Art. 59, n. 2 c.p.p. (Subordinazione della polizia giudiziaria) - L’Ufficiale preposto ai servizi di polizia giudiziaria (NODM, NOIP e NOE) è responsabile verso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dove ha sede il servizio dell’attività di polizia giudiziaria svolta da lui stesso e dal personale dipendente
Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti
CAPITANERIA DI PORTO GUARDIA COSTIERA
______________________
Oggetto: Attestazione di ricezione o presentazione di denuncia (art. 107/D.lgs. 271/89).
Il giorno ___________________ alle ore ______________ il sottoscritto Ufficiale di P.G. attesta che il Sig. ______________________________ nato a _______________________ il ____________ residente in via _________________ tel. _________________ ha sporto/ha presentato in questi Uffici denuncia relativa a ____________________________________ avvenuto/a ________________________________ in _________________ il __________________.
Si rilascia a richiesta dell’interessato per gli usi consentiti dalla legge[1].
Firma dell’Ufficiale di P.G.
_____________________
[1] E’ opportuno limitarsi al rilascio della semplice attestazione allorché la copia del verbale di denuncia contenga notizie che devono rimanere segrete.
E’ la dichiarazione con cui l’esercente una professione sanitaria (art. 99 R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, T.U. delle Leggi sanitarie) porta la commissione di un reato perseguibile d'ufficio, del quale abbia avuto notizia in occasione della prestazione della sua opera, a conoscenza del Pubblico Ministero o della Polizia Giudiziaria
Come la denuncia dei soggetti pubblici, il referto deve presentare forma scritta ed è obbligatorio per coloro che abbiano prestato assistenza (o opera) in casi che possono configurare un delitto perseguibile di ufficio (art. 334 c.p.p.) e può essere redatto anche "cumulativamente" da più sanitari e per più assistiti (referto cumulativo).
Il referto può essere, a scelta, presentato dall’obbligato al Procuratore della Repubblica, oppure ad un Ufficiale di P.G. del luogo dell’intervento o a quello più vicino alla propria sede.
In ordine al termine, l’obbligo deve essere adempiuto entro 48 ore dalla prestazione professionale ovvero immediatamente quando vi sia pericolo nel ritardo (come accade quando il paziente corre pericolo di vita) al Pubblico Ministero o ad un Ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui l'assistenza è stata prestata o, in mancanza, all'Ufficiale di polizia giudiziaria più vicino (art. 334 c.p.p.).
L’omissione del referto da parte di chi vi è obbligato configura la fattispecie delittuosa di cui all’art. 365 c.p..
La presentazione del referto è un obbligo penalmente sanzionato per gli esercenti una professione sanitaria, salvo il caso in cui il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale (art. 365 comma 2 c.p.). In tal caso, sull’esigenza dell’azione penale prevale il diritto dell’assistito (qui in re illicita versatur) alla cura della propria salute. In questa ipotesi è lecito opporre il segreto professionale sanitario[1] e gli esercenti la professione sanitaria hanno non l'obbligo, ma la facoltà di presentare referto.
L’obbligo del referto non sussiste per i reati punibili a querela e in particolare per il delitto di «lesioni colpose» (art. 590 c.p.), salvo che non si tratti di lesioni gravi o gravissime o di malattie professionali, i cui termini di guarigione superano i 40 giorni, conseguenti a fatti commessi con violazione delle norme per la “prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro”. Secondo alcuni, l’esonero dall’obbligo di referto non opera per i medici che non sono liberi professionisti o privati, ma che esercitano una pubblica funzione o sono incaricati di un pubblico servizio (medici ospedalieri, medici degli istituti penitenziari, medici convenzionati con enti pubblici, medici delle strutture pubbliche in genere). Per costoro vige sempre l’obbligo di denuncia previsto dall’art. 361 e 362 c.p. per i pubblici Ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio.
► Il referto deve indicare:
[1] Secondo la dottrina minoritaria, l’esonero dall’obbligo di referto non opera per i medici che non sono liberi professionisti o privati, ma che esercitano una pubblica funzione o sono incaricati di un servizio pubblico (come ad esempio, medici ospedalieri, medici degli istituti penitenziari, medici convenzionati con enti pubblici, medici delle strutture pubbliche in genere). Per costoro vige sempre l’obbligo di denuncia previsto dall’art. 361 e 362 c.p. per i pubblici Ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio.
La categoria delle «notizie innominate» di reato (atipiche o non qualificate), cioè non disciplinate dalla legge, è costituita dagli atti o fatti più vari, quali ad esempio:
Quando riferisce al P.M. la notizia confidenziale, la Polizia Giudiziaria può omettere il nominativo della fonte.
Rientrano nella categoria delle notizie di reato non qualificate, ad esempio, le segnalazioni informali (o di natura atipica) quali le segnalazioni via radio provenienti da unità di superficie o velivolo relativa alla presenza in mare di sostanze inquinanti; esposti anonimi corredati di documenti fotografici relativi ad opere abusive insistenti sul suolo demaniale marittimo; reclami di marittimi attinenti condizioni di bordo pregiudizievoli per la sicurezza della navigazione oppure per la salvaguardia della vita umana in mare, solitamente manifestati per vie brevi e, il più delle volte, in occasione del frenetico disbrigo delle pratiche di sbarco del marittimo interessato.
Al fine di rendere più agevole la ricostruzione delle modalità di accertamento e degli adempimenti svolti in occasione di fatti penalmente rilevanti e dei contatti intercorsi con la competente Autorità Giudiziaria, è consigliata la predisposizione, presso gli Uffici marittimi, di un “Registro delle notizie di reato” cronologico ed alfabetico, nel quale dovranno essere annotati i seguenti dati:
Di regola il Pubblico Ministero esercita l'azione penale d'ufficio, non appena abbia acquisito, in ordine al reato oggetto di notizia, elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio.
Peraltro in alcuni casi eccezionali l'esercizio dell'azione penale è subordinato all'integrazione di una cosiddetta «condizione di procedibilità», cioè di un atto o un fatto in mancanza del quale, anche se la notizia di reato appare fondata, il Pubblico Ministero non può esercitare l'azione penale e neppure iniziare le indagini.
Il Codice di rito disciplina quattro «condizioni di procedibilità»:
Normalmente l’azione penale è esercitata dall’ufficio del Pubblico Ministero; vi sono, però, taluni casi in cui la legge subordina l’esercizio dell’azione penale alla manifestazione di volontà della persona offesa o di altro soggetto.
Tali manifestazioni di volontà, in quanto condizionanti l’azione penale, prendono il nome di «condizioni di procedibilità» di procedibilità.
In particolare, la «querela» (art. 336 e segg. c.p.p.) è la dichiarazione facoltativa, raccolta in un atto o resa oralmente, con la quale la persona offesa da un reato, la cui perseguibilità la legge appunto subordina a querela, o un altro soggetto agente nell'interesse di costei ex artt. 120 e 121 c.p.p. (es. legale rappresentante) manifesta la volontà che il Pubblico Ministero proceda in ordine al reato stesso.
La «richiesta di punizione» assume rilevanza nei soli casi in cui la legge penale subordina la punibilità del reato alla volontà dell’offeso (reati procedibili a querela).
La legge esige una siffatta condizione di procedibilità talora in considerazione della tenuità del reato, la quale induce il legislatore a ritenere che la repressione penale debba attivarsi per esso solo se la persona offesa lo richiede, tal'altra, ad esempio quando si tratti di reati contro l'onore o contro la libertà sessuale, per consentire all'offeso di decidere se al pregiudizio arrecatogli dal reato convenga aggiungere quello che potrebbe derivargli dallo strepitus fori, cioè dalla risonanza data al reato stesso dal processo.
In ordine alle formalità di presentazione, la dichiarazione di querela può essere proposta «per iscritto» (in carta non bollata, purché con firma autenticata a norma dell'art. 39 disp. att. c.p.p., quindi eventualmente dal difensore nominato nell'atto stesso oppure spedita per raccomandata) o anche «oralmente» alla Polizia Giudiziaria[1] o anche al Pubblico Ministero.
L'Autorità che riceve la querela "attesta" la data e il luogo della ricezione, identifica la persona che la presenta (e che, se la presentazione è orale, deve sottoscrivere il Verbale di ricezione), e trasmette il tutto al Pubblico Ministero (art. 337 c.p.p.).
Per esigenza di certezza in ordine alla provenienza dell’atto, va sempre identificato dal Pubblico Ufficiale il soggetto che propone, rinuncia, rimette o accetta la remissione di querela. Il soggetto legittimato a proporla è la persona offesa o legale rappresentante dell’ente o associazione. Se la persona offesa è un minore degli anni 14 o inferma di mente, la querela è presentata dall’esercente la potestà dei genitori, dal tutore ovvero da un curatore speciale all’uopo nominato dal Giudice su richiesta del P.M. (art.121 c.p. e 338)
In ordine al termine, il diritto di querela va proposto, entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato[2], altrimenti è priva di effetti.
Il termine è di 6 mesi quando si tratta di «delitti contro la libertà sessuale»[3] (violenza sessuale) o «atti sessuali con minorenne».
► Il diritto di querela si estingue per:
- decadenza per decorso del termine;
- morte dell’offeso;
- remissione.
In quanto disponibile, la querela può essere «rimessa» dopo la sua presentazione (art. 380) ovvero essere oggetto di rinuncia prima della sua presentazione (art. 339).
Nel caso di reati perseguibili a querela di parte, in mancanza della querela, che può sopravvenire (entro tre mesi), possono essere compiuti solo atti di indagine preliminari necessari per assicurare le fonti di prova (art. 346 c.p.p.).
La «remissione» è la dichiarazione (scritta o orale) con la quale la persona offesa dal reato (= querelante) o chi la rappresenta propone la revoca della querela precedentemente proposta. Per essere efficace (e produrre la estinzione del reato), la remissione deve essere «accettata dal querelato». Poiché la persona querelata (= autore del reato) ha interesse, se innocente, a dimostrare, attraverso il processo, la sua completa estraneità al fatto-reato che le è stato addebitato nella querela, la remissione di questa non produce effetto se il querelato la ha «tacitamente od espressamente ricusata»: vale a dire se alla remissione non è seguita la sua accettazione.
Le spese del procedimento sono a carico al querelato, salvo che nell’atto di remissione sia stato diversamente convenuto (art. 13 Legge 25.6.1999, n. 205)
Anche per la querela non è richiesta l’adozione di alcuna formula sacramentale purché in essa risulti con sufficienza chiarezza la volontà del querelante.
► La querela, pertanto, deve indicare:
Diversa dalla remissione di querela è la «rinuncia preventiva a proporre querela». Questa può essere espressa (art. 339 c.p.p) o tacita (art. 124 c.p.) e comporta in radice la estinzione del diritto di proporla successivamente, ma la rinuncia non comporta l'estinzione del diritto di risarcimento dei danni.
La rinuncia espressa a proporre la querela può essere fatta personalmente o a mezzo di procuratore speciale con dichiarazione scritta rilasciata all'interessato a ad un suo rappresentante oppure con dichiarazione orale verbalizzata da un Ufficiale di polizia giudiziaria o da un notaio e "sottoscritta dal dichiarante". La rinuncia è inefficace se è priva di questa sottoscrizione. Essa può essere accompagnata dalla rinuncia all'azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno (art. 339 c.p.p.).
[1] Eccezionalmente, in caso di flagranza di delitto che impone o consente l’arresto (artt. 380 co. 3 e 381 co. 3), la querela può essere proposta (anche con dichiarazione orale) a un Agente di P.G. (anziché a un Pubblico Ufficiale) presente nel luogo. Della dichiarazione di querela va dato atto nel verbale di arresto.
[2] Costante è l’affermazione per cui per notizia del fatto che costituisce reato, ai fini della decorrenza del termine per proporre querela, deve intendersi la piena conoscenza di tutti gli elementi indispensabili per la valutazione dell’esistenza del reato, cioè la notizia completa, diretta, precisa e certa del reato stesso; pertanto uno stato soggettivo di sospetto e di dubbio in ordine alla sussistenza del reato non è sufficiente per far decorrere i termini per la presentazione della querela (Cass. 30.10.1982)
[3] Non di gruppo poiché, per questa, si procede d’ufficio
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Si rilascia a richiesta dell’interessato per gli usi consentiti dalla legge [1]
(Da apporre in calce all’atto di querela)
[1] E’ opportuno limitarsi al rilascio della semplice attestazione allorché la copia del verbale di querela contenga notizie che devono rimanere segrete.
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Il Verbale va trasmesso senza ritardo al Pubblico Ministero presso il Tribunale ordinario del luogo in cui il fatto è stato commesso.
Nella fase delle indagini preliminari, la rinuncia consente al P.M. di richiedere la «archiviazione» essendo venuta meno la «condizione di procedibilità».
Consiste nella domanda con la quale il privato, persona offesa, chiede che si proceda contro i responsabili di taluni "reati comuni" (non politici) commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero che, se fossero stati commessi nel territorio dello Stato sarebbero perseguibili di ufficio.
La mancanza dell’istanza di procedimento precluderebbe l’instaurarsi del procedimento penale: essa realizza, infatti, una «condizione di procedibilità».
Come la querela, l’istanza di procedimento può essere presentata al Pubblico Ministero o alla Polizia Giudiziaria o anche ad un Agente consolare all’estero, sempre entro tre mesi dalla ricezione della notizia del fatto-reato ed entro tre anni dalla presenza dell’autore a cui il fatto è addebitato sul territorio dello Stato.
Suo contenuto essenziale è la manifestazione di volontà punitiva in ordine ad un determinato fatto-reato, anche se sommariamente indicato.
La «richiesta di procedimento» (art. 342), come la querela e l’istanza, consiste anch’essa in una manifestazione di volontà punitiva, e si estende di diritto a tutti i responsabili.
E’ un atto (amministrativo e discrezionale) con cui un "Organo pubblico" (generalmente il Ministro di Giustizia e nell’ipotesi dell’art. 260 comma 1 e 2 c.p.m.p., il Ministro dal quale il militare dipende o il comandante del corpo), elimina, spinto da opportunità politiche, un ostacolo procedurale permettendo così il perseguimento di determinati reati commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero.
In ordine alla forma, la Pubblica Autorità (in genere il Ministro di Giustizia) redige richiesta scritta, fatta pervenire direttamente al Pubblico Ministero, e non anche ad un Ufficiale di P.G.
Tale richiesta deve essere sottoscritta personalmente da Ministro o da funzionario da lui delegato (Cass. 23.5.1994) e formulata, come la querela e l’istanza di procedimento, entro tre mesi dalla notizia del fatto costituente reato, a pena di inefficacia.
Non è consentita rinunzia, preventiva o successiva, in quanto la richiesta è «irrevocabile» (art. 120 c.p.).
La «autorizzazione a procedere» è la dichiarazione(atto amministrativo) discrezionale e irrevocabile con cui un Organo dello Stato estraneo all'Organizzazione giudiziaria, a richiesta del Pubblico Ministero, consente che nei confronti di una determinata persona o in rapporto ad un determinato reato l'Autorità giudiziaria proceda penalmente oppure compia taluni atti limitativi di libertà (in quest'ultimo caso si parla più specificamente di autorizzazione ad acta).
Organo competente a richiedere l’autorizzazione a procedere è il Pubblico Ministero: va richiesta entro 30 giorni dalla iscrizione della notizia criminis nell’apposito Registro.
Se l’autorizzazione non viene concessa, non possono compiersi una serie di atti specificamente indicati nel comma 2 dell’art. 343 c.p.p.:
Tali atti sono, peraltro, consentiti se la persona è colta in flagranza di uno dei delitti indicati nell’art. 380 (per i quali l’arresto è obbligatorio)
Se l’autorizzazione è concessa, il procedimento penale prosegue e si conclude secondo le regole ordinarie (con sentenza di proscioglimento o di condanna).
L'art. 347, comma 1 c.p.p. radica l'obbligo di comunicare la notizia di reato in capo alla «Polizia Giudiziaria» e non al singolo Ufficiale od Agente di polizia giudiziaria che l'ha acquisita, dimostrando, in tal modo, di voler fare riferimento all'Ufficio e per esso al suo «Dirigente» e non alle singole persone che, in posizione subordinata rispetto al primo, lo compongono.
Ciò è reso chiaro anche dal fatto che per altre ipotesi, relative all'adempimento di particolari doveri, il Codice ha diversamente disposto, impegnando alla loro esecuzione il singolo Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria.
Un ulteriore argomento a sostegno della tesi qui prospettata, emerge dalla lettura dell'art. 389, comma 2 del Codice, che attribuisce al solo Ufficiale di polizia Giudiziaria il potere di liberazione della persona oggetto di misura precautelare, se risulta evidente che l'arresto o il fermo è stato eseguito per errore di persona o fuori dei casi previsti dalla legge o se le misure sono divenute inefficaci per il mancato rispetto dei termin i previsti dall'art. 386, comma 3 c.p.p.
La liberazione che può conseguire anche alla “valutazione” della insussistenza della notizia di reato compete, dunque, all'Ufficiale di polizia giudiziaria che ha la funzione di controllo e di prima deliberazione dell'attività di chi è gerarchicamente subordinato (art. 59 c.p.p.). Si tratta di una ulteriore applicazione del principio secondo il quale permane, anche nel nuovo Codice di rito, un rapporto diretto fra chi opera l'arresto in flagranza (e la flagranza costituisce il modo più immediato di acquisizione della notizia di reato) od il fermo e l'Ufficio cui appartiene.
D'altronde, il legislatore ha voluto espressamente evidenziare questo rapporto, prevedendo, con l'art. 120 att. c.p.p., che se l'arresto o il fermo è stato eseguito da Agenti di polizia giudiziaria, a questi incombe l'obbligo di darne immediata notizia all'Ufficiale di polizia giudiziaria competente ad adottare il provvedimento di liberazione previsto dall'art. 389, comma 2 del Codice.
Le indicazioni normative che depongono per l'attribuzione del potere di valutare la sussistenza della notizia di reato al Dirigente dell'Ufficio sono anche coerenti con ragioni d'ordine organizzativo e funzionale, poiché, altrimenti, l'attività dell'Ufficio o Comando si frantumerebbe, inevitabilmente, in una molteplicità di iniziative assunte estemporaneamente da questo o quel dipendente, anche all'insaputa di chi all'Ufficio è preposto, il quale invece, valutata la sussistenza della notizia di reato, oltre a riferirla al Pubblico Ministero, impartirà, prima dell'intervento di questi, le opportune disposizioni in merito all'attività di indagine ancora da svolgere.
Poiché il potere attribuito al Dirigente è quello di «valutare la sussistenza della noizia di reato» acquisita dai dipendenti Ufficiali od Agenti, in caso di giudizio positivo, il termine della comunicazione all'A.G. previsto dall'art. 347 c.p.p. decorre dalla «acquisizione» della notizia (art. 347, comma 4 c.p.p.) e non da quello in cui il Dirigente dell'Ufficio ne ha «valutato la sussistenza».
Ove la valutazione del Dirigente sia nel senso dell'insussistenza della notizia di reato, non avrà luogo la comunicazione - ex art. 347 c.p.p. - al Pubblico Ministero, ma il Dirigente ben potrà, negli opportuni casi, impartire le disposizioni per lo svolgimento di ulteriori attività volte ad approfondire il fatto in vista della possibile acquisizione degli elementi necessari a configurare la notizia di reato.
La notizia di reato deve ritenersi acquisita quando si siano appresi gli elementi essenziali di un fatto costituente reato anche quando non se ne conosce l'autore.
Costituisce il secondo aspetto della attività di informazione della Polizia Giudiziaria e consiste nell’obbligo di riferire la N.d.R. all’Autorità Giudiziaria.
La "valutazione" della sussistenza della notizia di reato spetta al Dirigente dell'Ufficio dal quale dipende chi l'ha acquisita autonomamente. E' da tale Dirigente, pertanto, e non dal singolo Ufficiale od Agente di Polizia Giudiziaria che deve provenire la «informativa» (=o comunicazione) al Pubblico Ministero.
Dal momento dell'acquisizione della notizia di reato "prende vita il procedimento penale" e prendono vita le funzioni di polizia giudiziaria (artt. 247-357 c.p.p.). Da quel momento decorre poi il termine entro il quale la Polizia Giudiziaria deve dare comunicazione al Pubblcio Ministero della notizia di reato acquisita e assolvere così al «compito di informare»: secondo e distinto aspetto della attività in esame.
L’obbligo di informativa al Pubblico Ministero da parte della Polizia Giudiziaria sussiste soltanto per i reati perseguibili di ufficio; negli altri casi, tale obbligo vige soltanto qualora la Polizia Giudiziaria compia attività di investigazione in mancanza di condizione di procedibilità (art. 346 c.p.p.). In tal caso, riferisce al Pubblico Ministero, senza ritardo, in merito alla circostanza, fin dall’inizio dell’attività d’indagine (art. 112 norme att.)..
La Polizia Giudiziaria deve effettuare la comunicazione della notizia di reato al Pubblico Ministero entro i termini previsti dall’art. 347 c.p.p (come modificato dal D.L. 8.6.1992, n. 306, convertito in Legge 7.8.1992, n. 356)., vale a dire:
Con l’introduzione di tale regime differenziato, relativo ai tempi entro cui effettuare la comunicazione di reato, si è teso soddisfare due esigenze:
L'attività di informazione si sostanzia quindi nell'acquisire la notizia di reato, secondo le forme dell'apprensione diretta o della ricezione (art. 330 c.p.p.) e nel riferirla, con ritmi accelerati, ancorché variamente stabiliti, al Pubblico ministero (art. 347 c.p.p.).
Ove la notizia di reato non venga riferita o venga riferita con ritardo ricorrono responsabilità penali (artt. 361, comma 2 e 363 c.p.p. - Omessa denuncia di reato aggravata) e disciplinari (art. 16 att. c.p.p.).
La «informativa di reato», corrispondente all'antico rapporto di denuncia della Polizia Giudiziaria previsto da Codice abrogato, consiste nella segnalazione, preliminare ed immediata, di una notizia di reato dalla Polizia Giudiziaria al Pubblico Ministero (art. 347 c.p.p.).
I generici Pubblici Ufficiali sporgono denuncia (art. 331 c.p.p.), senza alcuna esigenza di provvisoria informativa, anche perché essi non sono legittimati al successivo compimento di atti di indagine, riservati, invece, alla Polizia Giudiziaria.
La comunicazione (o informativa) della notizia di reato è, anzitutto, uno “strumento conoscitivo”: essa consente al P.M. di apprendere i dati necessari per la iscrizione della notizia di reato nel «Registro» (momento da cui decorrono, di conseguenza, i termini delle indagini) e di essere posto in condizione di orientare le indagini verso quel fatto-reato fornitogli dalla Polizia Giudiziaria.
La informativa, oltre ad avere tempi rigorosi di trasmissione, deve essere dotata di un contenuto dettagliato e vincolante dei fatti.
La segnalazione deve enunciare in ordine logico e cronologico i fatti, avendo cura di indicare:
La necessità di riferire anche tale elemento trova la sua ragione d’essere nell’esigenza di controllare che la comunicazione sia stata inoltrata nei termini previsti dalla legge.
E’ importante rilevare come la Polizia Giudiziaria abbia l’obbligo di inoltrare la comunicazione della notizia di reato anche nell’ipotesi in cui, acquisita la notizia, non è pervenuta all’individuazione dell’autore del reato (notizia di resto a carico di ignoti).
La documentazione delle attività compiute deve essere sempre allegata all’informativa scritta quando questa segue senza ritardo, l’informativa che è stata data immediatamente in forma orale per ragioni di urgenza, ovvero, perché si tratta di uno dei delitti di particolare allarme sociale.
Alla Polizia Giudiziaria competono poteri di approfondimento della notizia di reato, di conseguenza non vi è un ingiustificabile ritardo tutte le volte in cui la informativa stessa è stata preceduta da accertamenti di polizia giudiziaria volti ad approfondire la notizia di reato stessa.
Quindi, nel caso di indagini lunghe e laboriose è opportuno darne avviso all’Autorità Giudiziaria per poi comunicare, alla stessa, l’esito e la relativa notizia di reato al termine di tutti gli accertamenti effettuati, con riserva di eventuali successive comunicazioni ed integrazioni.
La forma è sempre scritta per l'informativa, ma la pre-informativa quando sussistono ragioni di urgenza, può essere in forma orale (Cassazione, Sez. II, 6.3.1990 imp. Frigione) o telefonica ed essere consegnata su supporto magnetico o trasmessa per via telematica (art. 108bis disp. att. c.p.p.): in ogni caso, deve seguirei, poi, seguire la comunicazione scritta (art. 347, comma 3 c.p.p.), corredata dalla documentazione delle attività compiute.
L'unica eccezione alla immediatezza dell'obbligo è costituito per la Polizia Giudiziaria della mera facoltà di riferire la notizia, quando questa sia relativa a reato la cui punibilità sia sottoposta a «condizione di procedibilità» (es. reato procedibile a querela) non ancora verificatasi, sempre che per tale fatto non siano stati compiuti atti di indagine; se questi, invece, sono stati compiuti, anche qui scatta l'obbligo di riferire la notizia, anche se non quello di trasmettere gli atti (art. 112 att. c.p.p., modif. da L. 356/1992, e art. 346 c.p.p.).
L’art. 107 bis delle disposizioni di attuazione e coordinamento del Codice di rito, introdotto dalla Legge 479/99 (c.d. Legge Carotti) stabilisce che le "denuncie a carico di ignoti" sono trasmesse all’Ufficio di Procura competente da parte degli Organi di polizia, unitamente agli eventuali atti di indagine svolti per la identificazione degli autori del reato, con «elenchi mensili».
In tal modo si evita la trasmissione continua agli uffici di Procura di un ingente numero di notizie di reato prive di concreta rilevanza per l’attività del Pubblkico Ministero consentendo anche una più razionale organizzazione degli Uffici delle forze di polizia che possono centralizzare la raccolta di siffatte notizie e inviarle secondo tempi e modalità predeterminati.
Il comma 4 dell’art. 415 c.p.p. semplifica l’attività delle Procure e degli Uffici del Giudice per le indagini preliminari (GIP) consentendo al P.M. di richiedere al GIP di disporre la «archiviazione» dei procedimenti contro ignoti, trasmessi dalla P.G. con elenchi mensili di cui all’art. 107 bis, cumulativamente per ciascun elenco.
Per effetto della nuova normativa, il P.M. formulerà un’unica richiesta di archiviazione e il GIP emetterà un unico decreto di archiviazione in relazione a tutte le N.d.R. contenute in ciascun elenco mensile.
Rimangono ferme le facoltà del P.M. e del GIP, rispettivamente, di "escludere" dalla richiesta di archiviazione quelle notizie di reatro, ritenute "meritevoli di approfondimento" e di non adottare il provvedimento di archiviazione in quei casi in cui la richiesta dell’organo dell’accusa non appare condivisibile.
Quando la notizia crimnis trasmessa dalla Polizia Giudiziaria possiede le caratteristiche della notizia di reato, il Pubblico Ministero provvede a iscriverla nell’apposito “Registro delle notizie di reato”[1]: tale iscrizione fa decorrere il termine per le indagini preliminari.
Il Pubblico Ministero. iscrive nel Registro di cui all’art. 335 c.p.p. solo quelle informative che costituiscono effettivamente notizia di reato e impongono di conseguenza sia le indagini preliminari sia la loro chiusura con un provvedimento di archiviazione o con l’esercizio dell’azione penale.
Ciò significa che, anche quando la Polizia Giudiziaria ha ritenuto sussistere una notizia di reato e ne ha riferito al Pubblico Ministero, quest’ultimo resta "arbitro di valutare" se la informativa ha davvero rilevanza penale o sia una “pseudo-notizia di reato”.
Solo in caso di valutazione positiva, il Pubblico Ministero, la iscrive nel Registro delle notizie di reato. In caso contrario, iscrive la informativa nel “Registro degli atti non costituenti reato” (mod. 45), esistente presso ogni Procura della Repubblica, trasmettendo poi direttamente gli atti all’archivio senza richiedere su di essa al G.I.P. un formale provvedimento di archiviazione (c.d. potere di cestinazione o di archiviazione diretta).
Trattandosi infatti di una pseudo-notizia di reato il procedimento penale non ha motivo di iniziare e non vi è necessità neppure di un controllo del G.I.P. nelle forme del provvedimento di archiviazione.
[1] Si tratta, a seconda dei casi, del “Registro delle notizie di reato contro noti” (mod. 21 e mod. 22) e del “Registro delle notizie di reato contro ignoti” (mod. 44).
L’attività di investigazione svolta dalla Polizia Giudiziaria di propria iniziativa si colloca all’inizio delle indagini preliminari, a decorrere dal momento in cui la Polizia Giudiziaria ha acquisito la notizia di reato e consiste nella raccolta di ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto (c.d. fonti di prova) ed alla individuazione del colpevole (art. 348 comma 1 c.p.p.), procedendo sia alla ricerca e conservazione delle cose e delle tracce pertinenti al reato (c.d. fonti di prova reali) sia alla ricerca di persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti (c.d. fonti di prova personali) nonché al compimento di atti specificamente indicati (artt. 340-354 c.p.,p.).
L'attività di investigazione può consistere nel compimento di «atti tipici» di indagine, espressamente disciplinati dal Codice (ad esempio, le perquisizioni artt. 247 – 252, 352; le sommarie informazioni dall’indagato e da altre persone artt. 350 e 351), e di «atti atipici» (o informali) e cioè quella attività che, pur non essendo espressamente disciplinata dal codice, non è da questo vietata e anzi rientra nelle regole della buona tecnica di indagine.
Le attività della Polizia Giudiziaria, dirette a stabilire la natura del reato e l'identificazione dell'autore, comportano specifiche operazioni che vengono generalmente suddivise secondo una consueta classificazione, in:
Sono atti di «investigazione diretta», gli atti nei quali l’attività si svolge immediatamente su persone e cose. Sono «dirette» quelle compiute sul luogo del reato e consistono: nell’osservare, fissare ed evidenziare con precise metodologie tutto ciò che presenta l’ambiente soggetto in esame in specifica attinenza con il fatto per cui si opera.
Sono atti di «investigazione indiretta», gli atti dove l’attività prevede il contributo di persone diverse dagli operanti (es. persona offesa, potenziale testimone, indagato). Sono «indirette» quelle compiute in parallelo o successivamente alle dirette: per acquisire elementi e informazioni utili alla identificazione del responsabile del reato in esame.
Con le indagini dirette si fissano dati di fatto «inconfutabili», cioè obbiettivi e controllabili mentre con le indagini indirette si acquisiscono dati «confutabili» cioè soggettivi e non sempre controllabili.
Più in particolare, si precisa che la Polizia Giudiziaria non può porre in essere attività che, di fatto, precludano in modo irreversibile le future valutazioni processuali del Pubblico Ministero. In tal senso, per la polizia giudiziaria sussiste il “divieto” di compiere “atti irripetibili”, se non nei casi specificamente previsti..
La Polizia Giudiziaria, dopo aver acquisito la notizia di reato ed averla eventualmente comunicata al Pubblico Ministero a norma dell'art. 347 c.p.p., sino a quando costui non abbia assunto la direzione delle indagini compie di propria iniziativa gli atti di indagine preliminare che risultano necessari a norma dell'art. 55 comma 1 «per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale».
L'art. 348 commi 1 e 2 precisa che essa raccoglie «ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto ed alla individuazione del colpevole» mediante la ricerca tanto «delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti» quanto «delle cose e delle tracce pertinenti al reato». Provvede altresì alla conservazione delle tracce e dello stato dei luoghi.
A tal fine la Polizia Giudiziaria compie una «attività formale» d'indagine, consistente in atti specificamente regolati dalla legge, sia un'«attività informale», cioè non disciplinata specificamente, costituita da atti non implicanti l'esercizio di poteri autoritativi.
Nell'ambito delle attività del primo tipo, che la legge per lo più subordina all'urgenza o ad altri particolari presupposti e limita nel tempo, tenuto conto dei rapporti di diretta disponibilità della Polizia Giudiziaria (art. 109 Cost.), rappresentata nel corso delle indagini preliminari dal Pubblico Ministero, nonché delle più ampie garanzie di legalità offerte da quest'ultimo, si collocano i seguenti atti:
Trattasi, infatti, di un «potere» in quanto ogni persona è tenuta ad ottemperare alla richiesta del Pubblico Ufficiale, ma, al tempo stesso, di un «dovere» in quanto la sopra citata norma considera necessario che la Polizia Giudiziaria stabilisca la identità del soggetto nei cui confronti vengono svolte le indagini (indagato) e dei soggetti che possono fornire informazioni sui fatti oggetto delle medesime (potenziali testimoni).
Chi rifiuta di dare indicazioni sulla propria identità, sul proprio stato o su altre qualità personali, commette il reato di cui all'art. 651 c.p.. Chi, anziché frapporre un rifiuto, fornisce generalità false commette i reati di cui agli artt. 495 e 496 c.p. (Falsa attestazione o dichiarazione a un Pubblico Ufficiale sulla identità o qualità proprie o di altri).
Qualora, però, sia l’indagato che la persona informata sui fatti "rifiutano" di farsi identificare, oppure "forniscono generalità o documenti di identificazione in ordine ai quali sussistono sufficienti elementi per ritenerne la falsità", vengono «accompagnati» (anche coattivamente) dalla Polizia Giudiziaria in Ufficio ed ivi "trattenuti" per il tempo strettamente necessario per l’identificazione (c.d. fermo per l’identificazione).
Un particolare "accompagnamento per l’identificazione" è quello che, in base all’Accordo di Schengen [56](Legge 30.9.1993, n. 358), può essere compiuto nei confronti della persona evasa oppure della persona colta nella flagranza di un grave reato (omicidio, storsione, stupro, traffico di stupefacenti o sostanze psicotrope, armi o esplosivi, immigrazione clandestina, ecc.) il cui atteggiamento sia continuato oltre la frontiera terrestre o marittima (c.d. inseguimento transfrontaliero) da parte di Ufficiali o Agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad uno Stato aderente all’Accordo (vale a dire, per quel che direttamente interessa, appartenenti, in via principale, agli Stati italiani, francesi e austriaci). Per questa ipotesi, l’Accordo di Schengen prevede che, su richiesta deli Ufficiali o Agenti di polizia giudiziaria, quelli del Paese ove l’inseguimento si è concluso possono procedere al fermo e alla “perquisizione di sicurezza”[3] dell’inseguito al fine di verificarne la identità provvedendo poi, se ne ricorrono le condizioni e sempre su richieta, al relativo arresto.
Peraltro il potere dovere di identificazione può spettare agli Organi di polizia, sia per finalità di polizia giudiziaria che per “finalità di polizia di sicurezza” ovvero per coloro che, pur in mancanza della qualifica di pubblica sicurezza, si trovano ad operare nel campo della "polizia amministrativa", volta a far rispettare le prescrizioni ed i limiti imposti dalle leggi e dagli atti amministrativi.
Di tutte le operazioni compiute a norma dell’art. 349 c.p. è redatto Verbale. La documentazione è conservata in apposito fascicolo (fascicolo delle indagini) presso l’ufficio del P.M. La documentazione è posta a disposizione del P.M.; copia dell’atto è conservata presso gli Uffici di polizia.
Carta d'identità digitale
[1] In base alle leggi di pubblica sicurezza, la «carta di identità» è considerata mezzo di identificazione ai fini di polizia (art. 288 del Reg. di esecuzione al T.U.L.P.S.), mentre tutti gli altri documenti sono definiti titoli equipollenti alla carta di identità (l’art. 292 del reg. T.U.-L.P.S. considera tali i documenti muniti di fotografia e rilasciati da un’Amministrazione dello Stato). Sono, pertanto, documenti validi per l’identificazione: i libretti ferroviari di cui sono muniti gli impiegati civili e militari dello Stato; le patenti di cui sono muniti i conducenti di veicoli; le tessere di riconoscimento postali; i libretti di porto d’armi; i passaporti per l’estero.
[2] Per “generalità” si intendono: nome, cognome, paternità, maternità, data e luogo di nascita (identità); residenza, domicilio, stato di coniugato, divorziato, di filiazione, o di parentela, attività lavorativa, cittadinanza (stato); professione, titoli di studio, professionali ed onorifici, situazione patrimoniale, rapporti con la giustizia (qualità personali).
[3] Rientra tra le perquisizioni previste dalle leggi speciali anche la c.d. perquisizione personale di sicurezza (con eventjuale successivo sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti) che le autorità di polizia di uno Stato aderente all’Accordo di Schengen (e quindi quelle italiane, francesi e austriache) possono compiere all’esito di un inseguimento tranfrontaliero conclusosi con il fermo per identificazione dell’inseguito (evaso o persona colta in flaqgranza per gravi di reati). Malgrado la denominazione, non si tratta di perquisizione a carattere preventivo, ma di perquisizione di polizia giudiziaria. Essa infatti viene compiuta dopo la commissione di un reato (evasione o altro reato commesso in flagranza).
Nell’ambito della attività di polizia, il personale delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera che procede all’identificazione, «invita» la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ed i soggetti in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione del fatto, a «dichiarare le proprie generalità». Trattasi di un atto dovuto che ha inizio sul luogo e può avere seguito anche in Ufficio.
Nell’ambito dell’attività di polizia in genere, le "necessità identificative" possono essere assolte, sia con la carta di identità, che con qualsiasi altro titolo equipollente.
[1] Art. 10, co. 2 D.L. 144/2005 conv. Legge 158/2005.
Il primo e più semplice "controllo" va effettuato per accertare se il documento esibito risulti denunciato rubato o smarrito da parte del titolare.
Tali notizie sono contenute in apposito «schedario elettronico», del "Centro Elaborazioni Dati" (C.E.D.) in uso alle Forze di Polizia, nel quale vengono inseriti i numeri identificativi dei documenti che vengono denunciati rubati o smarriti.
E’ sufficiente, pertanto, interrogare al terminale il numero del documento[1]. Tale accesso telematico consente di conoscere se lo stesso è stato rubato o smarrito e da chi, in che data e presso quale ufficio di polizia denunciato. In caso positivo, ovviamente, il possessore è illecito (se ne sarà appropriato direttamente o l’avrà acquisito da altri e vi avrà, quanto meno, cambiato la fotografia, in quanto utilizza un documento rubato o smarrito facendo proprie le generalità del titolare)
In "terza pagina", frapposto tra la fotografia e la pagina stessa, viene impresso un timbro a secco punzonato (ossia, che non lascia un segno con l’inchiostro, ma un rilievo, appunto, di punzonatura).
A tale proposito, è opportuno accertare che vi sia perfetta coincidenza tra la parte del timbro impresso sulla fotografia e la parte invece impressa sulla pagina; inoltre, che la dicitura del timbro a secco sia la stessa del timbro ad inchiostro esistente sulla parte sottostante della medesima pagina (Comune di _____________ ).
Per verificare se vi è stata sostituzione di foto si può anche controllare, utilizzando uno spillo, se esiste la necessaria corrispondenza tra le depressioni del timbro a secco originale (visibile sulla quarta pagina) e quelle esistenti sulla fotografia. Infine, poiché il falsificatore potrebbe aver completato la circonferenza dell’impronta usando un compasso, è opportuno riscontrare se esistono tracce di punta del suddetto strumento al centro della timbratura.
Oltre agli schedari ed archivi elettronici nazionali del CED possono essere effettuate ricerche presso gli archivi delle utenze telefoniche della TELECOM (contiene i nominativi e gli indirizzi di tutti gli intestatari di utenze telefoniche), dell’A.C.I., del P.R.A. e della Motorizzazione Civile (contengono i dati identificativi degli autoveicoli e dei loro proprietari), della Suprema Corte di Cassazione (raccoglie le sentenze civili e penali della Corte e le massime Ufficiali del Consiglio di Stato) e dell’Unione Camere di Commercio (contiene i dati e le informazioni, di natura pubblica, raccolti dalle Camere di Commercio, relativi a società e ditte), ricchi serbatoi di dati ed informazioni.
Possono essere effettuate ricerche presso i gli archivi cartacei presso l’Anagrafe al fine di consultare gli Atti dello Stato Civile (residenza e stato di famiglia, sia attuali che storici, morte, matrimonio), l’Ufficio Elettorale (elenco dei cittadini che godono dei diritti politici), l’Ufficio Carte di identità.
Altri informazioni di interesse possono essere assunte presso gli Enti che erogano servizi e forniture (Enel, Italgas, Aziende Municipalizzate o Private locali, ecc.) dai quali si possono spesso acquisirsi dati necessari per individuare la dimora di una persona che, come chiunque, non potrà far certo a meno di tali servizi di prima necessità (anche estendendo la ricerca al nome di familiari o di persone legate da vincoli affettivi, di amicizia o di colleganza).
► Inoltre, presso la Questura sono accessibili:
Presso la Prefettura è ubicato l’ Ufficio Patenti, nei cui archivi sono accessibili i atti anagrafici e le fotografie di tutti i titolari di patenti di guida rilasciate nella provincia. Nel Tribunale, il Casellario Giudiziario che contiene le notizie riguardo alle condanne passate in giudicato dei cittadini nati nel circondario, il Registro Generale Penale per i carichi pendenti raccoglie le indicazioni in ordine ai procedimenti in corso, mentre il Registro delle Imprese ed il Registro della Stampa sono consultabili per i dati relativi alle imprese ed alle testate giornalistiche registrate.
Ricordiamo, infine, il Catasto Edilizio Urbano e Terreni ove sono conservate le piante catastali, rispettivamente degli immobili urbani e rurali, la Conservatoria dei Registri Immobiliari, nel cui archivio possono essere attinte notizie utili in ordine alla proprietà degli immobili, gli Albi Professionali, gli Uffici di Collocamento, gli Uffici Finanziari (Uffici Tecnici Erariali, Uffici delle entrate, Intendenze di Finanza, ecc.).
L’elencazione di cui sopra, che non ha certamente la pretesa di avere carattere esaustivo, fornisce, tuttavia, un’idea sull’ampia gamma di mezzi conoscitivi di indagine, tramite i quali l’investigatore può trarre evidenti benefici di carattere informativo da aggiungere a quanto contenuto nei propri "Archivi cartacei" che, è bene ricordarlo e sottolinearlo, anche nell’era della telematica rappresentano una miniera ricca e facilmente attingibile di notizie.
[1] Ad esempio, il numero della carta di identità e quello del passaporto vengono stampigliati su moduli in bianco presso l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, i quali vengono consegnati alle Prefetture per la successiva distribuzione ai Comuni (carte d’identità) ed al Ministero degli Esteri per la successiva distribuzione alle Questure (passaporti).
Per quanto riguarda i «cittadini stranieri», a norma dell’art. 144 del T.U.L.P.S. (Testo Unico Leggi di Pubblica Sicurezza) l’Autorità di P.S. la facoltà di invitare, in ogni tempo, lo straniero ad esibire i documenti di identificazione di cui è provvisto e a dare contezza di sé; qualora vi sia motivo della identità personale dello straniero, questi può essere sottoposto a rilievi segnaletici.
La identificazione può avvenire normalmente mediante l’esibizione di un "documento di riconoscimento" rilasciato dallo Stato di appartenenza dell’interessato, come ad esempio:
Mentre per i "cittadini comunitari" la patente di guida ed il passaporto sono conformi ai modelli europei fissati dalla normativa comunitaria, quindi, facilmente intellegibili e valutabili in sede di controllo, gli "stranieri extracomunitari" sono dotati di documenti tra loro diversi a seconda dello Stato di appartenenza, scritti in lingue e caratteri alfabetici diversificati e difficilmente traducibili.
Risulta così difficile, anche per il personale del Corpo delle Capitanerie di Porto, viste le proporzioni sempre più rilevanti del fenomeno dell’arrivo, sulle coste dell’Italia meridionale, di migliaia di persone provenienti, per lo più, da Paesi dell’Africa maghrebina, dell’area balcanica (Europa centro-orientale) e del Medio Oriente, giudicare l’autenticità del documento di riconoscimento mostrato dallo straniero e, di conseguenza, acquisire la sua veridicità.
Al fine di una migliore valutazione di siffatti documenti, possono essere interpellati l’Ufficio Stranieri della Questura o, più direttamente, l’Ambasciata o il Consolato in Italia dello Stato di provenienza dello straniero e, quindi, di emissione del documento.
Va ricordato, comunque, che molti stranieri, residenti da anni nel nostro Paese, possono essere muniti di "carta di identità italiana" (che non ha, ovviamente, validità per l’espatrio) o, anche di "patente di guida italiana".
Il cittadino straniero extracomunitario, oltre al "passaporto" di cui deve comunque essere munito perché solo con questo gli è consentito l’ingresso in Italia (salvo i casi di clandestini che hanno successivamente sanato la loro posizione in virtù di particolareggiate e limitate disposizioni di legge, come quelle sul ricongiungimento familiare e regolarizzazione per offerta di lavoro), deve essere munito del «permesso di soggiorno»[1] che, ai sensi dell’art. 4 della Legge 28 febbraio 1990, n. 39 (c.d. Legge MARTELLI), va richiesto entro otto giorni dalla data di ingresso ed ha diversa durata a seconda del titolo per cui viene rilasciato (non superiore a tre mesi per motivi di turismo, a due anni per motivi di lavoro, di studio e di cura, illimitata qualora coniugato con cittadino italiano da più di tre anni risiedendo nel territorio italiano).
In base al successivo art. 6, lo straniero in possesso del permesso di soggiorno ha diritto all’iscrizione anagrafica presso il Comune di residenza e, successivamente, al rilascio della "carta di identità italiana", di validità limitata al territorio nazionale ed alla durata del permesso di soggiorno medesimo.
In virtù del comma 4 dell’art. 4 comma 4, Legge n. 39/90, il "permesso di soggiorno" deve essere esibito ad ogni richiesta degli Ufficiali ed Agenti di pubblica sicurezza.
Eventuali inosservanze dello straniero ai suddetti obblighi devono essere segnalate all’Ufficio Stranieri della Questura per le opportune determinazioni in ordine alla eventuale espulsione ai sensi dell’art, 7 comma 2, Legge n. 39/90.
[1] Il permesso di soggiorno è costituito da un foglio sul quale sono trascritte le generalità complete ed i dati riguardanti lo straniero (nome, cognome, luogo e data di nascita, nazionalità, residenza all’estero, recapito in Italia, data d’ingresso, data e motivo del visto, motivo e scadenza del soggiorno, data del rilascio) e sul quale è apposta una fotografia del titolare.
I cittadini "extracomunitari" che entrano regolarmente in Italia e desiderano soggiornare sul nostro territorio, devono in primo luogo richiedere il "permesso di soggiorno", cioè il documento con cui lo Stato italiano concede il diritto di soggiornare nel nostro Paese.
Per richiedere questo documento, è necessario presentarsi al Questore della Provincia in cui si intende risiedere, entro otto giorni dall' ingresso in Italia. Sono esenti da questo obbligo i frontalieri, i diplomatici, i funzionari di organismi internazionali e i militari della Nato.
A partire dall’11 dicembre 2006, inoltre, è in vigore una nuova procedura per il rilascio e il rinnovo del permesso e della carta di soggiorno, che assegna agli "Uffici postali", anziché le Questure, il compito di ricevere le istanze per alcune tipologie di permesso.
Una volta in possesso dei requisiti richiesti, di sufficienti mezzi di sussistenza e di un alloggio, e se non ci sono ragioni contrarie di ordine pubblico o sanitario, il permesso viene rilasciato entro un termine ordinatorio di venti giorni, che decorrono dalla data in cui è stata presentata l'istanza.
La durata del permesso di soggiorno, ad "eccezione" di quello per motivi di lavoro, coincide con la durata prevista per il visto d'ingresso rilasciato dalle Rappresentanze diplomatiche o consolari italiane presenti nei Paesi di appartenenza.
Al momento del ritiro del permesso, chi intende soggiornare per più di trenta giorni dovrà dimostrare di avere adempiuto agli obblighi in materia sanitaria, iscrivendosi al Servizio Sanitario Nazionale o stipulando una polizza assicurativa.
Una volta ottenuto, il permesso di soggiorno potrà essere revocato solo se verranno a mancare i requisiti previsti. Nel caso le Autorità preposte non abbiano concesso il permesso di soggiorno, entro sessanta giorni dalla notifica del provvedimento si può presentare ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (Tar) competente per territorio.
I «cittadini stranieri» che risiedono regolarmente in Italia da almeno sei anni possono richiedere il rilascio della "carta di soggiorno", che vale come documento di identificazione personale e autorizza il suo possessore a soggiornare sul territorio italiano per un periodo di tempo indeterminato.
La carta è soggetta a "vidimazione" su richiesta dell'interessato entro dieci anni dal rilascio. Deve perciò essere rinnovata su iniziativa del suo titolare. Come documento di identità, la validità è per soli "cinque anni" dalla data del rilascio o del rinnovo.
Con questa carta, si può entrare e uscire dall'Italia senza obbligo del visto, svolgere ogni attività lecita che non sia espressamente riservata ai soli cittadini italiani, accedere ai servizi della Pubblica Amministrazione e partecipare alla vita pubblica (anche se non consente di votare).
Se si possiedono i requisiti previsti la Questura rilascia la carta di soggiorno. Nell'eventualità di un rigetto della domanda, si hanno sessanta giorni di tempo dalla notifica per presentare ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale.
La carta può essere richiesta anche per il proprio coniuge e i figli minori. In questo caso, occorre dimostrare di avere un reddito sufficiente e un alloggio idoneo. Inoltre, è necessario presentare i certificati rilasciati dal Paese d'origine che attestino il grado di parentela dei propri familiari, tradotti e legalizzati dall'Autorità Consolare Competente.
Consistendo l’identificazione in un potere, come tale contrapposto ad una situazione di soggezione da parte della persona nei cui confronti è stato esercitato il potere di identificazione, il nostro ordinamento penale prevede delle "specifiche sanzioni" per chi ne ostacola il libero e legittimo esercizio.
Infatti l’art. 651 c.p. punisce, quale reato contravvenzionale (arresto fino ad 1 mese o ammenda di € 206) chi, richiesto da un Pubblico Ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, rifiuta di dare indicazioni sulla propria identità personale, sul proprio stato o su altre qualità personali.
In primo luogo, quindi, occorre una "esplicita richiesta" del Pubblico Ufficiale che sta esercitando la propria funzione. Non è sindacabile la necessità o la fondatezza della richiesta del Pubblico Ufficiale, in quanto questi può chiedere a chiunque le generalità purché sia nell’esercizio delle proprie funzioni (Sent. Corte di Cassazione 28 aprile 1995). Tale limite, dell’esercizio delle pubbliche funzioni, significa, pertanto, che siffatto potere deve essere esercitato non in maniera "indiscriminata", ma deve risultare una necessità o un’opportunità connessa al libero e completo svolgimento della funzione medesima.
Il "rifiuto" configura comunque il reato in questione, anche se, poco dopo, il soggetto fornisca spontaneamente le proprie generalità. Non costituisce reato, invece, il non fornire dati non espressamente richiesti dal Pubblico Ufficiale.
Chi, al contrario, "dichiara generalità mendaci", trattandosi di condotta bel più grave rispetto alla precedente, in quanto tende ad indurre in errore il Pubblico Ufficiale che le riceve, incidendo sulla fede pubblica, risponde del delitto previsto dall’art. 496 c.p., punito con la reclusione fino ad 1 anno o con la multa fino a 516 €.
Anche in tale ipotesi criminosa occorre che il Pubblico Ufficiale sia nell’esercizio delle proprie funzioni (o del proprio servizio) ed abbia "esplicitamente interrogato" la persona sulla sua identità, il suo stato e le sue qualità personali.
La pena è della reclusione fino a 3 (tre) anni, quando le dichiarazioni o le attestazioni al siano destinate ad essere ricevute in un atto (art. 495 c.p.).
Oltre che per l’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 651 c.p., anche per le due figure di delitto sopra menzionate non è consentito l’arresto nella flagranza di reato ed è competente il Tribunale monocratico.
La Cassazione con Sent. N. 6864 del 9 aprile 1993 stabiliva che il rifiuto di consegnare il documento di riconoscimento al Pubblico Ufficiale integrava gli estremi del reato di cui all’art. 221 del Regolamento di esecuzione del T.U.L.P.S in relazione all’art. 294[1] dello stesso Regolamento e non il reato di cui all’art. 651 c.p.
Il D.lgs. 13.7.1994, n. 480 ha introdotto l’art. 221 bis che punisce la violazione di cui all’art. 221 con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 154 € a 1.032 €.
[1] Art. 294 T.U.L.P.S. – La carta di identità od i titoli equipollenti devono essere esibiti ad ogni richiesta degli Ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza.
Nel campo della «polizia amministrativa», volta a far rispettare le prescrizioni ed i limiti imposti dalle leggi e dagli atti amministrativi (polizia tributaria, sanitaria, urbanistica, stradale, ambientale, demaniale, dei porti e della navigazione), il «potere di identificazione», per coloro che sono in possesso della qualifica di “Ufficiale ed Agente di P.S.”, deriva dalla generale disposizione dell’art. 294 del Regolamento di esecuzione al T.U.L.P.S., quando viene esplicato al fine di esercitare la attribuzione, prevista dall’art. 1 del T.U. medesimo, consistente nel curare l’osservanza delle leggi e dei regolamenti dello Stato nonché delle ordinanze dell’Autorità.
In tale testo normativo manca, in realtà, una precisa disposizione che abiliti all’esercizio del “potere di identificazione” nel corso dello svolgimento dell’attività disciplinata.
Se ne desume, però, la necessità e, quindi, l’implicita previsione, quando agli artt. 13 e 14 vengono regolati gli atti di accertamento e la contestazione e notificazione, tutte azioni amministrative che non possono prescindere da una previa o contestuale identificazione dei soggetti interessati.
L’esigenza primaria volta a garantire agli Organi deputati alla tutela della pubblica sicurezza una efficiente azione di prevenzione fornisce agli stessi uno strumento operativo determinante che consiste nel potere-dovere di identificare le "persone pericolose" e "sospette"[1] o quelle, comunque, delle quali ritengano opportuno conoscere la identità per l’espletamento dei propri compiti istituzionali.
In questi casi, l’attività di controllo e identificazione prescinde dalla commissione di un reato e non è attività di polizia giudiziaria, ma di “polizia di sicurezza” (art. 11 Decreto Legge 21 marzo 1978, n. 59 [57] convertito con modificazioni nella Legge 18 maggio 1978, n. 191[2] ed art. 4 T.U.L.P.S.)
Anche di tale accompagnamento e del successivo rilascio va dato «avviso» al Procuratore della Repubblica, il quale può disporre l’immediato rilascio. In questa previsione normativa la durata massima del trattenimento in ufficio (c.d. fermo o accompagnamento per l’identificazione di p.s.) è fissata in 24 ore.
L’istituto del “fermo per identificazione”, di cui all’art. 11 D.L. n. 59/78, è strutturato in modo analogo all’accompagnamento negli uffici di polizia previsto dall’art. 349 del c.p.p.
Trattandosi di istituto concernente l’attività della polizia di sicurezza, l’istituto del fermo per identificazione appena illustrato non ha cessato di avere vigore neppure dopo l’introduzione dell’art. 349 del codice di procedura penale.
L’art. 11 del D.L. 21/3/78, n. 59 recita: “gli Ufficiali e gli Agenti di polizia possono accompagnare nei propri uffici chiunque, richiestone, rifiuta di dichiarare le proprie generalità ed ivi trattenerlo per il tempo strettamente necessario al solo fine dell’identificazione o comunque non oltre le 24 ore“.
La disposizione si applica anche «...quando ricorrono sufficienti indizi per ritenere la falsità delle dichiarazioni della persona richiesta sulla propria identità personale o dei documenti d’identità da essa esibiti». Dell’accompagnamento e dell’ora in cui è stato compiuto è data immediata notizia al Procuratore della repubblica, il quale, se riconosce che non ricorrono le condizioni di cui ai commi precedenti ordina il rilascio della persona accompagnata.
Al Procuratore della Repubblica è data altresì immediata notizia del rilascio della persona accompagnata e dell’ora in cui è avvenuto.
Alla identificazione della persona può procedersi, ove occorra, anche eseguendo rilievi dattiloscopici, fotografici, antropometrici, nonché qualsiasi altro accertamento non tipizzato che lo sviluppo tecnico-scientifico dovesse prospettare come idoneo ai fini identificativi, ad esclusione di quei rilievi che possano incidere sulla libertà fisica e morale, specialmente quando impongano un mancato riguardo al pudore ed alla dignità della persona medesima. Se gli accertamenti di cui trattasi comportano il prelievo di capelli o saliva e manca il consenso dell’interessato, la polizia giudiziaria procede al prelievo coattivo nel rispetto della dignità personale del soggetto, previa autorizzazione scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, dal Pubblico Ministero. [3]
Di tutte le operazioni compiute a norma dell’art. 11 del D.L. 59/78 è redatto Verbale. La documentazione è conservata in apposito fascicolo (fascicolo delle indagini) presso l’ufficio del P.M. La documentazione è posta a disposizione del P.M.; copia dell’atto è conservata presso gli Uffici di polizia.
[1] Per persone pericolose devono intendersi ad esempio: i pericolosi sociali, gli oziosi ed i vagabondi abituali; i mendicanti, gli intossicati, i malati di mente. Per persone sospette, invece, quelle che, con la loro condotta, diano luogo a giudizio sfavorevole circa la regolarità della loro vita di relazione, in particolare coloro che fuori del loro Comune, destando sospetti con la loro condotta, si rifiutano o non possono dare contezza di sé, alla richiesta di Ufficiali ed Agenti di P.S., mediante l’esibizione di una carta d’identità o documento equipollente.
[2] Le disposizioni previste da codice ricalcano, in maniera quasi letterale, l’art.11 D.L. 21.3.1978 n.59, convertito con modificazioni nella Legge 18 maggio 1978 n.191, rispetto al quale prevede la riduzione da 24 a 12 ore del termine massimo per il quale la persona può essere trattenuta. Trattandosi di leggi che regolano la stessa materia, il predetto D.L. n.59/78 dovrebbe pertanto ritenersi abrogato a far tempo dall’entrata in vigore del nuovo codice.
[3] A norma dell’art. 10, comma 4 quater, del D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155 per l’identificazione di pubblica sicurezza si osservano le stesse disposizioni dell’art. 349. 2 bis c.p.p.
Si prescinde, ovviamente dalle situazioni di urgenza e da qualsiasi riferimento alla gravità del reato per cui si procede quando gli Ufficiali di polizia giudiziaria compiono perquisizioni personali o locali su delega del Pubblico Ministero.
In caso di successo, alla perquisizione fa seguito altro atto (di sequestro, di ispezione, di fermo, di arresto, di misura custodiale o carcerazione).
La perquisizione è uno "strumento investigativo", usualmente attivato nel corso delle indagini di polizia giudiziaria e quasi mai in fasi processuali e, a seconda dell’oggetto, si distinguono in:
Peraltro, la Polizia Giudiziaria può procedere a perquisizione anche in taluni casi espressamente previsti da "leggi speciali" che, a seconda della finalità, si possono distinguere in:
[1] Possono procedere a perquisizione gli Agenti di polizia giudiziaria quando ricorrono situazioni di necessità e urgenza che rendono impossibile un intervento tempestivo dell’Autorità Giudiziaria o di un Ufficiale di polizia giudiziaria, come ad esempio: perquisizione a seguito di flagranza di reato.
Per intenderci, il «corpo del reato» è il complesso dei mezzi attraverso i quali il fatto criminoso viene compiuto o delle cose che rappresentano il prezzo, il prodotto o il profitto dell’illecito; «cose pertinenti al reato» sono strumenti o i mezzi legati, anche in via indiretta, alla fattispecie criminosa, che consentono di rilevare dati utili per la ricostruzione e l’accertamento dei fatti relativi al compimento di un illecito e informazioni sull’autore delle stesso.
Nella perquisizione personale la ricerca è generalmente manuale ma può essere effettuata anche con "mezzi meccanici".
In questi casi, trattandosi di atti particolarmente delicati che sottopongono il soggetto a forme di trattamento (=esplorazione) sanitario, la Polizia Giudiziaria è legittimata a procedervi avvalendosi di personale medico con funzione di «Ausiliare» e comunque previa delega del Pubblico Ministero.
Tali atti possono essere compiuti anche senza il consenso del soggetto sottoposto a perquisizione: vista la urgente necessità terapeutica, sono infatti giustificati con la necessità di preservare il soggetto perquisito dal rischio di morte che egli corre trasportando nel proprio corpo oggetti e sostanze che possono provocargli gravi lesioni e gravi forme di intossicazione o infezione.
► Il presupposto per potere procedere a perquisizione personale è costituito:
In questo ultimo caso, può peraltro procedersi a perquisizione solo se:
I presupposti delle perquisizioni sono l’esistenza di fondati motivi e di situazioni di particolare urgenza (=pericolo nel ritardo). Quanto ai fondati motivi, essi devono consistere in elementi oggettivi e non solo in semplici sospetti o vaghe congetture.
Quanto al pericolo del ritardo, esso è presunto nei casi di flagranza o quasi flagranza e di evasione.
La sussitenza dei presupposti del pericolo del ritardo e dei fondati motivi deve essere valutata con particolare attenzione dalla Polizia Giudiziaria.
La perquisizioni è infatti un “atto irripetibile” e come tale può incidere irreversibilmente sulle scelte processuali del Pubblico Ministero, in particolar modo quando questi è divenuto il dominus (ha già assunto la direzione) delle indagini preliminari.
Perquisizione effettuate in assenza dei suindicatii presupposti di legge, comportano a carico del personale operante, provvedimenti disciplinari e penali:
La perquisizione effettuata in assenza di presupposti di legge è nulla e l’eventuale sequestro eseguito all’esito della stessa è inutilizzabile salvo si tratti di sequestro di cosa costituente corpo di reato o pertinenze al reato (Cass. Sez. Un. 5021/96)
Ne consegue che i risultati di una perquisizione effettuata in assenza dei presupposti di legge (fondati motivi e pericolo di ritardo) possono comunque essere utilizzati indipendentemente dalle censure disciplinarri o penali nei confronti del personale operante (Cass. 29550/06 e Cass. 3626/06).
► Nel «procedimento davanti al Giudice di Pace», la Polizia Giudiziaria, se autorizzata dal Pubblico Ministero, può procedere alla perquisizione anche fuori delle situazioni di urgenza (art. 13 D.lgs., 28.8.200, n. 274).
[1]Stato di chi viene colto nell’atto di commettere il reato (=flagranza)o subito dopo il reato inseguito ed è sorpreso con cose o tracce dalle quali appare che il soggetto ha commesso il fatto immediatamente prima (=quasi flagranza).
► Modalità esecutiva:
- la fattispecie criminosa commessa, specificandone gli elementi di tempo e azione;
- la norma penale che si ritiene violata (e non soltanto il titolo di reato).
Il decreto di perquisizione ha forma scritta e, la copia va preventivamente consegnata al perquisendo.
Non sono qualificabili come perquisizioni e possono perciò essere eseguite con modalità informali:
► Garanzie difensive:
► Documentazione e trasmissione:
I verbali delle perquisizioni compiute dalla P.G., trattandosi di “atti non ripetibili”, vengono inseriti nel fascicolo del dibattimento e attraverso la lettura di questo sono utilizzabili ai fini del giudizio (art. 511 c.p.p.
Vi sono "responsabilità disciplinari" e "penali" in caso di perquisizioni arbitrarie o illegittime (perquisizioni arbitrarie - 609 c.p.; violenza privata - 610 c.p.; violazione di domicilio - 614-615 c.p.).
Si può parlare di «perquisizione locale» solo quando il luogo perquisito è nella disponibilità (assoluta o relativa) di taluno, al contrario, si è fuori dall’ambito delle perquisizioni per i luoghi aperti (campi, strade, locali abbandonati).
Ipotesi specifica di perquisizione locale è la c.d. perquisizione domiciliare, che riguarda solo le perquisizioni compiute in una abitazione o nei luoghi chiusi adiacenti ad essa (luoghi destinati ad uso domestico o destinati al suo servizio o completamento).
► Il presupposto per potere procedere a perquisizione locale è costituito:
In questo ultimo caso, può peraltro procedersi a perquisizione solo se:
I presupposti delle perquisizioni locali sono l’esistenza di fondati motivi e di situazioni di particolare urgenza (=pericolo nel ritardo).
Quanto ai fondati motivi, essi devono consistere in elementi oggettivi e non solo in semplici sospetti o vaghe congetture.
Quanto al pericolo del ritardo, esso è presunto nei casi di flagranza o quasi flagranza e di evasione.
La sussitenza dei presupposti del pericolo del ritardo e dei fondati motivi deve essere valutata con particolare attenzione dalla Polizia Giudiziaria.
La perquisizioni è infatti un “atto irripetibile” e come tale può incidere irreversibilmente sulle scelte processuali del Pubblico Ministero, in particolar modo quando questi è divenuto il dominus (ha già assunto la direzione) delle indagini preliminari.
Perquisizione effettuate in assenza dei suindicatii presupposti di legge, comportano a carico del personale operante, provvedimenti disciplinari e penali:
La perquisizione effettuata in assenza di presupposti di legge è nulla e l’eventuale sequestro eseguito all’esito della stessa è inutilizzabile salvo si tratti di sequestro di cosa costituente corpo di reato o pertinenze al reato (Cass. Sez. Un. 5021/96)
Ne consegue che i risultati di una perquisizione effettuata in assenza dei presupposti di legge (fondati motivi e pericolo di ritardo) possono comunque essere utilizzati indipendentemente dalle censure disciplinarri o penali nei confronti del personale operante (Cass. 29550/06 e Cass. 3626/06).
► Nel «procedimento davanti al Giudice di Pace», la Polizia Giudiziaria, se autorizzata dal Pubblico Ministero, può procedere alla perquisizione anche fuori delle situazioni di urgenza (art. 13 D.lgs., 28.8.200, n. 274).
[1] Stato di chi viene colto nell’atto di commettere il reato (=flagranza)o subito dopo il reato inseguito ed è sorpreso con cose o tracce dalle quali appare che il soggetto ha commesso il fatto immediatamente prima (=quasi flagranza)
► Modalità di esecuzione:
► Garanzie difensive:
► Documentazione e trasmissione:
La perquisizione locale non può essere compiuta per iniziativa estemporanea del singolo Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria. Vi sono "responsabilità disciplinari" e "penali" in caso di perquisizioni arbitrarie o illegittime (perquisizioni arbitrarie - 609 c.p.; violenza privata - 610 c.p.; violazione di domicilio - 614-615 c.p.).
La violazione degli altrui domicilio e l’eventuale danneggiamento dei beni saranno giustificati dall’accertamento della circostanza che chi ha operato lo ha fatto nell’adempimento di un dovere di istituto (art. 51 c.p.). Chi ha operato va dunque esente da pena e non è tenuto neppure al risarcimento dei danni. Può aggiungersi che, ove tali danni non siano dovuti a condotta censurabile sotto il profilo della prudenza, perizia, osservanza di norme, ma risultino obiettivamente giustificati da uno stato di necessità, i terzi danneggiati avranno diritto solo ad un’equa indennità (art. 2045 cod. civ.), dovuta se del caso, non al personale intervenuto ma dalla sua Amministrazione di appartenenza.
Le prime possono essere compiute tanto da "Ufficiali" che da "Agenti" di polizia giudiziaria, e il cui scopo non è tanto l’acquisizione della notizia di reato, quanto l’espletamento di una attività di pubblica sicurezza. Più analiticamente, mentre la «funzione giudiziaria» è volta a finalità repressive, intervenendo dopo la commissione di un fatto costituente reato allo scopo di individuare l’autore e di impedirne l’aggravamento, la funzione di «pubblica sicurezza» ha carattere preventivo e si estrinseca in un’attività di vigilanza diretta ad impedire il verificarsi di fatti dannosi o pericolosi. Particolarmente rilievo in questo senso hanno le perquisizioni relative all’accertamento degli illeciti depenalizzati.
Di contro, le seconde, interessano direttamente il procedimento penale, in quanto portano all’accertamento della notizia di reato. Tali sono quelle previste dall’art. 225 att..
La prima ipotesi (in materia di armi) è contenuta nell’art. 41 Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 [58](T.U.L.P.S.), concernente le perquisizioni, esclusivamente locali, ed il conseguente sequestro, effettuate, anche fuori della flagranza o di evasione, da Ufficiali che da Agenti di polizia giudiziaria, che abbiano notizia (pure se anonima), «anche per indizio», dell’esistenza in qualsiasi locale o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni e materie esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque illecitamente detenute.
La seconda ipotesi è individuata dall’art. 4 Legge 22 maggio 1975, n. 152 [59], sull’ordine pubblico, come modificata dalla Legge 19 marzo 1990, n. 53, recante nuove norme sulla prevenzione della delinquenza mafiosa (non espressamente richiamata dall’art. 225 att.) concernente le perquisizioni realizzate «sul posto», nel corso di operazioni di polizia, da Ufficiali e Agenti di P.G.
In particolare, a norma del suddetto articolo, in casi eccezionali di necessità e urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell’Autorità giudiziaria[1], la Polizia giudiziaria (U.P.G. e A.P.G.) può procedere, oltre che alla identificazione, all’immediata perquisizione sul posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, nei confronti di persone il cui atteggiamento o la cui presenza, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo, non appaiono giustificabili. In tale circostanza la perquisizione può estendersi al mezzo di trasporto (unità mercantile) utilizzato dalle persone predette per giungere sul posto.
Alle perquisizioni fino a qua esaminate, può essere assimilata quella compiuta per il “Contrasto della immigrazione clandestina” (art. 12 comma 7, Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 [60]).
La disciplina appena esposta si applica, per espresso richiamo dell’art. 4 L. 152/75, anche alle perquisizioni eseguite dai militari delle FF.AA. (a disposizione dei Prefetti), nell’ambito di operazioni di sicurezza e controllo del territorio, per la prevenzione dei delitti di criminalità organizzata e, in particolare, all’accertamento dell’eventuale possesso di armi, esplosivi al fine specifico di prevenire o impedire comportamenti che possono mettere in pericolo l’incolumità delle popolazioni, la sicurezza dei luoghi o delle infrastrutture.
I presupposti delle operazioni di polizia in corso e della particolare necessità o urgenza accomunano la tipica perquisizione sul posto alle perquisizioni per la “prevenzione e repressione del traffico di sostanze stupefacenti”.
E’ la perquisizione, sia personale che locale, che gli U.P.G. (e Non anche l’Agente) possono compiere per ricercare "sostanze stupefacenti o psicotrope" ai sensi delle disposizioni contenute all’art. 103 T.U. approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 [61].
[1] Si riferisce ad ipotesi in cui il tempo occorrente per richiedere e ottenere il decreto di perquisizione dell’A.G. renderebbe vana la perquisizione alla quale è invece urgente (= il ritardo ne comprometterebbe l’esito) e necessario (=indispensabile) procedere, in vista del raggiungimento dello scopo dell’atto.
Tale ipotesi (in materia di armi) è contenuta nell’art. 41 R.D. 18.6.1931, n. 773 (Testo Unico Leggi di Pubblica Sicurezza), concernente le perquisizioni, "esclusivamente locali" ed il conseguente sequestro, effettuate di iniziativa estemporanea, anche fuori della flagranza o di evasione, da Ufficiali che da Agenti di polizia giudiziaria, che abbiano notizia (pure se anonima), «anche per indizio», dell’esistenza in qualsiasi locale (pubblico o privato o in qualsiasi abitazione), di armi, munizioni e materie esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque illecitamente detenute.
A differenza delle perquisizioni previste dal Codice di rito (artt. 352-356), la perquisizione in esame è solo locale (anche domiciliare ed estendibile al mezzo di trasporto) e non anche personale.
► Garanzie difensive:
Si applicano le garanzie previste per le perquisizioni locali disciplinate dal codice (artt. 352 e 356 c.p.p.).
► Documentazione e trasmissione:
In particolare, a norma del suddetto articolo, in casi eccezionali di necessità e urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell’Autorità giudiziaria , la Polizia giudiziaria (U.P.G. e A.P.G.) può procedere, oltre che alla identificazione, all’immediata perquisizione sul posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, nei confronti di persone il cui atteggiamento o la cui presenza, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo, non appaiono giustificabili.
► Presupposti per poter procedere alla perquisizione sul posto:
► Modalità esecutie:
► Garanzie difensive:
► Documentazione e trasmissione:
La disciplina appena esposta si applica, per espresso richiamo dell’art. 4 L. 152/75, anche alle perquisizioni eseguite dai "militari delle FF.AA." (a disposizione dei Prefetti), nell’ambito di operazioni di sicurezza e controllo del territorio, per la prevenzione dei delitti di criminalità organizzata e, in particolare, all’accertamento dell’eventuale possesso di armi, esplosivi al fine specifico di prevenire o impedire comportamenti che possono mettere in pericolo l’incolumità delle popolazioni, la sicurezza dei luoghi o delle infrastrutture.
E’ la perquisizione, sia "personale che locale", che gli Ufficiali di polizia giudiziaria (e NON anche l’Agente) possono compiere per ricercare sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi delle disposizioni contenute all’art. 103 T.U. approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 [61].
► Presupposti:
Presupposti per procedere alla perquisizione è che:
► Modalità di esecuzione:
► Garanzie difensive:
► Documentazione e trasmissione:
► Presupposti:
► Modalità esecutive:
► Garanzie difensive:
► Documentazione e trasmissione:
Nel procedimento davanti al "Giudice di Pace", la Polizia Giudiziaria, se autorizzata da Pubblico Ministero, può procedere agli accertamenti urgenti anche fuori delle situazioni di urgenza (art. 13 D.lgs. n. 274/2000).
Per la esecuzione materiale degli accertamenti, gli Ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi dell’ausilio degli Agenti, ma debbono essere presenti durante le oprerazioni relative.
La Polizia Giudiziaria può avvalersi di «ausiliari» quando deve eseguire accertamenti, rilievi (fotografici, segnaletici, descrittivi) e operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche (art. 348 comma 4 c.p.p.)
► Modalità di esecuzione:
Una volta compiuta l’attività di conservazione, l’Ufficiale e l’Agente di polizia giudiziaria (nei soli casi previsti dall’art. 113 att. c.p.p.), possono procedere, di propria iniziativa, agli accertamenti urgenti (rilievi, ispezioni di luoghi e di cose, sequestri) se l’intervento del P.M. non può essere tempestivo o prima che lo stesso non abbia assunto la direzione delle indagini, e se il ritardo rende probabile la alterazione, la modificazione o la distruzione dell’oggetto di indagine.
Se del caso sequestrano (art. 354, comma 2 c.p.p.) il corpo del reato e le cose a questo pertinenti. [2]
Se gli accertamenti comportano il prelievo di "materiale biologico" (capelli, unghie, sangue, saliva, urina, ecc.), e manca il consenso dell’interessato, la Polizia Giudiziaria procede al «prelievo coattivo» nel rispetto della dignità personale del soggetto, previa autorizzazione scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, dal Pubblico Ministero (art. 349, 2 bis)[3]
► Garanzie difensive:
Il difensore ha facoltà di assistere senza diritto di essere preventivamente avvisato, trattandosi normalmente di c.d. “atto a sorpresa”, della facoltà di farsi assistere, la stessa Polizia Giudiziaria deve dare notizia all’indagato se presente (art. 114 att.).
La presenza del difensore non è necessaria e, in difetto di nomina, alla Polizia Giuidiziaria non è imposto di designare un difensore di ufficio. Se l’indagato vuole farsi assistere da un difensore, è opportuno, che la Polizia Giudiziaria renda effettivo tale diritto se non vi è pericolo (=timore) nel ritardo o se questo non comporta un serio intralcio all’espletamento dell’atto. L’inizio dell’accertamento può essere, in tali casi, temporaneamente sospeso per consentire l’intervento del difensore.
► Documentazione e trasmissione:
L’attività svolta è documentata mediante "Verbale integrale" (art. 357 comma 2, lett. e) il quale viene redatto contestualmente o immediatamente dopo.
Nel caso in cui abbia proceduto a sequestro, la Polizia Giudiziaria enuncia nel relativo Verbale il motivo del provvedimento e ne consegna copia alla persona alla quale le cose sono state sequestrate (art. 355 c.p.p).
La documentazione è posta a disposizione del Pubblico Ministero (art. 357 comma 4 c.p.p.), previa conservazione di una copia, e se non è intervenuto sequestro (art. 355 comma 1 c.p.p.), va trasmessa senza ritardo.
La documentazione è conservata nel fascicolo delle indagini presso l’ufficio del Pubblico Ministero. Copia di essa è conservata presso gli Uffici di poliiza (art. 115 att. c.p.p.)
I dati dell’accertamento urgente vanno inseriti nel CED-SDI.
Nella maggior parte dei casi l’accertamento urgente è un atto “non ripetibile” (cioè per sua natura non rinnovabile), e, come tale, ha una utilizzabilità piena fuori del dibattimento e anche nel dibattimento.
Nella vasta categoria degli "accertamenti urgenti" rientrano:
Nelle indagini dirette riveste altresì grande importanza il «sopralluogo» cioè quel complesso di operazioni, dirette ad individuare, raccogliere e fissare tutti gli elementi utili alla ricostruzione dell’evento e alla identificazione del colpevole.
[1] Gli accertamenti urgenti hanno caratteristiche varie, e possono avere sia finalità investigative (ad esempio, le ispezione dei luoghi) sia finalità assicurative (ad esempio, il sequestro del corpo di reato); possono consistere in atti tipici (come le ispezioni dei luoghi o delle cose, ovvero il sequestro del corpo del reato o delle cose a questo pertinenti) ovvero atipici (come i rilievi e le operazioni tecniche sullo stato dei luoghi delle cose o delle persone: il rilevamento di impronte, la estrazione di una scheggia dal corpo di un ferito, il prelevamento di sabbia dal demanio marittimo, ecc.).
[2] Il sequestro è previsto obbligatoriamente per gli immobili in cui sono stati rinvenuti armi da sparo, esplosivi o ordigni esplosivi o incendiari, a norma dell’art. 3 della legge 8 agosto 1977, n. 533 sull’ordine pubblico.
[3] Art. 349, 2 bis: inserito dall’art. 10, comma 1, del D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155.
[4]Si tratta di atti tipici disciplinati dagli articoli artt. 354, 355, 365, 253 e segg. c.p.p.
► Modalità operative (modus operandi)
Oltre che in sequestri ed ispezioni (di luoghi e cose), gli accertamenti urgenti previsti dall’art. 354 commi 2 e 3 c.p.p., possono consistere
In tema di accertamenti è utile fare qualche precisazione terminologica, relativamente ai rapporti con i c.d. rilievi. Essi non hanno natura di perizia e mirano a riprodurre su documenti ed a fissare stabilmente aspetti di realtà – esaminati in modo diretto – rilevanti ai fini delle indagini: riguardano la constatazione e raccolta di dati materiali pertinenti al reato e consistono dunque in una attività di semplice «rilevamento» e «conservazione».
Possono essere effettuati con tutti i mezzi a disposizione della scienza e della tecnica, oltre che con la osservazione diretta.
Si distinguono «rilievi descrittivi», «rilievi dattiloscopici» (rilevamento delle impronte digitali), «rilievi antropometrici» (rilevamento delle misure corporee), «rilievi fotografici». I rilievi sono spesso finalizzati all’accertamento dell’identità di un soggetto (rilievi segnaletici).
Per il compimento dei rilievi ci si può avvalere dell’operato degli «ausiliari» di polizia giudiziaria, ex art. 348 c.p.p.
Le ispezioni sono effettuate soprattutto durante le indagini preliminari, ad opera della Polizia giudiziaria (art. 354 co. 3 con la esclusione per essa della sola ispezione personale) e dal P.M., ma talvolta avvengono anche nel corso del dibattimento ad opera del Giudice.
I controlli e le ispezioni che possono riguardare sia i mezzi di trasporto che i bagagli e gli effetti personali, si sostanziano in un’attività di osservazione e percezione diretta, che può essere eseguita tanto da Ufficiali che da Agenti di polizia giudiziaria e che posono progredire (=sconfinare) in vere e proprie perquisizioni (eseguite solo dagli Ufficiali di polizia giudiziaria), quando sia necessario in conseguenza dei risultati cui ha indotto l’originario intervento investigativo.
► A seconda dell’oggetto, si distinguono:
Sulle persone, la Polizia Giudiziaria può peraltro compiere consensualmente o anche coattivamente - ricorrendo i consueti presupposti della necessità e dell’urgenza - accertamenti e rilievi esteriori diversi dalla ispezione personale (poiché il cadavere non è considerato persona, su di esso possono essere eseguiti anche atti di ispezione purché sussistano i presupposti che legittimano l’accertamento urgente).
Non rientrano fra i rilievi esteriori (e pertanto non possono essere compiuti dalla Polizia Giudiziaria) i rilievi che devono essere compiuti su parti del corpo, che non essendo esposte normalmente alla vista altrui, determinano un mancato riguardo all’intimità o al pudore della persona. In questi casi si è in presenza di rilievi invasivi o di rilievi che incidono sulla libertà morale.
Tali rilievi invasivi possono essere effettuati solo dall’Autorità Giudiziaria e la loro effettuazione può avvenire coattivamente, ossia anche in mancanza del consenso dell’interessato esclusivamente nei casi e nei modi previsti dlla legge (Corte Cost. 238/96).
Al prelievo coattivo la Polizia Giudiziaria può procedere solo previa autorizzazione del Pubblico Ministero, che deve essere data per iscritto oppure anche oralmente con successiva conferma scritta.
In tutti i tipi di ispezione, il "difensore" ha sempre e comunque il diritto di assistere all’atto. Ha diritto al "preavviso" per le ispezioni disposte dal Giudice e, tranne i casi di assoluta urgenza, per quelle compiute dal P.M. o, per sua delega, da un Ufficiale di polizia giudiziaria. Non ha, quindi, diritto al preavviso per tutte le ispezioni compiute «di iniziativa» dalla Polizia Giudiziaria, tutte legittimate solo da quella urgenza.
L’ispezione è documentata mediante Verbale. Il Verbale è consegnato all’interessato e inviato al PM entro 48 ore.
La Polizia Giudiziaria può procedere a ispezioni anche in taluni casi espressamente previsti da leggi speciali che, a seconda della finalità, si possono distinguere in:
Hanno per oggetto mezzi di trasporto, bagagli ed effetti personali, che può essere effettuata in ogni luogo da Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria quando si ha il fondato motivo di ritenere che, mediante la ispezione, possano rinvenirsi sostanze stupefacenti o psicotrope. E’ necessario che sia in corso un’operazione di polizia e non si tratti perciò di iniziativa estemporanea del singolo Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria. Valgono le stesse modalità esecutive previste dal codice di rito per le ispezioni di polizia giudiziaria.
Rientarno tra le ispezioni locali, ivi compresa quella domiciliare, che Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria possono compiere per prevenire o reprimere condotte dirette a violare le norme sull’ingresso e la permanenza di stranieri nel territorio di confine e nelle acque territoriali.
E’ necessario che sia in corso un’operazione di polizia (non deve trattarsi perciò di iniziativa estemporanea del singolo Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria) strumentale al contrasto dell’immigrazione clandestina e disposta nell’ambito delle direttive date dal Ministro dell’Interno per il controllo delle frontire e vigilanza marittima e terrestre (art. 11 comma 3 D.lgs. 286/1998) e sussista il fondato motivo, deducibile anche da specifiche circostanze di tempo o di luogo, di ritenere che mezzi di trasporto o cose trasportate possano essere utilizzati per la commissione di reati collegati al favoreggiamento della immigrazione. Valgono le stesse modalità esecutive previste dal codice di rito per le ispezioni di polizia giudiziaria.
Nelle "indagini dirette" riveste grande importanza il «sopralluogo» cioè quel complesso di operazioni, dirette ad individuare, raccogliere e fissare tutti gli elementi utili alla ricostruzione dell’evento e alla identificazione del colpevole.
Il sopralluogo è di competenza del Pubblico Ministero, ma l’Ufficiale di polizia giudiziaria collaborato dall’Agente qualora ritenga che possano alterarsi, disperdersi o modificarsi, le cose, le tracce ed i luoghi o qualora il Pubblico Ministero non possa intervenire tempestivamente, provvede ad effettuarlo personalmente, preavvisando il magistrato e facendo specifico cenno nel Verbale dei motivi per cui ha provveduto ad eseguire il sopralluogo ed effettuare l’eventuale sequestro del corpo del reato o di cose ad esso pertinenti.
Il "Verbale di sopralluogo" è diviso in 5 parti, lo scopo è di dare una chiara rappresentazione dell’ambiente dove si svolse il fatto e di permetterne l’esatta ricostruzione anche a distanza di tempo.
A differenza degli "accertamenti urgenti" che consistono in un’attività di tipo ispettivo, gli «accertamenti tecnici» (art. 348, commi 1 e 4 c.p.p.) sono invece atti assimilabili alle “perizie”, e sono disposti o compiuti per acquisire dati e valutazioni sui fatti, situazioni o materie che richiedono particolari conoscenze scientifiche e tecniche.
La Polizia Giudiziaria non vi può ricorrere quando il compimento di tali atti atipici incide in modo irreversibile sulle scelte del Pubblico Ministero. L’accertamento tecnico è perciò "vietato" alla Polizia Giudiziaria nei casi in cui sia un “accertamento tecnico non ripetibile”.
Quanto alla sua documentazione, ne può essere fatta una semplice “annotazione”. L’atto, previa conservazione di una sua copia, è posto a disposizione del Pubblico Ministero e da questi inserito nel fascicolo delle indagini.
Ha piena utilizzabilità fuori del dibattimento, ma non ha alcuna utilizzabilità diretta nel dibattimento anche se può fornire al Pubblico Ministero lo spunto affinché venga disposta una perizia, per porre domane al perito o ai consulenti tecnici delle parti private, per porre domande o contestare a chi a compiuto l’accertamento tecnico gli esiti dello stesso.
► Agli "accertamenti tecnici" può procedersi anche nel corso di "attività di polizia amministrativa", quando cioè, non esiste ancora una notizia di reato (=notizia i reato in senso tecnico) e non esiste ancora un indagato.
Si applicano le garanzie della difesa previste dal Codice (art. 360) quando gli accertamenti modificano in modo irreversibile la situazione preesistente.
► Peraltro, con riguardo ai «prelievi dei campioni» (art. 223 att.) può dirsi:
[1] Per quanto concerne le modalità da rispettare nell’operazione di campionamento per accertamenti di polizia giudiziaria è opportuno che i Comandi concordino preliminarmente con il Ministero gli adempimenti da osservare.
Le informazioni dell'indagato, così come quelle del potenziale testimone, hanno sempre carattere «sommario», in coerenza con la sommarietà di tutti gli atti delle indagini preliminari, se posta a raffronto con la teorica completezza degli atti di istruzione in sede giurisdizionale.
La Polizia Giudiziaria chiede all'indagato solo "sommarie informazioni", ma non procede ad interrogarlo, perché questo consiste nella contestazione di un reato e dei relativi elementi di accusa. L'interrogatorio è attività del Pubblico Ministero, peraltro da esso delegabile anche alla Polizia Giudiziaria (art. 370 comma 1, modif. dalla Legge 356/1992), e serve a valutare se iniziare l'azione penale di cui egli è titolare (art. 50 e 405).
In particolare, le «sommarie informazioni» (art. 350 c.p.p.) rientrano tra gli atti tipici di investigazione "indiretta" mediante il quale gli Ufficiali di polizia giudiziaria (e non anche gli Agenti) assumono, dalla persona sottoposta alle indagini, delle informazioni utili per le investigazioni (ricostruzione del fatto, individuazione del suo autore e ricerca delle fonti di prova). L’indagato non deve trovarsi però in stato di arresto o di fermo (indagato detenuto).
Prima di procedere, l’indagato deve essere invitato a nominare un difensore di fiducia (art. 350 commi 2 e 3) e a dichiarare o eleggere domicilio; in difetto, verrà designato un difensore di ufficio scelto fra gli elenchi a tal uopo predisposti dal “Consiglio dell’ordine forense” (art. 97 comma 3 c.p.p.).
Prima di assumere le informazioni (c.d. interrogatorio di polizia), l’Ufficiale di polizia giudiziaria deve verificare l’identità personale dell’indagato.
A differenza "dell’interrogatorio delegato", l’assunzione delle sommarie informazioni dalla persona sottoposta alle indagini, non prevede la contestazione all’indagato del fatto che gli è attribuito e le indicazioni degli elementi di prova esistenti a suo carico né lo invitano ad esporre quanto ritiene utile alla propria difesa (art. 65 c.p.p.).
Prima che siano assunte le informazioni, l’indagato è avvisato, dandone atto nel Verbale, che ha la facoltà di non rispondere alle domande diverse da quelle miranti alla sua identificazione (art. 350, commi 1-4) e che, anche se non risponde, il procedimento seguirà comunque il suo corso.
L’atto è documentato mediante Verbale “riassuntivo complesso”. Generalmente viene compiuto durante il compimento delle operazioni, ma può essere compilato immediatamente dopo quando ricorrono insuperabili circostanze che ne impediscono la documentazione contestuale.
La documentazione dell’atto è posta a disposizione del Pubblico Ministero ed a questi trasmessa, previa conservazione di una copia (art. 115 att.), non oltre il terzo giorno dal compimento dell’atto; verrà poi inserito nel fascicolo delle indagini.
Il verbale di sommarie informazioni ha piena utilizzabilità fuori del dibattimento, e un’utilizzabilità limitata nel dibattimento (solo per le contestazioni). Esso non verrà mai inserito nel fascicolo del dibattimento, a meno che l’atto non sia divenuto irripetibile per morte o infermità mentale dell’indagato: in questo caso è consentita la lettura dell’atto ex art. 512 c.p.p.
L’atto è legittimamente compiuto anche senza la presenza del difensore: se compiuto senza l’assistenza del difensore, non può essere né documentato né utilizzato, poiché l’utilizzazione dell’atto stesso è solo investigativa.
Trattasi di dichiarazioni "sollecitate" dalla Polizia Giudiziaria (assunte) nella immediatezza cronologica del fatto, anche in luogo diverso dalla sua commissione (ad esempio in Ufficio), ovvero sul luogo del reato, anche se non nella immediatezza della sua consumazione.
Tali particolari circostanze di luogo o tempo legittimano l'assunzione dell'atto anche in mancanza del difensore ed anche nei confronti di indagati in vinculis.
Se il difensore è presente, si procede a redigere verbale, che è, utilizzabile anche in dibattimento, per le contestazioni al dichiarante. Se il difensore è assente (e quindi l'atto difetta delle garanzie difensive), non può essere redatto verbale, sicché a fortiori, mancando l'atto, le dichiarazioni non sono utilizzabili in dibattimento; tuttavia le notizie e le indicazioni utili acquisite sono utilizzabili ai fini dell'immediata prosecuzione delle indagini, ma non ad altri fini (ad esempio, per le ordinanze cautelari o il rinvio a giudizio).
Bisogna precisare che siano «spontanee» (e cioè non sollecitate da domane) quelle dichiarazioni che non sono precedute da alcuna "contestazione" e, per il loro carattere unilaterale, non costituiscono riposte a domande degli inquirenti.
Le dichiarazioni spontanee, a differenza delle dichiarazioni "assunte", possono essere rese in assenza del difensore ed anche, come le informazioni sollecitate sul luogo o sull'immediatezza del fatto-reato (art. 350 commi 5 e 6), dagli indagati in vinculis.
Il loro carattere di spontaneità induce il legislatore a configurarle come mezzo, liberamente scelto, di «autodifesa», sempre esperibile ex art. 24 comma 2 Cost..
Le dichiarazioni vengono documentate mediante Verbale, e, previa conservazione di una copia, è trasmesso senza ritardo al Pubblico Ministero e da questi conservato nel fascicolo delle indagini.
L’atto ha un’utilizzabilità piena fuori del dibattimento, ma un’utilizzabilità limitata ai soli fini della contestazione nel dibattimento (art. 503 comma 3 e 4), essendo frutto di libera iniziativa difensiva. Esso non passa nel fascicolo del dibattimento, salvi i casi di una sua sopravvenuta irripetibilità per morte o infermità mentale dell’indagato: in tal caso ne è consentita la lettura, ex art. 512 c.p.p.
Le persone c.d. informate sono i testimoni potenziali (cioè diventeranno testimoni al momento dell'escussione in dibattimento), che sono e persone non inquisite, ma in grado di riferire circostanze utili ai fini della ricostruzione del fatto e dell'individuazione del colpevole.
Tali persone rendono sommarie informazioni in fase investigativa e testimonianza in sede di incidente probatorio (art. 392) o di dibattimento (art. 468). Le relative dichiarazioni avvengono sempre in assenza di difensore, poiché provengono da soggetti non inquisiti.
Qui non rileva la differenza tra dichiarazioni spontanee (ricevute) e dichiarazioni assunte (provocate). Il regime è, pertanto, sempre identico in riferimento alla forma di documentazione e alla valenza probatoria dell'atto.
In ordine alla forma, deve essere sempre redatto verbale (e non già sommariamente annotazione), giacchè l'atto ha sempre potenzialità probatoria.
L’art. 351 c.p.p. disciplina le altre sommarie informazioni utili ai fini delle indagini che la Polizia Giudiziaria (Ufficiali ed Agenti) può ricevere (anche rivolgendo domande) dalla persona offesa, dalla persona danneggiata dal reato e da qualunque persona informata sui fatti per cui si procede (c.d. potenziale testimone) indicazioni e notizie utili ai fini delle indagini.
La persona è ha l’obbligo di rispondere secondo verità circa le proprie generalità. Tale obbligo è sancito nell’art. 651 che punisce come contravvenzione il rifiuto di dare al indicazioni sulla propria identità e su altre qualità personali e nell’art. 495 c.p. che punisce come delitto le false dichiarazioni sulla identità e su qualità personali proprie o altrui.
Le persone sentite a norma dell’art. 351 c.p.p. hanno l’obbligo di rispondere (riferire ciò che sanno interno ai fatti sui quali vengono sentite) La loro reticenza e la loro falsità non sono punite in se stesse salvo il fatto che, nelle concrete circostanze, possa configurarsi come reato di favoreggiamento art. 378 c.p.) o di rifiuto di ufficio (art. 652 c.p.) o di calunnia (art. 368 c.p.).
Sono tuttavia previste delle disposizioni che introducono per taluni soggetti delle eccezioni all’obbligo di rendere informazioni (il segreto).
L’atto è documentato mediante Annotazione salvo che la Polizia Giudiziaria non ritenga di procedere a verbalizzazione.
L’atto è documentato mediante Verbale quando le informazioni sono assunte da persone informate sui fatti nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto (artt. 357 comma 2 e 373 comma 5).
Previa conservazione di una copia, è trasmesso senza ritardo al Pubblico Ministero e da questi conservato nel fascicolo delle indagini.
Ha un’utilizzabilità piena prima del giudizio se contiene atti irripetibili: dichiarazioni ad irripetibilità originaria (esempio, teste moribondo) e quelle ad irripetibilità sopravvenuta (es. teste successivamente ucciso); e ha utilizzabilità del giudizio dopo le contestazioni nell’ipotesi di dichiarazioni che il testimone ha reso alla Polizia Giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto (art. 500 comma 4); ha utilizzabilità limitata (per effetto delle contestazioni) in giudizio negli altri casi (art. 500 comma 3).
[1] Sono prossimi congiunti: gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, fratelli, sorelle, gli affini nello stesso grado (genero, nuora, suoceri, cognati salvo che sia morto il coniuge e non vi sia prole), gli zii e i nipoti, chi è legato all’indagato da vincoli di adozione, chi conviva come coniuge con l’indagato, il coniuge separato dell’indagato.
L’art. 351 c.p.p. disciplina le altre sommarie informazioni utili ai fini delle indagini che la Polizia Giudiziaria (U.P.G. e Agenti) può ricevere (anche rivolgendo domande) dalla persona offesa, dalla persona danneggiata dal reato e da qualunque persona informata sui fatti per cui si procede (c.d. potenziale testimone) indicazioni e notizie utili ai fini delle indagini.
Non ne deve essere dato avviso al difensore dell’indagato e l’intervento del difensore non è consentito.
La persona ha l’obbligo di rispondere secondo verità circa le proprie generalità. Tale obbligo è sancito nell’art. 651 che punisce come contravvenzione il rifiuto di dare al indicazioni sulla propria identità e su altre qualità personali e nell’art. 496 c.p. che punisce come delitto le false dichiarazioni sulla identità e su qualità personali proprie o altrui.
Le persone sentite a norma dell’art. 351 c.p.p. hanno l’obbligo di rispondere (riferire ciò che sanno interno ai fatti sui quali vengono sentite) La loro reticenza e la loro falsità non sono punite in se stesse salvo il fatto che, nelle concrete circostanze, possa configurarsi come reato di favoreggiamento art. 378 c.p.) o di rifiuto di ufficio (art. 652 c.p.) o di calunnia (art. 368 c.p.).
Sono tuttavia previste delle disposizioni che introducono per taluni soggetti delle eccezioni all’obbligo di rendere informazioni (il segreto). Ad esempio non possono essere obbligati a deporre:
L’atto è documentato mediante Annotazione salvo che la Polizia Giudiziaria non ritenga di proceder a verbalizzazione.
L’atto è documentato mediante Verbale quando le informazioni sono assunte da persone informate sui fatti nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto (artt. 357 comma 2 e 373 comma 5).
Previa conservazione di una copia, è trasmesso senza ritardo al Pubblico Ministero e da questi conservato nel fascicolo delle indagini.
Ha un’utilizzabilità piena prima del giudizio; e ha utilizzabilità del giudizio dopo le contestazioni nell’ipotesi di dichiarazioni che il testimone ha reso alla Polizia Giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto (art. 500 comma 4); ha utilizzabilità limitata (per effetto delle contestazioni) in giudizio negli altri casi (art. 500 comma 3)..
[1] Sono prossimi congiunti: gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado (genero, nuora, suoceri, cognati salvo che sia morto il coniuge e non vi sia prole), gli zii e i nipoti, chi è legato all’indagato da vincoli di adozione, chi conviva come coniuge con l’indagato, il coniuge separato dell’indagato.
La persona è invitata dalla Polizia Giudiziaria ed ha l’obbligo di presentarsi, ma non può essere disposto il suo accompagnamento coattivo.
Prima che abbia inizio l’atto, la persona è avvisata della facoltà di non rispondere. La persona è assistita da un difensore di fiducia o di ufficio, il quale deve essere tempestivamente avvisato e che ha facoltà, ma non l’obbligo, di assistere all’atto.
L’atto è documentato mediante "verbale riassuntivo complesso" durante il suo compimento, o immediatamente dopo quando ricorrono insuperabili circostanze che ne impediscono la documentazione contestuale.
La documentazione dell’atto è posta a disposizione del Pubblico Ministero ed a questi trasmessa, previa conservazione di una copia, non oltre il terzo giorno dal suo compimento. Il Pubblico Ministero provvede poi ad inserirla nel fascicolo delle indagini.
Il verbale è dotato di una utilizzabilità piena fuori del dibattimento, e di una utilizzabilità limitata nel dibattimento, in quanto non passa nel fascicolo del dibattimento, a meno che sia sopravvenuta una irripetibilità dell’atto per morte o infermità mentale della persona che ha reso le dichiarazioni: in questo caso ne sarà consentita la lettura ex art. 512 c.p.p.
Sulle dichiarazioni rese dalla persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato è però sempre consentita la testimonianza indiretta dell’Ufficiale di polizia giudiziaria che ha redatto il verbale.
Questo specifico atto di investigazione indiretta assume una particolare importanza in quei procedimenti, soprattutto in materia di criminalità organizzata, nei quali assumono un’importanza fondamentale le informazioni portate dai c.d. “pentiti” (o collaboratori di giustizia), che sono coloro che rendono affermazioni e spiegazioni sui fatti che sono attribuibili ai componenti dell’associazione criminosa cui essi stessi appartengono.
Va subito precisato che per «attività informale» si intende quell'attività che pur non essendo espressamente disciplinata dal Codice di rito, non è da questo vietata e anzi rientra nelle regole della buona tecnica di indagine. Più in particolare, si precisa che la Polizia Giudiziaria non può comunque porre in essere attività che, di fatto, precludano in modo irreversibile le future valutazioni processuali del Pubblico Ministero.
Tra le attività informali di indagine, sicuramente, il "pedinamento" e "appostamento" rappresentano le espressioni più frequenti e maggiormente efficaci.
Essi consistono nell’osservazione, l’una dinamica, l’altra statica, volta all’acquisizione di elementi investigativi, in linea di massima, utili a raccordare e completare altre fonti di prova ovvero a predisporre la effettuazione di ulteriori atti di indagine.
Per seguire una persona a piedi va di norma utilizzato personale appiedato che, in zone particolarmente affollate, terrà una distanza più ristretta, avendo più facilità a mimetizzarsi e per no rischiare di perdere il contatto visivo; in luoghi, invece, privi di ostacoli e poco frequentati, potrà e dovrà mantenere il contatto molto più distanziato per evitare di essere notato.
Un soggetto, invece, che si sposta a bordo di un veicolo o di un mezzo nautico dovrà essere seguito da personale automontato o monomontato, considerato che anche questo tipo di pedinamento, per garantire una probabile riuscita, presuppone un alternarsi di mezzi che, con maggiori difficoltà, dovranno consentire il mantenimento del contatto da una posizione il più possibile defilata.
E’ evidente, infine, sottolineare che il pedinamento, proprio per le difficoltà sopra indicate, presuppone una sufficiente esperienza, nonché doti di prontezza di riflessi, spirito di osservazione e determinazione operativa.
Una volta individuata una collocazione che consenta una buona visuale, congiunta ad un adeguato occultamento, l’osservatore non avrà grossi problemi nel condurre il servizio annotando o documentando (con mezzi fotografici o audiovisivi) quanto occorra all’indagine.
La maggior cura va, pertanto, riservata alla scelta del posto di osservazione, che può essere la strada, se particolarmente affollata, un locale , una abitazione privata, un veicolo o mezzo nautico, opportunamente individuati per la loro posizione.
Qualora, nel corso del servizio sia necessario un certo intervento (o per procedere all’arresto, o ad una perquisizione, o identificare una persona), deve essere possibile con gli operatori un perfetto collegamento radio, che deve essere adeguatamente preordinato e provato nella stessa zona, affinché ne sia assicurata l’efficienza e per evitare spiacevoli sorprese.
Sarebbe inutile individuare gli autori dei reati se non fossero consentiti, nei reati più gravi, «atti di assicurazione personale» (ad esempio: arresto in flagranza e fermo di indiziato); sarebbe inutile ricercare le cose e tracce pertinenti il reato se non fossero consentiti «atti di assicurazione reale» (ad esempio: sequestro), volti, cioè alla conservazione di quelle cose o tracce utili per il procedimento.
L’attività di assicurazione consiste nell’acquisire in disponibilità i risultati delle investigazioni precedentemente o contestualmente compiute., affinché possano servire ai futuri sviluppi dell’accertamento penale.
In particolare, l’attività di assicurazione può essere attuata:
L’assicurazione personale è attuata nei casi più semplici, attraverso l’acquisizione degli elementi necessari per poterne avere la disponibilità (ad esempio, attraverso una precisa individuazione e conoscenza delle generalità e della residenza del soggetto), e, nei casi più gravi anche attraverso la limitazione della libertà personale mediante l’adozione di “misure pre-cautelari“ o “provvisorie di coercizione personale” quali l’arresto in flagranza o il fermo di indiziato di delitto.
L’assicurazione delle cose e tracce pertinenti al reato è attuata, se possibile, attraverso il loro "impossessamento" e la loro "custodia".
Si tratta sostanzialmente di “misure coercitive reali”, che, come quelle personali, hanno carattere provvisorio o precario e consistono in una generica attività di conservazione dello stato delle cose ovvero nel loro sequestro.
Laddove possibile, l’assicurazione delle cose e delle tracce pertinenti al reato avviene mediante l’impossessamento e custodia intesi in senso materiale.
In molte circostanze tale attività è difficilmente praticabile. Si pensi ai casi in cui i fatti o gli avvenimenti ovvero le qualità ed i modi di essere delle cose sono destinati a svanire.
In questi casi l’assicurazione avviene mediante «documentazione» (descrittiva: verbali, annotazioni; riproduttiva: rilievi, calchi, disegni, documentazione cinematografica).
L’assicurazione reale è attuata mediante l’impossessamento e la custodia delle cose o delle tracce pertinenti il reato (sequestro).
Le misure personali e quelle reali hanno in comune la finalità cautelare, consistente nella tutela di valori processuali o extraprocessuali, cioè di difesa sociale.
► Il criterio differenziale tra i due tipi di misura risiede nel loro oggetto:
A seconda della finalità dell'atto si distinguono:
Le tre tipologie rappresentano misure dirette a garantire al procedimento la disponibilità di un bene e ad evitarne la possibile manomissione.
► Il sequestro penale o probatorio (artt. 253, 354 e 355 c.p.p.)
Atto tipico di assicurazione mediante il quale la Polizia Giudiziaria, ricorrendo situazioni di necessità e urgenza, sottrae alla disponibilità dell’avente diritto e assoggetta a custodia una cosa mobile o immobile che rappresenta corpo del reato o cosa pertinente al reato necessario per l’accertamento dei fatti (finalità probatoria).
Il sequestro penale è quindi preordinato alla ricerca di mezzi di prova e ha finalità prevalentemente probatoria, in coerenza con la fondamentale funzione di assicurazione delle fonti di prova assegnate alle attività di polizia giudiziaria (art. 348 c.p.p.).
► Il sequestro preventivo (artt. 321-323 c.p.p.)
Ha finalità cautelare intesa come prevenzione e tutela della collettività da altri reati. Esso impedisce infatti che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato, possa aggravarne o protrarne le conseguenze ovvero agevolare la commissione di altri reati (finalità cautelare).
Il sequestro preventivo è disposto dal Giudice (nel corso delle indagini preliminari, dal GIP), su richiesta del Pubblico Ministero e in caso di urgenza motivata, dal P.M. (con decreto motivato) o un Ufficiale di P.G. (e NON anche un Agente) se il P.M. non ha ancora assunto la direzione delle indagini.
Trattasi di misura cautelare reale di indole penale solo eccezionalmente spettante alla polizia Giudiziaria (art. 321 c.p.p.).
Valgono le disposizioni del sequestro penale. Nel caso il sequestro venisse effettuato da un Ufficiale di P.G. di propria iniziativa, deve trasmettere il verbale entro le successive 48 ore al P.M. competente: se questi non dispone la restituzione delle cose sequestrate, deve richiedere entro le successive 48 ore la convalida del sequestro al Giudice.
Il sequestro disposto dal P.M. o effettuato d’iniziativa dalla P.G., perde di efficacia se non sono osservati i termini suindicati oppure se il Giudice non emette l’ordinanza di convalida entro 10 giorni dalla ricezione della richiesta.
► Il sequestro conservativo (artt. 316-320 c.p.p.)
Esso ha finalità di acquisizione-conservazione del patrimonio dell'imputato o anche del responsabile civile. Assicura cioè al procedimento alcuni beni perché con essi sia garantito il pagamento delle spese di giustizia ed il mentenimento del condannato in carcere nonché delle somme dovute al danneggiato (finalità cautelare), la rifusione delle spese ed onorari dovuti al difensore.
Trattasi di misura cautelare reale di natura civilistica e non già penale, volta al futuro soddisfacimento di pretese civili dell'Erario o della parte civile mai spettante alla Polizia Giudiziaria (art. 316 c.p.p.).
Il sequestro conservativo è disposto dal Giudice, su richiesta del Pubblico Ministero, quando vi è fondato motivo di ritenere che:
Per «corpo di reato» si intendono, secondo il Codice di rito (art. 253 comma 2: che recepisce la formulazione dell'art. 240 c.p. in materia di confisca):
Nella nozione di corpo di reato sono state fatte rientrare la banconota - di cui era stato annotato il numero di serie - utilizzata per l'acquisto simulato di droga e l'autovettura di cui l'imputato si era servito per il trasporto della droga.
Il Codice di rito non definisce invece, le «cose pertinenti al reato» tra le quali possono rientrare i mezzi che servirono per preparare il reato (le impronte delle chiavi per commettere il furto), le tracce lasciate dal reato (segni di scasso), ogni altra cosa che abbia subito le conseguenze immediate del reato (mobili, mezzi, immobili con segni di sparo, di urto, di incendio).
In via di approssimazione, può dirsi che sono cose pertinenti al reato quelle che servono, anche indirettamente, ad accertare la consumazione dell'illecito, le sue circostanze e il suo autore.
Per le modalità esecutive, bisogna distinguere fra “cosa mobile” e “immobile”.
► Il Verbale di sequestro deve, comunque, contenere i seguenti elementi:
[1] Il sigillo è lo strumento simbolico attraverso cui si manifesta la volontà dello Stato diretta ad assicurare beni mobili o immobili contro ogni atto di disposizione o di manomissione.
[2] La Cassazione penale Sez. VI, 8/7/1999, n. 2668. ha stabilito che la mancata consegna all’interessato del decreto di sequestro disposto dall’A.G., ovvero quando al sequestro provveda la polizia giudiziaria, della copia del verbale di sequestro o del decreto motivato di convalida, non costituisce causa di nullità del provvedimento, mancando l’espressa previsione di tale causa di invalidità ed essendo garantito il diritto di difesa, dalla facoltà dell’interessato di produrre richieste di riesame entro 10 giorni dalla data in cui è venuto a conoscenza dell’atto.
[3] Secondo alcune sentenze, il sequestro perde efficacia se non è trasmesso al P.M. entro il termine di 48 ore (Cassa. 20/10/1995, Lo Noce); secondo altre, la perdita di efficacia consegue solo alla mancata convalida entro il complessivo termine di 96 ore dal sequestro (Cassa. 11/10/1995, Papa).
► Nel corso delle indagini:
Per le modalità esecutive, bisogna distinguere fra “cosa mobile” e “immobile”.
► Il Verbale di sequestro deve, comunque, contenere i seguenti elementi:
Se il sequestro è disposto dal P.M. o dalla Polizia Giudiziaria, esso va convalidato. In particolare:
[1] Il sigillo è lo strumento simbolico attraverso cui si manifesta la volontà dello Stato diretta ad assicurare beni mobili o immobili contro ogni atto di disposizione o di manomissione.
[2] La Cassazione penale Sez. VI, 8/7/1999, n. 2668. ha stabilito che la mancata consegna all’interessato del decreto di sequestro disposto dall’A.G., ovvero quando al sequestro provveda la polizia giudiziaria, della copia del verbale di sequestro o del decreto motivato di convalida, non costituisce causa di nullità del provvedimento, mancando l’espressa previsione di tale causa di invalidità ed essendo garantito il diritto di difesa, dalla facoltà dell’interessato di produrre richieste di riesame entro 10 giorni dalla data in cui è venuto a conoscenza dell’atto.
[3] Secondo alcune sentenze, il sequestro perde efficacia se non è trasmesso al P.M. entro il termine di 48 ore (Cassa. 20/10/1995, Lo Noce); secondo altre, la perdita di efficacia consegue solo alla mancata convalida entro il complessivo termine di 96 ore dal sequestro (Cassa. 11/10/1995, Papa).
L’Autorità che effettua il sequestro di stupefacenti o sostanze psicotrope deve darne immediata notizia alla «Direzione Centrale Antidroga» specificando l’entità e il tipo di sostanze sequestrate.
Quando il decreto di sequestro o di convalida non è più assoggettabile "a riesame", l’Autorità giudiziaria ordina la distruzione delle sostanze (salvo che non siano indispensabili per le indagini).
Gli artt. 100 e 101 T.U. 309/1990 dettano particolari disposizioni relative alla destinazione dei beni sequestrati o confiscati a seguito di operazioni antidroga e alla destinazione dei valori confiscati a seguito di tali operazioni, prevedendo che quei beni e quelle cose possano essere utilizzati per l’attività di contrasto dei delitti previsti dalla legge sugli stupefacenti.
L’attività esecutiva consiste nell’assicurare l’effettiva attuazione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria (Giudice o Pubblico Ministero).
- provvedere alla citazione orale della persona offesa e dei testimoni;
- dare avviso al difensore di fiducia o, in mancanza, a quello d’ufficio designato;
- condurre l’arrestato davanti al pretore del dibattimento per la convalida e il contestuale giudizio direttissimo.
La notificazione è l’atto formale mediante il quale, un atto del Giudice, del Pubblico Ministero o di una parte privata, viene portato a conoscenza legale di una persona.
Il Codice ha attribuito anche alla Polizia Giudiziaria oltre che all’Ufficiale giudiziario, la "funzione di notificazione" degli atti del procedimento. Alla notificazione possono procedere sia gli Ufficiali che gli Agenti di polizia giudiziaria.
► Le forme di "notificazione" sono:
Quando si procede alla notificazione secondo la forma normale, la polizia giudiziaria scrive, in calce all’originale dell’atto e alla copia notificata, la «relazione di notifica». Essa indica:
La relazione di notifica è sottoscritta da chi procede all’atto. Non è prevista la sottoscrizione della persona alla quale l’atto è stato notificato salvo che la notificazione sia avvenuta mediante consegna dell’atto stesso al portiere o chi ne fa le veci.
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
1. consegnandone copia integrale nelle mani del destinatario;
ovvero
b) presso la sua abitazione sita in ______________ provvedendo, per la momentanea assenza dell’interessato, alla consegna di copia a ______________________________ (generalità della persona che riceve l’atto indicando i suoi rapporti con il destinatario) che con il destinatario convive (temporaneamente/stabilmente) e che è persona idonea in quanto non
Firma della persona a cui viene consegnato [2] ________________________
Firma dell’Ufficiale/Agente di PG operante ________________________
[1] Se si tratta di atto di notificazione diretto all’imputato o l’indagato, dare atto che la consegna avviene in un plico chiuso e che la relazione di notificazione è iscritta all’esterno del plico stesso.
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Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Oggetto: Relazione di notificazione in plico chiuso [1].
Il sottoscritto _____________ Ufficiale/Agente di PG _______________(Cognome, nome e qualifica) in servizio presso ______________ (Ufficio, reparto o ente) il giorno ___________ del mese ___________ alle ore ______ su richiesta del ___________________________ (A.G. mandante) ha notificato copia integrale dell’atto di _________________________ diretto a _________________________ (generalità del destinatario e indirizzo), mediante consegna in plico chiuso, all’esterno del quale ha redatto la relazione di notificazione, a mani del Sig. _____________________________ qualificatosi per il portiere del destinatario e di persone capaci e conviventi.
Firma del portiere o chi ne fa le veci ___________________
Firma dell’Ufficiale/Agente di PG operante ___________________
[1] Dell’avvenuta notifica va poi data notizia al destinatario dell’atto a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
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Il modello accusatorio astratto contempla la presunzione di non colpevolezza dell’inquisito (art. 27. comma 2 Cost.), sicché prima della sentenza irrevocabile di condanna dovrebbero essere inammissibili meccanismi limitativi o privativi della libertà personale dell’inquisito, innocente in forza di legge.
II modelli accusatori positivi, tuttavia, in varia misura, consentono la limitazione anticipata dello stato di libertà, con misure cautelari, per:
Tali esigenze sono recepite dal nostro Codice, anche in virtù delle sue tracce di inquisitorietà. L'esercizio del potere cautelare non è però senza limiti.
Le misure cautelari possono essere raggruppate in «misure coercitive», che sono, in vario modo, privative o limitative della libertà di locomozione, ed in «misure interdittive», che si limitano ad intaccare talune facoltà giuridiche o diritti, ma non incidono sulla libertà dell’individuo.
Come quelle personali, anche le misure cautelari reali (sequestro preventivo e sequestro conservativo) hanno natura solo giurisdizionale.
Nelle indagini preliminari la Polizia Giudiziaria e il Pubblico Ministero possono limitare la libertà personale dell'indagato: la Polizia Giudiziaria con «l'arresto e il fermo di indiziato di delitto», il Pubblico Ministero con «il fermo di indiziato di delitto» (essendo quanto meno dubbio il suo potere di arresto in flagranza).
L’arresto in flagranza e il fermo di indiziato di delitto, in quanto "provvedimenti provvisori" (=misure pre-cautelari) limitativi della libertà personale adottati da Organi non giurisdizionali (P.M. e P.G.), sottostanno al dettato dell'art. 13, comma 3 Cost., per cui:
Entrambe le misure di polizia giudiziaria, quindi, mirano a realizzare una funzione anticipatrice delle corrispondenti misure cautelari custodiali riservate poi al Giudice, ed hanno, quindi, rispetto ad esse, un ruolo "pre-cautelare", anche cronologicamente.
Per il "fermo di indiziato di delitto" l’esigenza cautelare è espressamente proclamata, essendo previsto il «pericolo di fuga».
Per "l’arresto", non viene, in verità, richiamato alcuno dei tre parametri cautelari. Le ipotesi di «arresto obbligatorio» sono ricollegate solo alla gravità del titolo del reato; quelle di «arresto facoltativo» ad altri parametri (gravità del fatto e pericolosità del soggetto). Tuttavia è da ritenere che tali parametri siano tutti presuntivi della sussistenza di esigenze cautelari. Conferma se ne trae dalla previsione dell’obbligo del Pubblico Ministero di rimettere in libertà l’arrestato e il fermato quando non ravvisi esigenze cautelari (art. 121 disp. att.). D’altra parte, il fermo e l’arresto, aventi durata massima di 96 ore, possono essere tramutati in misure cautelari personali, solo se sussistono esigenze, appunto, cautelari (art.391 c.5).
L’arresto in flagranza viene distinto in «obbligatorio» e «facoltativo»; all’arresto però possono procedere soltanto gli Ufficiali e gli Agenti di polizia giudiziaria (il P.M. solo nel caso di reato commesso in udienza).
Gli Ufficiali o gli Agenti di polizia giudiziaria hanno il dovere di arrestare chi è colto nella flagranza dei reati elencati nell'art. 380 c.p.p. ed hanno la facoltà (rectius: il potere discrezionale) di arrestare chi è colto nella flagranza dei reati elencati nell'art. 381 commi 1 e 2 c.p.p.
L'arresto discrezionale deve essere giustificato «dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto» (art. 381 comma 4 c.p.p.)
- gravità del fatto (luogo, causali, danno provocato, mezzi utilizzati, modalità dell’azione);
- pericolosità del soggetto (precedenti penali, condotta successiva al reato, condotta di vita individuale).
L'arresto è la restrizione della libertà personale che Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria dispongono a carico di chi è colto nella flagranza di un reato, cioè di chi «viene colto nell'atto di commettere il reato» (c.d. flagranza propria) oppure «subito dopo il reato, è inseguito dalla Polizia Giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone, o in alternativa, è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima» (c.d. flagranza impropria o indiziaria o quasi-flagranza).
Nel rearto permanete lo stato di flagranza dura fino a quando la permanenza non è cessata (art. 382 c.p.p.).
Al fine di agevolare il compito del personale del Corpo della Capitaneria di Porto-Guardia Costiera, in questa sede è però opportuno esemplificare quanto prevede sul punto la normativa vigente con riferimento a taluni reati che ricorrono con maggiore frequenza.
► Attenzione !
L’arresto è facoltativo per il reato di resistenza, nonché per qualunque ipotesi di violenza o minaccia.
La fattispecie della “resistenza” non va però confusa con la cosiddetta “resistenza passiva” (art. 350 c.p.).
Singolare nel nostro sistema processuale è l’obbligatorietà per la Polizia Giudiziaria di procedere, in determinate ipotesi, all’arresto, mentre il Giudice ha sempre discrezionalità nella emissione iniziale, nelle stesse ipotesi, della corrispondente misura cautelare custodiale, sicché l’indagato che riesca a sfuggire all’esecuzione dell’arresto obbligatorio di polizia giudiziaria può anche non essere assoggettato dal Giudice alla analoga misura giurisdizionale. L’apparente contraddizione è spiegata dalla normale immediatezza di intervento della P.G. rispetto al fatto-reato, che giustificherebbe in ogni caso la immediata e drastica reazione pre-cautelare e, quindi l’automatico arresto in flagranza.
► Presupposti dell’arresto obbligatorio, tutti relativi al reato commesso, sono:
La gravità del delitto, a sua volta, è desumibile, in alternativa, da:
► Differimento dell’arresto
In caso di traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, il Pubblico Ministero può, se necessario per le indagini, autorizzare la Polizia Giudiziaria a ritardare l’esecuzione dell’arresto (art. 98 T.U. 9.10.1990, n.309). Altrettanto il Pubblico Ministero può disporre in materia di sequestro di persona a scopo di estorsione (art.7 comma 3 D.L.15.1.1991, n. 8 conv. in L.82/91), così evitando che l’immediata obbligatoria esecuzione dell’arresto comprometta altri interessi, quali esigenze investigative (ad esempio: un proficuo pedinamento di un corriere di droga).
[1] Art. 380 comma 2 c.p.p.: delitti contro la personalità dello Stato; devastazione o saccheggio; contro l’incolumità pubblica; riduzione in schiavitù; furto aggravato; rapina; fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita… di armi da guerra e esplosivi; delitti concernenti qualsiasi tipo di sostanze stupefacenti o psicotrope (salvo fatto qualificabile come di lieve entità); con finalità di terrorismo o di eversione, ecc.
► Tale gravità, a sua volta, è desumibile, anche qui da:
Per le sostanze stupefacenti, l’arresto in flagranza è vietato solo quando si tratta di detenzione per uso personale. Negli altri casi, l’arresto è obbligatorio, salvo il fatto sia di lieve entità, in questo caso l’arresto è facoltativo. Nel caso di detenzione per uso personale sono previste semplici sanzioni amministrative.
Facoltatività dell’arresto non significa né arbitrarietà di decisione, né discrezionalità illimitata. Infatti, l’Ufficiale o Agente di P.G., deve attenersi a due parametri, incentrati sull’autore del reato e sul fatto-reato:
L’arresto è eseguibile anche se sussiste uno solo dei due parametri e, in ordine al parametro soggettivo, basta la valutazione negativa anche di uno solo dei due profili che lo accompagnano (criterio della alternatività).
Ai sensi dell’art. 381, comma 4 bis (introdotto dalla Legge 332/1995), non è consentito l’arresto della persona richiesta di fornire informazioni alla Polizia Giudiziaria o al Pubblico Ministero per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle.
Il divieto opera non solo per il delitto di cui all’art. 371 bis c.p. (false informazioni al P.M.), ma anche per i reati diversi, come ad esempio, la calunnia (art. 368 c.p.) ed il favoreggiamento personale (art. 378 c.p.).
L’istituto del fermo di Polizia Giudiziaria è, come l’arresto, una "misura precautelare", privativa della libertà personale. Entrambi hanno una efficacia temporale massima limitata alle 96 ore e possono essere convertiti dal Giudice in una "misura cautelare giurisdizionale", se persistono esigenze cautelari.
Il fermo di indiziato di delitto, qualora ne ricorrono i presupposti, è sempre obbligatorio. Però, qui, l’obbligatorietà ha una ratio diversa da quella sottesa all’arresto obbligatorio. Invero, essa non consegue automaticamente al fatto reato, ma alla condotta dell’indiziato integrante il «pericolo di fuga». Tale pericolo corrisponde alla analoga esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma 1, lett. b, che giustifica l’adozione da parte del Giudice di una misura cautelare personale, che, peraltro, in quest’ultimo caso, può avere anche carattere diverso dalla restrizione in carcere.
Nella sua forma tipica (art. 384) i suoi presupposti sono:
Il fermo differisce dall’arresto perché:
Legittimati al fermo sono:
Il fermo è quindi un provvedimento limitativo della libertà personale che il Pubblico Ministero dispone nei confronti di chi, non sorpreso in flagranza di un reato, risulta gravemente indiziato di un delitto per il quale la legge stabilisce l'ergastolo o la reclusione superiore nel massimo a 6 anni e non inferiore nel minimo a 2 anni, ovvero di un delitto concernente le armi da guerra e gli esplosivi o commesso per finalità di terrorismo anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico. tale provvedimento può essere disposto allorché «specifici elementi...anche in relazione alla impossibilità di identificare l'indiziato», fanno ritenere fondato il pericolo di una sua fuga (art. 384 comma 1, c.p.p.).
Gli Ufficiali e gli Agenti di polizia giudiziaria possono operare il fermo prima che il Pubblico Ministero abbia assunto la direzione delle indagini se ricorrono i presupposti sopra indicati oppure, dopo che il Pubblico Ministero ha assunto la direzione delle indagini, se «sia successivamente individuato l'indiziato ovvero, sopravvengono specifici elementi, quali il possesso di documenti falsi che rendano fondato il pericolo che l'indiziato sia per darsi alla fuga e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del Pubblico Ministero» (art. 384 commi 2 e 3 c.p.p.).
Il fermo è vietato allorché il soggetto abbia agito in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità (art. 385 c.p.p.).
Allorché il provvedimento di fermo venga adottato con decreto del P.M., se esso rimane ineseguito per la tempestiva fuga dell’indiziato, perde automaticamente efficacia; sicché il P.M. per la cattura dell’indagato dovrà avanzare ordinaria richiesta di misura cautelare (art. 272 e ss.) al Giudice.
Sotto la rubrica «Doveri della polizia giudiziaria in caso di arresto o di fermo» l’art. 386 del c.p.p. prevede una serie di attività che la Polizia Giudiziaria deve compiere, così sintetizzate:
Agli adempimenti materiali conseguenti all’arresto o al fermo (si pensi a quelli relativi agli avvisi, alla traduzione in istituto di custodia, alla trasmissione dei verbali), possono provvedere anche Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria diversi da quelli che hanno eseguito la misura (art. 120 att.).
L’inadempimento dell’obbligo di comunicazione da parte della Polizia Giudiziaria può concretare – a carico di questa – il reato di omissione di atti di ufficio (art. 328 c.p.) (Cassazione 18/10/1996).
[1] L’arresto o il fermo diviene inefficace se non è osservato il termine («al più presto e comunque non oltre 24 ore») entro il quale l’arrestato o il fermato deve essere posto a disposizione del Pubblico Ministero (art. 386, comma 3 c.p.p.).
L’inosservanza del termine produce il diritto dell’arrestato o del fermato alla immediata liberazione a opera della stessa Polizia Giudiziaria (art. 389 comma 2), del Pubblico Ministero (art. 389, comma 1 c.p.p.) o del G.I.P. (art. 391, comma 4 c.p.p.).
L’arresto o il fermo diviene inefficace (e l’arrestato o il fermato ha diritto alla immediata liberazione) anche nel caso in cui la Polizia Giudiziaria non osserva il termine entro il quale deve trasmettere al Pubblico Ministero il relativo Verbale (art. 386, commi 3 e 7 c.p.p.). Il P.M. può peraltro dilazionare la trasmissione del Verbale (può essere disposta anche oralmente).
L’obbligo per la Polizia Giudiziaria di dare immediata notizia dell’esecuzione dell’arresto o del fermo (art. 386, comma 1 c.p.p.) al Pubblico Ministero e quello di mettere a sua disposizione (art. 386 comma 3 c.p.p.) l’arrestato o il fermato «al più presto e comunque non oltre 24» fà si che il Pubblico Ministero possa intervenire personalmente e sollecitamente.
La messa a disposizione avviene mediante la «conduzione in carcere» dell’arrestato o del fermato (art. 386 comma 4 c.p.p.), fatte eccezione per talune ipotesi di Giudizio direttissimo.
L’obbligo di condurre in carcere l’arrestato o il fermato può essere derogato solo quando lo dispone il Pubblico Ministero per “esigenze cautelari” o “di indagine”.
La legge processuale penale minorile tutela la personalità del minore anche restringendo i casi in cui la libertà personale può essere assoggettata a limitazioni.
Premesso che nella determinazione della pena ai fini dell'applicazione di tali restrizioni si deve tener conto, oltreché dei criteri indicati dall'art. 278 c.p.p., della diminuente dell'età (art. 1, comma 5, cui fa rinvio l'art. 18-bis comma 5 c.p.p.), gli Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria possono sottoporre il minore ad arresto in flagranza e ad accompagnamento presso i propri uffici; inoltre gli stessi e il Pubblico Ministero possono sottoporre il minore a fermo.
L'arresto in flagranza non è mai obbligatorio, ma rimesso alla «discrezionalità» degli Organi di polizia, avuto riguardo alla gravità del fatto, all'età e alla personalità del minore (art. 16 comma 3 c.p.p.), allorché questi sia colto in flagranza di un delitto non colposo punito con l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a 9 anni ovvero di uno dei delitti, consumato o tentati, previsti dall'art. 380 comma 2 lett. e, f, g e h c.p.p., nonché del delitto di violenza carnale (art. 16 comma 1, tramite rinvio all'art. 23 comma 1 c.p.p.).
I suddetti Ufficiali e Agenti, sempre avuto riguardo alla gravità del fatto, all'età e alla personalità del minore, possono, quando lo colgano in flagranza di un delitto non colposo punito con l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, accompagnarlo nei propri uffici e trattenerlo sino ad un massimo di 12 ore al fine di consegnarlo all'esercente la potestà dei genitori o all'eventuale affidatario o ad altra persona incaricata da costoro (art. 18-bis comma 1 c.p.p.).
Infine tanto gli Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria quanto il Pubblico Ministero possono operare il fermo del minore indiziato di un delitto per cui è consentito l'arresto in flagranza, sempreché, trattandosi di reato punito con la reclusione, questa non sia inferiore nel minimo a 2 anni (art. 17 c.p.p.).
Al fine di adottare i provvedimenti di sua competenza appena indicati, il Pubblico Ministero può disporre che il minorenne sia condotto davanti a sé.
Qualunque sia il provvedimento adottato dal Pubblico Ministero, a questo segue la richiesta di convalida e l’udienza relativa davanti al Giudice per le indagini preliminari (artt. 390 e 391).
La richiesta e l’udienza devono intervenire, rispettivamente, entro 48 ore dall’arresto o dal fermo ed entro le 48 ore dal momento in cui il minorenne è posto a disposizione del G.I.P.
Quando non si procede all’arresto o fermo di un minorenne, ma all’accompagnamento a seguito di flagranza (e cioè all’adozione della misura attenuata pre-cautelare di cui all’art. 18-bis D.P.R. 488/1988) gli Ufficiali e gli Agenti di Polizia Giudiziaria:
Il Pubblico Ministero appena ricevuta la notizia dell’accompagnamento a seguito di flagranza può disporre che il minorenne sia:
Al fine di adottare i provvedimenti di sua competenza appena indicati, il Pubblico Ministero può disporre che il minorenne sia condotto davanti a sé.
Qualunque sia il provvedimento adottato dal Pubblico Ministero, a questo segue la richiesta di convalida e l’udienza relativa davanti al Giudice per le indagini preliminari (artt. 390 e 391).
La richiesta e l’udienza devono intervenire, rispettivamente, entro 48 ore dall’accompagnamento ed entro le 48 ore dal momento in cui il minorenne è posto a disposizione del G.I.P.
Con la messa a disposizione del P.M. e la traduzione in carcere dell’arrestato o del fermato, cessano le attività della Polizia Giudiziaria relative all’arresto e al fermo.
Appare tuttavia opportuno accennare, sia pur sommariamente, al "procedimento di convalida" di tali provvedimenti, che sono in sostanza sottoposti ad un "doppio vaglio giurisdizionale", da parte del P.M. e del Giudice delle indagini preliminari (G.I.P.).
L’udienza di convalida (art. 391 c.p.p.) innanzi al G.I.P., si svolge in camera di consiglio nel contraddittorio fra accusa e difesa; è personalmente sentito anche l’arrestato o il fermato se questi non rifiuta di comparire.
All’udienza, essendo in gioco la libertà dell’inquisito, è obbligatoria la presenza effettiva del suo difensore che deve essere preavvisato, ma è facoltativa quella del P.M., che avrà fatto pervenire per iscritto le sue conclusioni sulla convalida ed eventualmente la richiesta di misura cautelare (art. 24 D.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 che ha modificato in tal senso l’art. 391, comma 3).
All’esito dell’udienza il G.I.P. decide con ordinanza, ricorribile solo per cassazione (art. 391 comma 4), con la quale, in alternativa:
Il G.I.P. (o il Giudice dibattimentale in caso di giudizio direttissimo) deve verificare tutti i presupposti dell’arresto (flagranza, titolo di reato, osservanza dei termini, gravità del fatto e pericolosità del soggetto) o de fermo (gravità degli indizi, titolo del reato, osservanza dei termini e fondato pericolo di fuga).
L’udienza di convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del difensore dell’arrestato o del fermato
La liberazione può essere disposta:
Gli Ufficiali o gli Agenti di polizia giudiziaria che hanno eseguito l’arresto in flagranza o che hanno avuto in consegna l’arrestato, lo conducono direttamente davanti al "Giudice del Giudizio direttissimo" (del dibattimento)[1] per la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio, sulla base dell’imputazione formulata dal Pubblico Ministero.
In tal caso citano anche oralmente, la persona offesa e i testimoni e avvisano il difensore di fiducia o, in mancanza quello designato d’ufficio (art. 97 comma 3 c.p.p.).
Quando il Giudice non tiene udienza, gli Ufficiali o gli Agenti di P.G. che hanno eseguito l’arresto o che hanno avuto in consegna l’arrestato, gliene danno immediata notizia e presentano l’arrestato all’udienza che il Giudice fissa entro 48 ore dall’arresto.
Il Giudice al quale viene presentato l’arrestato autorizza l’Ufficiale o l’Agente di PG ad una «relazione orale» e quindi sente l’arrestato per la convalida dell’arresto.
Se il Pubblico Ministero ordina che l’arrestato in flagranza sia posto a sua disposizione, lo può presentare direttamente all’udienza, in stato di arresto, per la convalida e il contestuale giudizio, entro 48 ore dall’arresto. Se il Giudice non tiene udienza, la fissa, a richiesta del Pubblico Ministero, al più presto e comunque entro le successive 48 ore.
Se l’arresto non è convalidato, il Giudice restituisce gli atti al Pubblico Ministero. Il Giudice procede tuttavia a giudizio direttissimo quando l’imputato e il Pubblico Ministero vi consentono. Se l’arresto è convalidato, si procede immediatamente al giudizio.
L’imputato ha facoltà di chiedere un termine per preparare la difesa, non superiore a 5 giorni. Quando l’imputato si avvale di tale facoltà, il dibattimento è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine
Subito dopo l’udienza di convalida, l’imputato può formulare richiesta di giudizio abbreviato ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti. In tal caso se vi è il consenso del P.M., il giudizio si svolge davanti allo stesso Giudice del dibattimento.
[1] Tribunale ordinario o Corte d'Assise o Tribunale per i minorenni
Le "misure cautelari personali" costituiscono in limitazioni di libertà personale (fisica) o della sfera giuridica dell’individuo, disposte da un Giudice per finalità di cautela processuale anche nella fase investigativa.
In coerenza al modello accusatorio, la capacità di incidenza del P.M. e della Polizia Giudiziaria sulla sfera giuridica dell’indagato è ristretta se rapportata all’ampia gamma di misure cautelari, che fanno capo al Giudice.
Alla funzione inquirenrte (P.M. e P.G.) sono consentite solo le misure privative della libertà personale (anticipatorie dell’intervento del Giudice) e, quindi, di tipo pre-cautelare: fermo ed arresto. Spetta al Giudice provvedere, in via ordinaria, ad assicurare l’esigenze cautelari appunto come misure cautelari giurisdizionali.
Le "misure coercitive", incidendo sulla libertà fisica o di locomozione spaziale dell’indagato, sopprimendola, limitandola o semplicemente condizionandola, evitano che lo stato di piena libertà dell’imputato possa renderne probabile la fuga ovvero possa mettere in pericolo la prova (inquinarla) o la tranquillità sociale (commettere altri delitti).
► Le misure coercitive sono:
Le "misure interdittive" impediscono all’imputato l’esercizio di potestà o di attività (ufficio o professione) direttamente collegate alla commissione del reato stesso.
Esse mirano ad evitare il verificarsi degli ulteriori effetti dannosi che potrebbero conseguire se l’imputato continuasse nell’esercizio della potestà e delle attività che hanno fornito l’occasione per il compimento del primo reato.
► Le misure interdittive sono:
La forma di documentazione dell’attività di polizia giudiziaria dipende dal potenziale valore probatorio degli atti e, quindi, dal loro grado di utilizzazione nelle fasi anche processuali (es. dibattimento).
La forma può essere «scritta» o «non scritta». Quest’ultima può essere "orale" o di "altro tipo" (ad esempio: registrazione magnetica, audiovisiva). Quella scritta, di gran lunga la più importante, e consiste in: Annotazioni e Verbali
Il tema della documentazione degli atti di polizia giudiziaria è disciplinato dall’art. 357 c.p.p., ove si distinguono gli adempimenti per i quali viene redatto verbale da quelli per i quali si procede soltanto ad annotazione informale
E’ il modo ordinario di documentazione dell’attività a iniziativa della Polizia Giudiziaria diversa da quella consistente in atti utilizzabili in giudizio (dibattimento) o comunque garantiti (presenza difensore).
In ordine al contenuto, trattasi di attività direttamente compiute dal Pubblico Ufficiale, di risultanze acclarate e di informazioni apprese presso terzi. Sono appunti sommari, non utilizzabili in dibattimento per contestazioni ai terzi, non avendo costoro partecipato alla compilazione della annotazione, che è atto esclusivo e segreto del Pubblico Ufficiale.
Il contenuto minimo dell’annotazione è fissato dall’art. 115 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. in base al quale tutti i tipi di annotazione devono necessariamente contenere:
E’ bene precisare che, non definendo il Codice di rito cosa debba formalmente intendersi per annotazione di p.g. (art. 357 c.p.p.), nella prassi operativa anche la semplice predisposizione di un rapporto di servizio scaturente da un’attività di indagine può assurgere ad annotazione di polizia giudiziaria.
Sotto l’aspetto del contenuto, l’annotazione ricalca la «relazione di servizio». Sotto altri aspetti, la differenza è, però, sostanziale. Con la relazione di servizio l’Ufficiale o l’Agente di polizia giudiziaria fa conoscere (riferisce) al superiore gerarchico (appartenente al suo ufficio) il suo operato.
Con l’annotazione invece, documenta l’atto compiuto e cioè formalizza la sua attività indipendentemente da qualsiasi «riferirne» ad altri.
E' infine da tener presente che nulla vieta alla Polizia Giudiziaria di documentare mediante Verbale l'attività che potrebbe esser documentata mediante annotazione.
Copia delle annotazioni redatti a norma dell'art. 357, comma 1 c.p.p. è conservata presso l'Ufficio di polizia giudiziaria.
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
N._____/
Oggetto: Annotazione ex art. 357 c.p.p. e art. 115 att.
Il sottoscritto Ufficiale o Agente di Polizia Giudiziaria (cognome e nome) ___________________________ in servizio presso ________________________ intervenuto in ________________________ per svolgere accertamenti in ordine al reato di _______________________ dà atto che il giorno ___________, alle ore _______, in __________________________ ha svolto la seguente attività di indagine (ad esempio: assumeva sommarie informazioni da ____________________ (generalità complete) in quanto persona ritenuta in grado di riferire circostanze utili ai fini delle indagini perché ____________________
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L’attività d’indagine è documentata mediante il «Verbale» che è l’esposizione delle attività compiute dall’Ufficiale o dall’Agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni. Il Verbale è un modo più "formale" di documentazione dell'attività di polizia giudiziaria.
L’esigenza della verbalizzazione deriva dalla eventuale utilizzabilità degli atti anche in dibattimento, sia pure con attenuata forza probatoria.
I processi verbali redatti dalla P.G. sono «atti pubblici» perché provengono dal Pubblico Ufficiale, ma essi non godono, nel Codice Vassalli, di fede privilegiata, fino a querela di falso, potendo il Giudice disattenderli a prescindere da questa .
Quando trattasi di attività investigativa cui il difensore dell’indagato ha diritto di assistere (atti cd. garantiti), il relativo verbale deve essere subito depositato presso l’Ufficio del P.M., per consentire al difensore di prenderne visione ed estrarne (o richiederne) copia (art. 366).
► L’art. 134 c.p.p. contempla due diverse forme di verbale:
Quando l’atto viene redatto in forma riassuntiva è effettuata anche la “riproduzione fonografica”. In questo caso può parlarsi di verbale in forma «riassuntiva complessa».
Quando la redazione del verbale è effettuata in forma riassuntiva, ma “non viene contestualmente effettuata la riproduzione fonografica”, si è invece in presenza di un verbale in forma «riassuntiva semplice». La modalità ordinaria di documentazione è, comunque, il verbale riassuntivo semplice.
Non possono però essere redatti in forma riassuntiva semplice gli atti che incidono sulla libertà personale dell’indagato (sommarie informazioni dall’indagato) o che possono essere utilizzati in giudizio ai fini della decisione del Giudice (perquisizioni, sequestri). Per tali atti, la forma di redazione è il verbale integrale ovvero in forma riassuntiva complessa.
► Il verbale deve contenere:
Va tenuto presente che se alcuna delle persone intervenute non vuole o non è in grado di sottoscrivere deve esserne fatta menzione nel verbale con l’indicazione del motivo (art. 137 c.p.p.).La sottoscrizione non può essere apposta con mezzi meccanici o segni diversi dalla scrittura.
Copia del verbale non va rilasciata alla persona che ha rilasciato le dichiarazioni potendo, la stessa, prenderne visione richiedendo l’accesso al fascicolo del P.M. (art. 366 c.p.p.).
► Deve inoltre sottolinearsi che in caso di verbalizzazione di «dichiarazioni» occorre indicare:
Attenzione !
Una redazione negligente del verbale o la sua nullità può importare, a carico di chi lo redige«responsabilità disciplinari».
La documentazione dell’attività di polizia giudiziaria è posta a disposizione del P.M. (insieme alle denuncie, alle istanze e alle querele presentate per iscritto, ai referti, al corpo del reato e alle altre cose pertinenti al reato) e da questi conservata in «apposito fascicolo», mentre copia è trattenuta presso l’Ufficio di polizia giudiziaria (artt. 357, comma 4 e 373, comma.3 c.p.p.) e di essa l’Ufficiale o l’Agente di polizia giudiziaria che l’ha redatta potrà servirsi, previa autorizzazione, in «aiuto alla memoria» quando verrà chiamato in dibattimento come testimone.
Con l’acquisizione degli atti da parte dell’Autorità Giudiziaria, compete a quest’ultima e non alla Polizia Giudiziaria che li ha compiuti, l’eventuale rilascio di copia dei verbali delle attività di indagine (in questi casi non trova, quindi, applicazione il diritto di accesso di cui alla Legge n. 241/1990).
.... incorre in responsabilità penale per «falsità ideologica» (art. 479 c.p.).
Riguardo i mezzi va rilevato che il Codice di rito li gradua attraverso un ordine preferenziale, prevedendo all’art. 134 c.p.p.:
Se si utilizza la forma riassuntiva, per difficoltà di reperire personale specializzato nella stenotipia, deve essere effettuata anche la riproduzione fonografica (soprattutto nella forma della registrazione) che è un mezzo di documentazione integrale del verbale.
La forma riassuntiva può essere utilizzata senza riproduzione fonografica o utilizzo di strumenti meccanici (macchina da scrivere) nei casi in cui si tratti di atti a contenuto semplice, di limitata rilevanza o quando si verifica una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici (art. 140 c.p.p.).
In tutti i casi di verbalizzazione descritti, se i criteri adottati sono ritenuti insufficienti, può procedersi alla riproduzione audiovisiva qualora questa sia ritenuta assolutamente indispensabile.
Gli atti sono documentati nel corso del loro compimento, ovvero immediatamente dopo quando ricorrono insuperabili circostanze da indicare specificamente nel Verbale, che impediscono la documentazione contestuale.
Circa il contenuto del verbale, si deve fare riferimento agli artt. 136 e 137 c.p.p., in particolare per quanto concerne l’obbligo di sottoscrizione da parte del Pubblico Ufficiale che lo ha redatto, in quanto la mancanza di sottoscrizione ne comporta la nullità[1]
[1] Il verbale è nullo quando:vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione dell’Pubblico Pubblico Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria che lo ha redatto (art. 142 c.p.p.).
Se è vero che le attività della Polizia Giudiziaria, non verbalizzate non possono concorrere direttamente alla decisione finale, esse tuttavia, in quanto documentazione relativa alle indagini espletate, entrano a far parte del fascicolo del P.M., da depositarsi ai soli fini dell’Udienza Preliminare, nonché degli eventuali procedimenti speciali (giudizio abbreviato o a seguito di patteggiamento).
La relazione di servizio della Polizia Giudiziaria, inoltre, potrà essere letta nel corso del dibattimento quando contenga dichiarazioni di contenuto diverso da quelle rese da un teste al dibattimento stesso al fine di valutarne la credibilità.
Sarà pertanto opportuno redigere la relazione di servizio con la massima precisione, provvedendo a distinguere l’attività svolta direttamente dagli Organi di polizia giudiziaria dalle informazioni ricevute da terzi in grado di riferire circostanze utili alle indagini.
Tale distinzione è estremamente importante nell’originaria ottica del Codice in quanto mentre sulle annotazioni concernenti l’attività direttamente svolta dalla Polizia Giudiziria, gli Ufficiali e gli Agenti potevano essere sentiti in qualità di testimoni nel corso del dibattimento, sulle sommarie informazioni raccolte dai terzi essi non potevano mai essere ascoltati, oggi, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 24/92, ha preso gran parte del suo rilievo. Infatti la Corte, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 195 comma 4 c.p.p., ha sancito la legittimità della «testimonianza» in dibattimento da parte degli Organi di polizia giudiziaria anche sulle informazioni assunte da terzi.
La relazione di servizio è l’atto con il quale il responsabile dell’Ufficio viene posto a conoscenza dell’attività compiuta dal personale durante il servizio medesimo oltre che dei risultati conseguiti e delle notizie apprese.
La relazione di servizio è dunque concettualmente assimilabile alla informativa di reato al Pubblico Ministero: è una segnalazione, una comunicazione che non ha in se alcuna finalità di prove ma è atto interno all’amministrazione di appartenenza del personale operante mediante il quale detto personale informa (=riferisce=relaziona) il superiore gerarchico circa le indagini compiute e i loro esiti.
In base al principio della «separazione delle fasi» (indagine - dibattimento), il Giudice del dibattimento non conosce gli atti delle indagini, ma deve formarsi il proprio convincimento sulla base di quanto avviene davanti ai suoi occhi, quindi, gli Ufficiali e gli Agenti di polizia giudiziaria, dovranno di volta in volta, «ricostruire» in dibattimento l’attività di indagine da essi compiuta e sottoporsi, come tutti gli altri testimoni, all’«esame incrociato»; vale a dire alle domande e alle controdomande che le parti hanno facoltà di rivolgere per saggiare l’affidabilità delle dichiarazioni rese.
E’ ben vero che l’Ufficiale o l’Agente di polizia giudiziaria potranno essere autorizzati a consultare in aiuto alla memoria, i documenti da loro redatti (ad esempio, relazioni di servizio, annotazioni ...), ma è altrettanto vero che l’Ufficiale e l’Agente non potranno limitarsi a pronunciare “astanche e ripetitive formule di conferma...” degli atti assunti durante le indagini... (del tipo: ...confermo gli atti !!) e che, di conseguenza, l’esito di molti processi potrà dipendere direttamente dalla "credibilità" della testimonianza resa dalla Polizia Giudiziaria.
Tanto più l’Ufficiale o l’Agente sarà professionalmente preparato a reggere le domande tanto più agevole sarà per il Pubblico Ministero dimostrare l’attendibilità della sua accusa.
Nell’ottica del coordinamento delle Forze di Polizia, si colloca il potenziamento delle funzioni del "Sistema informatico interforze". L’art. 21 Legge 26 marzo 2001, n. 128 [63] e le sue disposizioni attuative impongono, a tutte le Forze di Polizia, di alimentare, con completezza e tempestività, il «Centro Elaborazione Dati» (C.E.D.) istituito dall’art. 8 Legge 1 aprile 1981, n. 121 [43] e succ.modif., nell’ambito del Dipartimento della Pubblica Sicurezza; di tutte le informazioni confluite nel Centro, consentono poi la immediata consultazione e utilizzazione anche da parte delle Forze di Polizia che non le hanno originate.
E’ fatto obbligo al personale delle Forze di Polizia indicate nell’art. 16 L. 121/81 di far confluire senza ritardo nel Centro elaborazione dei dati del Dipartimento di Pubblica Sicurezza le informazioni acquisite nel corso delle "attività amministrative" e delle "attività di prevenzione o repressione dei reati" (art. 2 comma 1 L. 128/2001).
Le informazioni acquisite dalle "Polizia Locali" e dalle altre "strutture di vigilanza", sono invece fornite al "Centro" per il tramite delle Questure, dei Commissariati o dai Comandi della Forza armata dei Carabinieri.
Nel C.E.D. "devono confluire" dettagliate informazioni su ogni fenomeno censito dalle Forze di Polizia: vale a dire, sia le notizie relative alle attività di vigilanza e controllo (sulle strade, sul mare, sugli esercizi pubblici, ecc.) sia quelle risultanti da sentenze o procedimenti giudiziari sia quelle desunte da atti di polizia giudiziaria svolte a iniziativa o in esecuzioni di ordini dell’Autorità Giudiziaria.
Nel C.E.D. non va inserita la documentazione dell’attività compiuta (ad esempio, verbale di identificazione, perquisizione, arresto, ecc.), ma esclusivamente la “sintesi essenziale” di essa. Chi accede al Centro e prende visione della sintesi può successivamente richiedere l’atto in sé all’Autorità che lo ha originato (art. 7 comma 1 Legge 121/81). L’inserimento può riguardare anche notizie su atti segreti o segretati. Se necessario per la prosecuzione delle indagini, non è però impedito, all’Autorità Giudiziaria, di disporre, con decreto motivato, il ritardato inserimento delle notizie su singoli atti.
I Capi degli uffici e i Comandanti dei reparti delle Forze di polizia vigilano sull’attività di raccolta e comunicazione delle informazioni e sono responsabili della loro rispondenza agli atti originali (art. 5 D.P.R. 378/1982 e art. 54 D.lgs. 30/6/2003, n. 196).
Il patrimonio del Sistema informatico interforze è arricchito dalle notizie contenute in altre basi informatiche esterne cui è possibile connettersi direttamente (si pensi a quelle delle Anagrafi tributarie, camerali, comunali, ecc.).
Il Sistema interagisce infine anche con il «S.I.S.» (Sistema di Informazione Schengen), rete informatizzata nella quale confluiscono i dati dei paesi aderenti all’Accordo di Schengen per la gestione in comune delle informazioni e segnalazioni sulle persone, veicoli e oggetti ricercati da ciascun Paese.
La "catalogazione delle informazioni" che pervengono al C.E.D. avviene mediante un «Sistema Di Indagine» (S.D.I.) che non prevede schedari ma si fonda sulla memorizzazione dell’evento che ha dato origine all’inserimento e dal quale derivano, automaticamente e logicamente, i collegamenti con i soggetti in esso coinvolti, con gli oggetti che lo riguardano (armi, auto, documenti o altri beni), con le denuncie e i provvedimenti (misure pre-cautelari, cautelari o di sicurezza) che ne sono discesi nonché, infine, con qualsiasi altra segnalazione utile per individuare le caratteristiche dei soggetti interessati (pericolosità, soprannomi, alloggi e passaporti utilizzati, controlli cui sono stati sottoposti (art. 7 D.P.R. 378/1982).
Trattandosi di un database che archivia informazioni di molti cittadini, il C.E.D. è soggetto al controllo del Garante per la protezione dei dati personali.
L’accesso, in via generale, è consentito agli Ufficiali di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza, ai funzionari dei servizi per le informazioni e la sicurezza ed Agenti di polizia giudiziaria autorizzati.
Quando si tratta di informazioni relative ad un procedimento penale, segrete o segretate (art. 144 e 329), la loro consultazione è riservata a Ufficiali di polizia giudiziaria asseganti ai "Servizi" di polizia giudiziaria previsti dall’art. 56 c.p.p., alla D.I.A, alla Direzione centrale per i servizi antidroga e a Uffici centrali della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri deputati al contrasto del terrorismo.
Gli Ufficiali di polizia giudiziaria sono individuati dal Ministro dell’Interno su proposta del Capo della Polizia – Direzione generale della Pubblica Sicurezza – e i loro nominativi sono comunicati al Procuratore della Repubblica competente per territorio (=del luogo ove essi svolgono le loro funzioni)
La consultazione o utilizzazione indebita delle notizie inserite nel C.E.D. configura uno specifico delitto punito sia a titolo di dolo che di colpa (art. 12 Legge 121/81). Se non si tratta di condotte indebitamente tenute, ma di condotte più gravi perché realizzate con violazione dei propri doveri o abusando delle proprie qualità, il delitto configurabile è invece quello di cui all’art. 326 c.p. (Rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio).
L’alimentazione del sistema avviene mediante «modelli informatici standardizzati».
L'art. 92 e segg. della "Convenzione di Schengen [64]" ha previsto la creazione di una banca dati informatizzata accessibile a tutti gli Stati contraenti (c.d. Sistema d’informazione Schengen - SIS) contenente un complesso di informazioni idoneo ad agevolare i controlli di frontiera, di polizia e di dogana (e relativo fra l’altro alle persone ricercate per l’arresto a fine di estradizione, agli stranieri segnalati per motivi di ordine pubblico, alle persone implicate nella criminalità organizzata, ai beni ricercati a fini di sequestro personale).
Gli Organi nazionali di collegamento con il S.I.S. sono denominati «S.I.RE.N.E.», acronimo di Supplementary Information Request at the National Entry, che forniscono all’operatore di frontiera un «supplemento di informazione», cui consegue una certa condotta da seguire.
Il S.I.S. è costituito da una "sezione nazionale" presso ciascun Paese aderente all’accordo (indicata come N-SIS) e da "un’unità di supporto tecnico" situata a Strasburgo (ed indicata come C-SIS). Ciascuna struttura (sia N-SIS che C-SIS) possiede una copia identica della base informativa.
La base informativa del C-SIS costituisce il "riferimento" di tutto il sistema. È proprio il C-SIS che coordina e controlla l’aggiornamento in tempo reale di tutte le altre basi informative a partire dalla richiesta di un N-SIS.
L’unità N-SIS italiana dipende dal Ministero dell’Interno e coinvolge nel suo funzionamento i Ministeri di Grazia e Giustizia e degli Affari Esteri. Coerentemente alla struttura di ogni altro N-SIS, anche quello italiano è integrato da un Ufficio S.I.RE.N.E., dipendente dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale di Polizia Criminale.
Si tratta, in sostanza, di una struttura operativa che impegna il personale delle tre forze di polizia (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza) in funzione 24 ore su 24.
Si riportano gli «schemi» dei più frequenti atti di polizia giudiziaria in cui può imbattersi il personale del Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera. I contenuti degli schemi - elaborati tenendo conto delle indicazioni provenienti dalla prassi giudiziaria - sono corredati di note e integrazioni che hanno il fine di stimolare l'attenzione del militare operante sulle principali caratteristiche dei singoli atti e di fornire suggerimenti operativi sulle situazioni concretamente prospettabili:
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
AL Comandante
Il giorno ____________, alle ore _______, in ______________________________, negli Uffici del _________________________, i sottoscritti (grado, cognome e nome e reparto dei militari operanti). ____________________________, entrambi in relazione all’oggetto riferiscono alla S.V. quanto segue appresso: -------------------------------------------------------------------------- « Alle ore _______ del giorno _______________, noi Ufficiali operanti, in servizio __________ (esposizione dei fatti ...) ______________________________________________________».
_________________, lì ______________
Firma del Relatore o dei Relatori:
|
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Capitaneria di Porto di ____________________
Oggetto: Annotazione relativa all’attività di indagine svolta ex art. 357 c.p.p. e art. 115 att.
_________________, lì ______________
Firma dei militari operanti _______________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________
Oggetto: Annotazione ex art. 357 c.p.p. e art. 115 att.
_________________, lì ______________
Firma dei militari operanti _______________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________ Al Sig. Procuratore della Repubblica
Segue ⇒
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Si comunica che, alle ore _______ del giorno _________________, gli Ufficiali e Agenti di p.g. (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) nel corso di un servizio ______________ (indicare il tipo di servizio cui gli operatori erano addetti, quale fosse il tipo di indagine e da chi fossero state disposte) hanno acquisito (oppure: ricevuto) la notizia di reato di seguito specificata. Al riguardo si riferisce:« _______________________________________________________ ___________________________________________________________________________ » (inserire le indicazioni idonee a ricostruire – in forma chiara e precisa – la notizia di reato acquisita o ricevuta precisando gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi raccolti)
In relazione al fatto, come ricostruito, vengono svolte indagini nei confronti della persona indicata in oggetto che ha eletto (oppure: dichiarato) il proprio domicilio a norma dell'art. 161 c.p.p. in ____________________________________ [oppure: non sono stati raccolti elementi idonei alla individuazione dell'autore].
[la comunicazione può contenere anche altre indicazioni come, ad esempio, la nomina del difensore di fiducia o la designazione di quello di ufficio].
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In allegato alla presente comunicazione, si trasmette la documentazione relativa alle indagini finora compiute:
[La presente comunicazione fa seguito a quella data in forma orale (ad esempio: a mezzo telefono, fax, telex....) alle ore ________ del giorno _______________________ al P.M. Dott. ____________________ di codesta Procura della Repubblica (l'espressione va introdotta solo se la comunicazione scritta segue una comunicazione orale data a norma dell'art. 347, co.3 c.p.p.)]" Sintesi della presente comunicazione è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
Luogo e data______________
Sottoscrizione
► In calce va riportato, alternativamente:
La presente informativa è stata depositata alle ore ______ del giorno ____________ presso la Segreteria della Procura della Repubblica (Ufficio _________________ ) da _______________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome dell’Ufficialre o Agente di polizia giudiziaria che ha provveduto al deposito) e qui ricevuta dal Signor ______________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome e funzione svolte dalla persona che riceve la informativa).
(Sottoscrizione di chi deposita e di chi riceve)
Come risulta dal frontespizio allegato (ci si riferisce al foglio intestato all’Ufficio o Comando al quale vanno allegati i fogli contenenti i dati della informativa), la presente informativa è stata trasmessa da (indicare specificamente qualifica, cognome e nome dell’Ufficialre o Agente di polizia giudiziaria che ha provveduto al deposito) ore ________ del giorno _______________ al numero di fax _____________________
(Sottoscrizione di chi invia il Fax)
Segue⇒
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(1) Quando è possibile (2) Ove possibile (3) Ad esempio: Avv. TADDEI Carlo del Foro di SASSARI. In assenza dell’Avv. TADDEI Carlo, attualmente in vacanza fuori sede, già indicato Avvocato di Fiducia da __________è stato nominato difensore d’ufficio l’Avv. RANIERI Giulio del Foro di Tempio.
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________
Al Sig. Procuratore della Repubblica
Oggetto: Comunicazione (o Informativa) di notizia di reato n°._____/____ a norma dell’art. 347 c.p.p. Si comunica che, alle ore _______ del giorno _________________, gli Ufficiali e Agenti di p.g. (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) in servizio presso questo Ufficio (Comando) hanno acquisito (oppure: ricevuto) la notizia di reato di seguito specificata e in relazione alla quale si forniscono i dati che seguono con riserva di integrazione.
Segue ⇒
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[] Denuncia [] Querela [] Altro
[] Denuncia Sintesi della presente comunicazione è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
Luogo e data______________
Sottoscrizione
Segue ⇒
|
In calce va riportato, alternativamente:
La presente informativa è stata depositata alle ore ______ del giorno ____________ presso la Segreteria della Procura della Repubblica (Ufficio ___________________________________) da _______________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome dell’Ufficialre o Agente di polizia giudiziaria che ha provveduto al deposito) e qui ricevuta dal Signor ____________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome e funzione svolte dalla persona che riceve la informativa).
Come risulta dal frontespizio allegato (ci si riferisce al foglio intestato all’Ufficio o Comando al quale vanno allegati i fogli contenenti i dati della informativa), la presente informativa è stata trasmessa da ______________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome dell’Ufficialre o Agente di polizia giudiziaria che ha provveduto al deposito) ore _________ del giorno __________________ al numero di fax ______________________________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________
Al Sig. Procuratore della Repubblica
Oggetto: Comunicazione (o Informativa) di notizia di reato in forma orale a norna dell’art. 347 comma 3 c.p.p. – Annotazione di invio.
Si da atto che, alle ore _________ del giorno _____________________, gli Ufficiali e Agenti di p.g. (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) appartenenti a questo Ufficio (Comando) nel corso di un servizio (indicare il tipo di servizio cui gli operatori erano addetti, quale fosse il tipo di indagine e da chi fossero state disposte) hanno acquisito (oppure: ricevuto) la notizia di reato di seguito specificata.
Sintesi della presente comunicazione è fatta confluire nel Sistema informativo interforze CED-SDI.
Luogo e data______________
(*) L’obbligo di redigere l’annotazione relativa alla comunicazione in forma orale incombe sul Dirigente dell’Ufficio (o Comando) oppure sull’Ufficiale di polizia giudiziaria responsabile del servizio di p.g. La sottoscrizione è apposta da lui e, se la comunicazione è stata data su delega, dall’Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria delegato.
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________ Prot. Nr. ___________ Al Sig. Procuratore della Repubblica
Oggetto: Verbale di ricezione di denuncia orale relativa a ____________________________ (indicare il fatto; non è necessario indicare di quale reato si tratta salvo, ovviamente, il caso in cui la sua qualificazione è ritenuta evidente: ad esempio, furto commesso a bordo da componenti dell’equipaggio – art. 1148 cod. nav.), avvenuto il __________________________ in _____________________________ (località) ad opera di ____________________________ [indicare og ni notizia, fornita dal denunciante, utile alla identificazione del denunciato (oppure: a carico di ignoti)] presentata personalmente da _____________________________ (Cognome e Nome) ________________, (Soprannome o pseudonimo) nato a ___________ il __________________ cittadino ___________ residente a (o domiciliato) _________________ in ________________via ____________ n°._______ tel._____________________ Professione __________ luogo di attività lavorativa ____________ stato civile_________________ titolo di studio ______________ identificato mediante _______________, rilasciato a ___________ il ___________________ da _______________________ (oppure: personalmente riconosciuto).
Il giorno _____________ alle ore ___________ davanti al sottoscritto Ufficiale di P.G. (indicare specificamente qualifica, cognome, nome) assistito da ________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome, nome dell’Agente o degli Agenti di P.G. che lo coadiuvano) dà atto che è qui presente ___________________ persona meglio indicata in oggetto la quale espone quanto segue:« _______________________________________ (indicare gli elementi essenziali del fatto precisando, quando sono a conoscenza dell’esponente: a) le generalità della persona cui esso è attribuito e gli elementi per la sua identificazione; b) altri eventuali elementi di prova e, in particolare, quelli relativi a coloro che sono in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione del fatto)».
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Poiché il Signor __________________ ritiene che nei fatti esposti siano ravvisabili estremi di reato perseguibili di ufficio (se del caso, indicare di quali reati si tratta) __________________, egli “denuncia” a tutti gli effetti quanto sopra esposto per i provvedimenti che l’Autorità Giudiziaria riterrà di adottare e, spontaneamente (oppure: a domanda del verbalizzante), dichiara che, per i fatti costituenti reato in ordine ai quali non può procedersi di ufficio, si riserva di proporre querela [oppure: la sua denuncia deve/non deve intendersi quale richiesta di punizione di chi sarà ritenuto responsabile dei fatti medesimi (querela)].
Sintesi della presente comunicazione è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
Si dà atto che la denuncia è stata stesa e ricevuta nell’Ufficio (Comando) di _____________________ [oppure: si dà atto che le dichiarazioni sono state rese e ricevute nel domicilio della persona denunciante (solo se vittima del reato) trattandosi di persona portatrice di handicap; oppure: anziana o impedita perché _________________________ che aveva richiesto l’intervento delle Forze di Polizia a norma dell’art. 17 comma 2 della Legge 26.03.2001, n. 128]
_________________, lì ______________
Firma:
- del denunciante _______________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________ R.G. Nr. ___________
Oggetto: Verbale di ricezione di denuncia scritta relativa a ___________________ (indicare il fatto; non è necessario indicare di quale reato si tratta salvo, ovviamente, il caso in cui la sua qualificazione è ritenuta evidente: ad esempio, furto commesso a bordo da componenti dell’equipaggio – art. 1148 cod. nav.), avvenuto il ___________ in _____________ (località) ad opera di _________ [indicare og ni notizia, fornita dal denunciante, utile alla identificazione del denunciato (oppure: a carico di ignoti)] presentata personalmente da ___________________ (Cognome e Nome) _______________. (Soprannome o pseudonimo) nato a ______________________ il______________________ cittadino _______________ residente a (o domiciliato) _____________________________ in ____________________via ________________ n°._______ tel.______________ Professione ____________________ luogo di attività lavorativa ___________________________________ stato civile_____________________ titolo di studio _________________ identificato mediante _______________, rilasciato a ___________________ il ___________ da ________________ (oppure: personalmente riconosciuto)
Il giorno _____________ alle ore ________ davanti al sottoscritto Ufficiale di P.G. (indicare specificamente qualifica, cognome, nome) assistito da ________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome, nome dell’Agente o degli Agenti di P.G. che lo coadiuvano) dà atto che, alle ore _______ odierne, si è avuta la presenza della persona meglio indicata in oggetto che ___________________,
Segue ⇒
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...ha presentato, depositandola e confermandola la denuncia che qui si allega (anziché in allegato, la dichiarazione di ricezione della denuncia scritta può essere fatta sull’ultimo foglio della denuncia stessa). La denuncia contestualemente sottoscritta dal denunciante, consta di n. ______ pagine dattiloscritte (oppure: manoscritte) di cui l’ultima conta n. _________ righe. Essa risulta presentata a carico di ___________________ (indicare le generalità della persona cui il fatto è attribuito) [oppure dire: “risulta presentata a carico di persona tuttora non identificata”] per fatti avvenuti in __________________________ il _____________________.
Sintesi del presente atto e della denuncia ricevuta è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
Si dà atto che la ricezione della denuncia è avvenuta nell’Ufficio (Comando) di _____________ [oppure: si dà atto che le dichiarazioni sono state rese e ricevute nel domicilio della persona denunciante (solo se vittima del reato) trattandosi di persona portatrice di handicap; oppure: anziana o impedita perché _________________________ che aveva richiesto l’intervento delle Forze di Polizia a norma dell’art. 17 comma 2 della Legge 26.03.2001, n. 128].
_________________, lì ______________
Firma:
- del denunciante _______________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________
Al Sig. Procuratore della Repubblica
Oggetto: Trasmissione di denunce a carico di ignoti.
Nel rispetto di quanto disposto dall’art. 107-bis delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale (D.lgs. 271/89), si trasmette (Allegato 1) l’elenco delle denunce a carico di ignoti complessivamente acquisite o ricevute (in numero di ______________) da questo uffici (Comando) nel corso del mese di ________________________ dell’anno _______________. Sintesi della presente comunicazione e del relativo allegato è stata fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI). Luogo e data______________
Sottoscrizione
Segue ⇒
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Allegato 1 – Elenco delle denunce a carico di ignoti e documentazione delle attività di indagine eventualmente svolte.
In calce va riportato, alternativamente: ► IPOTESI A: Il presente atto (con relativo Allegato) è stato depositato alle ore _______________ del giorno __________________ presso la Segreteria della Procura della Repubblica (Ufficio _________________) da ________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome dell’Ufficialre o Agente di polizia giudiziaria che ha provveduto al deposito) e qui ricevuta dal Signor _____________________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome e funzione svolte dalla persona che riceve la informativa).
_____________________________
► IPOTESI B:
Come risulta dal frontespizio allegato (ci si riferisce al foglio intestato all’Ufficio o Comando al quale vanno allegati i fogli contenenti i dati dell’atto), il presente atto è stato trasmesso da ____________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome dell’Ufficialre o Agente di polizia giudiziaria che ha provveduto al deposito) ore ______ del giorno __________ al numero di fax ________________________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________
Oggetto: Verbale di dichiarazione di querela proposta oralmente personalmente [oppure: nella sua qualità di procuratore speciale/legale rappresentante/curatore speciale di ________ ____________________________________ (indicare nome e cognome della persona offesa)]
da ________________________________ nato a ________________ il___________ cittadino ___________residente a (o domiciliato) _________________ in ______________________via _____________ n°._______ tel.____________ Professione _______________ luogo di attività lavorativa ____________ stato civile___________ titolo di studio ______________ identificato mediante _______________, rilasciato a ________________ il __________ da ____________ (oppure: personalmente conosciuto)
contro ___________________ di seguito meglio indicato o chiunque altro risulti responsabile in relazione al delitto di _________________________________ o per qualunque altro delitto eventualmente ritenuto configurabile. Il giorno _____________ alle ore ______ davanti al sottoscritto Ufficiale di P.G. ____________ (indicare specificamente qualifica, cognome, nome) assistito da ________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome, nome dell’Agente o degli Agenti di P.G. che lo coadiuvano Cass. 49497/2003) è presente _____________________________ persona meglio indicata in oggetto la quale _____________ [se colui che propone la querela non è la persona offesa, ma il suo rappresentante, a questo si inserirà, a seconda dei casi, una delle seguenti formule: a) “Nella sua veste di procuratore speciale di _____________ (indicare le generalità complete del rappresentato, data e luogo di nascita, luogo di residenza, professione e stato civile) come da procura speciale rilasciata _________________ (indicare tutti gli estremi della procura speciale) che viene allegata al presente verbale come parte integrante di esso”; b) “Nella sua veste di legale rappresentante di _____________ (indicare la persona giuridica, l’ente o l’associazione) legittimato al presente atto come da ____________________ (indicare specificamente la fonte dei poteri di rappresentanza: atto costitutivo, delibera, ecc.)”; c) “Nella sua veste di ________________ (genitore o tutore o curatore) legale rappresentante di ___________________ [indicare generalità complete del rappresentato (minore o interdetto o infermo di mente o inabilitato, a seconda dei casi)] manifestando inequivoca volontà perché si proceda per i fatto e se ne punisca il colpevole, dichiara di proporre querela contro ________ (indicare ogni notizia fornita dal querelante, utile alla identificazione del querelato) o di chiunque altro ne risulti autore o concorrente, per il delitto di ______________________ o per qualunque altro delitto che sarà ritenuto configurabile nei fatti che di seguito espone: “___________________________________________________________________________”
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Indica, come persone in grado di riferire circostanze rilevanti i Signori ___________________ [riportare ogni notizia, fornita dal querelante, utile alla identiificazione di tali persone (oppure dire: “Il Signor _________________ dichiara di non essere in grado di indicare alcuna persona che possa riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione del fatto”)] Sintesi della presente comunicazione è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI). Riletto, confermato e sottoscritto.- _________________, lì ______________
Firma:
- del querelante ____________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
da ____________________________________________ nato a ________________________ il___________________ cittadino ___________________________ residente a (o domiciliato) _________________ in ________________________via ____________________ n°._______ tel._______________ Professione ___________________________ luogo di attività lavorativa ___________________ stato civile____________ titolo di studio _______________ identificato mediante _______________________, rilasciato a ___________________ il ______________ da ______________________ (oppure: personalmente conosciuto). contro ___________________ di seguito meglio indicato o chiunque altro risulti responsabile in relazione al delitto di _______________________________________ o per qualunque altro delitto eventualmente ritenuto configurabile.
Il giorno _____________ alle ore ________ il sottoscritto Ufficiale di P.G. _________________ (indicare specificamente qualifica, cognome, nome) assistito da ________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome, nome dell’Agente o degli Agenti di P.G. che lo coadiuvano – Cass. 49497/2003) è presente ________________________________________ persona meglio indicata in oggetto la quale, nella veste di persona offesa ________________ [se colui che propone la querela non è la persona offesa, ma il suo rappresentante, a questo si inserirà, a seconda dei casi, una delle seguenti formule: a) “Nella sua veste di procuratore speciale di _____________ (indicare le generalità complete del rappresentato, data e luogo di nascita, luogo di residenza, professione e stato civile) come da procura speciale rilasciata ____________________ (indicare tutti gli estremi della procura speciale) che viene allegata al presente verbale come parte integrante di esso”; b) “Nella sua veste di legale rappresentante di ___________________ (indicare la persona giuridica, l’ente o l’associazione) legittimato al presente atto come da ___________________ (indicare specificamente la fonte dei poteri di rappresentanza: atto costitutivo, delibera, ecc.)”; c) “Nella sua veste di __________________ (genitore o tutore o curatore) legale rappresentante di ____________________ [indicare generalità complete del rappresentato (minore o interdetto o infermo di mente o inabilitato, a seconda dei casi)], ha presentato, depositandola e confermandola la querela che qui si allega [se del caso: “assieme ai documenti con essa prodotti e in essa specificamente indicati” (anziché in allegato, la dichiarazione di ricezione della denuncia scritta può essere fatta sull’ultimo foglio della denuncia stessa)].
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La querela contestualemente sottoscritta da ____________________________ nella veste già specificata, consta di n. ______ pagine dattiloscritte (oppure: manoscritte) di cui l’ultima conta n. ______ righe. Essa risulta proposta a carico di ____________________________ (indicare le generalità della persona cui il fatto è attribuito) o di chiunque altro ne ruisulti autore o concorrente per il delitto di ___________________________ o per qualunque altro delitto che sarà ritenuto configurabile nei fatti esposti nella querela scritta [oppure dire, se il querelato è persona ignota: “risulta presentata a carico di persona tuttora non identificata”].
Sintesi di questo atto e della querela è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
Si dà atto che la ricezione della querela è avvenuta nell’Ufficio (Comando) di ______________ [oppure: è avvenuta nel domicilio della persona che ha proposto la querela trattandosi di persona portatrice di handicap; oppure: anziana o impedita perché _____________________” che aveva richiesto l’intervento delle Forze di Polizia a norma dell’art. 17 comma 2 della Legge 26.03.2001, n. 128]
[Eventualmente aggiungere: Il querelante ha dichiarato di voler essere informato della eventuale archiviazione del procedimento sorto a seguito della presentazione dell’atto (la dichiarazione può essere fatta solo dal querelante che sia anche persona offesa – art. 408 comma 2 c.p.p.)]
_________________, lì ______________
- del querelante _______________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Oggetto: Verbale di remissione, con contestuale accettazione, della querela proposta oralmernte o personalmente [oppure: nella sua qualità di procuratore speciale /legale rappresentante/curatore speciale di __________________________ (indicare nome e cognome della persona offesa)]
da _________________________________ (cognome e nome) nato a __________________ il________________ cittadino ___________ residente a (o domiciliato) __________________ in ______________________ via ________________ n°.____ tel._____________ Professione _______________ luogo di attività lavorativa ____________ stato civile____________ titolo di studio ___________________ identificato mediante ________________________, rilasciato a _______________________ il _______________ da __________________________ (oppure: personalmente conosciuto)
contro __________________ di seguito meglio indicato in relazione al delitto di ___________ o per qualunque altro delitto eventualmente ritenuto configurabile.
Segue⇒
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E’ presente altresì ____________________________________ [indicare le generalità del querelato (o dei querelati presenti) o dei loro procuratori e rapresentanti – art. 122 c.p.). Si ricordi che la remissione produce effetti per tutti i soggetti querelati – che l’accettano – anche se è fatta a favore di uno solo di essi] il quale dichiara di accettare la remissione di querela di cui sopra. L’accettante e il remittente convengono che le spese ______________________ [la espressione va inserita solo se l’accettante e il remittente convengono con le spese del procedimento siano in tutto o in parte a carico del querelante. La regola generale prevede infatti che le spese del procedimento siano – salva deroga espressa – a carico del querelato (=di chi accetta la remissione)] [Se il remittente si è avvalso del diritto di rinuncia, aggiungere: “e il remittente fa espressa rinuncia al diritto alla restituzione e al risarcimento del danno a norma dell’art. 152 comma 4 del c.p.].
Il presente Verbale, riletto e confermato è chiuso alle ore _______ e, dopo essere contestualmente sottoscritto, sarà immediatamente inoltrato all’Autorità Giudiziaria procedente a norma dell’art. 340 comma 1 c.p.p. mentre copia di esso è conservata agli atti di questo Ufficio [o Comando]
Sintesi della presente querela è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
Firma:
- il Rimettente _______________________
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Oggetto: Verbale di separata accettazione [oppure: non accettazione] della remissione della querela già proposta oralmernte o personalmente [oppure: nella sua qualità di procuratore speciale/legale rappresentante/curatore speciale di ____________________ (indicare nome e cognome della persona offesa)]
da ___________________________________ (cognome e nome) nato a ________________ il ____________ cittadino _________________ residente a (o domiciliato) ________________ in __________________ via __________________ n°._______ tel.____________ Professione _______________ luogo di attività lavorativa ___________________ stato civile____________ titolo di studio _______________ identificato mediante _____________________, rilasciato a ______________________ il ______________ da ____________________________ (oppure: personalmente conosciuto)
contro ______________________________ di seguito meglio indicato in relazione al delitto di ____________________ o per qualunque altro delitto eventualmente ritenuto configurabile.
Segue ⇒
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Il __________________________ (data) davanti a ___________________________________ (indicare l’Autorità Giudiziaria o di P.G. davanti alla quale la remissione di querela fu proposta) espressamente dichiara di voler [oppure: non volere (il remittente della querela va notiziato dell’accetazione o della mancata accettazione)] accettare tale remissione prendendo atto che le spese del procedimento sono a suo carico [oppure: “sottolineando che, in base a quanto convenuto e risultante dall’atto di remissione, le spese sono a carico __________________”] [se del caso, far seguire anche: “e che il remittente ha espressamente rinunciato alle restituzioni e al risarcimento del danno”.
Sintesi della presente querela è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
- l’Interessato _______________________
(1) Il Verbale di remissione (con contestuale accettazione) è, nella Ipotesi B, quello di accettazione della remissione vanno fatti pervenire, dalla P.G. all’Autorità Giudiziaria che procede, senza ritardo. Vanno accompagnati da una nota che, ove possibile, conterrà il riferimento alla informativa con la quale è stata precedentemente data comunicazione dell’avvenuta ricezione della querela proposta. |
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Capitaneria di Porto di ____________________
Prot. Nr. ___________
Oggetto: Ricezione di referto (1) presentato da ____________________ (cognome e nome) nato a ______________________ il______________ cittadino ______________ residente a (o domiciliato) ___________________ in ______________________ via ____________________ n°._______ tel.____________ esercente la professione sanitaria di _____________________ (indicare specificamente la professione) e identificato mediante _______________, rilasciato a ____________ il __________ da __________ (oppure: personalmente conosciuto) in ordine all’opera/assistenza prestata il giorno ___________ alle ore _____ a ________________ nato a ___________ il ____________ residente in _____________________ via _______________ n. __________ (2)
L’Ufficiale di P.G
Segue ⇒
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(1) Lo schema è stato redatto immaginando che il referto sia consegnato personalmente dal suo autore (=esercente la professine sanitaria: medico, chirurgo, ginecologo, veterinario, farmacista, infermiere diplomato...). L’art. 334 comma 4 c.p.p. consente peraltro che, il referto sia fatto pervenire utilizzando incaricati o mezzi tecnici idonei (posta, fax). In ogni caso, il referto deve pervenire (e non solo essere inoltrato) entro 48 ore o immediatamente, se vi è pericolo nel ritardo. L’omissione o il ritardo nella professione sono sanzionati dall’art. 365 c.p. (omissione di referto).
(2) I dati possono essere estrapolati direttamente dal referto. Questo infatti, oltre ad indicare la persona cui è stata prestata assistenza, deve indicare, se possibile, le generalità, il luogo dove essa si trova e quanto altro valga a identificarla. Il referto deve altresì indicare il luogo, il tempo e le altre circostanze dell’intervento e dare notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare.
(3) Le circostanze di cui all’art. 334 comma 2 c.p.p. sono quelle riportate alla nota 2. Se si assumono informazioni dal refertante, l’atto acquista le caratteristiche del verbale di sommarie informazioni previsto dall’art. 357 comma 2 lett. c) c.p.p. in rel. Art. 351 c.p.p. (=da potenziali testimoni).
(4) Occorre la sottoscrizione anche del sanitario se questi ha riferito, spontaneamente o a domanda, elementi ulteriori rispetto a quelli già risultanti dal referto.
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di identificazione ex art. 349 c.p.p., relativo, quale persona sottoposta alle indagini, a ______ _____________________ (Cognome e Nome) ______________ (Soprannome o pseudonimo) nato a ______________________ il____________________ residente a _________________ via _________________ n°._______ tel.____________ Professione ________________ luogo di attività lavorativa ____________________________ stato civile_________________ titolo di studio ____________________________.
Il giorno ______________ alle ore_______ negli Uffici ______________________ i sottoscritti Ufficiali/Agenti di P.G _________________________________ (indicare specificamente grado, cognome, nome e reparto dei militari operanti) riferiscono che alle ore __________ del giorno ______________ in località ____________________________________, nell’espletamento di ___________________ (indicare il tipo di servizio), hanno proceduto alla identificazione della persona sopra indicata trattandosi di persona sottoposta alle indagini per il reato di ________ ____________________________ commesso in ___________________________, in danno di _________________________________________, il ____________________. (ove possibile).
Segue ⇒
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E’invitato altresì nominare un difensore di fiducia, facendogli presente che in caso risulti privo di difensore di fiducia gli avvisi di legge per gli atti di indagine e del procedimento saranno dati al difensore di ufficio individuato a norma dell’art. 97 c.p.p.
All’esito, la persona sottoposta alle indagini, esibendo a conferma _______________ (indicare tipo e numero del documento identificativo) ha dichiarato di essere ______________________ (Cognome e nome) e ha fornito le generalità e i dati identificativi riportati in oggetto.
All’esito, la persona sottoposta alle indagini:
oppure:
Alle ore ________ del __________________ si è pertanto proceduto all’accompagnamento ex art. 349 comma 4 c.p.p., in Ufficio della persona predetta al fine di pervenire alla sua sicura identificazione. Dell’accompagnamento e dell’ora in cui è stato compiuto è stata data immediata notizia al Sig. Procuratore della Repubblica presso __________________________ in persona del Dott. ________________________________, a mezzo __________________ . Segue ⇒
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Si dà atto che, nell’occasione, la persona sottoposta alle indagini, in ordine all’invito rivoltole di dichiarare o eleggere il domicilio per le notificazioni, ha chiesto che ogni comunicazione le fosse notificata presso ________________________________ e ha nominato quale difensore di fiducia l’Avv.______________________________ del Foro di _________________________ (oppure: si riserva di nominare il difensore di fiducia). Sintesi del presente Verbale è fatta confluire nel Sistema informatico interforze (CED-SDI)(1) Il Verbale è chiuso alle ore _____ e, dopo essere stato riletto e confermato, è contestualmente sottoscritto dalla persona identificata e dall’Ufficiale/Agente di polizia giudiziaria operante. Esso è posto a disposizione del Pubblico Ministero a norma dell’art. 357 comma 4 c.p.p. e copia è conservata agli atti di questo Ufficio [o Comando]
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Capitaneria di Porto di LA MADDALENA
All. Nr. 01
Oggetto: Verbale di identificazione ex art. 349 c.p.p., relativo, quale persona sottoposta alle indagini, a GLORIOSO Raffaele alias Lelle nato a Pistoia il 30 dicembre 1954 e residente a La Maddalena in via R. Sanzio n°. 17, tel. 0789435662, Professione Pescatore, Matricola. 1277 3^ Categoria G.M. luogo di attività lavorativa La Maddalena, stato civile Coniugato, titolo di studio Diploma ITN, precedenti condanne riportate nessuna segni particolari evidenti nessuno.
Il 14 maggio 2009 alle ore 10.00 negli Uffici della Capitaneria di Porto di La Maddalena i sottoscritti Ufficiali/Agenti di P.G 1° M.llo Lgt. Np. GRIGNANI Fausto e Capo 3^ cl. Np. CAPUTO Salvatore in servizio presso il Comando in intestazione riferiscono che alle ore 10.00 del giorno 14 maggio 2009 negli Uffici della Capitaneria di La Maddalena, hanno proceduto alla identificazione della persona sopra indicata trattandosi di persona sottoposta alle indagini per il reato di “esercizio dell’attività di pesca mediante materie esplodenti” (artt. 15 lett. d e 24 Legge n. 963/65) commesso a 3 miglia N-W Isola di Caprera - Arcipelago di La Maddalena - Comune di La Maddalena, il 14 maggio u.s. Sintesi del presente Verbale è fatta confluire nel Sistema informatico interforze (CED-SDI)(1) Del che è verbale letto, confermato e sottoscritto.
(Firma dell’indagato) (Firma dei verbalizzanti)
(2) All’invio si procede solo se la identificazione è il primo atto cui interviene l’indagato
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Oggetto: Verbale di identificazione relativo, quale persona informata sui fatti, a ______ ________________ (Cognome e Nome) ______________ (Soprannome o pseudonimo) nato a ______________________ il______________________ residente a _________________ via ____________ n°._______ tel.____________ Professione ________________ luogo di attività lavorativa ___________________________ stato civile _________________________ titolo di studio ____________________________.
Il _______________ alle ore _____ negli Uffici ____________________________ i sottoscritti Ufficiali/Agenti di P.G ________________________ (indicare specificamente grado, cognome, nome e reparto dei militari operanti) riferiscono che alle ore _____ del giorno _____________ in _____________________, hanno proceduto alla identificazione della persona sopra indicata trattandosi di persona in grado di riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione del fatto criminoso.
All’esito, la persona da identificare, esibendo a conferma _________________ (indicare tipo e numero del documento identificativo) ha dichiarato di essere ________________ (Cognome e nome) e ha fornito le generalità e i dati identificativi riportati in oggetto.
All’esito, la persona informata sui fatti:
oppure:
Segue ⇒
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Alle ore _________ del _________________ si è pertanto proceduto all’accompagnamento in Ufficio della persona predetta al fine di pervenire alla sua sicura identificazione. Dell’accompagnamento e dell’ora in cui è stato compiuto è stata data immediata notizia al Sig. Procuratore della Repubblica presso ____________________ in persona del Dott. _________, a mezzo ____________________________.
Per accertare la identità della persona accompagnata (o la eventuale falsità del documento esibito) si è provveduto a _________________________________ (indicare specificamente le operazioni e gli accertamenti svolti) pervenendosi alle seguenti conclusioni _______________. Riletto, confermato e sottoscritto.-
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ________________
All. Nr.__________
Oggetto: Verbale di sommarie informazioni relativo, quale persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, a __________________________ (Cognome e Nome) ________________.(Soprannome o pseudonimo) nato a ______________________ il ________________ residente a _________________ via ___________ n°._______ tel.____________ Professione _________________ luogo di attività lavorativa ______________________ stato civile _________ titolo di studio _______________________________.
Il giorno _______________ alle ore ______ in _______________, davanti a noi sottoscritti Ufficiali di P.G __________________ (indicare specificamente grado, cognome, nome e reparto dei militari operanti) è comparso ______________________________ qui invitato per rendere informazioni quale persona nei cui confronti vengono svolte le indagini per il reato di _________________________ (indicare il titolo di reato).
Segue ⇒
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(Se occorre, l’Ufficiale di polizia giudiziaria fa menzione dei connotati fisici e di eventuali segni particolari della persona).
Invitato quindi a nominare un difensore di fiducia l’indagato dichiara, di nominarlo nella persona di_____________________________, presente all’atto. (Se il difensore di fiducia non è presente o non è nominato, si specificherà a seconda dei casi:
Si dà atto che la persona sottoposta alle indagini _________________ (Cognome e nome dell’indagato) è stata invitata a dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni a norma dell’art. 161 comma 1 c.p.p. ed avvertito, in specie, sia dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato eletto sia del fatto che in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore ancorché di ufficio.
Segue ⇒ |
Dopo essere stato avvertito del fatto che viene esaminato quale persona sottoposta alle indagini in ordine al reato di ____________________ e che, come tale ha facoltà di non rispondere alle domande che gli verranno rivolte, ma che anche se non risponderà, il procedimento seguirà il suo corso (art. 64 co. 3 c.p.p.), a tal proposito il Sig. _____________________________ dichiara: Sintesi della presente comunicazione è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
La persona sottoposta L’Ufficiale di P.G.
Il Difensore(*)
(*) Trattasi di atto garantito |
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
All. Nr.__________
Oggetto: Verbale di spontanee dichiarazioni ex art. 350 comma 7 c.p.p., rese, quale persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, da __________________________ (Cognome e Nome) _________________________________________ (Soprannome o pseudonimo) nato a _______________________ il __________________ residente a ____________________ via ________________ n°._____ tel._______________ Professione ___________________ luogo di attività lavorativa _______________________________ stato civile _____________ titolo di studio _______________________________.-
Il ______________ alle ore ______ in ____________________, i sottoscritti Ufficiali/Agenti di P.G _______________________________________ (indicare specificamente grado, cognome, nome e reparto dei militari operanti) danno atto che, alle ore _____ del ________________ in _________________________ (indicare in quale contesto le dichiarazioni sono state rese), la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini in ordine al reato di __________________ (indicare il titolo di reato) e che si trova in stato di __________________________ (dire se “di libertà”, “di arresto o fermo”, o “sottoposto a misura cautelare”) ha reso spontaneamente ai sottoscritti (e alla presenza del difensore di fiducia Avv.to ______________________ (oppure: senza la presenza del difensore) le seguenti dichiarazioni: ____________________________
Segue⇒
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E’ stata altresì invitata a dichiarare le proprie generalità a norma degli artt. 66 c.p.p. e 21 disp. Att. c.p.p. previo ammonimento circa le conseguenze cui si espone chi rifiuta di darle o le dà false. (per l’ipotesi in cui la nomina non sia stata già intervenuta, aggiungere: e ha nominato quale suo difensore di fiducia l’Avvocato _______________________________________ del Foro di ___________________________; oppure: e si è riservata di nominare il difensore di fiducia). Quanto alle proprie generalità, ha invece risposto: I verbalizzanti danno atto che il Verbale è stato redatto in forma riassuntiva e che è stata altresì effettuata la riproduzione fonografica (oppure: se la riproduzione fonografica non vi è stata ed è stato redatto soltanto il verbale in forma riassuntiva, indicare i motivi) le cui operazioni sono cessate alle ore _______ all’atto della chiusura del Verbale. Il relativo nastro è stato racchiuso nell’apposita custodia dai sottoscritti verbalizzanti sigillata, contrassegnata con il n. _______ e allegata al presente atto quale parte integrante di esso.
Segue ⇒
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Il verbale contestualmente redatto in numero di ______ fogli, è riletto, confermato e sottoscritto.
(il Verbale deve essere sottoscritto alla fine di ogni foglio anche quando le operazioni non sono esaurite e vengono inviate ad altro momento (art. 137 co.1)). Il Verbale previa conservazione di copia (art. 115 att.) è trasmesso al P.M. entro il terzo giorno dal suo compimento (art. 366). Resta fermo che può essere allegato anche alla informativa (o comunicazione) della notizia di reato. Ove ritenuto opportuno, può precisarsi che l’indagato è intervenuto libero al compimento dell’atto e che non sono stati utilizzati metodi e tecniche idonei a influire sulla sua libertà di autodeterminazione o ad alterare la sua capacità di ricordare e valutare i fatti (art. 64 co.2). Sintesi della presente comunicazione è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
(*) Anche se trattasi di atto “non garantito”, qualora le Dichiarazioni venissero rese innanzi al Difensore di fiducia, il Verbale dovrà essere sottoscritto anche dal legale. |
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Capitaneria di Porto di ____________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di sommarie informazioni ex art. 351 c.p.p., relativo, quale persona informata sui fatti, a _________________ (Cognome e Nome) _____________ (Soprannome o pseudonimo) nato a ______________________ il______________ residente a _________________ via_______________ n°._____ tel.___________ Professione _______________ luogo di attività lavorativa ___________________ stato civile_________________ titolo di studio ___________________________.
Il giorno__________________ alle ore ______ in _________________________, negli Uffici di ______________________, noi sottoscritti Ufficiali di P.G _______________________(indicare specificamente grado, cognome, nome e reparto dei militari operanti) diamo atto di procedere all’esame di _________________________ trattandosi di persona informata sui fatti per cui si procede. __________________________________________________________________»
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(verbalizzare le dichiarazioni rese dalla persona esaminata, eventualmente anche le domande rivolte; se il Verbale sarà redatto in forma riassuntiva sarà sufficiente che sia riprodotta nella originaria genuina espressione la sola parte essenziale delle dichiarazioni rese; inoltre, sempre in caso di verbalizzazione in forma riassuntiva e con riproduzione fonografica, dal Verbale dovrà risultare il momento di inizio e di cessazione delle operazioni di riproduzione).
Il verbale contestualment redatto in ______________ fogli è riletto, confermato e sottoscritto. Previa conservazione di copia, sarà posto a disposizione del Procuratore della repubblica presso il _______________________. Sintesi del presente verbale è fatta confluire nel Sistema informatico interforze (CED-SDI).
(Se nel corso dell’esame emergono indizi di reità a carico dell’interrogato:
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Capitaneria di Porto di ________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di interrogatorio delegato ex artt. 370 co.1, 364, 373 co.1 lett. b) c.p.p., reso, quale persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, da _________________________________ (Cognome e Nome) _____________________.(Soprannome o pseudonimo) nato a __________________ il _______________ residente a _________________ via _______________ n°._______ tel._________ Professione _________________ luogo di attività lavorativa ____________________ stato civile _________ titolo di studio _________________.
Il giorno _______________ alle ore ______ in _____________________________, negli Uffici di ______________________, davanti a noi sottoscritti Ufficiali di P.G.________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) delegati all’atto dal Procuratore della Repubblica presso _________________ di __________________ nella persona del Dott. ______________________ (dare atto dell’assistenza di persone idonee o di altri ufficiali o agenti di p.g. per la riproduzione fonografica o per le riprese audiovisive oltreché, se necessario, per svolgere funzione di interprete) è comparso _________________________ qui invitato per rendere interrogatorio quale persona nei cui confronti vengono svolte le indagini per il reato di _________________________________________ (indicare il titolo di reato).
Segue ⇒ |
« Sono (generalità) ___________________________________________ (pseudonimo/soprannome) _____________________ (nazionalità) _______________________________ (residenza anagrafica) __________________________ (dimora) _________________________________ (luogo di attività lavorativa) _____________________ (stato civile) ______________________________ (professione od occupazione) _____________________ (beni patrimoniali) _______________________ (processi penali pendenti) _____________ (condanne nello Stato o all’estero) ____________________ (uffici servizi pubblici o di pubblica necessità esercitati) __________________________ (cariche pubbliche ricoperte) ______________________________________________________________________ »
Invitato quindi a nominare un difensore di fiducia l’indagato dichiara, di nominarlo nella persona di ____________________________________________________, presente all’atto.
Segue ⇒
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La persona sottoposta alle indagini viene quindi invitata a dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni a norma dell’art. 161 comma 1 c.p.p. ed avvertita, in specie, sia dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato eletto sia del fatto che in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore ancorché di ufficio.
Segue⇒
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I verbalizzanti danno atto che il Verbale è stato redatto in forma riassuntiva e che è stato altresì effettuata la riproduzione fonografica (oppure: se la riproduzione fonografica non vi è stata ed è stato redatto soltanto il verbale in forma riassuntiva, indicare i motivi) le cui operazioni sono cessate alle ore _______ all’atto della chiusura del Verbale. [il Verbale deve essere sottoscritto alla fine di ogni foglio anche quando le operazioni non sono esaurite e vengono inviate ad altro momento (art. 137 co.1). Se alcuno degli intervenuti non vuole o non è in grado di sottoscrivere, deve farsi menzione con l’indicazione del motivo (art. 137 co.2). Il Verbale previa conservazione di copia (art. 115 att.) è trasmesso al P.M. entro il terzo giorno dal suo compimento (art. 366). Resta fermo che può essere allegato anche alla informativa (o comunicazione) della notizia di reato. Ove ritenuto opportuno, può precisarsi che l’indagato è intervenuto libero al compimento dell’atto e che non sono stati utilizzati metodi e tecniche idonei a influire sulla sua libertà di autodeterminazione o ad alterare la sua capacità di ricordare e valutare i fatti (art. 64 co.2).] Sintesi del presente verbale è fatta confluire nel Sistema interforze (CED-SDI).
(*) Trattasi di atto garantito |
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All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di perquisizione personale eseguita a norma dell’art. 352 c.p.p. nei confronti ______________________________ nato a _____________ il _______________ residente in _______________ via _______________ n.° ______ Tel _________________ professione o mestiere ________________ identificato mediante _________________________________ n°. _____________
Il _____________ alle ore _______ i sottoscritti Ufficiali di P.G.__________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) danno atto che alle ore ___________ del ____________ in _____________________ (se la perquisizione è stata operata solo da Agenti di P.G., specificare i motivi di particolare necessità e urgenza che si è ritenuto sussistere - art. 113 att.) danno atto che, alle ore ______ del ________________________ hanno proceduto a perquisizione sulla persona menzionata in oggetto.
Segue⇒ |
Danno atto che il Sig. _____________________ è stato previamente reso edotto della facoltà di farsi assistere da un difensore di sua fiducia e/o da altra persona sempre di sua fiducia, senza che ciò potesse comportare ritardi nella esecuzione dell’atto (sarà specificato, a seconda dei casi: a) avendone risposta negativa; b) a seguito di che ha dichiarato di volersi fare assistere da ________________________ avvisato, è (non è) intervenuto nel corso della perquisizione; oppure ha assistito che alla perquisizione). Eseguite ricerche sulla persona _________________ (le perquisizioni personali sono eseguite nel rispetto della dignità e, nei limiti del possibile, del pudore di chi vi è sottoposto. A esse procede persona dello stesso sesso di quella che vi è sottoposta, salvi i casi di impossibilità o di urgenza assoluta: pertanto saranno riportate, a questo punto, nel Verbale, le indicazioni in tal senso eventualmente necessarie – art. 79 att.) è stato rinvenuto (indicare quanto e dove rinvenuto) _______________________________________ che è stato sottoposto a sequestro. La perquisizione è stata conclusa alle ore _______ del ___________________. Trattandosi di perquisizione eseguita nei confronti della persona sottoposta alle indagini ed essendo questa presente si è provveduto a invitarla a dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni a norma dell’art. 161 c.p.p. avvertendola dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e del fatto che, in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiararlo o eleggerlo, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore ancorché di ufficio. Si dà atto che la persona sottoposta alle indagini ha chiesto che ogni comunicazione le fosse notificata presso _________________________ (oppure: si è rifiutata di dichiarare o eleggere domicilio) e ha nominato quale suo difensore di fiducia l’Avvocato ______________ del foro di _____________ (oppure: riservandosi di nominare il difensore di fiducia). Di quanto sopra è stato formato il presente Verbale (se il verbale non è stato redatto contestualmente, indicarne i motivi in modo specifico. Se vi è stata riproduzione o ripresa audiovisiva, darne atto nel verbale precisando le modalità di custodia e allegazione dei relativi nastri) che i verbalizzanti, unitamente a tutti gli intervenuti, viene riletto, confermato e sottoscritto e che sarà trasmesso senza ritardo e comunque non oltre le 48 ore dalla esecuzione delle operazioni al Procuratore della repubblica presso ______________________ per la convalida (il P.M. è quello del luogo ove la perquisizione è stata eseguita). Sintesi del presente verbale è fatto confluire nel Sistema informatico interforze (CED-SDI).
Firma:
- della persona perquisita _______________________
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Capitaneria di Porto di ____________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di perquisizione locale per ricerca di persone eseguita a norma dell’art. 352 c.p.p. nei confronti di _____________ nato a ___________ il ______________ residente in _________________ via ________________ n.° ______ Tel ____________ professione o mestiere _____________________
Il ______________ alle ore _____ i sottoscritti Ufficiali di P.G.___________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) nell’Ufficio _________________ in ____________ danno atto che, alle ore ______ del ____________________________ collaborati dagli Agenti di P.G ____________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) [Riportare l’indicazione che, tra quelle sotto elencate, si adatta alla situazione concreta:
Segue⇒
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I sottoscritti danno altresì atto che, presentatisi a ___________________________ [l’atto può essere effettuato anche se la persona nei cui confronti è diretto non è presente. In tal caso, nel verbale saranno indicati:
I sottoscritti danno altresì atto che, presentatisi a ___________________________ (l’atto può essere effettuato anche se la persona nei cui confronti è diretto non è presente.
Segue⇒
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A seguito di ciò, il Sig. ___________________________________________ ha dichiarato che:
Eseguite accurate ricerche nel luogo sopra indicato (indicare tutti i locali e le eventuali pertinenze sottoposte a perquisizione) la persona ricercata è/non è stata rintracciata in _____________________ (se la perquisizione ha esito positivo va indicato con la massima precisione il luogo nel quale la persona è stata rintracciata). Di quanto sopra è stato formato il presente Verbale (se il verbale non è stato redatto contestualmente, indicarne i motivi in modo specifico. Se vi è stata riproduzione o ripresa audiovisiva, darne atto nel verbale precisando le modalità di custodia e allegazione dei relativi nastri) che i verbalizzanti, unitamente a tutti gli intervenuti, viene riletto, confermato e sottoscritto e che sarà trasmesso senza ritardo e comunque non oltre le 48 ore dalla esecuzione delle operazioni al Procuratore della Repubblica presso ______________________ per la convalida (il P.M. è quello del luogo ove la perquisizione è stata eseguita). Sintesi del presente verbale è fatta confluire nel Sistema informativo interforze (CED-SDI).
Firma: - della persona perquisita _______________________
Segue ⇒ |
► Ricordare che:
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Capitaneria di Porto di ____________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di perquisizione locale per ricerca di cose eseguita a norma dell’art. 352 c.p.p. nei confronti di ____________________ nato a _____________________ il __________ residente in ______________________ via _______________ n.° ______ Tel _____________ professione o mestiere _______________________________.
Il _______________ alle ore _______ i sottoscritti Ufficiali di P.G. _______________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) nell’Ufficio ______________________ in ___________________ danno atto che, alle ore ______ del ______________ collaborati dagli Agenti di P.G ________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome).
(Ricordare di specificare la cosa o le cose pertinenti al reato che si sono ricercate e le ragioni che hanno motivato la perquisizione in quel luogo).
Segue ⇒
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I sottoscritti danno altresì atto che, presentatisi a _____________________ [l’atto può essere effettuato anche se la persona nei cui confronti è diretto non è presente. In tal caso, nel verbale saranno indicati: a) le generalità complete della persona intervenuta (congiunto, coabitante, collaboratore, ecc.); b) i suoi eventuali rapporti con la persona nei cui confronti l’atto è diretto; c) la qualifica che la persona intervenuta riveste rispetto al luogo in cui la perquisizione è avvenuta. (Ad esempio: GLORIOSO Raffaele, nato a _____________________ fratello di ________________ e proprietario del Motopesca 1OL123, oppure: GLORIOSO Gino, nato a ______________ figlio di _________________ proprietario del Motopesca 1OL123 e al momento assente).
Segue ⇒
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La perquisizione è stata conclusa alle ore __________ del _____________________________ Trattandosi di perquisizione locale eseguita nei confronti della persona sottoposta alle indagini ed essendo questa presente si è provveduto a invitarla a dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni a norma dell’art. 161 c.p.p. avvertendola dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e del fatto che, in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiararlo o eleggerlo, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore ancorché di ufficio. Si dà atto che la persona sottoposta alle indagini ha chiesto che ogni comunicazione le fosse notificata presso _________________________ (oppure: si è rifiutata di dichiarare o eleggere domicilio) e ha nominato quale suo difensore di fiducia l’avvocato ____________________ del foro di _______________________ (oppure: riservandosi di nominare il difensore di fiducia). (Naturalmente, se la perquisizione è stata effettuata presso un terzo (diverso cioè dalla persona indagata), questi non deve eleggere o dichiarare domicilio: Deve farlo solo la persona «indagata» se è intervenuta. La dichiarazione o l’elezione di domicilio non va effettuata se la perquisizione non è il primo atto compiuto con l’intervento dell’indagato). Di quanto sopra è stato formato il presente Verbale (se il verbale non è stato redatto contestualmente, indicarne i motivi in modo specifico. Se vi è stata riproduzione o ripresa audiovisiva, darne atto nel verbale precisando le modalità di custodia e allegazione dei relativi nastri) che i verbalizzanti, unitamente a tutti gli intervenuti, viene riletto, confermato e sottoscritto e che sarà trasmesso senza ritardo e comunque non oltre le 48 ore dalla esecuzione delle operazioni al Procuratore della repubblica presso ______________________ per la convalida (il P.M. è quello del luogo ove la perquisizione è stata eseguita). Sintesi del presente verbale è fatta confluire nel Sistema informatico interforze (CED-SDI)
Firma:
- della persona perquisita _______________________ Segue ⇒
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► Ricordare che:
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di _________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di perquisizione locale per ricerca di armi, munizioni o materie esplodenti eseguita, a norma dell’art. 41 T.U.L.P.S. (R.D. 18/6/1931, n. 773), nei confronti di ________________________ nato a ___________________ il ________________ residente in __________________ via ____________________ n.° ____ Tel ___________ professione o mestiere ___________________________ identificato mediante ______________________ n° ____________ rilasciato da ____________________ il ____________________.
Il _______________ alle ore _______ i sottoscritti Ufficiali/Agenti di P.G. _________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) danno atto che alle ore ___________ del ________________ (se la perquisizione è stata operata solo da Agenti di P.G., specificare i motivi di particolare necessità e urgenza che si è ritenuto sussistere - art. 113 att.) hanno dato luogo alla perquisizione del seguente luogo (indicare compiutamente il luogo pubblico o privato, abitazione, dove è avvenuta la perquisizione), dovendo ritenere, per motivi appresso indicati, che potessero qui trovarsi armi e/o munizioni e/o materie esplodenti non denunciate (oppure: non consegnate, o comunque abusivamente detenute). [Se si tratta di perquisizione domiciliare e cioè di una perquisizione locale compiuta in una abitazione o in luoghi chiusi adiacenti a essa o luoghi destinati a uso domestico o destinati al suo servizio o completamento, è opportuno precisare i motivi che hanno indotto - se del caso – al mancato rispetto dei limiti temporali – ore 07.00/20.00 – previsti per tale tipo di perquisizione dall’art. 251 c.p.p. A differenza di quel che accade per le perquisizioni disciplinate dal codice, la precisazione è opportuna, ma non indispensabile. La intrinseca pericolosità delle «cose» che si ricercano giustifica la deroga alla disposizione generale essendo evidente che un pur limitato ritardo nella esecuzione dell’atto può pregiudicarne l’esito]. Segue ⇒
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Si sono portati nei locali sopra specificati e qui hanno fatto presente a____________________ (indicare le generalità complete della persona intervenuta e la qualifica che riveste rispetto al luogo ove avviene la perquisizione) le ragioni del loro intervento rendendo la persona predetta edotta della facoltà di farsi rappresentare o assistere da un difensore di fiducia e/o da altra persona sempre di sua fiducia, senza che ciò potesse comportare ritardi nell’esecuzione dell’atto ______________________ (sarà specificato a seconda dei casi: a) avendone risposta negativa; b) a seguito di che ha dichiarato di volersi far assistere o rappresentare da __________________________ che ha provveduto ad avvisare a mezzo ________________ e che è (oppure: non è) intervenuto nel corso della perquisizione. L’atto può essere effettuato anche se la persona nei cui confronti è diretto non è presente. In tal caso, nel verbale, sarà indicato l’eventuale congiunto o coabitante o collaboratore ovvero, in mancanza, il portiere o chi ne fa le veci. Quando, per mancanza di persone idonee o per altra circostanze non è possibile ottemperare alle disposizioni suddette, si darà atto della situazione e degli atti compiuti per introdursi nel luogo. Ove gli operanti abbiano ritenuto di invitare la persona a consegnare la cosa, si darà atto di ciò e dell’esito dell’invito: se la cosa è consegnata non si procede a perquisizione, salvo che si ritenga utile procedervi egualmente per la completezza delle indagini – art. 248, co.1 c.p.p.)).
- della persona perquisita _______________________
Segue ⇒
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► Ricordare che:
(*) La polizia giudiziaria può ordinare che taluno, presente o sopraggiunto nel corso della perquisizione, non si allontani dal luogo prima che le operazioni siano concluse. Dell’ordine e dei motivi dello stesso va dato atto nel verbale. Chi trasgredisce all’ordine è trattenuto e ricondotto coattivamente sul posto e può rispondere del reato di cui all’art. 650 c.p. (art. 250 c.p.p.). Le garanzie previste dal codice per le perquisizioni locali devono ritenersi applicabili anche a quella in esame. Sicché il verbale delle operazioni compiute (previa conservazione di copia) va trasmesso senza ritardo e comunque non oltre 48 ore dal loro compimento al P.M. del luogo dove la perquisizione è stata eseguita. Il P.M. convalida la perquisizione nelle 48 successive quando accerta che ne ricorrevano i presupposti. ► Ricordare che:
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ___________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di perquisizione sul posto eseguita, a norma dell’art. 4 L. 22 Maggio 1975 n. 152, nei confronti di ________________________ nato a ___________________________ il ________________ residente in __________________ via ____________________ n.° ____ Tel _________________ professione o mestiere ___________________________ identificato mediante _______________________ n° ________________________________ rilasciato da ____________________ il ____________________.
Il ____________ alle ore ______ in _________________ località _____________ i sottoscritti Ufficiali e Agenti di P.G._________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) riferiscono che durante lo svolgimento di una operazione di polizia disposta _______________________, hanno notato, alle ore_________ del ____________________ la persona indicata in oggetto il cui atteggiamento (ovvero: la cui presenza) destava sospetto in relazione al fatto che _______________________ [descrivere l’atteggiamento della persona e spiegare perché esso o la sola presenza non apparivano giustificabili in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo (ad esempio: la prossimità a un “obiettivo tutelato”) e di tempo (ad esempio: di notte)].
Segue⇒ |
(Naturalmente questa parte dello schema del Verbale va omessa se l’estensione della perquisizione al mezzo non vi è stata). La perquisizione ha dato esito __________________________________________ [Indicare, a seconda dell’esito:
Il presente Verbale, riletto, confermato e sottoscritto, viene redatto in triplice esemplare, di cui uno consegnato all’interessato (il Verbale va redatto contestualmente salvo che non sussistano insuperabili circostanze da indicare specificamente; il Verbale va consegnato all’interessato e trasmesso senza ritardo e comunque entro le 48 ore dalla esecuzione delle operazioni al Procuratore della Repubblica per la convalida. Se la perquisizione è estesa al mezzo di trasporto e per essa è stato redatto un autonomo verbale, di questo non è prevista la consegna all’interessato), reso edotto che l’originale sarà trasmesso al Procuratore della Repubblica entro 48 ore dal compimento delle operazioni. La sintesi del presente verbale è fatta confluire nel Sistema informatico interforze (CED-SDI).
Firma:
- della persona perquisita _______________________
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Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
CAPITANERIA DI PORTO DI _________________
Oggetto: Verbale di Sequestro effettuato:
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Delle cose sequestrate è stato formato apposito plico sigillato mediante _________________ sigilli in ceralacca con l’impronta dell’Ufficio. Il plico è stato affidato in custodia alla segreteria del pubblico ministero (art. 259 c.p.p.). Si dà atto altresì che, prima di procedere alle attività sopra indicate, il Sig. __________________________, persona sottoposta alle indagini e che era presente sul posto, è stato reso edotto della facoltà di farsi rappresentare o assistere da un difensore di fiducia senza che ciò potesse comportare ritardi nell’esecuzione dell’atto. La persona sottoposta alle indagini ha dichiarato di: (1. non volersi far assistere dal difensore di fiducia; 2. volersi far assistere o rappresentare da ___________________ che ha provveduto ad avvisare a mezzo __________ e che è (oppure, non è) intervenuto all’atto)(*).
Firme ____________________________
(*) Ovviamente, la parte del Verbale concernente l’assistenza del difensore ha ragione di essere se esiste un “indagato” e non anche se l’autore del fatto è ignoto. Se il difensore è intervenuto e ha formulato osservazioni, aggiungere :”formulando le seguenti osservazioni e i seguenti rilievi……”. Se si tratta del primo atto compiuto con il suo intervento, la persona sottoposta alle indagini è dunque invitata anche ad eleggere domicilio a norma dell’art. 161 c.p.p. Sarà usata una formula del genere : ”La persona sottoposta alle indagini che è presente viene invitata a dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni a norma dell’art. 161 c.p.p. avvertendola dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e del fatto che, in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiararlo o eleggerlo, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore ancorché di ufficio. Si dà atto che la persona sottoposta alle indagini ha chiesto che ogni comunicazione le fosse notificata presso ________________ (oppure: ha rifiutato di dichiarare o eleggere domicilio) e ha nominato quale suo difensore di fiducia l’Avvocato __________ del Foro di __________________________ (oppure: riservandosi di nominare il difensore di fiducia)”.
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
All. Nr._____________
Oggetto: Verbale di accertamenti urgenti...(rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici)
Il giorno _____________ alle ore _________ in ____________________________ nell'ufficio di ______________________ Noi sottoscritti (grado, cognome, nome e reparto dei militari operanti) diamo atto che alle ore ________ del_________________________ ci siamo recati in ___________________________________ perché _______________________ (indicare la ragione dell’intervento ed il fatto criminoso verificatosi). Qui abbiamo curato preliminarmente che le tracce e le cose pertinenti al reato fossero conservate e lo stato dei luoghi e delle cose non venisse mutato. In particolare abbiamo _______________________________ (indicare le tecniche operative usate per procedere al corretto svolgimento dell’attività conservativa). Sussistendo peraltro il pericolo di alterazione (dispersione o modificazione) delle tracce e delle cose pertinenti al reato e non potendo il P.M. presso ___________________________ di ___________________ immediatamente avvertito, intervenire tempestivamente, al fine di evitare che l’attività investigativa ed assicurativa rischiasse di non poter più essere utilmente compiuta se differita, abbiamo effettuato i seguenti accertamenti e/o rilievi (se gli accertamenti e i rilievi sono effettuati da ausiliari di P.G. o da personale specializzato, dovranno indicarsene generalità e qualifiche, precisando se la documentazione avverrà mediante altro verbale) (*)
Segue ⇒
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Prima di procedere all’attività di P.G. sopra indicata, abbiamo reso edotto l’indagato della facoltà di farsi rappresentare o assistere da un difensore di fiducia senza che ciò potesse comportare ritardi nell’esecuzione dell’atto, ricevendone riposta negativa (oppure: appresa tale possibilità ha dichiarato di voler farsi assistere o rappresentare da _______________ che ha provveduto ad avvisare a mezzo ______________ e che è intervenuto all’atto). Egli, altresì, invitato ad eleggere domicilio, ha dichiarato: «__________________________________________________________________________». Al verbale, chiuso alle ore ________ del ________________, si allegano gli esisti dei rilievi e degli accertamenti effettuati. Sintesi del verbale è fatta confluire nel Sistema informatico interforze (CED-SDI). Riletto, confermato e sottoscritto. Data _______________
Firma dei militari operanti _______________________
(*) Indicare specificatamente l’attività svolta: ispezione dei luoghi e delle cose (descrizione dettagliata dello stato dei luoghi e delle cose in tutti i loro particolari), precisando anche accertamenti, rilievi ed ispezioni tecniche.
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Capitaneria di Porto di ____________________
Oggetto: Verbale di arresto in flagranza di ___________________________________ nato a ___________________ il _________________ residente a _____________________________ Via _______________________ n. _____ tel ________ professione ______________________ soprannome/pseudonimo ______________________ stato civile ________________ evidenti segni particolari ___________________ (se l’identificazione avviene mediante un documento di identità dire:” identificata mediante __________ n. ______ rilasciato il _______________ da ______________________________________ “)
(*) Ricordare: quando si tratta di arresto facoltativo indicare sempre le ragioni che hanno indotto all’adozione della misura. Si raccomanda che siano sempre indicate le ragioni della gravità del fatto o della pericolosità del soggetto desunta dalla personalità dello stesso o dalle circostanze del fatto medesimo. Se si tratta di delitto perseguibile a querela, specificare anche “_________________________ e avendo la persona offesa (indicare le generalità) _________________________________
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I verbalizzanti attestano di aver dato notizia dell’arresto al Procuratore della Repubblica presso ___________________________ di ____________________ e di averne informato il difensore Avv. _____________________________ rispettivamente con comunicazioni effettuate a mezzo _______________________ alle ore_________ e alle ore _______ del giorno _____________.
Riletto, confermato e sottoscritto.
Ricordare: Il Verbale va trasmesso al Pubblico Ministero (art. 386, co.3). Autonomamente o congiuntamente va trasmessa la documentazione relativa alle altre attività di indagine eventualmente svolte. Nel caso di arresto per reati di competenza del Tribunale in composizione monocratica, può essere, se del caso, riportato nello stesso o in separato Verbale: “Si dà atto che il Procuratore della Repubblica presso il Giudice Unico _________________ ha disposto che l’arrestato fosse presentato direttamente al Giudice per la convalida e il contestuale giudizio. Con separato atto (che ha consegnato ai verbalizzanti) ha altresì formulato la imputazione”. Nello stesso Verbale può essere dato atto dell’avvenuta consegna dell’arrestato all’istituto di custodia aggiungendo una formula del tipo: “Attestano altresì che, come emerge anche dall’allegata nota di consegna all’istituto di custodia, l’arrestato è stato condotto nell’istituto di _________________, luogo ove l’arresto è stato eseguito, alle ore ___________ del giorno ________________ “ Anche se ciò non avviene perché il Verbale viene «chiuso» prima della «conduzione in carcere» dell’arrestato, è peraltro di fondamentale importanza che la nota di consegna sia allegata al verbale. La nota (V. Consegna a istituto di custodia) deve comunque riportare la puntuale indicazione dell’ora e del giorno della consegna all’istituto di custodia. Tale indicazione riveste grande rilievo in quanto la P.G. mette l’arrestato o il fermato a disposizione del P.M. proprio attraverso la conduzione in carcere e tale messa a disposizione deve avvenire, a pena di inefficacia della misura, «al più presto e comunque non oltre 24 ore dall’arresto o dal fermo». Nei casi in cui la consegna dell’arrestato all’istituto di custodia avviene dopo la redazione del verbale, questo dovrà riportare una espressione del genere: “Entro il termine di legge (e con riserva di darne immediato avviso anche mediante trasmissione della nota di consegna all’istituto di custodia), l’arrestato sarà condotto nell’istituto di custodia di ________________, luogo di esecuzione dell’arresto, e, in tal modo posto a disposizione del procuratore della Repubblica ______________________”. Nei casi in cui l’obbligo di conduzione in carcere è derogato a norma dell’art. 386, il verbale potrà riportare una delle formulazioni che seguono: Se il verbale precede la conduzione nell’abitazione, in altro luogo di privata dimora o nell’istituto di custodia specificamente individuato ovvero precede il ricovero in luogo di casa di cura, si potrà dire: “Entro il termine di legge (e con riserva di darne immediato avviso) e, come disposto dal P.M. dott. __________________ della Procura della Repubblica _________________, l’arrestato sarà condotto presso la propria abitazione sita in ____________________________________ (o presso il luogo di privata dimora ________________ - o presso il luogo di cura – oppure: e come disposto dal P.M. per esigenze di indagine, presso la casa circondariale di ____________________ ) per essere qui posto a disposizione del Sig. Procuratore della Repubblica di _____________________”. Il verbale è trasmesso al più presto e comunque non oltre le 24 ore dall’arresto. Il P.M. può peraltro autorizzare una dilazione maggiore che, al massimo, potrà coincidere con il momento in cui lo stesso P.M. formula al GIP la richiesta di convalida (art.122 att.) (art. 390 c.p.p.: “Entro 48 ore dall’arresto _______________ richiede la convalida ________________”). |
Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti CAPITANERIA DI PORTO DI _________________
Oggetto: Verbale di fermo di indiziato di delitto a carico di __________________________ nato a ___________________ il _________________ residente a ____________________ Via ___________________________ n. __________ tel __________ professione ______________ soprannome/pseudonimo __________________ stato civile ________________ evidenti segni particolari ___________ ______(se l’identificazione avviene mediante un documento di identità dire:”identificata mediante _______________________ n. ______ rilasciato il______________ da _____________________________________ “)
Il ______________ alle ore_________ negli Uffici ________________________ i sottoscritti Ufficiali – Agenti di P.G. (indicare specificamente qualifica, cognome, nome) in servizio presso ______________________ riferiscono che alle ore ________ del__________________ in ______________________, non avendo ancora il Pubblico Ministero assunto la direzione delle indagini (oppure: non essendo stato possibile, per la situazione di urgenza appresso indicata, attendere il provvedimento del P.M.;
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Alle ore ________(in caso contrario verbalizzare: “su specifica richiesta, il fermato ha dichiarato che non intende che dell’avvenuto fermo siano avvisati i suoi familiari”) I verbalizzanti attestano di aver dato notizia del fermo al Procuratore della Repubblica presso ____________________ di ____________________ e di averne informato il difensore Avv. ___________________ rispettivamente con comunicazioni effettuate a mezzo _______________ alle ore______ e alle ore _____ del giorno _____________. Riletto, confermato e sottoscritto.
Ricordare: Quanto al fondato pericolo di fuga richiesto dall’art. 384, che esso sussiste solo quando ricorrono precise circostanze di fatto, concretamente apprezzabili, tali da far ritenere probabile la fuga del soggetto. Non bastano dunque generiche supposizioni soggettive basate su presupposti non concreti Il Verbale va trasmesso al P.M. (art. 386, co.3). Autonomamente o congiuntamente va trasmessa la documentazione relativa alle altre attività di indagine eventualmente svolte. Nello stesso Verbale può essere dato atto dell’avvenuta consegna del fermato all’istituto di custodia aggiungendo una formula del tipo: “Attestano altresì che, come emerge anche dall’allegata nota di consegna all’istituto di custodia, il fermato è stato condotto nell’istituto di _________________, luogo ove il fermo è stato eseguito, alle ore ___________ del giorno ________________ “ Anche se ciò non avviene perché il Verbale viene «chiuso» prima della «conduzione in carcere» del fermato, è peraltro di fondamentale importanza che la nota di consegna sia allegata al verbale. La nota (V. Consegna a istituto di custodia) deve comunque riportare la puntuale indicazione dell’ora e del giorno della consegna all’istituto di custodia. Tale indicazione riveste grande rilievo in quanto la P.G. mette il fermato a disposizione del P.M. proprio attraverso la conduzione in carcere e tale messa a disposizione deve avvenire, a pena di inefficacia della misura, «al più presto e comunque non oltre 24 ore dal fermo». Nei casi in cui la consegna del fermato all’istituto di custodia avviene dopo la redazione del verbale, questo dovrà riportare una espressione del genere: “Entro il termine di legge (e con riserva di darne immediato avviso anche mediante trasmissione della nota di consegna all’istituto di custodia), il fermato sarà condotto nell’istituto di custodia di ________________, luogo di esecuzione del fermo, e, in tal modo posto a disposizione del procuratore della Repubblica ______________________”. Nei casi in cui l’obbligo di conduzione in carcere è derogato a norma dell’art. 386, il verbale potrà riportare una delle formulazioni che seguono: Se il verbale precede la conduzione nell’abitazione, in altro luogo di privata dimora o nell’istituto di custodia specificamente individuato ovvero precede il ricovero in luogo di casa di cura, si potrà dire: “Entro il termine di legge (e con riserva di darne immediato avviso) e, come disposto dal P.M. dott. __________________ della Procura della Repubblica _________________, il fermato sarà condotto presso la propria abitazione sita in ____________________________________ (o presso il luogo di privata dimora ________________ - o presso il luogo di cura – oppure: e come disposto dal P.M. per esigenze di indagine, presso la casa circondariale di ____________________ ) per essere qui posto a disposizione del Sig. Procuratore della Repubblica di _____________________”. Il verbale è trasmesso al più presto e comunque non oltre le 24 ore dal fermo. Il P.M. può peraltro autorizzare una dilazione maggiore che, al massimo, potrà coincidere con il momento in cui lo stesso P.M. formula al GIP la richiesta di convalida (art.122 att.) (art. 390 c.p.p.: “Entro 48 ore dal fermo _______________ richiede la convalida ________________”).
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Ministero delle Infrastrutture d dei trasporti CAPITANERIA DI PORTO DI _________________
Oggetto: Consegna a istituto di custodia di __________________________ nato a ___________________ il _________________ residente a ____________________ Via ______________ n. _____ tel _____________ professione _____________________________ soprannome/pseudonimo _____________________ stato civile ________________ evidenti segni particolari ___________
Il Dirigente dell’Ufficio
INTESTAZIONE DELL’ISTITUTO DI CUSTODIA Si attesta che alle ore ____________ del _______________ è stato ricevuto in consegna il Sig. _____________________ condotto in questo istituto___________ dal personale di P.G. in servizio presso l’Ufficio _______________________.
Il Comandante del Corpo di polizia penitenziaria
(*) V. art. 94 att. E, quanto all’isolamento e alle modalità di disporlo, art. 22 DPR 29/4/1976, n. 431 – Reg. ordinamento penitenziario
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Diamo atto che:
su delega dell’Autorità Giudiziaria:
Letto, chiuso, confermato e sottoscritto.-
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
All. Nr. 11
Al Sig. Procuratore della Repubblica
Il giorno 22.12.2003 alle ore 17.15 circa, presso i locali dell’Ospedale Civile Paolo Merlo di la Maddalena (SS), in ottemperanza a quanto disposto dalla S.V., noi sottoscritti Ufficiali di P.G. 1° M.llo Np. SANZIO Raffaelo (Capo Sezione Uff. Contenzioso) e C° 2^ cl. Np. GRIGNANI Gianluca (Comandante M/V CP. 2017),
DIAMO ATTO CHE:
su delega dell’Autorità Giudiziaria:
Letto, chiuso, confermato e sottoscritto.-
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Oggetto: Relazione di notificazione
Il sottoscritto Ufficiale o Agente di P.G _________________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) certifica che, come da richiesta ___________________________ (indicare l’Autorità Giudiziaria richiedente) ha notificato il presente atto (se la relazione di notificazione non è scritta in calce all’originale e alla copia notificata dell’atto, occorre invece precisare quale tipo di atto è stato notificato) a____________________________ (riportare le indicazioni necessarie per la identificazione della persona cui l’atto è destinato):
ovvero:
[Il sottoscritto dà atto che la consegna dell’atto è avvenuta in plico chiuso e che la relazione di notificazione è stata scritta all’esterno del plico stesso] (Il periodo scritto in parentesi va riportato solo se si tratta di notificazione all’indagato o imputato). _________________ (Luogo e data)
L’Ufficiale/Agente di P.G. ___________________
Se l’atto è consegnato al portiere (o chi ne va le veci), la di lui sottoscrizione sull’originale dell’atto è prescritta a pena di nullità (art. 171 co.1 lett. g). Se l’atto è consegnato all’interessato o ad altra delle persone indicate dalla legge, la sottoscrizione non è prescritta.
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
La P.G. deve annotare, sull’originale dell’avviso, il numero chiamato, il giorno e l’ora della telefonata, le funzioni o le mansioni di chi riceve la telefonata e il rapporto che esiste tra il destinatario e chi riceve la comunicazione; la comunicazione telefonica non ha effetto se non è ricevuta dal destinatario o da chi convive con lui (anche temporaneamente). La P.G. deve chiamare, nell’ordine, il numero, il numero dell’abitazione, quello del luogo di abituale lavoro, quello di temporanea dimora o recapito del destinatario. Nel caso di avviso telefonico al difensore (ad esempio, perché assista a un atto o all’udienza di convalida), l’avviso è valido anche se è stato ricevuto e registrato solo dalla segreteria telefonica.
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MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
Capitaneria di Porto di ____________________
Il sottoscritto Ufficiale o Agente di P.G ______________________ (indicare specificamente qualifica, cognome e nome) certifica di non aver potuto procedere, come da richiesta __________________ (indicare l’Autorità Giudiziaria richiedente) alla notifica di copia dell’atto (indicare il tipo di atto) a __________________ (riportare le indicazioni necessarie per la identificazione della persona cui l’atto è destinato) mediante consegna a mani del destinatario, di persone conviventi ovvero del portiere stante l’assenza degli stessi (oppure: la inidoneità degli stessi; oppure: il rifiuto di ricevere la copia dell’atto dagli stessi opposto). Certifica inoltre che la predetta impossibilità di procedere alla notifica è stata verificata nei due accessi eseguiti, a norma dell’art. 59 D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, nel giorno __________ alle ore _____ e nel giorno ___________ alle ore ______. A ragione di ciò, il sottoscritto ha proceduto, il giorno _____________ alle ore _____, al deposito di copia integrale dell’atto nella casa Comunale dove il destinatario ha l’abitazione (oppure: esercita abitualmente la sua attività lavorativa) e ha altresì, il giorno __________, affisso avviso del deposito alla porta della casa del destinatario dell’atto (oppure: alla porta del luogo dove il destinatario esercita la sua attività lavorativa).
Se la notificazione non è stata possibile dopo il «secondo accesso» e non hanno dato esito neppure le procedure di deposito e affissione sopra indicate, l’Autorità Giudiziaria dispone nuove e autonome ricerche che affida alla P.G.
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PROCURA DELLA REPUBBLICA
Rif. Fasc. N°. _____ R.G. del ________________ (1)
Delego Comando in indirizzo ad effettuare ampie indagini volte ad individuare fonti inquinanti dei fiumi, canali e specchi d’acqua rientranti nella competenza territoriale dell’Ufficio in indirizzo.
In particolare:
Tempio lì, 19 Gennaio 2010.-
IL Pubblico Ministero
(1) Registro Generale delle Notizie di Reato (NdR)
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La necessità di adeguare il sanzionamento delle violazioni al mutato ordine dei valori sociali, specie riferiti ai concetti di pericolosità ed allarme sociale, unitamente all’esigenza di defaticare la giustizia penale, hanno indotto più volte il legislatore a «depenalizzare» (rectius: decriminalizzare), condotte originariamente punite penalmente.
Il processo di depenalizzazione ha visto seguirsi nel tempo le Leggi 3 maggio 1967, n. 317 e 29 dicembre 1975, n. 706 ma fondamentalmente, in materia, è sicuramente la «Legge 24 novembre 1981, n. 689» che, al suo Capo I, viene ad assumere quasi i contorni di un «Codice di rito» in materia di sanzioni amministrative.
La Legge n. 689/81 comunemente conosciuta come “Nuova legge sulla depenalizzazione” resta pertanto la legge-base in materia di trattamento degli illeciti depenalizzati, anche se ha visto seguirsi nel tempo profonde modifiche apportate prima dalla Legge del 25 giugno 1999, n. 205 e inseguito dal Decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 quest’ultimo considerato, l’ultimo sforzo consentito dal sistema penale vigente per trasformare reati in ipotesi di illecito amministrativo, con l’obiettivo di deflazionare il carico di lavoro degli uffici giudiziari e per consentire un più ordinato decollo della riforma del giudice di primo grado.
Le «sanzioni amministrative» inflitte ai responsabili di tali comportamenti consistono nel pagamento di una somma in denaro, e hanno quindi, con nome diverso, lo stesso contenuto di alcune pene previste per i reati («multa» per i delitti, e «ammenda» per le contravvenzioni): incidono, cioè, sul patrimonio del trasgressore. Alle sanzioni non si ricollega nessuno degli effetti propri delle condanne penali. In questo, e non nell'entità della somma da pagare, (che non di rado è anzi maggiore di quella prevista dalla legge penale per alcuni reati, e che in ogni caso deve essere effettivamente versata, non essendo ammessa per le sanzioni amministrative la sospensione condizionale), sta il vantaggio della depenalizzazione.
La legge 689/81 mutua, facendoli propri, parecchi «principi» già sanciti dal vigente Codice penale. Tra di essi ricordiamo i seguenti:
L'illecito amministrativo è modellato sulla struttura del reato. Infatti, a conferma di ciò la Legge n. 689/1981 nella Sezione I del Capo I, dedicato ai principi generali delle sanzioni amministrative ricalca gli istituti penalistici del:
A differenza del sistema penalistico, per le sanzioni amministrative non opera il principio del favor rei, ovvero nella successione delle leggi penali prevale quella più favorevole, quanto piuttosto il principio tempus regit actum, ovvero la sanzione è individuata sulla base della legge vigente al momento della commissione dell'illecito, anche se più sfavorevole per il trasgressore.
Tale principio non vale per le sanzioni amministrative tributarie che seguono una normativa peculiare, prevedendo il principio del favor rei.
«Nullo crimin, nulla poena sine lege»....
Principio dominante nel nostro ordinamento, contenuto nell’art. 1 del Codice penale e riaffermato dall’art. 25, comma 2 della Costituzione.
A ragione l'art. 1 della Legge 689/1981, è titolato «Principio di Legalità» in quanto è doveroso riconoscere come il legislatore nei soli due commi che lo costituiscono, sia riuscito a delineare le regole fondamentali sia dell'illecito amministrativo depenalizzato che di quello ad esso assimilato dalla stessa Legge Depenalizzatrice (Vedasi l'art. 12). L'articolo in trattazione, ratificando il principio secondo il quale "nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commessa violazione", consacra la cosiddetta «riserva di legge», ormai dalla dottrina dominante definita di rango costituzionale e, da una sua lettura immediatamente è dato cogliere, come tra l'altro in tutta la sezione prima del capo primo della Legge Depenalizzatrice, l'ispirazione penalistica tenuta dal legislatore nella sua stesura, si osservi appunto il noto Principio di Legalità fissato dall'art. 1 del c.p.
Tale osservazione, è sostenibile prendendo atto dell'evidente simmetria esistente tra i due articoli sopraccitati e, l'art. 25 della Costituzione:
Rilevato ciò, non è possibile non evidenziare ancora il fatto che, l'art. 1 della Legge depenalizzatrice riposi anche sulle garanzie assicurate dai due successivi articoli della Costituzione, l'art. 23 e l'art. 97, nei quali è prevista una forma di riserva di legge rispettivamente riferita, alle prestazioni personali o, patrimoniali ed alle sanzioni disciplinari; tra l'altro una parte della dottrina ricollega l'obbligatorietà dell'irrogazione delle sanzioni al succitato art. 97 dal quale ne fa derivare una particolare forma di Principio di Legalità nel senso che all'accertamento di una violazione, è inevitabile fargli conseguire il procedimento d'irrogazione della sanzione.
Riguardo la riserva di legge, dalla dottrina distinta in riserva di legge relativa e, riserva di legge assoluta o, tendenzialmente assoluta, ci limiteremo a sostenere semplicemente ed in modo certamente riduttivo, che tale principio sancisce il criterio secondo il quale l'illecito amministrativo potrà essere sanzionato esclusivamente ad opera di una legge formale cioè, come ormai concordemente convenuto sia dalla dottrina che dalla S.C., individuabile solo tra fonti normative primarie, come sono le leggi statali e, regionali nonché i decreti legislativi ed i decreti legge in quanto fonti aventi forza di legge, prevedendo quindi l'esclusione di irrogazioni sanzionatorie derivanti da fonti subprimarie o regolamentari a meno che, non sia la legge stessa a censurare con una sanzione amministrativa, la violazione di una di queste norme regolamentari vedasi ad es. gli artt. 106 e 107 del R.D. del 3 Marzo 1934, nr. 383 - Testo unico delle Leggi comunali e Provinciali - (abrogato dall'art. 274 del T.U.E.L. e, facendo riferimento ora all'art. 7 - bis dello stesso Testo Unico, introdotto dall'art. 16 della legge nr. 3/2003) ai quali gli art. 16 e 17 della legge 689/1981 fanno espressamente riferimento per le modalità di pagamento.
In questa sede evitando di inoltrarci oltre sulla questione tuttora dibattuta sia in sede giurisprudenziale che in quella dottrinale, se per la riserva di legge prevista dall'art. 1 della Legge 689/1981 debba farsi riferimento all'art. 23 della Costituzione, lasciando all'illecito penale il riferimento all'art. 25, ci limiteremo a concludere che il Principio di Legalità espresso dall'articolo 1 della Legge Depenalizzatrice, fissa i seguenti tre punti fermi:
Come per gli illeciti penali e per quelli civili, anche per gli illeciti amministrativi è necessario che il soggetto per poter essere chiamato a rispondere della sua azione od omissione, abbia raggiunto un certo sviluppo intellettuale e non sia infermo di mente al momento della commissione del fatto.
Per le sanzioni amministrative il legislatore ha fissato regole precise che seguono essenzialmente lo schema penalistico. Nell'irrogare o meno la sanzione alla persona che ha commesso la violazione, l'Autorità amministrativa deve, allora, seguire le norme del codice penale in materia di «imputabilità».
Perché sia «assoggettabile» alla sanzione amministrativa il trasgressore deve trovarsi in «condizione di imputabilità» ossia avere, al momento in cui commise il fatto la «capacità di intendere e di volere», precisata in base ai criteri indicati nel codice penale con la eccezione della «regola sull’età» (art. 2 legge 689/81).
La capacità di intendere si concretizza nella comprensione, da parte dell’individuo, che l’azione che egli compie contrasta con le esigenze della vita sociale: è l’attitudine a percepire e valutare la realtà circostante.
La capacità di volere consiste nella determinazione autonoma della persona: è l’attitudine a stabilire e scegliere il proprio comportamento.
Perché vi sia «assoggettabilità» (= imputabilità) alla sanzione occorre che l'autore della violazione abbia, nel momento della commissione del fatto, entrambe le capacità.
L’articolo 2 Legge 689/81 differenzia la capacità di intendere e di volere rispetto al codice penale – sotto il profilo dell’età del minore. Infatti, mentre l’infradiciottenne ultradiciottenne, è punibile penalmente, anche se con pene attenuate, nel campo delle sanzioni amministrative il minore di anni 18 non è assoggettabile a sanzioni amministrative.
Questo, ovviamente, non significa che al minore non possa essere contestata la violazione e che questi non possa addivenire al pagamento il misura ridotta.
La condotta dell’autore della violazione deve essere cosciente e volontaria. Infatti nelle violazioni amministrative ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, sia dolosa o colposa. La condotta può definirsi cosciente e volontaria quando l’atto è attribuibile al volere del soggetto, e cioè può essere controllato dalla volontà. Di tali violazioni, quindi, si risponde sia nel caso di azione secondo l’intenzione (dolo), sia nel caso di azione non intenzionale ma causata da negligenza, imprudenza, imperizia (colpa).
Non sono, invece, punibili, i fatti compiuti per causa di forza maggiore o costringimento fisico.
La Legge 689/81, prende in considerazione le esimenti nel settore degli illeciti amministrativi, e anche in questo caso fa propri i principi del codice penale in tema di scriminanti (artt. 51, 52, 54 c.p.).
Non risponde, quindi, della violazione amministrativa chi commette il fatto nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica.
Così come non risponderà chi si trovi in stato di necessità di salvare se od altri da un pericolo attuale e grave alla persona.
Se la violazione è commessa per ordine dell’Autorità pubblica, della stessa risponde chi ha impartito l’ordine.
L'illecito amministrativo, come il reato, può essere commesso da una sola persona, o da più persone insieme.
Nel caso di compartecipazione, l’art. 5 della Legge 689/81 prevede che tutti gli agenti rispondano della violazione. Questo sia nel caso di pluralità di autori e pluralità di trasgressioni, sia nel caso di concorso di autori della medesima violazione.
Questa disposizione è coerente con un sistema che considera la sanzione amministrativa non un risarcimento per un danno procurato allo Stato (nel qual caso la somma da pagare dovrebbe essere ripartita tra tutti i responsabili), ma una «punizione, che deve colpire tutti coloro che hanno tenuto un comportamento illecito».
L’art. 6 delle Legge 689/81 introduce un principio di chiara matrice civilistica (art. 2055 Cod. civ.), prevedendo la responsabilità solidale a carico del proprietario della cosa che servì o fu destinata alla commissione dell’illecito o dell’usufruttuario o del titolare di diritto personale di godimento; della persona che esercita l’autorità di direzione o vigilanza; della persona giuridica, ente, imprenditore nel caso di violazione perpetrata dal rappresentante o dal dipendente.
Sappiamo che dalla violazione amministrativa sorge, a carico dell'autore, l'obbligo di pagare una somma di denaro, quale sanzione pecuniaria per il suo comportamento illecito. In certi casi però, il pagamento può essere richiesto, anziché all’autore dell'illecito, ad un soggetto diverso (=obbligato in solido). Quest’ultimo, dopo aver pagato quanto dovuto, può poi chiedere all’autore della violazione di essere rimborsato della somma versata (c.d. azione di regresso). In questi casi, l’Autorità amministrativa potrà indifferentemente rivolgersi per il pagamento della sanzione all’autore dell’illecito oppure all’obbligato in solido, scegliendo eventualmente il più solvibile, questo avviene quando tra i due soggetti esiste un particolare legame.
L’istituto della solidarietà svolge una funzione di garanzia del credito a vantaggio della pubblica amministrazione che può riscuotere coattivamente la sanzione agendo nei confronti di più soggetti e potendo pretendere l’intera prestazione dal singolo soggetto prescelto
► Questo avviene quando tra i due soggetti sussiste un particolare legame:
La responsabilità in solido presuppone che la violazione sia stata commessa da persona capace di intendere e di volere. In caso contrario sarebbe chiamato a rispondere, non a titolo solidale ma in via primaria chi era tenuto alla sorveglianza dell’incapace. Se poi si fosse verificata una compartecipazione nell’illecito, anziché solidarietà si avrebbe un concorso di persone.
Si evidenzia, comunque, che l’art. 7 delle legge 689/81 sancisce la non trasmissibilità, in capo agli eredi, dell’obbligazione di pagare la sanzione.
L’art. 7 delle Legge 689/81 sancisce la non trasmissibilità, in capo agli eredi, dell’obbligazione di pagare la sanzione.
L’art. 8 delle legge 689/81, come integrato dall’art. 1-sexies della legge 31.01.1986, n. 11 (Più violazione di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative), prende in esame il «concorso formale» di illeciti amministrativi, che si concretizza quando l’Agente, con una sola azione od omissione, abbia commesso più illeciti, previsti da una o più norme di legge. In questo caso, trova applicazione il principio del «cumulo giuridico», tratto dall’art. 81, comma 1 c.p., in base al quale vi è la possibilità di applicare una sanzione pari a quella prevista per la violazione più grave, aumentandola sino al triplo.
Ovviamente, tale applicazione è rimessa alla discrezionalità dell’Autorità amministrativa competente e non all’apprezzamento dell’organo punitivo che, nella fase dell’accertamento, si limiterà all’elencazione delle singole norme violate ed alle modalità di pagamento secondo il criterio del «cumulo materiale». Tale criterio ricorre quando vengono commesse più infrazioni con più azioni od omissioni. In tal caso non sono previste delle agevolazioni e l’autore soggiace alla sanzione prevista per ogni singola violazione commessa.
Tale principio, di particolare importanza pratico-operativa, prende in esame il concorso apparente di norme amministrative o di norme amministrative e penali, rispetto alla commissione di un fatto illecito
In forza di tale principio, una norma si definisce «speciale» rispetto ad un’altra, quando la prima contiene tutti gli elementi della seconda ed in più possiede qualche elemento di specializzazione. Può capitare che uno stesso fatto sembri regolato da più norme amministrative, ovvero sembri ricadere sotto la previsione di una norma penale e di una norma amministrativa. Si rende allora necessario individuare, nelle varie ipotesi, quale delle due norme debba essere applicata.
► Riprendendo i principi contenuti nell’art. 15 c.p.. il legislatore ha stabilito che:
Beninteso, il principio di specialità trova applicazione solo nei casi di concorso apparente e non anche nel concorso effettivo, che si ha nel caso di fattispecie che presentano elementi di diversità, ancorché coincidenti in tutto o in parte con riguardo alla condotta del trasgressore. In quest’ultimo caso, troveranno applicazione le rispettive sanzioni.
Danno luogo ad «illeciti amministrativi» quei comportamenti dei privati che si risolvono nella trasgressione di un «obbligo» nei confronti della pubblica Amministrazione.
L’obbligo violato può essere di "carattere generale", cioè comune alla generalità degli amministrati (ad esempio, illeciti di polizia, ecc.) oppure proprio di soggetti nei confronti dei quali la Pubblica Amministrazione si trova in una particolare posizione di "supremazia" (ad esempio, infrazioni dei rispettivi ordinamenti da parte di militari, impiegati, ecc.). in tale ultimo caso l’illecito assume il carattere di "illecito disciplinare".
Il «procedimento amministrativo sanzionatorio» non è disciplinato da regole generali uniformi: il legislatore, infatti, differenzia la disciplina ora in ragione della natura della sanzione irrogata (è il caso degli illeciti sanzionati con la sola pena pecuniaria, di cui alla L. 689/81), ora della natura dell’illecito (è il caso dell’illecito disciplinare di cui al T.U. Imp. civ., ecc.).
I principi che caratterizzano l’illecito amministrativo servono a distinguerlo sia dall’illecito civile sia dall’illecito penale, fermo restando che uno stesso comportamento può contemporaneamente costituire illecito amministrativo, civile e penale.
La distinzione dell’illecito amministrativo dall’illecito civile è fornita sostanzialmente dalla natura dell’interesse violato.
Nel primo caso, infatti, si tratta di un interesse di carattere non necessariamente patrimoniale, mentre nel secondo caso la lesione riguarda interessi individuali e (per lo più) patrimoniali.
La distinzione tra illecito amministrativo ed illecito penale, va posta innanzitutto sulla "natura" della sanzione che, nel caso dell’illecito penale, può essere sia detentiva che pecuniaria, mentre per l’illecito amministrativo può essere solo pecuniaria.
Altro profilo risiede, poi, nel fatto che solo la norma penale presidia il mantenimento del generale ordine sociale mentre, nel caso d’illeciti amministrativi, l’interesse protetto o è specifico della Pubblica Amministrazione o comunque non assurge a quel grado di essenzialità da richiedere l’utilizzo della norma sanzionatrice penale.
► Le sanzioni amministrative possono essere:
La sanzione amministrativa pecuniaria consiste nel pagamento di una somma non inferiore a 6 (sei) € e non superiore a € 10.329.
In base a questo principio, se in una determinata norma il legislatore non ha precisato limite inferiore o il limite superiore, si deve fare riferimento a quello stabilito dall’art. 10 legge 689/81
Le sanzioni pecuniarie proporzionali non hanno un limite massimo, mentre quello minimo è di lire 6 €.
Per quanto concerne i criteri di applicazione, l’Autorità, per determinare in concreto la sanzione amministrativa pecuniaria che la legge astrattamente fissa tra un minimo e un massimo, deve avere riguardo:
A volte, in aggiunta alle sanzioni pecuniarie, la legge prevede anche delle «sanzioni accessorie» quali ad esempio: la sospensione di una licenza commerciale, la confisca delle cose utilizzate che sono il provento della violazione, ecc.
► Prescrizione
Il diritto di riscuotere le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa si prescrive «entro cinque anni» dal giorno in cui è stata commessa l'infrazione.
L'interruzione della prescrizione, per espressa disposizione della legge 689, è regolata dalle norme del codice civile, e si verifica in seguito a:
Il «procedimento» si apre con l’accertamento della violazione, al quale possono procedere:
► Procedimento per l’irrogazione delle sanzioni amministrative
Il procedimento per l’applicazione delle sanzioni amministrative si articola in 4 fasi.
Le prime tre vengono svolte dalla Pubblica amministrazione:
La quarta invece compete all’A.G.:
Non necessariamente il procedimento comprende tutte le quattro fasi.
Il procedimento inizia con l’«accertamento della violazione», da parte dell’Organo accertatore; successivamente avviene la «contestazione».
A questo punto, la persona cui è contestata la violazione ha due possibilità:
In altre parole la persona a cui è contestata una violazione, può ritenere preferibile di versare subito una somma in denaro anziché eventualmente ottenere più tardi dall’Autorità il riconoscimento delle sue ragioni.
Il «pagamento in misura ridotta» non costituisce ammissione di responsabilità, ma è una facoltà riconosciuta al cittadino. Pertanto si ritiene che, al pagamento in misura ridotta non può far seguito l’applicazione di una sanzione accessoria.
Se invece non viene effettuato il pagamento in misura ridotta, allora l’organo accertatore (qualora diverso dall’Autorità competente a decidere e quindi a ricevere il rapporto), dopo i 60 giorni, invia un rapporto con la prova delle eseguite contestazioni all’Autorità competente a decidere (Capitaneria di Porto, Regione, Comune, ecc.)
A conclusione dell’istruttoria, l’Autorità amministrativa, se riconosce che non è stata commessa alcuna violazione, dispone l’«archiviazione» (ordinanza motivata di archiviazione) dandone comunicazione all’organo che ha redatto il rapporto (=Verbale).
Se invece ritiene che la violazione sia stata commessa, stabilisce la sanzione ed emette una «ordinanza-ingiunzione».
Contro l’ordinanza-ingiunzione di pagamento, l’interessato può proporre «l’opposizione» prevista dall’art. 22 Legge. 689/81 innanzi al Giudice in sede civile (art. 7 Cod.civ. sostituito art. 17 Legge 21/10/1991, n. 374), secondo i casi:
Viceversa l’organo accertatore non ha possibilità di ricorso o di opposizione contro l’eventuale archiviazione.
L'art. 13 della legge 689/81 prevede che, ai fini dell’accertamento delle violazioni amministrative pecuniarie, gli organi addetti al controllo possano compiere alcuni atti già riconosciuti agli Ufficiali di polizia giudiziaria dall'art. 55 c.p.p., e precisamente:
Nel caso ad operare siano organi di polizia giudiziaria, procedere a perquisizione in luoghi diversi dalla privata dimora, previa "autorizzazione" dell’Autorità giudiziaria.
L’accertatore può chiedere informazioni, interpellare gli interessati e le persone informate sui fatti, prendere visione di registri e documenti, recarsi sui luoghi, ispezionare cose e luoghi diversi dalla privata dimora, effettuare rilievi e operazioni tecniche e procedere a sequestro cautelare.
Il cittadino è tenuto a non impedire l’esercizio di questa attività anche se, ovviamente, non ha l’obbligo di rendere dichiarazioni a lui sfavorevoli. La mancanza di collaborazione non può però trasformarsi in opposizione; quest’ultimo comportamento infatti, potrebbe integrare il reato di violenza, minaccia (art. 336 c.p.) o resistenza (art. 337 c.p.) a Pubblico Ufficiale.
Nella prassi operativa, quindi l’accertatore, di fronte al rifiuto di collaborazione dell’interessato non può porre in essere "poteri di coercizione" in quanto questi non rientrano nella funzione amministrativa di vigilanza (quando questi poteri sussistono, sono dalla legge attribuiti ad un’Autorità specificamente individuata).
Tuttavia, il rifiuto di collaborazione da parte dell’interessato, potrà in certi casi costituire violazione penale o amministrativa.
Questa è però cosa assolutamente diversa dal potere di esigere con la forza tale cooperazione.
Si evidenzia che se l’accertatore possiede anche la "qualifica" di Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria potrà richiedere l’autorizzazione alla perquisizione, prevista dall’art. 13 della legge 689/81
► Approfondimenti
L’agente accertatore non potrà avvalersi della facoltà di accedere in qualunque ora nei locali destinati all’esercizio di attività soggetta ad autorizzazione di polizia, in quanto detta facoltà compete solo ad Ufficiali ed Agenti di P.S., qualifica questa non rivestita dal personale delle Capitanerie di porto.
Quanto sopra fatta salva ovviamente l’attività svolta come attività di polizia giudiziaria intesa ad acquisire prove o tracce di eventuali reati (quale, ad esempio, quella disciplinata dall’art. 4 della L. 22.05.75, n° 152) - attività questa che può e deve esercitarsi parallelamente a quella di Polizia Amministrativa qualora nei fatti oggetto di accertamento possa ravvisarsi illecito penalmente perseguibile.
Altre forme di perquisizione in luoghi diversi dalla privata dimora[1] potranno – se necessario – essere richiesti al Magistrato del luogo (art. 13 L. 689/81), essendo anzi l’introduzione abusiva presso tali luoghi atto penalmente perseguibile ai sensi dell’art. 615 c.p.
Una applicazione analogica della norma in vigore e della relativa giurisprudenza porterebbe quindi a far rientrare anche la “nave” nel concetto si dimora, qualora il contravventore vi soggiorni oppure vi si trattenga sia per esplicare la propria attività professionale che per altre attività di natura privata.
Tale applicazione per analogia non può tuttavia estendersi anche agli autoveicoli, per perquisire i quali dovrà farsi riferimento alle ordinarie disposizioni in materia penale nonché dalle leggi speciali di P.S. (es. art. 4 L. 152/1975; art. 27 L. 55/1990; art. 103 D.P.R. 309/1990; art. 1 D.L.349/92).
Senza necessariamente utilizzare,tuttavia, l’istituto della perquisizione penale o amministrativa, per controllare i veicoli dovrà farsi ricorso al disposto dell’art. 192 comma 3 che consente la ”ispezione” degli stessi al fine di verificarne la corrispondenza alle norme costruttive e di circolazione: naturalmente se a seguito di detta ispezione l’agente accertatore rileverà la presenta di tracce o corpi di reato ovvero di beni o strumenti oggetto di confisca obbligatoria se non facoltativa, procederà al riguardo secondo le disposizioni vigenti - e secondo le norme del c.p.p.. in caso di ipotesi di reato accertato nel corso di tale attività.
Da quanto sopra evidenziato si rileva che – in mancanza di specifiche forme di coazione non previste dalla legge – il contravventore non ha l’obbligo di rendere dichiarazioni a lui sfavorevoli, come pure non può procedersi coattivamente nei confronti di terzi a ricercare eventuali elementi o tracce dell’illecito che si va a contestare, ovvero obbligare i medesimi ad eventuali esibizioni.
Quanto sopra naturalmente salve le facoltà e i poteri posti in capo all’Autorità Marittima, per i propri fini istituzionali,nei confronti degli interessati comunque soggetti alla giurisdizione amministrativa dell’Autorità medesima (es. iscritti all’art. 68 Cod. nav.; iscritti alla Gente di Mare, ecc.), ovvero nell’esercizio dei poteri di Polizia Amministrativa comunque conferiti all’Autorità Marittima in materia di Sicurezza della Navigazione e della vita umana in mare, prevenzione degli infortuni sul lavoro, ecc.[2], nonché per le violazioni previste dallo stesso art. 192 commi 6° e 7° in materia di ci rcolazione stradale.
[1] Cass. Pen, Sez. 1° del 05/03/76
[2] Cass. Pen., Sez. IV^,Sent. n° 7409 del 24.06.2000 in materia di violazione delle norme sugli infortuni sul lavoro commessi a bordo di nave anche straniera)
Significa «rivolgere domande» anche senza trascriverle in un Verbale, presso chiunque, quindi anche presso persone che non potrebbero essere obbligate a testimoniare nel processo penale e presso persino l'autore dell'illecito. Non è, però, prevista alcuna forma di coazione, né di sanzione, per le persone che rifiutano di collaborare. Né esse potranno essere perseguite per favoreggiamento personale o per testimonianza falsa o reticente, dal momento che l'accertamento verte su fatti che non costituiscono reato.
Sono consentite su luoghi diversi dalla «privata dimora», inteso come luogo ove la persona attualmente si trova. L’espressione privata dimora va intesa nel senso dell’art. 614 c.p. e comprende ogni luogo usato per lo svolgimento di attività private, non soltanto l’abitazione di una persona fisica ma, in generale l’ambiente in cui si esplica la sfera intima e privata di un soggetto.
Nella nozione di privata dimora, così intesa, rientrano l’appartamento cittadino, la villa isolata, la roulotte, il prefabbricato, la tenda o la baracca dei terremotati e dei villeggianti; ed anche lo studio professionale, il circolo privato, la camera d’albergo, il laboratorio dell’artigiano, il bar di uno stabilimento balneare nonché le dipendenze dell’abitazione e dei luoghi predetti (cortile, garage, cantina, orto, terrazzo,ecc.).
L’autoveicolo o il natante (inteso in senso generale) sono considerati come "un’estensione" dell’abitazione e come luogo privato, dal quale l’avente diritto può escludere legittimamente i terzi.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 23 Legge 963/1965 – (Ispezione alle navi e luoghi di deposito) gli incaricati della vigilanza sulla pesca marittima possono in ogni momento visitare le navi, i galleggianti, gli stabilimenti di pesca, i luoghi di deposito e di vendita ed i mezzi di trasporto dei prodotti della pesca, al fine di accertare l’osservanza delle norme sulla disciplina della pesca.
L’art. 26 comma 5, altresì, punisce con la sanzione amministrativa da 103 € a 1549 €, salvo che il fatto non costituisce reato (es. resistenza, minaccia o violenza a Pubblico Ufficiale), chiunque non consente o impedisce l’ispezione da parte degli addetti alla vigilanza sull’attività di pesca
Il veicolo o il natante possono essere certamente ispezionati nel loro aspetto esterno e nel loro funzionamento apparente.
Esistono norme di legge che consentono di effettuare lecitamente l’ispezione del veicolo e di ottenere l’apertura del vano portabagagli; ai valichi di confine é consentita una simile forma di controllo ispettivo per impedire il contrabbando; leggi finanziarie autorizzano lo spiombamento dei carichi e la verifica dei colli, per il riscontro della natura delle merci trasportate o della conformità dei documenti.
Gli organi che abbiano notizia o indizio dell’esistenza di armi o munizioni o esplosivi illecitamente detenuti, possono, ai sensi dell’art. 41 del T.U.L.P.S. perquisire luoghi pubblici e privati e, tra questi, l’automezzo; è consentita la perquisizione della persona e dell’automezzo o del natante, nel corso di operazioni di polizia, se per le circostanze di tempo e luogo e persona insorgano sospetti ed il sospetto riguardi la probabile esistenza di armi, esplosivi, munizioni o strumenti di effrazione.
Fatta eccezione per queste specifiche ipotesi, non è consentita l’ispezione dell’autoveicolo, ostandovi l’equiparazione sostanziale di quest’ultimo alla privata dimora.
Un caso particolare di Ispezione si ha in materia di controllo dei veicoli (art. 192 comma 3° C.d.S.): trattasi di un tipo di controllo tecnico finalizzato ad accertarne la rispondenza tecnica e la conformità del veicolo stesso alle norme sulla circolazione: non costituisce quindi una vera e propria perquisizione, ma di fatto dal controllo dello stesso potrebbero emergere elementi che potranno comportare un successivo provvedimento – effettuato quest’ultimo negli specifici modi e forme di legge - di sequestro amministrativo ovvero penale.
Significa poter acquisire le prove dell'infrazione mediante fotografie, planimetrie, controllo della velocità dei veicoli a motore, anche prelievo e successiva analisi di campioni, e così via.
Quando non sia possibile acquisire altrimenti gli elementi di prova, gli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria (non gli altri organi addetti al controllo), oltre a compiere gli atti di cui sopra, possono procedere a perquisizioni in luoghi diversi dalla privata dimora (v. ispezioni), previa «autorizzazione motivata»[1] dell’Autorità Giudiziaria competente del luogo (art. 13 legge 689/81), con i seguenti limiti:
E’ evidente che tale atto deve essere considerato quale estrema ratio e, comunque e sempre, limitato ai luoghi. Non si potrà mai, quindi, procedere a perquisizione personale in materia di illeciti amministrativi.
[1] Trattasi di atto che – pur se eseguito al solo fine di rilevare un illecito amministrativamente sanzionato - va sempre autorizzato preventivamente dal P.M. (vedi al riguardo Cass. Civ. – Sentenze n° 16424 del 21.11.02; n° 19690 del 29.09.04; n° 19689 del 01.10.04; n° 1699/05; e C.T.R Lazio – Sent. n° 186/19/05 del 30.11.05) ed è finalizzato al solo accertamento di materiali o beni oggetto di sequestro amministrativo – a seguito di illecito non penalmente rilevante.
La legge 689/81 prevede che possa essere disposta, come sanzione amministrativa accessoria, la “confisca” delle cose che servirono a commettere la violazione o che ne sono il prodotto, sempre ché appartengono ad una delle persone cui è ingiunto il pagamento.
Per garantire l'applicabilità di tale sanzione, gli organi preposti all'accertamento delle violazioni amministrative hanno la facoltà di procedere al «sequestro cautelare» delle cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa obbligatoria o facoltativa..
Tale potere non è indiscriminato, ma deve essere esercitato nei modi e con i limiti con cui il codice di procedura penale consente il sequestro alla Polizia Giudiziaria: vale a dire quando vi è fondato motivo di temere che le cose oggetto di confisca possano essere alterate o disperse.
Il «sequestro» in seguito a violazioni amministrative non è, né una sanzione anticipata, né un mezzo di coercizione probatorio (per assicurare le prove della infrazione), ma: è solo una precauzione volta a rendere possibile l'applicazione di una sanzione accessoria (confisca) e per questo la legge n. 689/81 lo definisce «sequestro cautelare».
Possiamo quindi dire, che si tratta di un provvedimento cautelare prodromico alla confisca amministrativa, di cui all’art. 20 della legge depenalizzatrice.
Il sequestro amministrativo può essere «obbligatorio» o «facoltativo»: è sempre obbligatorio quando trattasi di beni od oggetti dei quali è vietato in modo assoluto la fabbricazione, la detenzione e l’utilizzo, oppure in altri casi espressamente previsti dalla legge, e cioè per i seguenti casi:
Altra importante distinzione procedurale col sequestro penale è data dal fatto che il sequestro amministrativo non prevede convalida, ma solo opposizione dell’interessato all’Autorità competente a ricevere il rapporto: se l’opposizione non c’è, o viene rigettata, può procedersi a confisca (obbligatoria nei casi a) e b) nonché dei beni di cui è vietato in modo assoluto il possesso, la detenzione e la produzione).
Gli Organi preposti all'accertamento non hanno da porsi particolari problemi quando il sequestro è «obbligatorio», e cioè se riferito alle seguenti violazioni:
Il sequestro può considerarsi legittimo solo quando le circostanze dell'illecito, o la personalità del trasgressore, diano fondati motivi di sospettare che, nel caso concreto, le cose passibili di confisca saranno alienate o disperse.
Non può, inoltre, essere oggetto di sequestro cautelare la cosa che non è servita a commettere la violazione amministrativa, ma ne costituisce soltanto la prova; così come non può essere sequestrata una cosa che, pur essendo servita a commettere la violazione, non appartiene all'autore di essa, o a persona che sia con lui obbligata in solido, perché, in tal caso, non è possibile disporne la confisca.
Non può neppure essere effettuato il sequestro cautelare quando la cosa che servì a commettere la violazione sia proprietà di un minore, o di un incapace. Non possono, pertanto, essere sequestrati i documenti personali, quali ad esempio l'abilitazione al comando di unità, i documenti dell'unità stesse, sempre che i documenti predetti non costituiscano prova di illecito penalmente sanzionato, per cui si dovrà, nel caso, provvedere al sequestro penale e non cautelare amministrativo.
Oltre ai casi previsti espressamente dalla richiamata legge generale, l’art. 13 della legge 689/81 stabilisce che gli Ufficiali e gli Agenti di PG possono procedere al sequestro cautelare delle cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa, nei modi e nei limiti con cui il Codice di procedura penale consente il sequestro alla polizia giudiziaria.
Tra queste, quelle che con maggior frequenza trova richiamo nell'attività delle Capitanerie di Porto e nell'attività di prevenzione ed accertamento in ambito marittimo, è la Legge n. 963/65 sulla «disciplina della pesca marittima».
Nell'attuale formulazione, dopo le intervenute modifiche per effetto della Legge n. 381 del 25 agosto 1988, l'art. 27 della Legge 963/65 pone in stretto legame la violazione (intesa come mera azione illecita) all'art. 15 della stessa legge - commi a) e b) - in quanto attinenti la depenalizzazione) e la sanzione accessoria della confisca, tale che, mentre la sanzione principale (art. 26) deve essere diretta nei confronti degli autori del fatto illecito e degli eventuali obbligati in solido, la sanzione accessoria deve riguardare il pescato (prodotto di fatto illecito), gli strumenti, gli attrezzi e le apparecchiature usate in contrasto con la legge stessa (con esclusione delle navi) indipendentemente dall'appartenenza degli stessi all'autore della violazione, essendo esclusivamente rilevante il presupposto che le cose stesse siano state usate per commettere la violazione.
Per effetto dell'attuale formulazione della citata norma, nell'eventualità venga accertata la violazione ai commi a) e b) dell'art. 15, l'accertatore deve provvedere ad eseguire il sequestro (obbligatorio) delle cose indicate all'art. 27 della legge 963/65, poiché soggetti a confisca obbligatoria in relazione alla deroga contenuta nella norma speciale rispetto alla diversa previsione della norma generale (artt. 13 e 20 della Legge n. 689/81).
Ferma restando l'inderogabile previsione normativa che esclude l'applicazione della confisca alle navi, le quali, pertanto, non possono essere sequestrate, neppure facoltativamente, il sequestro dovrà riguardare, se illecitamente usati, le reti, le attrezzature da pesca (lampare, vongolare, ecc.) ed il pescato.
Il sequestro facoltativo eseguito dall'Agente accertatore, a differenza di quello obbligatorio, può legittimamente essere eseguito se riferito a:
La stretta relazione tra sequestro e confisca induce a ritenere che non possono essere sequestrati i prodotti dell'azione illecita (escluso come detto il pescato) qualora all'accertamento risulti che le cose che costituiscono il prodotto dell'azione stessa appartengano a persona estranea alla violazione (cose non confiscabili); inoltre non possono essere sequestrate le cose, la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione ha costituito violazione amministrativa, se all'accertatore risulti che appartengano a persona estranea alla violazione e se per esse possa essere rilasciata l'autorizzazione che consenta il legittimo uso, porto, detenzione, alienazione o fabbricazione.
Dalle su accennate considerazioni emerge che l’obbligatorietà della confisca e del sequestro è direttamente collegata con l’uso illecito dell’attrezzatura stessa, piuttosto che dalla constatazione se l’attrezzatura stessa è o meno di uso potenzialmente illecito in sé, quali ad esempio le reti con le maglie di dimensioni inferiori a quelle previste.
L'esecuzione del sequestro di cose o beni, che come detto possono o devono essere sequestrate, consta di due aspetti tra loro collegati:
L'aspetto amministrativo riguarda gli «adempimenti amministrativi cui l'accertatore ha l'obbligo di attenersi», mentre quello tecnico è riferito alle «modalità del sequestro».
► Adempimenti amministrativi per l'esecuzione del sequestro
Gli adempimenti amministrativi per l'esecuzione del sequestro consistono nella compilazione di un apposito «Processo Verbale» con il quale si dà atto del sequestro effettuato con l'indicazione dei seguenti elementi, per consentire l'esame della liceità del provvedimento adottato da parte dell'amministrazione competente, nonché per consentire alla parte interessata di proporre opposizione:
Gli elementi predetti debbono essere indicati in modo chiaro sul Verbale che dovrà essere sottoscritto a cura dell’Agente accertatore che ha compiuto il sequestro e dallo stesso consegnato in copia al detentore delle cose sequestrate.
Altra copia del Verbale dovrà essere immediatamente inviata all'Amministrazione competente, ai sensi dell'art. 1 del D.P.R. n. 571/82 quali ad esempio, la Capitaneria di Porto nel caso di sequestri operati rispettivamente per violazione a norme del Codice della Navigazione, della legge sulla pesca marittima (n. 693/75), della legge sulla nautica da diporto (n. 171/05), oppure alla Prefettura competente per territorio nel caso di violazione alla legge sull'obbligo della assicurazione sulla responsabilità civile (n. 990/69).
L'obbligo di inviare "immediatamente" copia del Verbale di sequestro all'Amministrazione interessata, scaturisce da una duplice esigenza:
Emerge dalle predette considerazioni che la pratica, peraltro non inconsueta, di far gettare in mare il pescato dopo l'accertamento di un illecito in materia di pesca è sicuramente soggetta a censura alla luce della obbligatorietà del sequestro nei modi previsti dalla legge.
Può essere, però, motivo di deroga la rilevata cattura di specie ittiche protette ovvero ancora in vita per cui, la reimmissione in mare appare giustificata; in tale ipotesi, tuttavia, di determinante importanza, sarà la possibilità di effettuare preliminari «rilievi fotografici» ovvero rilievi ritenuti necessari ed opportuni, fermo restando l'obbligo di verbalizzare la relativa circostanza nell'apposito Verbale.
Le cose sequestrate devono essere annotate su apposito “Registro delle cose sottoposte a sequestro” (art. 9 DPR 29/7/1982, n. 571) nel quale si devono indicare:
► Adempimenti tecnici per l'esecuzione del sequestro
Per quanto attiene gli adempimenti tecnici riguardanti il sequestro occorre fare riferimento alla disposizione indicata nell'art. 5 del D.P.R. n. 571/82, la quale prevede che «le cose sequestrate vengono assicurate con il sigillo dell'Ufficio cui appartiene il Pubblico Ufficiale che ha eseguito il sequestro».
Lo scopo della apposizione del «sigillo» è quello di impedire l'uso o l'alterazione di quanto sequestrato, tale che l'eventuale intervenuta violazione agli obblighi di custodia non possa sfuggire a specifica verifica.
La condizione indicata in precedenza deve essere osservata soprattutto qualora l'oggetto del sequestro (esclusi i natanti, consegnati ai soggetti già previamente individuati), per sua natura o in presenza di motivi di opportunità, venga temporaneamente affidato in custodia, dal che ha eseguito il sequestro, allo stesso soggetto che lo deteneva al momento dell'accertamento della violazione amministrativa, in attesa della convalida del procedimento di affidamento al custode nominato dal titolare dell'Ufficio cui appartiene l'accertatore.
Per quanto attiene alle concrete modalità di attuazione dell'apposizione del sigillo, potrà ricorrersi a taluno dei sistemi già noti nella prassi giudiziaria, quali l'uso della carta gommata, spago, ceralacca, piombo, avendo in ogni caso cura di apporre sul sigillo il timbro o il marchio dell'Ufficio cui appartiene il verbalizzante.
Per quanto attiene al sequestro di navi, anche se il D.P.R. n. 571 del 1982 ammette in ipotesi la possibilità che le unità sequestrate possano essere conservate presso la sede dell'Ufficio cui appartiene il Pubblico Ufficiale che ha eseguito il sequestro ed affidate al custode appositamente incaricato, o alla custodia di terza persona, si ha fondato motivo di ritenere, almeno per quanto attiene le Capitanerie di Porto, che ben difficilmente esistano sedi in possesso delle necessarie aree ed attrezzature per poter adeguatamente custodire le unità stesse.
In relazione a ciò, si ritiene doveroso suggerire che gli accertatori si avvalgano della speciale facoltà prevista dall'art. 8 del richiamato D.P.R. n. 571/82, il quale esonera l'accertatore dall'onere di assicurare con il sigillo dell'Ufficio l'unità sequestrata. Tale adempimento è sostituito dal solo Verbale di consegna dell'unità sequestrata al custode già preventivamente individuato, sulla base dei requisiti tecnici e personali stabiliti dal Comandanti di Porto Capi di Circondario Marittimo.
È consentito al che ha eseguito il sequestro dell'unità di stabilire le necessarie prescrizioni per il trasporto al luogo di custodia, con l'eventuale ausilio degli ormeggiatori e del pilota, sentito, se del caso, anche l'ente tecnico (art. 8 D.P.R. n. 571/82).
Nell'ipotesi di violazione alle disposizioni sull'obbligo assicurativo dell'unità, il Verbale di consegna al custode dovrà essere immediatamente inviato, unitamente al Verbale di sequestro del mezzo, alla Prefettura competente per territorio, alla quale dovrà, altresì, essere data notizia dell'eventuale ausilio fornito da terzi soggetti per le operazioni preliminari alla custodia, al fine di consentire che in occasione dell'eventuale provvedimento di «dissequestro» ovvero di «confisca» sia tenuto conto delle spese da liquidare agli intervenuti ed al custode.
Con riferimento alle cose sequestrate bisogna distinguere tra:
In proposito, si ritiene opportuno raccomandare che la facoltà di affidare in custodia al possessore degli oggetti sequestrati (normalmente l'autore stesso dell'illecito) sia da adottare esclusivamente nei casi di effettiva ed inderogabile necessità, e sia, in ogni caso, da evitare nel caso di sequestro di pescato e nel caso di sequestro di oggetti o cose illecite in sé, ma che se sottoposte a lievi modifiche possono essere ritenute lecite.
Particolare attenzione deve essere posta all'attenta verifica e corretta individuazione di quanto può essere sequestrato.
Anche per il sequestro valgono le considerazioni già espresse riguardo alla redazione del relativo Verbale nel senso che solamente ciò che con assoluta certezza è attinente l'illecito può essere sequestrato senza che dall'accertatore possano essere verbalizzate deduzioni personali non coordinate con quanto ha personalmente constato.
Così, analogamente, anche per quanto attiene gli attrezzi utilizzati illecitamente, si dovrà eseguire il sequestro solamente con riferimento a quelli che erano in uso al momento in cui è avvenuta la cognizione dell'illecito ovvero al momento della contestazione del fatto.
Nel caso, poi, pur essendo stata constatata l'avvenuta commissione dell'illecito non sia possibile eseguire il sequestro (perché, ad esempio, l'attrezzatura è stata abbandonata in mare, in un momento immediatamente successivo alla avvenuta contestazione) è consigliabile provvedere a sequestrare, se possibile, la parte dell'attrezzatura (ad esempio: i tronconi dei cavi tagliati) che sono rimasti a bordo, quale rafforzativa dell'illecito che verrà descritto nel contesto del Verbale di accertamento.
Si ritiene che il termine attrezzature indicato nel contesto dell'art. 27 della Legge n. 963/65, debba essere inteso con riferimento a tutta l'attrezzatura che è stata utilizzata «attivamente» per commettere l'illecito (ad esempio: reti, divergenti, cavi) con esclusione della attrezzatura che costituisce dotazione di bordo, ancorché funzionale ovvero necessaria per l'impiego della attrezzatura stessa.
Il caso che con maggior frequenza si presenta all'Amministrazione marittima, quale Autorità amministrativa competente, è il caso di sequestro di «prodotto ittico» proveniente da illecita attività di pesca.
In mancanza della disponibilità di adeguati mezzi per la conservazione del pescato a cura del custode, all'Amministrazione stessa si pone il problema dell'alienazione o distruzione del prodotto ittico, sempre che dall'Amministrazione stessa sia ovviamente riconosciuto che il sequestro è stato legittimamente effettuato.
In merito alla su accennata casistica, competente pertanto, in via generale, all'alienazione dei beni mobili di pertinenza del patrimonio disponibile dello Stato, nel cui ambito rientrano certamente i beni confiscati e quindi acquisiti alla proprietà dello Stato, è la «Direzione Regionale delle entrate» (ex Intendenza di Finanza) del luogo ove i beni stessi si trovano, sempre che non vi siano particolari disposizioni legislative che, per specifici settori o materie, individuino competenze diverse.
In relazione alla particolare situazione in cui si trovano le cose da alienare ed agli oneri che ne derivano alle Amministrazioni interessate, emerge chiaramente la necessità di provvedere con la massima urgenza e quindi la possibilità del ricorso in via normale alla «licitazione privata».
Si dovrà, invece, procedere col sistema della «trattativa privata» per la vendita delle cose sequestrate deperibili, sempre che il bene non sia già alterato (nel qual caso sarà distrutto ai sensi dell'art. 17, quarto comma, del decreto), e purché i tempi procedurali siano compatibili con lo stato di deperibilità del bene stesso.
Il ricavato delle vendite delle cose deperibili di cui all'art. 5, secondo comma, del decreto, dovrà essere versato in Tesoreria a titolo di deposito provvisorio di modo che l'amministrazione marittima interessata ne abbia la disponibilità cosi da poterne disporre al termine del procedimento o l'incameramento, se il procedimento stesso si sarà concluso con un provvedimento di confisca (da intendersi quale versamento all'erario nel caso dell'amministrazione marittima) o la restituzione all'avente diritto.
In relazione alle predette disposizioni è incontestabile che nel caso di sequestro di beni soggetti a rapida deperibilità, l'Amministrazione Marittima potrà senz'altro disporre la distruzione, purché il relativo provvedimento sia adeguatamente motivato.
Il provvedimento con il quale si dispone la distruzione delle cose sequestrate dovrà essere comunicato al custode delle stesse e dovrà contenere, anche in forma sintetica, le modalità da seguire per la distruzione, nonché l'obbligo, per il custode stesso, di certificare l'avvenuta distruzione con apposita «dichiarazione» da conservare agli atti della Amministrazione disponente.
Nell'ambito del procedimento amministrativo ed, in particolare, con riferimento al sequestro operato per effetto di avvenute violazioni a norme punite con la sanzione amministrativa, il D.P.R. n. 571/82 individua tre figure di «custode», tutte legittimate a mantenere la custodia delle cose sottoposte a sequestro ed individuate come segue:
Ai sensi del sesto comma dell'art. 7 del D.P.R. n. 571/82, il che ha proceduto al sequestro può, per la particolare natura degli oggetti sequestrati o per motivi di opportunità, disporre provvisoriamente che gli oggetti sequestrati siano affidati in custodia temporaneamente a soggetto diverso (c.d.«custode provvisorio») dal custode designato dal titolare dell'Ufficio cui appartiene il Pubblico Ufficiale che ha eseguito il sequestro. Nel qual caso il custode nominato dal titolare dell'Ufficio (o il titolare dell'Ufficio stesso) deve convalidare o modificare la decisione di affidamento in custodia entro 5 giorni dalla data di avvenuto sequestro.
Il Pubblico Ufficiale che ha eseguito il sequestro, ove non ritenga di affidare la custodia delle cose sequestrate al custode provvisorio, deve consegnarle al titolare dell'Ufficio medesimo. Nel caso, invece, di sequestro di «unità» il Pubblico Ufficiale che ha proceduto al sequestro può disporre che gli stessi qualora per motivi di praticità ed opportunità non possano essere custoditi dai soggetti sopraindicati, vengano custoditi (art. 8 D.P.R. n. 571/82) dai soggetti pubblici o privati già previamente individuati dai Comandanti di Porto Capi di Circondario (c.d.«custodi definitivi»).
Prima di indicare quali sono gli adempimenti che debbono essere compiuti dall'accertatore dopo la compilazione del Verbale e la notifica o contestazione, occorre fare riferimento alla fattispecie contemplata dall'art. 24 della legge n. 689/81 (connessione obiettiva con un reato).
Più chiaramente, esiste, in genere, la connessione qualora la cognizione di un illecito influisce sulla cognizione e prova di un altro illecito entrambi commessi in occasione di una infrazione attuata da un singolo soggetto attivo.
Quando si verifica tale connessione in quanto l'esistenza di un reato dipende dall'accertamento di una violazione non costituente reato (per esempio, illecito amministrativo), e per questa non sia effettuato il pagamento in misura ridotta, la competenza a decidere sulla violazione amministrativa, è attribuita al Giudice penale competente a conoscere del reato commesso.
Ovviamente non è possibile indicare anticipatamente tutti i casi nei quali detta connessione potrà esistere
In tale ipotesi il Giudice penale è competente a decidere anche sulla violazione amministrativa connessa.
Non è, pertanto, necessario che, al ricorrere di tale ipotesi, l'accertatore provveda ad eseguire nei modi rituali la contestazione o notifica dell'illecito amministrativo, il quale per effetto del richiamato art. 24, andrà segnalato unitamente al fatto penale, alla competente Procura della Repubblica presso il Tribunale.
Non appare poi possano sorgere particolari difficoltà attuative nel caso si debba operare contestualmente all'accertamento dell'illecito, anche il sequestro che, per effetto della connessione, dovrebbe riguardare esclusivamente l'aspetto penale piuttosto che quello amministrativo.
► Accertamento mediante analisi di campioni
Nel caso in cui, per l’accertamento di violazioni amministrative, siano state compiute «analisi di campioni», il responsabile del laboratorio è tenuto a comunicare l’esito all’interessato, mediante raccomandata A.R.
Il trasgressore o l’obbligato in solido hanno la facoltà di richiedere la revisione, con partecipazione di un tecnico di loro fiducia, ed anche in questo caso il dirigente del laboratorio deve comunicare gli esiti agli interessati.
La comunicazione degli esiti delle analisi tiene luogo alla contestazione delle violazioni.
L’atto di accertamento amministrativo costituisce il primo passo nel sistema sanzionatorio punitivo: è l’atto mediante il quale i soggetti abilitati (accertatori) riscontrano che in un luogo definito, in una certa data ed ora determinata si è consumata la violazione di una norma che è punita in via amministrativa. Ovviamente, alla fattispecie concreta andrà associata la fattispecie astratta prevista dal legislatore e assoggettata a sanzione. Talune violazioni presuppongono, per il loro accertamento, una analisi tecnica di laboratorio, come ad esempio l’accertamento di eventuali scarichi in acque pubbliche o private. È intervenuta, in materia amministrativa, la Legge 24 novembre 1981, n. 689, la quale, ad ulteriore precisazione, oltre alle disposizioni in materia di redazione del verbale di violazione amministrativa, l’art. 15, consente agli organi di controllo, e quindi organi che non devono obbligatoriamente possedere la qualifica di Ufficiali o Agenti di polizia giudiziaria, ma semplicemente dipendenti di Enti Pubblici o, ancora di più, dipendenti di Enti Privati (es. ditte che hanno in appalto il servizio A.T.O.) di effettuare prelievi di campioni, anche all’interno delle ditte, per verificare il livello di contaminazione o non contaminazione. Lo stesso art. 15, inoltre, al fine di consentire il diritto alla difesa, pone il cittadino nella condizione di chiedere la revisione delle analisi dei campioni prelevati dagli organi accertatori prima dell’irrogazione della sanzione o del compimento degli effettivi atti del procedimento.
In materia penale, ovverosia nel caso in cui a seguito l’analisi del campione emerge una violazione avente carattere penale, è intervenuto l’art. 223[1] [65] delle disposizioni di attuazione del c.p.p. (Analisi di campioni e garanzie per l’interessato).
“…se è logico che l’autorità amministrativa, cui compete il diritto di effettuare i campionamenti delle acque, non abbia l’obbligo di preavvisare il titolare dello scarico circa il momento in cui verranno effettuate le operazioni di prelievo per evitare che possano esser apportate modifiche agli scarichi e di conseguenza fatte sparire le tracce di ogni irregolarità, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda il momento delle analisi delle acque campionate. Infatti queste debbono essere esaminate con la massima tempestività stante la loro deteriorabilità e pertanto le analisi non sarebbero utilmente ripetibili nel corso del successivo procedimento penale.
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, la Corte costituzionale con Sentenze n. 248/83 e 15/86[3] [65] della ha voluto sottolineare che, sebbene, al momento iniziale di prelievo di campioni, non è possibile venire a conoscenza se dall’analisi risulterà un superamento che rientra nella fattispecie penale, e quindi il prelievo può essere sempre eseguito ai sensi dell’art. 15 della L. 689, ma, nella ipotesi in cui il superamento rientra nel penale, l’operatore avrebbe dovuto seguire le procedure di cui all’art. 223 delle disp di att. del c.p.p. Pertanto, tale sentenza, impone a tutti gli operatori di adeguarsi ai principi dettati dalla c.p.p. in quanto assumono efficacia probatoria le analisi compiute con un vero e proprio accertamento assimilabile,nella sostanza, ad una perizia, fonte, quindi, di convincimento del Giudice; tanto più che le relazioni sulle analisi sono allegate agli atti del procedimento penale e di esso lo stesso Giudice può tener conto e darne lettura a norma dello stesso art. 466 c.p.p. Proprio questa particolare efficacia probatoria del risultato delle analisi impone che sia dato avviso alla parte onde consentirne la presenza con l’eventuale assistenza di un consulente tecnico. Circoscritta, quindi, la norma di cui al D.L.vo 152/06 sopra elencata, in riferimento al controllo sugli scarichi (art. 101), in riferimento all’art. 24 della Costituzione, il prelievo, originariamente amministrativo, ma con le tecniche dettate dal c.p.p. va riconosciuto valido a tutti gli effetti, e quindi considerato atto irripetibile da poter inserire nel fascicolo del giudice.
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, secondo quanto stabilito dalle sentenze n. 248/83 e 15/86 della Corte Costituzionale[3] [65], il diritto di difesa con riferimento alle analisi dei campioni è limitato al preavviso della data dell’inizio delle operazioni e del luogo, onde consentire l’eventuale presenza di un consulente privato. Poiché l’accertamento non ha natura di perizia processuale, non è prevista la presenza del difensore e neppure la redazione di un verbale, secondo le modalità del nuoivo codice di procedura penale negli articoli 134-137 e ss., applicabili eslusivamente alla documentazione degli atti assunti nel corso del procedimento penale. Le modalità tecniche delle analisi sonolasciate alla discrezionalità dell’amministrazione, la quale è tenuta a certificare soltanto il prelievo, l’apertura dei campioni e l’esito delle operazioni. Il certificato di analisi può, pertanto, essere legittimamente inserito nel fascicolo del dibattimento ed essere utilizzato quale mezzo di prova – Cass. III, sent. 512 del 22.1.1993 (ud. 22.10.92) rv. 192732.
[1] [65]Art. 223 (Analisi di campioni e garanzie per l’interessato)
1. Qualora nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti si debbano eseguire analisi di campioni per le quali non è prevista la revisione, a cura dell’organo procedente è dato, anche oralmente, avviso all’interessato del giorno, dell’ora e del luogo dove le analisi verranno effettuate. L’interessato o persona di sua fiducia appositamente designata possono presenziare alle analisi, eventualmente con l’assistenza di un consulente tecnico. A tali persone spettano i poteri previsti dall’art. 230 del Codice.
2. Se leggi o decreti prevedono la revisione delle analisi e questa sia richiesta dall’interessato, a cura dell’organo incaricato della revisione, almeno tre giorni prima, deve essere dato avviso del giorno, dell’ora e del luogo ove la medesima verrà effettuata all’interessato e al difensore eventualmente nominato. Alle operazioni di revisione l’interessato e il difensore hanno diritto di assistere personalmente, con l’assistenza eventuale di un consulente tecnico. A tali persone spettano i poteri previsti dall’art. 230 del Codice[2] [65].
3. I verbali di analisi non ripetibili e i verbali di revisione di analisi sono raccolti nel fascicolo per il dibattimento (431 c.p.p.), sempre che siano state osservate le disposizioni dei commi 1 e 2.
[2] [65].Art. 230 (Attività dei consulenti tecnici)
1. I consulenti tecnici (225, 2332; 38 att.) possono assistere al conferimento dell’incarico al perito (223 coord.) e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale.
2. Essi possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione (227, 3603).
3. Se sono nominati dopo l’esaurimento delle operazioni peritali (228), i consulenti tecnici possono esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia.
4. La nomina dei consulenti tecnici e lo svolgimento della loro attività non può ritardare l’esecuzione della perizia e il compimento delle altre attività processuali.
[3] [65]Corte costituzionale, Sentenze n. 248/83 e 15/86
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, secondo quanto stabilito dalle sentenze n. 248/83 e 15/86 della Corte Costituzionale, il diritto di difesa con riferimento alle analisi dei campioni è limitato al preavviso della data dell’inizio delle operazioni e del luogo, onde consentire l’eventuale presenza di un consulente privato. Poiché l’accertamento non ha natura di perizia processuale, non è prevista la presenza del difensore e neppure la redazione di un verbale, secondo le modalità del nuoivo codice di procedura penale negli articoli 134-137 e ss., applicabili eslusivamente alla documentazione degli atti assunti nel corso del procedimento penale. Le modalità tecniche delle analisi sonolasciate alla discrezionalità dell’amministrazione, la quale è tenuta a certificare soltanto il prelievo, l’apertura dei campioni e l’esito delle operazioni. Il certificato di analisi può, pertanto, essere legittimamente inserito nel fascicolo del dibattimento ed essere utilizzato quale mezzo di prova – Cass. III, sent. 512 del 22.1.1993 (ud. 22.10.92) rv. 192732.
La comunicazione a mezzo raccomandata costituisce la prima notizia dell’infrazione. Per la contestazione delle violazioni il cui accertamento richiede l’effettuazione di analisi su campioni, l’art. 15/689 detta disposizioni precise in materia. Tali violazioni sono tipiche ipotesi di trasgressione alle norme sulla genuinità degli alimenti e bevande, inquinamento idrico ed atmosferico, composizione dei carburanti.
La necessità delle analisi impone che l’accertamento della violazione avvenga in un momento successivo rispetto al tempo del prelevamento di campioni, perché solo successivamente all’esito si accerta il tipo di violazione. E’ quindi da questo momento che diventa possibile dare notizia al trasgressore dell’addebito che gli si ascrive. Infatti, poiché le analisi vengono quasi sempre eseguite all’interno di laboratori (A.R.P.A.), non è mai utilizzabile la procedura di contestazione immediata ex art. 14/689.
Invece, in materia di mancata comunicazione all’interessato, la Cassazione Civile, con Sentenza 13.07.2004, n. 12952, ha stabilito che , qualora per l’accertamento della violazione siano compiute analisi di campioni e i relativi risultati non siano stati comunicati all’interessato con lettera raccomandata, così come sancito dall’art. 15, comma 1 L. 689, la contestazione della violazione deve comunque seguire le normali procedure di cui all’art. 14 della medesima legge, e, pertanto, deve contenere gli estremi essenziali della violazione, quali risultanti dalle analisi compiute sul campione, riportando con esattezza l’esito delle analisi, allo scopo di garantire comunque il diritto alla difesa all’interessato, esercitabile anche mediante la richiesta di revisione delle analisi.
Ai fini della determinazione del dies a quo del termine di novanta giorni previsto dall’art. 14/689 per la notificazione del verbale irrogativo della sanzione amministrativa, deve aversi riguardo nella ipotesi di infrazione concretamente percepibile da parte degli Agenti competenti, e quindi, rileva a detti fini solo quando, dopo le rilevazioni eseguite da quegli Agenti, l’accertamento dell’infrazione risulti da verificare attraverso e per effetto di successivi esami o analisi rispetto al momento del prelievo (Cass. Civ. 29.03.1999, n. 3001).
Per le notifiche a mezzo posta, la Cassazione ha individuato la concreta applicazione delle norme dettate in materia civile, individuando il momento in cui deve ritenersi perfezionata la comunicazione nel momento in cui vi sia l’effettiva ricezione del piego raccomandato. Nessuna rilevanza è attribuita alla data di spedizione della raccomandata, ma soltanto dalla data risultante nella ricevuta di ritorno iniziano a decorrere i vari termini a disposizione dell’interessato.
Il punto di prelievo campioni di acque, sui quali effettuare le analisi chimico-fisiche dirette a verificare il superamento delle concentrazioni di sostanze inquinanti consentite dalle vigenti norme di legge, deve essere individuato - in osservanza ai principi di proporzionalità e precauzione - immediatamente prima dell'immissione di tali reflui industriali nel mare e non, invece, in corrispondenza del singolo impianto produttivo, ubicato all'interno dello stabilimento industriale.
Consiglio Stato, sez. V, 09 settembre 2005, n. 4648
La Direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e la Direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrti provenienti da fonti agricole, sono state recepite dall’abrogato D.L.vo 152/1999 e dall’attuale D.L.vo 152/2006 (art. 101 commi 3 e 4). Le disposizioni summenzionate rispettivamente recitano: “Gli scarichi devono essere resi accessibili per il campionamento da parte dell’autorità competente per il controllo nel punto assunto per la misurazione. La misurazione degli scarichi, si intende effettuata subito a monte del punto di immissione in tutte le acque superficiali e sotterranee, interne o marine, nonché in fognature, sul suolo o nel sottosuolo” e “per le acque reflue industriali contenenti le sostanze della tabella allegata, il punto di misurazione dello scarico si intende fissato subito dopo l’uscita dallo stabilimento o dall’impianto di trattamento che serve lo stabilimento medesimo, ed esattamente nel punto preciso ove tali scarichi si immettono in un corso d’acqua. L’autorità competente può richiedere che gli scarichi parziali contenenti le sostante sostanze della tabella allegata siano tenuti separati dallo scarico generale”.
Tutti gli organi tecnici di cui all’art. 13 l. 689/81. L’art. 101 comma 4 del D.L.vo 152/2006 recita: “L’autorità competente per il controllo è autorizzata a effettuare tutte le ispezioni che ritenga necessarie per l’accertamento delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Essa può richiedere che scarichi parziali contenenti le sostanze di cui ai parametri fissati subiscano un trattamento particolare prima della loro confluenza nello scarico generale”.
Il compito dell’organo accertatore, quale organo di Polizia amministrativa o Polizia giudiziaria, è, dunque, quello di stabilire quale sia, nello specifico, l’uscita dello stabilimento o dall’impianto di trattamento che serve lo stabilimento medesimo, ovvero, in altri termini, se il prelievo di campioni di acqua, onde controllare la conformità ai limiti tabellari, dovesse effettuarsi in corrispondenza dell’uscita dei reflui dall’impianto dello stabilimento o, piuttosto, immediatamente prima dell’immissione degli stessi nel fiume, nel canale, o nel mare, una volta depurati all’interno dello stabilimento.
Le procedure di alienazione e di distruzione di materiale, pericoloso per la salute pubblica oppure non deperibile, confiscato dal personale delle Capitanerie di Porto, e del materiale dissequestrato e non ritirato, proveniente, in particolare, dalle condotte illecite in materia di pesca sia sportiva che professionale, si conformano a quanto previsto dal D.P.R. 22 luglio 1982, n. 571 nonché dalla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 10 Dicembre 1984.
► Tali procedure si articolano come segue:
Solo quando il provvedimento che dispone la confisca diventa inoppugnabile, ovvero quando avverso lo stesso non è stato presentato ricorso entro 30 giorni dalla sua emanazione, si procederà alla alienazione del bene confiscato con la seguente procedura:
Qualsiasi sia la procedura adottata, una volta ultimata, ne sarà data comunicazione alla Capitaneria di Porto competente per la successiva comunicazione all’ Autorità Finanziaria.
In via principale, l’art. 14 della legge 689/81 prescrive che in caso di accertamento di violazione amministrativa, si debba procedere se possibile, «immediatamente» alla contestazione, sia al trasgressore che alla eventuale persona obbligata in solido.
Con il termine di «contestazione» si indica l'attività diretta ad informare il trasgressore e l'obbligato in solido del fatto illecito.
Lo scopo della norma è, prima di tutto, quello di consentire all'interessato una «efficace difesa».
Le violazioni amministrative, infatti, consistono nella stragrande maggioranza in comportamenti (azioni od omissioni) istantanei, privi di evento, per cui il trasgressore a volte, quando ha agito senza dolo, non si rende conto nemmeno di aver commesso il fatto illecito, ed in ogni caso non ne conserva il ricordo che per brevissimo tempo.
La legge prevede due forme di contestazione:
La contestazione ha importanza fondamentale, perché con questo atto la Pubblica amministrazione partecipa al trasgressore la sua pretesa di pagamento di una somma in denaro a titolo di sanzione per un illecito, e instaura il necessario contraddittorio.
L'obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione si estingue per la persona nei cui confronti sia stata omessa la notificazione nel termine prescritto (art. 14 L. 689/81).
È censurabile l'operato dell'accertatore che, pur potendo effettuare la contestazione immediata, la omette, e provvede in un secondo tempo alla notifica; ma gravemente scorretta ci sembra anche la prassi secondo la quale, avvenuta la contestazione, l'accertatore si limita a prendere nota delle generalità del trasgressore per inviargli in un secondo tempo il Verbale di notificazione a domicilio, ponendo a suo carico le relative spese.
L'omissione della contestazione, anche se sanabile con la successiva notificazione, non è comunque priva di conseguenze per l'accertatore, il quale potrà andare incontro a sanzioni disciplinari e, se ha agito con dolo, anche a procedimento penale, per «omissioni di atti d'ufficio» o perfino, a seconda dei casi, per «falsità ideologica».
Nel redigere il Verbale, appare opportuno procedere ad «identificare» compiutamente sia il trasgressore che l’obbligato in solido, riportandone le esatte generalità oltre che gli estremi del documento di identificazione (per il trasgressore) ovvero dell’atto che qualifichi la figura dell’obbligato in solido (contratto di noleggio o di leasing finanziario, visura camerale da cui si identifichi la persona fisica del legale rappresentante; attestazione P.R.A. da cui si evinca l’intestatario del veicolo, intestatario della concessione, ecc.).
Tali soggetti andranno distintamente e separatamente riportati sul processo verbale redatto dagli Agenti accertatori, alle relative voci “contravventore” e “obbligato in solido”.
Occorre rammentare l’importanza che una corretta identificazione del trasgressore ed il riportare quindi i precisi dati anagrafici del medesimo riveste per la successiva procedura per la formazione dei «Ruoli esattoriali», in quanto può comportare il c.d. “scarto del nominativo” per errore anagrafico e conseguentemente un ingiustificato ritardo nell’iscrizione a Ruolo con relativo aggravio di spese.
Preliminarmente rilevasi come la persona nei cui confronti vengono svolti gli accertamenti in merito all’illecito amministrativo è tenuta a fornire indicazioni sulla propria identità personale, la cui omissione è punita ai sensi dell’art. 651 c.p. - che è cosa diversa dall’obbligo di recare con se un documento di identità e di esibirlo ad ogni richiesta di Agenti e Ufficiali di P.S. (qualifica questa non rivestita dal personale delle Capitanerie di Porto) - procedura questa prevista dall’art. 4 del T.U.L.P.S. (approvato con R.D. 18/6/1931, n. 773) e dall’art. 11 D.L. 21/3/1978, n. 59 (conv. con modif. nella Legge 18/5/1978, n. 191) solo nei confronti delle persone pericolose e sospette, nei cui confronti l’Autorità di P.S. medesima (e solo quella) può disporre l’accompagnamento coattivo in caserma per successiva identificazione.
I documenti di identità "equipollenti" alla carta di identità sono elencati dall’art. 292 del R.D. 06.05.1940, n° 635, e come tali riportati dall’art. 35 del successivo D.P.R. 445/2000, e cioè:
Si rileva, al riguardo, come il conducente del veicolo trovato sprovvisto del documento di guida può ottemperare all’invito di esibizione di detto documento – ex art. 180 C.d.S. – anche inviando a mezzo fax al Comando cui appartiene l’accertatore copia fotostatica della patente medesima (Circolare Comando P.M. di Roma n° 92 del 14.06.06).
Il contrassegno di assicurazione deve essere esposto sul parabrezza (art. 181 C.d.S) e deve altresì essere sempre perfettamente leggibile[2].
L’accompagnamento negli Uffici del Comando previsto inoltre dall’art. 11 della L. 18.05.78, n° 191 (c.d. “ fermo di pubblica sicurezza”) assolve a funzioni essenzialmente preventive, e trova applicazione esclusivamente se la persona rifiuta di dichiarare le proprie generalità, ovvero ricorrano sufficienti indizi per ritenere false le generalità fornite ovvero i documento di identità esibiti.
Tale atto ha funzione diverse rispetto a quelle previste dall’art. 349 comma 4 c.p.p. che consente alla Polizia Giudiziaria (quindi anche al personale del Corpo delle Capitanerie) di accompagnare nei propri Uffici per la identificazione i potenziali testimini, ovvero le persone nei cui confronti vengono svolte le indagini.
Tale procedura è obbligatoria se si è in presenza di cittadini «extracomunitari» per verificare l’eventuale sussistenza di provvedimenti di espulsione già emanati a carico dei medesimi (art. 13 T.U. 25/07/98, n. 286, così come sostituito dall’art. 13 bis della L. 106/2002), poiché in questo caso scatterebbero le procedure di arresto obbligatorio ovvero di espulsione prefettizia con accompagnamento coattivo alla frontiera (art. 14 T.U.).
[1] Giusta Circolare n° M/2413/8 del 14.03.2000 del Ministero dell’Interno
[2] Cass. Civ. - Sent. n° 18109 del 12.09.05
Se il trasgressore risulta essere un «minore», la notifica andrà fatta nei confronti di un genitore convivente ovvero nei confronti di chi risulti legalmente essere il tutore dello stesso [1]; in caso di separazione dei genitori l’atto andrà notificato nei confronti del genitore convivente che eserciti la potestà di genitore sul minore - il quale ultimo - essendo giuridicamente “incapace” – non può essere destinatario di alcuna contestazione formale (ex art. 2 L.689/81 e art. 195 C.d.S.), mentre il genitore risponde ex lege della condotta (c.d culpa in vigilando) del proprio figlio minorenne – anche se non risiede con lo stesso e viva separatamente dal ragazzo[2].
Nel verbale pertanto dovrà essere indicato quale effettivo trasgressore la persona tenuta alla sorveglianza nei confronti del minore medesimo[3] .
Parimenti se l’infrazione commessa dal minore comporta decurtazione di punteggio, questa non può essere effettuata nei confronti del genitore o dell’esercente la potestà di genitore.
[1] Sentenza Cass. Civ. n. 4286 del 26.4.2002
[2] Cass. Civ. – Sent. n° 6685 del 21.03.07
[3] Circolare n° 300/A/1/41491/131/S/1/1 del 26.05.05 del Ministero degli Interni
[2] Parere Mininterno n° 300/A/1/45328/13/S/1/1 del 10.11.05.
L’ intestatario del veicolo andrà identificato mediante la residenza, il domicilio o sede del soggetto risultante dalla carta di circolazione, dalla patente di guida e dagli archivi del P.R.A. e della M.C.T.C. ai sensi dell’art. 201 comma 3 del C.d.S., al fine di evitare un difetto di notifica se il contravventore avesse omesso di aggiornare le propria residenza anagrafica sui documenti automobilistici.
In base al corrente orientamento giurisprudenziale, il conducente dell’autoveicolo risponderebbe anche dell’operato dei passeggeri per le violazioni commesse da questi ultimi .
Il trasgressore – quale persona fisica – che si avvalga della facoltà di "oblazione" in via breve, non ha più, una volta pagato, alcun titolo per fare ricorso (art. 204 bis)[1], salvo che trattasi di persona diversa dall’intestatario del veicolo, e per le sole sanzioni accessorie[2].
[1] Come confermato anche dalla Corte Costituzionale (Ordinanza n° 46 del 20.02.07)
[2] Cass. Civ. a SS.UU. – Sent. n° 20544 del 29.07.08
La notifica dell’accertamento della contestazione deve essere fatta nei confronti di chi risulta essere «legale rappresentante» pro-tempore della Società o dell'Ente; mentre se si intende notificare una copia al «dipendente» che ha commesso materialmente la violazione di cui la società debba rispondere occorre accertarsi della effettiva "qualifica" e "mansione" societaria ricoperta dal dipendente medesimo, al fine di evitare che venga notificato un atto nei confronti di un soggetto che svolga mansioni esterne o occasionali o addirittura non sia affatto dipendente della società alla quale si intende addossare la responsabilità del fatto illecito contestato.
A tal riguardo la giurisprudenza ha considerato valida la notifica effettuata nei confronti di un socio o di un collaboratore presso la sede dell’azienda[1], mentre la cancellazione di una società non produce effetti presso i terzi creditori anteriori ancora sussistenti, con conseguente legittimazione del liquidatore a ricevere gli atti pur dopo il provvedimento di cancellazione[2].
Si rileva tuttavia come (specialmente per le c.d.”Auto aziendali”) – qualora il proprietario abbia pagato la sanzione – il conducente possa comunque ricorrere avverso la «sanzione accessoria» della decurtazione del punteggio sulla patente, perché ha un interesse diretto e concorrente a quello del proprietario[3], significandosi comunque che il pagamento in misura ridotta non preclude la possibilità di espletare successivo rcorso per le eventuali sanzioni accessorie non pecuniarie[4].
[1] Cass. Civ. – Sent. n° 24622 del 03.10.08
[2] Cass. Civ. - Sez. Trib. – Sen. n° 25472 del 20.10.08
[3] Sent. n° 53 del 23.02.05 del G.d.P.di Abbiategrasso
[4] Cass. Civ. a SS.UU. – Sent. n° 20544 del 29.07.08
Per i trasgresori "cittadini stranieri" e residenti all’estero, dovranno essere adottate le disposizioni imposte dalla «Convenzione Europea di Strasburgo» del 24.11.77, ratificata con Legge 21.03.83, n° 149, tenendo presente che alcuni Paesi non forniscono generalità né notificano atti giudiziari ai propri cittadini[1] , per cui le notifiche andranno tradotte nella lingua originaria e trasmesse alle Autorità Centrali (Regolamento 1348/2000).
Se il trasgressore risulta "cittadino extracomunitario", particolare attenzione andrà riportata alle procedure di preventiva identificazione al fine di verificare la presenza a suo carico di eventuali provvedimenti già emanati di espulsione dal territorio nazionale, che ne comporterebbero l’arresto ovvero l’accompagnamento coattivo alla frontiera o a un centro di accoglienza secondo le modalità previste dal combinato disposto del T.U. 286/98 come modificato dalla Legge 106/2002.
Per i soli «cittadini rumeni» si applicano inoltre disposizioni di cui alla Legge 01.11.07, n° 181 in materia di allontanamento dal territorio nazionale – provvedimento questo assunto dal Prefetto competente per territorio – che dovrà essere notiziato in materia per l’adozione dei provvedimenti di competenza[2].
Si evidenzia inoltre come per i soli automobilisti stranieri di «madrelingua tedesca» la contestazione deve essere fatta anche nella lingua originale[3].
Se la violazione contestata concerne il Codice della Strada, troverà invece applicazione l’art. 207 C.d.S., che obbliga il contravventore a procedere all’immediato pagamento ovvero – in alternativa – al versamento di cauzione, a prestare fideiussione in mancanza delle quali si procederà al ritiro della patente ovvero al fermo del veicolo.
[1] Giusta Circolare n° 099/102/4342 emanata in data 09.06.99 dal Ministero Affari Esteri)
[2] Circolare del Ministero dell’ Interno n° 555/410/2007 del 03.11.07
[3] Consiglio di Stato – Sez. VI^ - Sent. n° 2630 del 11. 05.06
L’art. 14 della L. 689/81 prevede che la violazione debba “quando è possibile”, essere contestata immediatamente al "contravventore" nonché all’ "obbligato in solido".
Tale obbligo assume un rilievo essenziale per la correttezza del procedimento sanzionatorio, in quanto la mancata contestazione immediata potrebbe configurare violazione di legge che rende illegittimi i successivi eventuali atti del procedimento amministrativo, per violazione dei diritti della difesa a favore della parte[1] .
Chi è preposto istituzionalmente all'accertamento delle violazioni o chi ha facoltà di procedervi (Ufficiali o Agenti di P.G.) deve immediatamente, quando è possibile, «contestare» il fatto al trasgressore.
La «contestazione immediata» serve a mettere in grado il trasgressore di rendersi conto dell'infrazione commessa, il che gli consente di far valere le proprie eventuali ragioni. Nello stesso tempo, come vedremo, essa facilita una sollecita risoluzione del procedimento amministrativo, attraverso l'istituto del pagamento in misura ridotta (la c.d.«conciliazione»).
Oggetto della contestazione è l'enunciazione chiara ed esplicita del fatto commesso in violazione di precise disposizioni di legge; destinatari della contestazione sono l'autore della violazione e la persona eventualmente obbligata in solido, perché entrambi tenuti al pagamento della somma dovuta a titolo di sanzione e quindi interessati al contraddittorio con la pubblica amministrazione.
Come la giurisprudenza ha in più occasioni affermato, «contestazione immediata» non equivale a «contestazione contestuale».
È intuitivo, pertanto, che non in tutti i casi la contestazione immediata è possibile. Rinunciare, in questi casi, ad applicare la sanzione amministrativa costituirebbe un premio per quanti riescono, anche dolosamente, e persino compromettendo l'incolumità altrui, a sottrarsi alla contestazione immediata.
La «contestazione immediata» consiste sia nel far presente all’ interessato il fatto (azione od omissione) commesso, sia nell'indicare la disposizione di legge con la quale tale fatto si pone in contrasto. La contestazione immediata serve quindi a mettere in grado il trasgressore di rendersi conto dell'infrazione commessa il che gli consente, come abbiamo detto in precedenza, di far valere le proprie eventuali ragioni.
La preferenza del legislatore va a questa agile forma di contestazione, che consente al trasgressore non solo una difesa pronta e non appannata dal decorso del tempo, ma anche, in certi casi, una definizione immediata della pendenza, con vantaggio non solo del trasgressore ma anche della pubblica amministrazione.
Per la validità della contestazione immediata è richiesta la sussistenza della «capacità naturale», cioè quella minima di intendere e di volere, nel consegnatario del Verbale di contestazione e, ad esempio, non è stata ritenuta valida quella fatta a persona in stato di ubriachezza.
[1] Sentenze n° 12833 del 31.05.07; n° 26311 del 07.12.06 e n° 4010 emanata in data 03/04/2000 dalla Cassazione Civile – Sez. III
Qualora non sia possibile procedere a contestazione immediata (per assenza del conducente, per impossibilità di avvicinarsi a sufficienza all’unità interessata alla violazione, per stato di ubriachezza, per fuga del contravventore, ecc.) ciò andrà espressamente riportato in «calce» al Verbale con le relative e succinte motivazioni, significandosi tuttavia che anche l’impossibilità di fermare il trasgressore per contestargli la violazione costituisce una valutazione degli agenti accertatori, e come tale suscettibile di valutazione da parte del Giudice, che dovrà valutare tale circostanza sulla base delle condizioni della strada, del traffico e della condotta del conducente[1].
L'art. 14 della legge n. 689/81 stabilisce che, quando non sia possibile procedere alla contestazione immediata per tutte o per alcune delle persone interessate (trasgressori e obbligati in solido) si fa luogo alla contestazione successiva, per «notificazione».
La notificazione è la «contestazione differita» delle violazioni amministrative, che per essere valida va compiuta entro un termine perentorio.
Tali termini decorrono dalla data dell'accertamento. Nel caso che essa non avvenga entro i termini suddetti si estingue l’obbligazione ed il trasgressore non è più obbligato a pagare la somma dovuta per la violazione.
Nell’eseguire la notificazione bisogna attenersi alle norme previste dal c.p.c. dagli artt. 138, 149 e dalla legge 20/11/82, n. 890 relativa alla notificazione a mezzo posta di atti e comunicazioni di carattere giudiziario.
La notificazione può essere effettuata oltre che dall’Ufficiale giudiziario (art. 137 c.p.c.), anche da un funzionario dell’amministrazione che ha accertato la violazione (art. 14 Legge 689/81) ovvero da un Ufficiale o Agente di PG (art. 14, comma 4 Legge 689/81): il notificatore e l’accertatore debbono, comunque, sempre appartenere alla stessa amministrazione.
[1] Cass. Civ. – Sez.I° - Sentt. n° 18271 del 30.08.07 e n° 1406 del 27.01.04.
[2] 90 gg. per le violazioni al Codice della Strada
La notificazione deve essere eseguita:
Le forme e le modalità della notifica sono previste dalla Legge 890/1982 e dal Codice di Procedura Civile – art. 137 e ss.
Recentemente la Suprema Corte ha statuito come l’effetto delle variazioni anagrafiche ai fini delle notificazioni degli atti è immediata[1].
La notifica deve essere effettuata – quando possibile – immediatamente nei confronti del contravventore (cioè del soggetto responsabile della violazione), mediante consegna allo stesso di copia del relativo verbale.
Qualora non sia possibile la contestazione immediata e contestuale notifica del fatto illecito accertato, le procedure da attuare per una corretta notifica del provvedimento sanzionatorio assumono una importanza fondamentale per la validità della stessa contestazione, in considerazione anche dei termini perentori di notifica a pena di decadenza dalla potestà di legittimamente contestare l’infrazione medesima, nei termini rispettivamente previsti dall’art. 14 della L. 689/81 (90 giorni) e dall’art. 201 del D.lgs. 285/92 (C.d.S.) (150 giorni).
L’eventuale "difetto di notifica" comporta la possibilità per l’interessato di adire in giudizio per l’esercizio del mezzo di tutela previsto dalla legge riguardo agli atti sanzionatori[2].
Si rilevi peraltro come – in specie per le violazioni al Codice della strada – la notifica del fatto contestato può essere legittimamente effettuata anche successivamente, qualora la complessità degli accertamenti non consenta una ricostruzione immediata della dinamica dei fatti e quindi una immediata contestazione delle violazioni al contravventore[3].
[1] Cass. Civ. – Sez. Tributaria – Sent. N° 26542 del 05.11.08
[2] Cass. a Sezioni Unite – Sentenza n° 562 del 10.08.2000.
[3] Cass. Civ. – Sez.II^ - Sent. n° 7131 del 17.03.08
La notifica si intende regolarmente eseguita se effettuata presso quello che risulta essere il «domicilio anagrafico» del trasgressore, nelle mani dello stesso, oppure presso persona di famiglia che conviva anche temporaneamente con il destinatario o a persona detta alla casa o dal servizio di essa (collaboratrice domestica), al portiere dello stabile, oppure a persona che – vincolata da rapporto di lavoro continuativo, è tenuta alla distribuzione della posata al destinatario (segreteria dell’ufficio della persona giuridica, collaboratore o dipendente dell’azienda identificata quale obbligato in solido, socio della stessa [1], ecc.), e purchè il consegnatario non sia manifestamente affetto da malattia mentale e non abbia età inferiore a 14 anni (art. 139 C.p.c.).
Pertanto nella relata di notifica andrà espressamente indicato a chi è stato materialmente consegnato il plico contenente l’atto amministrativo. In ogni caso la Pubblica Amministrazione, dovrà fornire la prova dell’avvenuta notifica del verbale a domicilio del contravventore[2].
[1] Cass.Civ. – Sent. n° 24622 del 03.10.08
[2] Cass. Civ. – Sez. II^ - Sent. n° 5789 del 15.03.06
Tale procedura è prevista dagli art. 140 e ss. C.p.c. mediante affissione all’Albo della «Casa Comunale» tramite l’Ufficio dei messi notificatori – così come regolamentato dalla Legge 03.08.99, n. 265 e dal D.M. 14.03.2000, da applicare in caso di irreperibilità del destinatario di cui sia però nota la residenza anagrafica. Ciò naturalmente purchè non risulti possibile notificare altrimenti la violazione contestata.
Qualora sia "ignota" anche la residenza anagrafica dello stesso, potrà trovare invece applicazione l’art. 143 C.p.c., significandosi tuttavia che la giurisprudenza costante della Cassazione legittima l’applicazione di tale procedura solo quando il destinatario dell’atto sia ripetutamente assente dal luogo di residenza anagrafica, richiedendo al riguardo particolari accertamenti[1] .
[1] Cass. Civ. n° 3743 del 02.06.88.
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Oggetto: Relazione di notificazione mediante deposito dell’atto nella Casa Comunale.
oppure a mani del Sig. ______________________________ obbligato in solido con il trasgressore Sig. _____________________________.
Letto,confermato e sottoscritto.
Il Ricevente _____________________ Il Verbalizzante _____________________
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Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Oggetto: Avviso di notificazione mediante deposito nella Casa Comunale (da affiggere alla porta) ex art. 140 c.p.c. e art. 4 R.D. 1.12.1941, n. 1368
Il sottoscritto Ufficiale o Agente di PG ________________________________ in servizio presso ___________________ in esecuzione dell’art. 140 c.p.c., comunica che in data ____________ ha notificato a ______________________________ gli estremi della violazione amministrativa n° ___________ prevista dall’art. ____________ accettata il giorno ____________________ in ___________________ mediante deposito di copia nella Casa Comunale di ______________ e affissione dell’avviso dell’avvenuto deposito alla porta dell’abitazione/ufficio/azienza del destinatario.-oppure a _________________ (persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio, all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace – art. 159 Codice di Procedura Civile).
Luogo e data _______________
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Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Racc/ta A.R.
Dà notizia al Sig. ________________________ abitante a _______________ via ____________________ n° _________ che, dovendo notificargli un atto di _____________ a norma dell’art. 14, comma 2 della Legge 689/81 ad istanza di __________________ non avendo trovato esso destinatario nella sua casa di abitazione o dove ha l’ufficio o l’azienda e, stante l’incapacità, l’irreperibilità – il rifiuto delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c., ha depositato copia dell’atto suddetto nella casa Comunale di _________________________________ in data ______________________.
Firma deIl’Ufficiale o Agente di PG
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Se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi anche a mezzo del servizio postale (art. 149, comma 1 c.p.c.); in tala caso la «relazione di notificazione» viene scritta sull’originale e sulla copia dell’atto facendo menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale viene spedita la copia al destinatario in "piego raccomandato" con avviso di ricevimento che deve essere allegato all’originale (art. 149 c.p.c.).
Per la notifica a mezzo posta bisogna munirsi di buste e moduli per avvisi di ricevimento entrambi di colore verde e conformi al modello prestabilito dall’Amministrazione postale (art. 2 Legge 890/1982).
La consegna effettiva del piego raccomandato al destinatario è fatta dall’agente postale secondo le regole previste dalla legge in proposito e cioè: a mani del destinatario, di una persona di famiglia o di un addetto alla casa o al servizio, oppure, in mancanza di tali soggetti, al portiere o ad altra persona tenuta alla distribuzione della posa.
Il rifiuto da parte del destinatario di ricevere il piego, o di firmare il registro di consegna, equivale alla eseguita notifica (art. 7 Legge 890/1982).
Si ribadisce che l’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione si estingue per la persona nei cui confronti è stata omessa la notificazione nel termine prescritto.
► Approfondimenti
Tale procedura è prevista dalla Legge 20.11.82, n. 890 e segnatamente dall’art. 8, commi 2° e 3°, che prevede come la notificazione si abbia per eseguita decorsi 10 giorni dalla data del deposito.
Il perfezionamento della notifica avviene pertanto il decimo giorno computato a partire da quello successivo di spedizione della comunicazione di avvenuto deposito, sia in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, sia in caso di effettivo ritiro presso l’Ufficio postale dall’undicesimo al novantesimo giorno dell’avviso di deposito in raccomandazione (C.A.D.).
Qualora il postino non reperisca il contravventore presso il domicilio indicato, l’Amministrazione postale è tenuta ad inviare allo stesso una seconda raccomandata[1].
Per tale procedura assume la massima importanza una corretta e preventiva identificazione del contravventore e/o obbligato in solido, riportandosi con esattezza le generalità anagrafiche dei medesimi sull’indirizzo che verrà riportato sulla busta “Raccomandata A.G.”, ciò considerando che una errata identificazione del destinatario può causare la nullità della notifica e conseguentemente del relativo verbale[2].
In ogni caso la notifica del verbale deve considerarsi perfezionata – per la Forza di Polizia – con la consegna del verbale all’Ufficio postale, mentre per il contravventore si perfeziona con la ricezione[3].
La notifica a mezzo servizio postale del verbale consente altresì di legittimamente riportare nello stesso le "motivazioni" che hanno precluso di effettuare la contestazione immediata[4] .
Eventuali errori nell’indirizzo del contravventore devono in ogni caso ritenersi sanati – e conseguentemente la contestazione è valida – se la notifica avviene comunque nei confronti del contravventore[5].
In ogni caso è la Pubblica Amministrazione. che deve fornire la prova dell’avvenuta notifica[6].
Rilevasi al riguardo come l’art. 36 del c.d. «Decreto Milleproroghe 2008» ha ampliato le garanzie delle notifiche a mezzo servizio postale, disciplinate dalla Legge n° 890/1982, disponendo che in caso di notif ica avvenuta a mezzo consegna a un familiare, a un vicino o ad altro soggetto abilitato, il destinatario deve essere comunque di ciò avvisato a mezzo apposita raccomandata.
[1] Cass.Civ. – Sez.II^ - Sent. n° 7815 del 04.04.06
[2] Cass. Civ. Sez. I n° 1079 del 22.01.04
[3] Circolare n° 300/A/1/26466/127/9 del 20.08.77 del Ministero dell’Interno
[4] Cass. Civ. – Sez. I^ - Sent. n° 21649 del 08.11.05
[5] Cass. Civ. – Sent. n° 15030/07
[6] Cass. Civ. – Sez. II^ - Sent. n° 5789 del 15.03.06
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Oggetto: Notificazione a mezzo del servizio postale.
Il sottoscritto Ufficiale o Agente di PG ________________________________ in servizio presso _____________________________ dà atto di aver notificato l’atto che procede (o retroscritto) a ___________________________ (generalità del destinatario) a mezzo del servizio postale a norma dell’art. 149 c.p.c. con racc. A.R. n. ___________________ spedita dall’Ufficio postale di ___________________.
Luogo e data _______________
Firma deIl’Ufficiale o Agente di PG
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Tale procedura è consentita soltanto se eseguita da personale della stessa Amministrazione che ha proceduto all’accertamento ed alla contestazione; risulterebbe "nulla" se eseguita da personale di altra Amministrazione come stabilito dalla giurisprudenza[1].
In caso di materiale impossibilità della notifica per irreperibilità dell’interessato presso la propria residenza anagrafica, ed in assenza di eventuale immigrazione presso altro Comune o altro indirizzo (da accertare presso l’Ufficio Anagrafe ovvero la locale Polizia Municipale), potrà richiedersi l’accertamento dell’effettivo domicilio tramite le Forze di Polizia insistenti sul territorio ove è situato l’ultimo domicilio noto.
[1] Cass. Civ. – Sez. 1° - Sent. n° 563 del 21.01.94
La contestazione ha importanza fondamentale, perché con questo atto la Pubblica amministrazione partecipa al trasgressore la sua pretesa di pagamento di una somma in denaro a titolo di sanzione per un illecito, e instaura il necessario «contraddittorio».
L'obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione si estingue per la persona nei cui confronti sia stata omessa la notificazione nel termine prescritto (art. 14 L. 689/81).
È censurabile l'operato dell'accertatore che, pur potendo effettuare la contestazione immediata, la omette, e provvede in un secondo tempo alla notifica; ma gravemente scorretta ci sembra anche la prassi secondo la quale, avvenuta la contestazione, l'accertatore si limita a prendere nota delle generalità del trasgressore per inviargli in un secondo tempo il "Verbale di notificazione" a domicilio, ponendo a suo carico le relative spese.
L'omissione della contestazione, anche se sanabile con la successiva notificazione, non è comunque priva di conseguenze per l'accertatore, il quale potrà andare incontro a «sanzioni disciplinari» e, se ha agito con dolo, anche a procedimento penale, per «omissioni di atti d'ufficio» o perfino, a seconda dei casi, per «falsità ideologica».
Per “accertamento” si intende la valutazione, compiuta dall’agente accertatore, che un determinato comportamento – in relazione alle circostanze di tempo, di luogo, alle norme, alle Ordinanze locali, o quant’altro da singola disposizione espressamente specificato – viola una specifica disposizione normativa o regolamentare, e dalla successiva identificazione del soggetto responsabile.
La redazione del processo verbale di accertamento e contestazione amministrativa costituisce quindi atto dovuto al fine di consentire al trasgressore di esercitare il «diritto di difesa», e deve riportare il fatto contestato, le violazioni riscontrate e le dichiarazioni difensive rese dal contravventore.
Dopo la contestazione del fatto e della norma violata è necessario redigere «Verbale di contestazione»[1]. Detto verbale deve inoltre riportare lo specifico illecito che viene contestato al contravventore[2].
Tale ultima formalità potrà essere sostituita mediante indicazione a stampa dei soggetti responsabili artt. 383 comma 4 e 385 comma 3 e 4 Reg. C.d.S. – art. 3 D.Lgs.12.02.93, n° 39)[3].
La mancanza di uno o di alcuni dei suddetti dati potrebbe infatti concretizzare un vizio di forma che rende nullo il verbale[4].
Qualora il contravventore sottoscriva tuttavia anche successivamente il relativo verbale, ove si attesti anche la presa visione dello stesso, la notifica si intende quindi regolarmente effettuata[5].
Si rileva inoltre come le contestazioni che comportino anche decurtazione del punteggio sulla patente, devono al riguardo anche richiamare il relativo art. 126 bis C.d.S. per consentire al trasgressore di verificare la corretta decurtazione del punteggio[6].
Benché il verbale di accertamento redatto con le forme di legge costituisca e fa normalmente piena prova fino a querela di falso dei fatti che il Pubblico Ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza ex art. 2700 Cod. civ.(salva la facoltà del contravventore di provare l’erronea percezione del fatto contestato da parte dei PP.UU.)[7], la puntuale e precisa contestazione nei confronti del contravventore e dell’obbligato in solido del fatto illecito attestato costituisce elemento fondamentale del relativo procedimento, i cui vizi – anche se apparentemente banali - si possono ripercuotere sul relativo atto causandone la nullità, e ciò per la particolare valenza giuridica delle norme poste dal legislatore a tutela della parte interessata.
Si esaminano pertanto di seguito dei casi particolari che possono verificarsi, e costituire – se applicati in modo erroneo – causa di nullità della contestazione medesima e quindi del procedimento:
[1] Sentenze di Cass. civ. n. 12105 del 27.9.2001 e n. 1015 del 10.7.2002, Sez. I.
[2] Cass. Civ. Sez. II^ - Sent. n° 1083 del 18.01.07
[3] Cass.Civ. – Sez.I^ - Sent. n° 1923/99
[4] Cass.Civ. – Sent. n° 23506/2007
[5] Cass.Civ. – Sent. n° 24553/2008
[6] Vedi in proposito Sent. G.d.P. di Faenza, n° 566 del 26.07.05
[7] Sentenze Cass. Civ. n° 9909/2001, n° 1406 del 27.01.04; n° 18271 del 30.08.07; n° 21816/2008
Il Verbale di accertamento di illecito è prova, ai sensi dello art. 2700 del Codice civile, sino a querela di falso, della provenienza del documento del Pubblico Ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il Pubblico Ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
Proprio per effetto del richiamato art. 2700 nel processo Verbale è indispensabile evidenziare che il fatto stesso è avvenuto in presenza dell'accertatore.
Ad ulteriore chiarimento, e ciò al fine di evitare ogni possibile contestazione nell'eventualità che venga proposta «opposizione» alla successiva «Ordinanza-ingiunzione» di pagamento, è da sottolineare che la tutela posta alla fede della dichiarazione dell'accertatore è limitata ai soli fatti e non alle deduzioni dello stesso o sue convinzioni che spesso vengono indicate nel Verbale in luogo della descrizione dei fatti illeciti accertati.
In relazione a ciò, in assenza di specifica descrizione dei fatti accertati nel relativo Verbale, ancorché risultino indicate le deduzioni, ovvero il convincimento dei verbalizzanti, potrebbero configurarsi "irregolarità" tali da invalidare l'atto di accertamento, con impedimento per l'Amministrazione di perseguire il trasgressore nei termini di legge ovvero, con impegno per la stessa di acquisire posteriormente, i necessari elementi probatori con conseguente difficile riscontro a causa del tempo trascorso.
Il caso di errata o incompleta compilazione di processo Verbale di accertamento si manifesta con maggiore frequenza nelle ipotesi di illeciti amministrativi in materia di «pesca marittima».
Si verifica, infatti, assai spesso che l'illecito venga dichiarato dall'accertatore come sua convinzione o come sua deduzione, con il ricorso alle "tipiche affermazioni":
….senza procedere ad una circostanziata rilevazione e descrizione della condotta illecita mediante la narrazione della dinamica dei fatti.
Nell'ipotesi in cui la violazione sia segnalata da privati, il personale che la riceve deve prendere atto della segnalazione (la omissione è sanzionata dall'art. 328 c.p.) atteso che il perseguimento delle violazioni amministrative non costituisce un fatto meramente discrezionale ma un preciso dovere istituzionale.
Pertanto dopo l'esperimento delle necessarie indagini ed accertamenti si dovranno «notificare» i fatti all'autore degli stessi ed agli eventuali obbligati in solido.
► Nel verbale devono essere obbligatoriamente riportati:
Quanto sopra assume particolare rilevanza in caso di opposizione avverso il provvedimento di Ordinanza-Ingiunzione , che si propone – ex art 22 L. 689/81 – innanzi al Giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione[1].
Al riguardo appare opportuno rammentare come la giurisprudenza ha precisato che l’omessa indicazione del tipo di veicolo – pur se non produce, di per sé, l’invalidità del verbale – può incidere tuttavia sull’efficacia probatoria dello stesso, rendendo incerto l’identificazione del veicolo a mezzo del quale la violazione si assume commessa[2].
Il verbale deve essere obbligatoriamente sottoscritto dagli agenti accertatori, a meno che trattasi di atto redatto con sistema meccanizzato (artt. 383 e 384 Reg.C.d.S.) [3] di cui l’originale – ovvero il relativo rapporto di servizio redatto ex art.17 Legge 689/81 riportante l’accertamento effettuato – sia depositato agli atti dell’Ufficio; procedura in mancanza della quale l’accertamento è da ritenersi nullo.
Non è obbligatorio invece l’apposizione anche della sottoscrizione del contravventore; circostanza questa che però andrà riportata sul verbale, menzionando sulla relativa voce la dicitura “si rifiuta di firmare”, riportando altresì l’indicazione “si è proceduto comunque alla consegna del medesimo”.
Appare obbligatorio invece riportare in calce al verbale le dichiarazioni rese dal contravventore – che costituiscono il primo elemento di difesa a favore del medesimo – anche aggiungendole in calce su altra parte del verbale, qualora lo spazio a ciò destinato si rivelasse insufficiente.
[1] Cass. Civ., Sez. I^,- Sent. n° 18075 del 08.09.04
[2] Cass. Civ., Sez. I, n° 1445 del 14.02.94
[3] Cass. Civ. - Sent. n° 1923/99
Appare fondamentale riportare sul verbale l’esatta violazione contestata al trasgressore, con l’indicazione della relativa norma di legge violata.
Infatti una erronea indicazione della norma violata non può in alcun modo essere successivamente emendata in sede di ordinanza ingiunzione, in quanto ciò costituirebbe violazione del principio della corrispondenza tra violazione contestata e norma posta a fondamento dell’ordinanza ingiunzione, con conseguente menomazione del "diritto di difesa", in applicazione dell’analogo principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato[1] .
Per le stesse motivazioni, qualora la norma di legge applicata non indichi ovvero non riporti specificatamente il comportamento costituente violazione, l’agente accertatore non potrà applicare una eventuale circolare applicativa che comporti la conseguente sanzionabilità del comportamento di terzi, e ciò in virtù del principio di legalità e divieto di interpretazione analogica che preclude di estendere l’applicabilità della sanzione a condotte non previste dalla legge[2], dovendosi pertanto specificare nel verbale sia la norma violata sia il consequenziale dispositivo punitivo previsto dalla stessa o da altre norme.
Sul verbale devono inoltre essere riportate le eventuali sanzioni accessorie previste in caso di violazione (es. ritiro targa, ritiro patente, ritiro carta di circolazione, fermo amministrativo del veicolo; decurtazione dei punti sulla patente, ecc.), nonché gli estremi dell’eventuale provvedimento di sequestro amministrativo per il quale andrà redatto separato verbale.
[1] Sent. Cass. Civ., Sez.II^ - Sent. n° 1083 del 18.01 .07 e Sez. I^, n°13267 del 05.06.2000
[2] Sent. Cass. Civ., Sez.I, n° 1081 del 22.01.04
In applicazione dei principi stabiliti dall’art. 7 della Legge 241/90, la cui applicabilità parrebbe ormai estesa anche al provvedimento amministrativo contenzioso (vedi art. 1 D.M. 18.04.03, n° 124) - l’ Ufficio Legislativo del Ministero dei Trasporti e della Navigazione – con Nota n° 1573 del 26.03.99, ha ritenuto doveroso per l’Autorità competente all’emanazione del provvedimento ingiuntivo, l’obbligo di comunicare l’«avvio del procedimento ingiuntivo» nei confronti dei soggetti (trasgressore ed obbligato in solido) nei confronti dei quali lo stesso provvedimento sanzionatorio potrà esplicare i suoi effetti.
Non parrebbe sussistere invece alcuno specifico e parallelo onere – in capo al contravventore – di comunicare all’ Amministrazione procedente l’avvenuto pagamento[1], anche se ciò di fatto corrisponde ad un effettivo interesse del trasgressore, onde evitare eventuali e successive procedure esecutive avviate dall’Amministrazione medesima.
Tuttavia il trasgressore deve essere messo nelle condizioni di adempiere l’obbligazione pecuniaria, e segnatamente di esercitare la facoltà di pagamento in misura ridotta prevista dall’art. 16 della L. 689/81, per cui allo stesso dovranno essere comunicati gli esatti codici tributari necessari per il pagamento della sanzione.
In considerazione che la procedura relativa ad un eventuale contenzioso in materia di illeciti amministrativi connessi alla "circolazione stradale", comunque successivo all’accertamento, è di competenza del Prefetto ex artt. 203 e 204 C.d.S., i compiti degli accertatori devono intendersi limitati agli atti di notifica (art. 201 C.d.S.,385 e 386 Reg.) ed al rapporto (art. 203 c.2° C.d.S.) in caso di scritti difensivi.
[1] Cass. Civ., Sez.I, n° 10300 del 16.07.02
L'art. 16 della legge n. 689/81 consente all'autore della violazione e all'obbligato in solido, di effettuare il pagamento di una somma desumibile sulla base dei criteri indicati nell'articolo stesso, con riferimento al massimo ed al minimo edittale rispettivamente previsti quali limiti alla sanzione della norma punitiva per la violazione.
Per i residenti all'estero con residenza, dimora e domicilio sconosciuti, la facoltà di pagamento in misura ridotta è esercitabile fino alla scadenza del termine utile per l'opposizione all'ordinanza-ingiunzione (art. 22, comma 2° «il termine è di 60 giorni se l'interessato risiede all'estero»).
Sono fatte salve le norme speciali ed, in particolare, la disciplina sanzionatoria del Codice della Strada e delle norme contenute nel regolamento ed ordinanze locali regolate dal T.U.L.C.P. (artt. 106 e ss. non abrogati dalla legge 142/90).
Possiamo considerare il «pagamento in misura ridotta» come un premio, o almeno un incentivo, che lo Stato offre al trasgressore il quale, rinunciando a difendersi, consente una sollecita definizione del procedimento.
L'entità della somma da pagare non è rimessa alla discrezionalità dell'Amministrazione, ma viene prefissata per legge, onde consentire all'interessato una precisa valutazione sulla scelta del comportamento:
«è pari alla terza parte del massimo della sanzione edittale o, se più favorevole qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale (art. 52 D.lgs. 213/98), pari al doppio del minimo edittale, oltre alle spese». |
Alla somma dovuta al titolo di sanzione vanno aggiunte, per espressa disposizione di legge, le spese del procedimento.
Il pagamento della sanzione amministrativa in misura ridotta viene effettuato dall'interessato all'«Ufficio delle Entrate o altro ufficio competente» del luogo dove è stata accertata l'infrazione ed al quale è inviata pertanto, copia del Verbale di contestazione a cura dell'organo accertatore.
Pertanto, anche tale indicazione deve essere specificatamente riportata sul verbale, nel quale andranno indicati i relativi importi della sanzione, l’ente a cui favore va effettuato il pagamento nonché la facoltà di effettuare l’oblazione in misura ridotta, e ciò a pena di possibile nullità del relativo provvedimento ingiuntivo[1].
Qualora non sia possibile effettuare l’oblazione in misura ridotta detta limitazione deve essere parimenti riportata sul verbale.
Sul verbale andranno indicate altresì le modalità per effettuare l’oblazione, allegando copia pre-compilata del «Mod. F-23» riportante gli specifici "codici di versamento" (art. 3 D.Lgs. 237/97) per proventi destinati alle Amministrazioni dello Stato; mentre qualora detti proventi vadano introitati dagli Enti Locali (Regione, Provincia, Comune) sarà sufficiente indicare gli estremi del conto corrente e/o della Tesoreria dell’Ente medesimo.
► Il pagamento può essere effettuato:
Di tale pagamento dovrà essere esibita od inviata «copia» o «fotocopia» all'Ufficio cui appartiene l'agente accertatore, onde evitare che quest’ultimo inoltri all’Ufficio competente, alla scadenza dei 60 giorni, il prescritto rapporto (=verbale)
Di tale adempimento, che viene riportato sul Verbale, è opportuno dare comunicazione, anche a “voce”, all’interessato all’atto della contestazione o notificazione.
Tale pagamento libera l'autore dell'illecito e l'obbligato in solido dalle ulteriori conseguenze previste, fatta salva l'applicazione, a cura dell'amministrazione interessata, delle eventuali sanzioni accessorie.
In relazione agli effetti del pagamento ridotto nei confronti degli adempimenti riservati all'accertatore della violazione, è necessario rilevare che questi qualora il pagamento sia stato effettuato per l'importo previsto ed entro i termini stabiliti deve provvedere alla «archiviazione» dei relativi atti.
Per quanto attiene la somma da versare, il relativo importo deve apparire sul Verbale di accertamento, anche in considerazione del fatto che l'Ufficio incaricato di ricevere il pagamento non può determinare l'importo dovuto al versante.
In merito alla somma che, se versata, libera l'autore del fatto e l'obbligato in solido dalle conseguenze pecuniarie per la violazione commessa, può talvolta apparire difficoltoso desumere l'importo dovuto, soprattutto per fattispecie previste dal codice della navigazione, le cui norme punitive non sempre prevedono il minimo o il massimo della sanzione. In proposito possono presentarsi diversi casi:
[1] Sent. Cass.Civ., Sez.I, n° 10724 del 02.12.1996
La procedura da seguire per la riscossione e il versamento delle somme dovute quali sanzioni per le violazioni amministrative, consiste nell’allegare al Verbale, il «modello (F23) di pagamento tasse», imposte, sanzioni e altre entrate approvato dal Ministero dell’Agenzia e delle Entrate (con provvedimento 14 novembre 2001) che è possibile trovare presso il concessionario del servizio riscossione tributi o presso qualsiasi sportello bancario.
Il modello è di colore "celeste cieco" e si compone di "tre copie", in fogli singoli di carta bianca formato A4:
Il modello può essere riprodotto anche con stampa monocromatica realizzata in colore nero mediante l’utilizzo di stampanti laser o di altri tipi di stampante che ne garantiscono la chiarezza e l’intelligibilità del modello stesso nel tempo. Il modello è reso disponibile gratuitamente in formato elettronico e può essere prelevato su:
«Internet www.finanze.agenziaentrate.it»
In alto troviamo le informazioni relative anagrafiche relative a due soggetti. A seconda del tipo di pagamento sarà necessario riempire solamente una oppure entrambe tali anagrafiche. A titolo esemplificativo per l'imposta di registrazione di atti pubblici o atti privati autenticati dovranno essere riportati solo i dati del notaio, per la registrazione di altri atti dovranno essere riportati i dati del richiedente e di una delle controparti, per i contratti di locazione dovranno essere indicati il proprietario e il locatario.
Segue poi una sezione dove andranno indicati dati identificativi generali (ufficio o ente responsabile, anno, numero, causale, ecc). Questi campi andranno riempiti secondo le indicazioni prescritte per il singolo pagamento.
La parte successiva, suddivisa in varie righe, è utilizzata per inserire il codice dell'importo da versare e l'importo stesso. Per ogni tipologia di imposta, tassa o contributo deve essere utilizzata una singola riga.
Il modello F23 ha uno schema aperto in quanto deve essere il versante ad inserire il codice del tributo nelle apposite caselle. Il vantaggio di tale impostazione è che in caso di nuove tipologie di tributo non sarà necessario variare il modello ma semplicemente creare un nuovo codice.
A pagamento avvenuto, è consigliabile che l’interessato presenti al Comando a cui appartiene l’agente accertatore che ha operato, la relativa quietanza (di cui è opportuno fare fotocopia da allegare alla copia del Verbale da inserire agli atti dell’Ufficio). Di tale adempimento (non obbligatorio), che viene riportato sul Verbale è opportuno darne comunicazione anche verbalmente all’interessato al momento della contestazione immediata o notificazione.
Per gli illeciti amministrativi è data la possibilità all'interessato di chiedere all'Autorità amministrativa che ha applicato la sanzione pecuniaria (es. Capo del Compartimento) di poter pagare «in più soluzioni» il suo debito.
Per essere ammessi al beneficio bisogna versare in condizioni economiche disagiate e ciò va dimostrato a cura del richiedente, ad esempio mediante la produzione di opportuna certificazione.
L'Autorità amministrativa può accogliere la richiesta e concedere la dilazione, fissando il numero e l'ammontare delle rate mensili; ciascuna rata, però, non può essere inferiore a 15 € e il frazionamento non può essere inferiore a «tre rate» e superiore a «trenta». Quindi, si può chiedere il pagamento rateale solo per una sanzione non inferiore a € 46.
In qualsiasi momento il debito residuo può essere estinto mediante un unico pagamento. L'Autorità che accorda il beneficio deve stabilire anche il termine per il pagamento mensile. Se però, anche per una sola rata, il pagamento non viene effettuato nei termini prefissati, quale che ne sia il motivo, il beneficio è revocato ed il residuo ammontare della sanzione deve essere estinto in un unica soluzione.
Nel contesto del Verbale deve essere indicata la "facoltà" per l'autore o per gli autori della violazione e per gli obbligati in solido (qualora non intendono avvalersi del pagamento in forma ridotta) di presentare «opposizione» all'accertamento con l'indicazione dell'Amministrazione competente a ricevere l'opposizione, nonché del termine entro il quale questa può essere presentata.
L'art. 18 della Legge n. 689/81 consente, infatti, agli interessati (autore del fatto ovvero obbligato in solido) di far pervenire all'Autorità amministrativa competente a ricevere il rapporto «scritti difensivi» e documenti ovvero, chiedere alla stessa di essere sentiti personalmente (c.d. richiesta di audizione).
Tale facoltà può essere esercitata entro 30 (trenta) giorni dalla data di contestazione o di notifica del fatto commesso (60 giorni per le infrazioni al Codice della strada). La "richiesta" deve essere presentata per iscritto, su carta semplice.
Scopo dello scritto difensivo (o della richiesta di audizione), è quello di instaurare un contraddittorio indiretto tra l'accertatore e l'interessato, al fine di consentire all'amministrazione sanzionante di confermare o ridurre, o escludere la responsabilità contestata.
I motivi esposti dall'interessato dovranno essere succintamente riportati in un «Verbale» che sarà sottoscritto dagli interessati e dal rappresentante dell'amministrazione (incaricato o delegato dal Capo del Compartimento).
Unitamente allo scritto difensivo o in occasione dell'audizione, gli interessati oltre a formulare proprie interpretazioni dei fatti contestati, potranno produrre anche «dichiarazioni scritte» (con sottoscrizione autenticata) di possibili testimoni il cui valore probatorio è rimesso alla libera valutazione dell'Autorità amministrativa sanzionante (Capo del Compartimento), sempre che tali dichiarazioni non siano rivolte a contestare il valore probatorio del processo Verbale, il quale come detto costituisce prova sino a querela di falso.
L'Autorità amministrativa incaricata ad emanare l'ordinanza-ingiunzione (es. Prefetto, Capo del Compartimento), sentiti gli interessati, ove questi ne abbiano fatto richiesta ed esaminati i documenti inviati e gli argomenti esposti negli scritti difensivi, se ritiene fondato l'accertamento, determina con «Ordinanza motivata» la somma dovuta per la violazione e ne ingiunge il pagamento insieme con le spese, all'autore della violazione ed alle persone che vi sono obbligate solidamente; altrimenti emette «Ordinanza di archiviazione» degli atti, comunicandola integralmente all'organo accertatore.
Si evidenzia che l'amministrazione competente ad emanare l'ordinanza-ingiunzione, nel caso venga ad essa presentata opposizione all'accertamento non è ancora a conoscenza dell'esistenza dell'avvenuta commissione di illecito, poiché, come si è detto, il termine per presentare l'opposizione (30 giorni) è inferiore al termine (scaduti i 60 giorni) oltre il quale il deve inviare ad essa il «rapporto», con la prova delle eseguite contestazioni e notificazioni.
In questo caso, pertanto, è necessario che l'amministrazione provveda a richiedere all'accertatore la copia del Verbale di accertamento, sia per poter conoscere gli elementi contestati, ma soprattutto per verificare la data in cui l'accertamento stesso è stato contestato o notificato all'autore della violazione e la data in ipotesi successiva in cui lo stesso fatto è stato notificato agli eventuali obbligati in solido.
Alla Spett. le Capitaneria di Porto
Oggetto: Scritti Difensivi giusta art. 18 comma 7 Legge 689 del 24 Novembre 1981.-
Il sottoscritto _____________, nato a ______________ il _____________________ e residente a _____________________ in via/piazza ___________________ n° _________, in relazione al Processo Verbale di Illecito Amministrativo n° _________ prot. n° __________________ datato ____________________ della Capitaneria di Porto Guardia Costiera La Maddalena (SS) riferito all’autoveicolo ____________________ targato ______________________, notificatomi in data ___________________ ed inerente la violazione dell’art. ___________________ dell’Ordinanza n. ____________ della medesima, in data _______________ in quanto (ad esempio: “sostava in area portuale ove vige il divieto di sosta permanente”.
C H I E D E A S. E.
l’Archiviazione del P.V. in questione per la notifica al legittimo proprietario per la seguente motivazione_____________
____________, lì
IL RICHIEDENTE
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Tale disposizione è stata introdotta dall’art.8 bis della L. 689/81 così come modificato dall’art. 94 del D.Lgs. 507/99, che ha introdotto il concetto di «recidività reiterata», che si pone in essere quando il contravventore commette una violazione della stessa indole nei 5 anni successivi alla prima, se accertate con un edimento esecutivo (es. Ordinanza-ingiunzione non opposta, convalida Ordinanza con Sentenza del Giudice, ecc.), salvo che il contravventore si sia avvalso del pagamento in misura ridotta, che assume ex lege solamente fini liberatori a favore del contravventore.
Trattasi cioè della stessa disposizione o di diverse disposizioni le quali – per la natura dei fatti o le modalità della condotta - presentano una sostanziale omogeneità o caratteri fondamentali comuni (es. in materia di circolazione stradale, pesca, diporto, ecc.).
Si avrà invece “reiterazione specifica” quando risulta violata la medesima disposizione.
Assume pertanto la massima importanza - alla luce di quanto disposto dall’art.10 della L. 689/81 – l’accertamento della recidività del contravventore, onde consentire al Capo del Compartimento o Prefetto di procedere ad una opportuna graduazione della sanzione inflitta.
Può capitare che l’azione commessa dal contravventore non sia esattamente individuabile in una specifica e singola fattispecie di illecito ben individuata, potendo potenzialmente "concretizzare più violazioni" oppureo costituire "potenziale elemento costitutivo di illecito penale"; oppure trattarsi di situazione ben definita, ma disciplinata tra più norme ovvero fra disposizioni amministrative aventi pari gerarchia, ma poste in essere da soggetti istituzionali diversi (Prefettura, Capitanerie, Regione, Province, Comuni, ecc.) come di seguito si cercherà meglio di specificare:
► Concorso Formale
Tale situazione si realizza quanto il contravventore con una sola azione o omissione commette più illeciti previsti da una stessa o più norme di legge
In tale fattispecie si applica la sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo (art. 198 C.d.S. – art. 8 L. 689/81)[1].
Eccezione a detta norma è costituita dal 2^ comma del citato art. 198 – che concerne il transito nelle zone a traffico limitato (ZTL) – dove il contravventore soggiace ad una sanzione per ogni singola violazione; tuttavia al riguardo la recente giurisprudenza ha ammesso la prova contraria, qualora il contravventore dimostri l’unicità della propria condotta di guida[2]
► Concorso Materiale
Tale fattispecie si pone in essere quando vengono commesse più violazioni mediante più azioni od omissioni fra loro collegate....
In tal caso si soggiace alla sanzione prevista per ogni singola violazione commessa, salvo che trattasi di violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria (es. L. 250/58 in materia di previdenza ed assistenza marinara, ecc.).
Al riguardo la Suprema Corte ha stabilito che – in caso di violazioni reiterate della stessa fattispecie prevista dal C.d.S. (nel caso di specie: transito ripetuto più volte in ZTL) può configurare una sola violazione, purchè il trasgressore dimostri l’unicità della propria condotta di guida[3].
► Concorso Apparente
Tale circostanza segue il principio di specialità delle norme, verificandosi quando un medesimo fatto può ricadere, apparentemente, sotto la previsione di più norme ed occorre quindi individuare la esatta disposizione da applicare, secondo le modalità di seguito indicate:
Vi sono tuttavia fattispecie di illecito le quali – benché sanzionate da norme penali – comportano l’applicazione di specifiche "sanzioni amministrative"...
Quanto sopra evidenziato – e che costituisce applicazione del c.d.”principio di specialità” della norma - è stato anche richiamato dalla Cassazione giusta Sentenza n° 83/85 del 15.07.98 della Sez. I^ Penale.
Può, altresì, capitare che la stessa fattispecie di comportamento c.d. ”plurioffensivo” concretizzi sia un illecito amministrativo che una violazione penalmente rilevante...
In tal caso,fermo restando l’obbligo di procedere a contestazione in via amministrativa, per successiva valutazione da parte dell’Organo competente, l’Agente accertatore - nella sua qualifica di Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria - ha parimenti l’obbligo di riferire il fatto all’ Autorità Giudiziaria competente, essendo allo stesso esclusa ogni forma di valutazione su un fatto comunque penalmente rilevante.
[1] Cass. Civ. – Sez. Tributaria – Sent. n° 2823 del 11.02.05
[2] [3] Corte Costituzionale – Ordinanza n° 14 del 26.01.07
[4] Cass. Pen., Sez.I, n° 3943 del 24.01.08; n° 5755 del 07.05. 99 e n° 13048 del 11.112.98
Allo spirare del termine fissato dalla legge per il pagamento in misura ridotta sorge, a carico del funzionario o agente che ha accertato la violazione l'obbligo di riferire sull'illecito alla competente Autorità amministrativa[1]
Questo «obbligo», la cui violazione è sanzionata penalmente in forza dell'art. 328 c.p., scatta però solo quando non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta o nel caso si verifichi che:
Il «rapporto» va inoltrato con la “prova” [2] delle eseguite contestazioni o notificazioni. È richiesta la forma scritta, con esposizione dettagliata dei fatti, con l’indicazione delle violazioni accertate, degli autori delle stesse, degli eventuali obbligati in solido e l'esito degli eventuali accertamenti.
È consentito redigere il rapporto su un «modello stampa» e il più delle volte la copia del Verbale di accertamento è sufficiente rapporto, che può essere arricchito di allegati vari (per esempio, risultato di analisi, verbali di ispezioni e di perquisizioni), dai quali sia possibile desumere l'avvenuta contestazione (ove non appaia direttamente nel contesto del Verbale) o notifica agli autori del fatto illecito ed agli obbligati in solido.
La legge non prescrive un termine, minimo o massimo, per l'inoltro del rapporto. Sembra logico pensare che l'Ufficio prima di inviarlo, debba attendere almeno 60 (sessanta) giorni concessi all'interessato per effettuare il pagamento in misura ridotta; termine che, si noti, è esattamente il doppio di quello (trenta giorni) entro il quale egli può, se crede, inviare all'Autorità competente (es. Capo del Compartimento) a ricevere il rapporto stesso scritti e documenti difensivi, o chiedere di essere sentito personalmente.
Con la conseguenza che detta Autorità potrebbe ricevere uno scritto difensivo od una richiesta di udienza senza avere ancora ai propri atti il rapporto cui si riferiscono; così come potrebbe accadere che il trasgressore, dopo avere inviato le proprie difese, cambi idea e decida, prima che scadono i sessanta giorni dalla contestazione, di effettuare il pagamento in misura ridotta.
Esigenze di logica e di coordinamento impongono dunque di ritenere che gli organi accentratori debbano provvedere alla contestazione del fatto ed alle notifiche, e trasmettere poi il rapporto al più presto possibile; le notifiche potranno avvenire anche successivamente all'invio del rapporto e la prova di esse potrà essere aggiunta in seguito agli atti già trasmessi.
L'esame dell'Ufficio competente, esteso sia all'accertamento del fatto che alla valutazione della responsabilità, nonché alla regolarità formale degli atti, può concludersi con:
Nel primo caso, l'Ufficio marittimo emette «Ordinanza motivata di archiviazione» che viene comunicata integralmente all'Ufficio accertatore. Ciò allo scopo di realizzare un coordinamento tra gli organi preposti alla vigilanza e gli organi competenti a ricevere il rapporto; a far conoscere cioè agli accertatori quando, ed a quali condizioni, l'autorità decidente ritiene fondato l'accertamento.
Nel secondo caso, determina l'entità della sanzione tra il minimo ed il massimo previsti dalla legge tenendo conto degli elementi indicati dall'art. 11 legge 689/81 (gravità della violazione, comportamenti del trasgressore, sua personalità e sue condizioni economiche). Emette, quindi «Ordinanza-ingiunzione di pagamento».
[1] Capo del Compartimento ai sensi dell’art. 6, comma 6 Legge 8 luglio 2003, n. 172
[2] Sono a tutti gli effetti prova di avvenuta contestazione o notificazione, la sottoscrizione da parte del trasgressore della copia del verbale ovvero la copia e gli estremi dell’invio del modello 23F o della relata notifica.
Il rapporto (e l’eventuale verbale di sequestro), debbono essere inviati all’Autorità competente, individuata dall’art. 17 della legge n. 689/81, la quale "differisce" a seconda delle materie cui si riferisce la violazione, e in particolare:
Per quanto riguarda la competenza per territorio, ha rilievo il luogo in cui è stata commessa la violazione.
La legge n. 689/81 prevede un caso in cui la sanzione amministrativa è inflitta dall’Autorità Giudiziaria (in sede penale), anziché dalla competente Autorità amministrativa. Ai sensi dell’art. 24, perché ciò accada devono ricorrere due contemporanee condizioni:
In questo caso il rapporto sulla violazione amministrativa sarà inviato (a seguito di notizia di reato ex art. 347 c.p.p.), anche senza che si sia proceduto alla notificazione, all’Autorità Giudiziaria, la quale potrà disporre anche per la notifica della violazione amministrativa.
Quando non sia avvenuto il pagamento in misura ridotta, l’Autorità competente, in base agli elementi acquisiti dal rapporto dell’organo accertatore e dalle eventuali dichiarazioni e scritti difensivi avanzati dall’interessato, adotta la decisione, con «ordinanza motivata».
L’Autorità può disporre l’archiviazione degli atti, dandone comunicazione all’organo accertatore) ovvero stabilire la somma da pagare a titolo di sanzione ingiungendone il pagamento (c.d. ordinanza ingiunzione di pagamento),
L’ordinanza ingiunzione costituisce «titolo esecutivo», ma può essere impugnata innanzi al Giudice competente (Giudice di Pace o Tribunale).
Nel caso di mancato pagamento, l’Autorità provvederà alla formazione dei «Ruoli», per avviare le procedure di riscossione coatta di competenza dell’Ufficio di riscossione.
L'«ordinanza-ingiunzione» è un atto amministrativo mediante il quale l'Autorità amministrativa (ad esempio: il Capo del compartimento marittimo) competente per territorio «determina» (Ordinanza) la somma dovuta quale sanzione nei confronti del riconosciuto responsabile della violazione e dell'obbligato in solido ed «intima» (Ingiunzione) il pagamento della stessa comminando anche, eventualmente la sanzione accessoria della confisca. Una volta emessa, l'ordinanza-ingiunzione deve essere «notificata» alle persone obbligate al pagamento.
Tale pagamento deve essere effettuato all'Ufficio delle Entrate o altro ufficio competente (indicato sull'ordinanza-ingiunzione) entro «trenta» o «sessanta» giorni dalla notifica di detto provvedimento a seconda che il trasgressore risieda rispettivamente in Italia o all'estero.
Entro «trenta» giorni, l'Ufficio delle Entrate o altro ufficio competente che ha ricevuto il pagamento deve darne comunicazione al Capo del Compartimento che ha emesso il provvedimento.
L'ordinanza deve essere notificata agli interessati; le forme della notifica sono quelle indicate all'art. 14 legge 689/81. Più comunemente, però, viene effettuata tramite il servizio postale a mezzo di «lettera raccomandata» con avviso di ritorno (A.R.), e alla quale l'Autorità sanzionante allega «Ordine di Introito» di pagamento da presentare al competente Ufficio delle Entrate o altro ufficio competente
Oltre gli estremi della violazione, la notifica deve indicare, le modalità con cui può essere effettuato il pagamento della sanzione pecuniaria e l'obbligo da parte del destinatario di inviare entro «dieci giorni» dal pagamento medesimo, «copia» della ricevuta del versamento all'Autorità amministrativa sanzionante la quale dovrà successivamente chiudere il contesto ed archiviare gli atti.
Non tutti questi elementi sono indispensabili per l'esistenza o comunque per la validità dell'ordinanza-ingiunzione. L'ordinanza-ingiunzione consiste, infatti, in un provvedimento articolato di una "premessa" (nella quale si dà atto delle risultanze del rapporto, dei documenti, delle osservazioni ricevute, degli accertamenti effettuati), in una "motivazione" generalmente succinta e nella "parte dispositiva" vera e propria del provvedimento.
L'atto amministrativo si redige in un unico originale che viene inserito nell'apposito «Registro Ordinanze-Ingiunzione», da cui prende il numero progressivo.
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Protocolo n ____/___ Reg. Ordinanze n. ____/__
ORINANZA-INGIUNZIONE DI PAGAMENTO DI SANZIONE AMMINISTRATIVA
IL CAPO DEL COMPARTIMENTO
ESAMINATO il rapporto del Comando _______________________________ con il quale viene segnalata la violazione ________________________________________________accertata nel Compartimento marittimo di ____________________ in località _________________________ avente per oggetto ______________________________________________________________
ATTESO che
□ gli interessati non si sono avvalsi della facoltà di pagamento in misura ridotta;
ORDINA
Ai signori: __________________________________ meglio di anzi generalizzati, il pagamento della somma di € _______ ( _________________ )
quale sanzione per la violazione ascritta.
INGIUNGE
Ai medesimi di versare, entro 30 giorni dalla notificazione del presente atto, la somma complessiva di:
sanzione €. ________ ( ________________________ )
In caso di inottemperanza, si darà corso all’esecuzione d’0ufficio ai sensi dell’art. 27 della legge 24 novembre 1982, n. 689.
Ai sensi degli artt. 3, comma IV e 5, comma III della legge 7 agosto 1990, n. 241 avverte che:
• Il responsabile del procedimento è ______________________________________________;
____________ lì, ______________.-
IL COMANDANTE
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Dal momento in cui al trasgressore è notificata l'emissione dell'ordinanza-ingiunzione, decorre un termine di «trenta giorni» per effettuare il pagamento della sanzione, trascorso il quale si procede alla «esecuzione forzata».
Avverso l’ordinanza-ingiunzione e avverso l’ordinanza che dispone la sola confisca, l'interessato può, entro il termine di 30 (trenta) giorni (60 se all’estero) dalla notifica del provvedimento, fare «opposizione» in sede civile all’Autorità Giudiziaria competente che può essere, in base alle materie oggetto di contestazione, o il Giudice di Pace o il Tribunale del luogo in cui l’infrazione è stata commessa. Al ricorso deve essere allegata (nel suo originale) l'ordinanza notificata all'opponente.
È solo dall'ordinanza, infatti, che il Giudice può ricavare l'esatta indicazione dell'Autorità amministrativa che ha emesso il provvedimento esecutivo contro il quale è presentata l'opposizione e, conseguentemente, la esatta indicazione della parte legittimata ad assumere la veste di «resistente» o contro interessata nel giudizio.
Inoltre, solo leggendo la motivazione dell'ordinanza il Giudice può avere precisa cognizione dei fatti al fine di accogliere, anche se in via provvisoria ed urgente, una eventuale richiesta di sospensione dell'esecutività dell'ingiunzione stessa.
Il Giudice se il ricorso è tardivo per decorrenza del termine, lo dichiara inammissibile, con ordinanza ricorribile solo per cassazione. Diversamente se il ricorso è tempestivamente proposto il Giudice fissa la «udienza di comparizione» con decreto, steso in calce al ricorso, ordinando all'Autorità che ha emesso il provvedimento di presentare «dieci» giorni prima dell'udienza, copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione.
L'opponente e l'Autorità che ha emesso l'ordinanza possono stare in giudizio personalmente; all'Autorità è consentito valersi anche di propri funzionari di porto appositamente delegati.
La mancata presentazione, senza legittimo impedimento, dell'opponente o del suo procuratore (termine unico di 60 giorni per comparire) provoca, la convalida del provvedimento dell'Autorità amministrativa. A ciò il Giudice provvede con ordinanza, ricorribile per cassazione, con la quale pone a carico dell'opponente anche le spese successive all'opposizione.
La "sentenza" del Giudice è inappellabile ma è ricorribile per Cassazione (in sede civile).
L’opposizione non sospende l’esecuzione del provvedimento, salvo che il Giudice adito, ricorrendo gravi motivi, disponga diversamente con ordinanza inoppugnabile.
L'opposizione si propone mediante «ricorso», presso la Cancelleria del Giudice territorialmente competente. Il ricorso deve essere depositato a pena di inammissibiltà, entro 30 giorni dalla data di notificazione del provvedimento sanzionatorio (Ordinanza-Ingiunzione).
Nell’attuare il riparto di competenza tra «Giudice di pace» e «Tribunale monocratico», il legislatore ha seguito diversi criteri, anche se il principio generale è che l’opposizione ex art. 22, viene presentata al Giudice di pace.
Le ipotesi "eccettuate" alla regola generale della competenza del Giudice di pace concernono le seguenti materie:
Se la "violazione" consiste nell’inosservanza di prescrizioni per l’esercizio di attività soggette ad autorizzazione o comunque in casi in cui le leggi speciali prevedano sanzioni accessorie (artt. 1083 bis, 1083 ter e 1175 cod. nav.), l’Autorità competente a ricevere il rapporto (=Verbale) può applicare, con l’ordinanza di ingiunzione o il Giudice penale con sentenza di condanna (connessione obbiettiva con un reato art. 24 L. 689/81), come sanzioni amministrative le «sanzioni accessorie», previste in campo penale, consistenti nella privazione o sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti amministrativi.
► In sintesi:
Nel caso delle sanzioni amministrative accessorie previste dal Codice della Navigazione (artt. 1083 bis e 1083 ter) la competenza all’applicazione spetta al Capo del Compartimento marittimo.
In linea generale, l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria ha come presupposto l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione di pagamento. Il legislatore ha voluto, in questo modo, garantire che l’adozione del provvedimento accessorio sia successiva all’affermazione della responsabilità del trasgressore.
Le sanzioni amministrative accessorie non sono applicabili fino a che è pendente il giudizio di opposizione contro il provvedimento di condanna o, nel caso di connessione (art. 24), fino a che il provvedimento stesso non sia divenuto esecutivo.
In via eccezionale e nei soli casi espressamente previsti dalla legge, si può procedere all’irrogazione di sanzioni accessorie in via provvisoria.
Numerose leggi speciali prevedono per singole materie (Codice della Navigazione, legge quadro sulla Pesca Marittima, Codice sulla Nautica da diporto, ecc.) sanzioni amministrative accessorie che a norma dell’art. 12 legge depenalizzatrice, si devono ritenere ricondotte ad un’unica disciplina generale. Tra queste ricordiamo:
Il provvedimento in esame si concretizza, sostanzialmente, con la "espropriazione delle cose (sequestrate) strettamente collegate con il fatto illecito". Essa trova giustificazione nell’intento di prevenire la commissione di nuove trasgressioni, rimuovendo i beni che potrebbero costituire in definitiva un premio per l’attività illecita o mantenere vivo il ricordo.
Il quadro tracciato dall’art. 20 L. 689/81, evidenzia la possibilità di una :
Concettualmente si può aggiungere altresì un’ipotesi di confisca «necessaria».
In particolare, la confisca è «obbligatoria» per le cose che costituiscono il prodotto della violazione amministrativa, intendendo con tale termine, qualsiasi cosa che rappresenta non solo il prodotto in senso stretto (ad esempio: le sostanze illecitamente fabbricate), ma anche il prezzo o il valore lucrato della trasgressione, a condizione che l’oggetto del sequestro appartenga ad una delle persone cui è ingiunto il pagamento (art. 20, comma 3).
E’ altresì disposta obbligatoriamente la confisca, che alcuno definisce «necessaria»[1], anche prescindendo dall’emissione dell’ordinanza-ingiunzione ex art. 18, nel caso di cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca violazione amministrativa (art. 20, comma 4).
Tale ultima sanzione non si applica nel caso di cose appartenenti a persone estranee alla violazione ed la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione siano possibili mediante autorizzazione amministrativa.
Provvedimento immediato, finalizzato a consentire la confisca da parte dell’Autorità amministrativa competente, è il «sequestro amministrativo», effettuato dagli organi di vigilanza e controllo, del quale si è trattato in precedenza.
Qualora la confisca non sia obbligatoria, rientra nelle facoltà discrezionali dell’Autorità amministrativa competente ad irrogare la sanzione o nelle facoltà del giudice penale, allorché questi debba provvedere anche in ordine ad una violazione sanzionata amministrativamente.
Ai sensi dell’art. 11, per l’uso di queste facoltà discrezionali, dovrà tenersi conto della gravità della violazione, dell’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché della personalità del trasgressore e delle sue condizioni economiche.
[1] Bartolini, op. cit.
Le procedure di alienazione e di distruzione di materiale, pericoloso per la salute pubblica ovvero non deperibile, confiscato dal personale delle Capitanerie di Porto, e del materiale dissequestrato e non ritirato, proveniente, in particolare, dalle condotte illecite in materia di pesca sia sportiva che professionale, si conformano a quanto previsto dal D.P.R. 22 luglio 1982, n. 571 nonché dalla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 10 Dicembre 1984.
► Tali procedure si articolano come segue:
Solo quando il provvedimento che dispone la confisca diventa inoppugnabile, ovvero quando avverso lo stesso non è stato presentato ricorso entro 30 giorni dalla sua emanazione, si procederà alla alienazione del bene confiscato con la seguente procedura:
Qualsiasi sia la procedura adottata, una volta ultimata, ne sarà data comunicazione alla Capitaneria di Porto competente per la successiva comunicazione all’ Autorità Finanziaria.
L'«esecuzione forzata» consiste nel recupero coatto della somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa, nel caso sia decorso il termine fissato per il pagamento senza che lo stesso sia avvenuto.
L'Autorità che ha emesso l'ordinanza-ingiunzione procede alla riscossione delle somme dovute mediante «Ruoli» secondo il sistema della esazione delle imposte dirette (D.P.R 29 settembre 1973, n. 602).
Il Ruolo è un atto di natura ricognitiva in forma di elenco (eventualmente redatto con sistema meccanografico) che indica i soggetti che nel Comune interessato sono tenuti a pagare l'imposta cui di volta in volta si tratta e l'ammontare dovuto da ciascuno di essi.
Si suggerisce in proposito di evitare per quanto possibile la compilazione di più ruoli, provvedendo a raggruppare in un unico procedimento più nominativi.
La minuta del ruolo contenente tali dati dovrà essere inviata alla «esattoria comunale» che dovrà perfezionarla apponendovi il «numero meccanografico» (=di codice) dei contribuenti.
Pervenuta la minuta ruolo, l’Autorità amministrativa dovrà inviarla al “Centro elettronico del consorzio nazionale degli esattori” competente per territorio che provvederà alla predisposizione dei Ruoli i quali verranno trasmessi poi all'amministrazione sanzionante (es. Capitaneria di Porto).
Questa dovrà inviarli, unitamente agli «originali» delle ordinanze-ingiunzione e dopo averne verificata la corretta compilazione alla «Direzione Regionale delle Entrate» competente per territorio per ottenere il «visto di esecutorietà» (previsto dall'art. 23 D.P.R. 603/1973) dell'amministrazione finanziaria sui Ruoli ad essa trasmessi.
Avuti in restituzione i Ruoli resi esecutivi, questi dovranno essere trasmessi per il successivo carico all’esattore, all'«esattoria» competente (relativa al comune di residenza del contribuente) per la riscossione. Gli esattori procederanno agli atti esecutivi nei confronti dell'obbligato c.d. «procedimento di esecuzione forzata».
Salvo quanto previsto nell'art. 26, in caso di ritardo nel pagamento la somma dovuta è maggiorata di un decimo per ogni semestre decorrere da quello in cui la sanzione è divenuta esigibile e fino a quello in cui il Ruolo è trasmesso all'esattore. La maggioranza assorbe gli interessi eventualmente previsti dalle disposizioni vigenti.
Dopo la consegna dei Ruoli all'esattoria, questa dovrà provvedere alla notifica della «cartella di pagamento». Il pagamento deve essere effettuato presso la sede dell'esattoria entro «otto giorni» dalla scadenza. In caso di mancato pagamento, scatta l'avviso di mora, con invito a pagare entro «cinque giorni», e quindi si avvia la «espropriazione forzata», con onere di preventiva esecuzione sui beni mobili (Ufficiale Giudiziario).
Ai sensi dell'art. 27 della Legge 689/81, nel caso in cui sia decorso inutilmente il termine fissato per il pagamento, l'Autorità che ha emesso l'Ordinanza Ingiunzione (es. Capo del Compartimento Marittimo) procede alla riscossione delle somme dovute in base alle norme previste per la esazione delle imposte dirette, trasmettendo il «Ruolo» all'esattore per la riscossione in un'unica soluzione; detta modalità di riscossione viene denominata «procedimento di esecuzione forzata», il quale si articola nelle fasi di seguito riportate:
Periodicamente l'Ente impositore (es. Capitaneria di Porto) redige l'elenco dei morosi utilizzando un particolare modulo e lo invia all'esattoria comunale territorialmente competente, per l'apposizione del "numero del codice del contribuente" necessario per l'emissione della "cartella esattoriale". Tale elenco deve essere inviato con congruo anticipo sui tempi di presentazione della "minuta dei ruolo esecutivo" al Centro elettro contabile del territorio che sono fissati per il giorno 5 dei mesi di ottobre, dicembre, maggio e luglio.
Accertato il codice del contribuente, deve essere predisposta la "minuta del ruolo" da inviare al centro elettrocontabile al fine della stesura del "ruolo meccanizzato". Il modello adottato per la compilazione della minuta del ruolo, deve essere compilato in ogni sua parte; in particolare, l'importo della somma dovuta corrisponde alla somma della sanzione amministrativa di cui all'Ordinanza Ingiunzione (che comprende anche le spese di notifica) e dal quantum ricavato dal calcolo della maggiorazione della sanzione corrispondente ad un decimo della sanzione per ogni semestre a decorrere da quello in cui la sanzione è diventata esigibile e fino a quando il ruolo non viene trasmesso all'esattore.
Comunque è stato adottato, dal Comando Generale delle Capitanerie di Porto, un programma software il quale, all'inserimento dei dati richiesti, calcola direttamente le somme dovute le quali vengono divise anche per “codici di tributo” di nostra competenza che sono così riassumibili:
Il modello predetto, contenente tutti i dati necessari alla compilazione del ruolo, deve pervenire al Centro elettrocontabile nei termini di cui sopra; con l'entrata in vigore della Legge Finanziaria 1998, nella compilazione del ruolo è divenuto un dato obbligatorio anche il codice fiscale o la partita I.V.A. (se trattasi di società) ed il sesso del moroso.
Una volta stampato, il Centro elettrocontabile trasmette il ruolo meccanizzato all'ente impositore ( es. Capitaneria di Porto) per l'ulteriore corso di legge; saranno pertanto trasmessi:
Gli esattori, non oltre il giorno 5 del mese dì scadenza della prima rata successiva alla consegna dei ruoli, devono notificare al contribuente la "cartella di pagamento" (=cartella esattoriale). Detta notifica è eseguita in ottemperanza all'art 26 del D.P.R. 602/73. Se entro 30 giorni dalla notifica il contribuente non provvede al pagamento, l'esattoria provvede a notificare un avviso di mora con il quale si invita il contribuente ad effettuare il pagamento entro 5 giorni. Trascorsi inutilmente cinque giorni, l'esattore procede all'espropriazione forzata in virtù del ruolo.
► L'espropriazione forzata può dare origine a due ipotesi:
Dei verbali di infruttuosa esecuzione vistati, si attenderà la "domanda di discarico" delle somme non riscosse ad essi relative; si consiglia di autorizzare la discarica dai ruoli solo delle somme relative ai verbali di infruttuosa esecuzione vistati, la cui copia sia presente agli atti della Sezione Contenzioso.
L’art. 194 del Deccreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 [66][1] [50] contiene il principio fondamentale in base al quale per le sanzioni amministrative previste dal Codice della Strada si applicano, in via generale, i «principi» contenuti nella Legge 24 novembre 1981, n. 689 [67] (art. 1 - 43).
Per quanto attiene, invece, l’iter sanzionatorio, il Codice della Strada differisce dalla legge di depenalizzazione, prevedendo modalità e termini particolari.
Il successivo art. 195 fissa al comma 1, i limite minimo (15 €) e massimo (9.296 €), modificato dall’art. 23, comma 1 D.lgs. 507/99) delle sanzioni pecuniarie previste dal Codice della Strada, prevedendo al comma 2 che tali limiti vengano aggiornati ogni due anni sulla base delle variazioni, accertate dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.
Il secondo comma dell’art. 195 riprende la disposizione contenuta nell’art. 11 della legge 689/81 che, desumendoli dagli artt. 133 e 133 bis del Codice penale, individua i "criteri" per la determinazione delle sanzioni pecuniarie fissate dal Codice fra il minimo e il massimo.
A tale riguardo l’Autorità amministrativa dovrà tenere conto dei seguenti «criteri»:
SOGGETTIVI | OGGETTIVI |
Gravità del fatto | Personalità del trasgressore |
Condizione economica | |
Condotta successiva alla violazione |
► Principio di solidarietà
L’art. 196 del Codice della Strada (C.d.S.) riprende, sostanzialmente, i principi contenuti nell’art. 6 della legge 689/81, di chiara matrice civilistica (art. 2055 Cod. civ.), prevedendo la responsabilità solidale a carico del proprietario del veicolo, o in sua vece, dell’usufruttuario, dell’acquirente con patto di riservato dominio o l’utilizzatore a titolo di locazione finanziaria (leasing). Nel caso di locazione senza conducente (art. 84 C.d.S.), risponde solidamente il locatario e, per i ciclomotori, l’intestatario del contrassegno di identificazione.
Quando la violazione sia commessa da una persona capace di intendere e di volere ma sottoposta alla altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita dell’autorità o incaricata della direzione o della vigilanza è obbligata in solido come l’autore della violazione (culpa in vigilando).
Le persone coobbligate sono responsabili a meno che non riescano a provare che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la loro volontà.
Per le violazioni commesse dal rappresentante o dipendente di una persona giuridica o ente o associazione privi di responsabilità giuridica o comunque da un imprenditore, nell’esercizio delle proprie funzioni ed incombenze, sono obbligati in solido la persona giuridica, l’ente, associazione o imprenditore (culpa in vigilando). Il coobbligato ha «diritto di regresso» nei confronti del trasgressore.
E’ evidente la funzione di garanzia a vantaggio della Pubblica amministrazione che può riscuotere coattivamente la sanzione agendo nei confronti di più soggetti e potendo pretendere l’intera prestazione dal singolo soggetto prescelto.
► Concorso di persone
L’illecito può essere commesso da una sola persona o più persone. Nel caso di compartecipazione, l’art. 197 C.d.S., riprendendo i disposti dell’art. 5 della legge 689/91, prevede che tutti gli Agenti rispondano della violazione. Anche questo principio è tratto dal Codice penale ed in particolare dall’art. 110.
In concorso nella violazione amministrativa, in sintesi, è da intendersi come la compartecipazione di più soggetti nella violazione dello stesso precetto, che può essere:
Comparteciapzione |
|
Il concorso di persone non deve essere confuso con il «concorso necessario» in un illecito amministrativo, che si configura quando l’illecito può essere realizzato solamente da più persone che, normalmente, non rispondono tutte ma solo una (generalmente, il conducente).
Esistono, infine, casi nei quali il concorso necessario nell’illecito amministrativo comporta l’applicazione delle sanzioni a tutti i compartecipi.
Nella pratica, il concorso di persone nell’illecito amministrativo è difficilmente accertabile salvi i casi nei quali esso è espressamente previsto come, per esempio, nelle violazioni agli articoli 10 e 167 Cds.
► Cumulo di sanzioni
Il legislatore ha previsto che, a differenza di quanto indicato nell’art. 8 delle legge 689/91 nel caso di concorso formale omogeneo o eterogeneo, l’Autorità amministrativa competente non possa applicare il cumulo giuridico, ma debba sempre e comunque irrogare la sanzione secondo il principio del cumulo materiale (art. 198 Cds).
[1 [50]] [50] Modificato dalla Legge n. 120 del 29 luglio 2010 sulle "Disposizioni in materia di sicurezza stradale" (G.U. n. 175 del 29.07.2010 - Suppl. Ordinario n. 271).
La violazione quando è possibile, deve essere «contestata immediatamente» al trasgressore ed alla persona obbligata in solido (artt. 201 e 202 C.d.S.). A questo riguardo, gli agenti operanti redigono un Verbale che, a norma dell’art. 383 del regolamento di esecuzione di attuazione del Codice, approvato con D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, deve contenere i seguenti «elementi essenziali»:
Debbono inoltre essere fornite al trasgressore le modalità per addivenire al pagamento in misura ridotta, precisando l’ammontare della somma da pagare in Lire ed i Euro (art. 51 del D.lgs. 24 giugno 1988, n. 213), ed essere indicata l’Autorità alla quale presentare l’eventuale ricorso.
L’art. 201 C.d.S. prevede che, qualora non sia materialmente possibile addivenire alla contestazione immediata, si possa fare ricorso alla notificazione e l’art. 384 del Regolamento indica, in via non esaustiva, i casi per i quali si concretizza tale impossibilità:
I termini per la «notificazione» della violazione ai residenti in Italia vengono fissati in «90 giorni» (anziché 150 come in precedenza).[1]
Approfrondimenti
Con la Legge nr.120 del 29.07.2010, entrata in vigore dal 10.08.2010, sono state introdotte delle novità e modificato disposizioni esistenti. Tra le modifiche apportate, quella che oggi prendiamo in considerazione è la modifica dei termini di notifica dei verbale di accertamento delle violazioni . Se in precedenza i termini erano di 150 giorni dall’accertamento della violazione, con le nuove disposizioni, oggi la notifica deve essere effettuata entro 90 giorni dall’accertamento. Se questa è la regola generale esistono poi delle deroghe che fanno innalzare il limite temporale entro il quale la violazione deve essere notificata. I casi in cui questi tempi variano sono:
Qualora la violazione non sia stata immediatamente contestata al trasgressore (i casi in cui si può omettere la contestazione immediata sono esplicitamente previsti dal Codice della Strada) il verbale deve indicare la motivazione per cui questa non sia stata fatta, oltre alla data, ora, luogo e accertatori.
Se la notifica dovesse essere stata effettuata oltre i termini previsti, è possibile rivolgersi al Prefetto competente territorialmente per il luogo dove è stata commessa l’infrazione, chiedendo l’annullamento del verbale.
Il ricorso va presentato, entro 60 giorni dalla notifica del Verbale, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno o depositato personalmente. La presentazione (a mano o a mezzo raccomandata) può essere fatta anche presso gli uffici dell’organo che ha accertato ed elevato la contravvenzione, che si può desumere dal verbale notificato.
[1] L’art. 386 del Regolamento C.d.S., prevede che quando viene effettuata la notificazione all’intestatario del certificato di proprietà o ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196 del C.d.S. e questi, con dichiarazione contenente, nel caso di alienazione, gli estremi dell’atto notarile, informa l’ufficio o il Comando procedente che non è proprietario del veicolo, né titolare di alcuno dei diritti di cui al medesimo articolo 196 alla data dell’accertamento della violazione per il quale si procede, l’Ufficio o Comando interessati, se riscontrano l’esattezza delle notizie fornite, rinnovando la notificazione all’effettivo responsabile, con relativo addebito delle ulteriori spese, entro i termini previsti dall’art. 201 del codice. Tali termini decorrono dalla data di ricezione da parte dell’Ufficio o Comando delle notizie fornite dal destinatario della precedente notificazione.
L’art. 201 comma 1 bis del Codice della Strada ha introdotto tuttavia alcuni "specifici casi" nei quali la contestazione può non essere immediata, casi che non dovrebbero peraltro essere intesi come tassativi, avendone la giurisprudenza ampliato la portata, anche alle contestazioni effettuate da personale agente in incognito con auto provviste di targa di copertura[1] e consentendo la contestazione differita senza che questi comporti l’arresto repentino del veicolo [2], anche se tale valutazione può essere oggetto di contestazione e passibile di diverso apprezzamento da parte del Giudice.
Una importante distinzione fra “contestazione” e "verbalizzazione” è stata invece fatta dalla Suprema Corte, laddove ha ritenuto che, ricorrendone le circostanze di tempo e di luogo che precludevano agli accertatori, una volta contestata verbalmente la violazione al contravventore, di verbalizzare poi la stessa, operazione questa “distinta e successiva” rispetto alla contestazione già avvenuta oralmente, il diritto di difesa del contravventore non risulta leso, essendo quindi perfettamente valido il successivo verbale, che conserva validità fino a querela di falso dei fatti che il Pubblico Ufficiale attesta avvenuti in sua presenza[3].
D’altra parte, la Suprema Corte ha anche ristretto l’ambito d’applicazione dell’istituto della mancata contestazione immediata, ritenendo, ad esempio, non sufficiente la mera enunciazione delle circostanze richiamate dal citato art. 201 comma 1 bis , ma che i motivi della stessa vengano dettagliati dagli accertatori, e ciò per non ledere il diritto di difesa del contravventore[4].
In particolare, la Suprema Corte ha rimesso al Giudice l’apprezzamento, in relazione alle concrete circostanze di tempo e di luogo, sulla impossibilità di contestare la violazione al contravventore[5], specie per alcune violazioni quale la guida pericolosa o il sorpasso vietato che richiedono, per la S.C., un immediato contraddittorio con l’automobilista[6] .
Tale orientamento è stato peraltro recepito da alcuni Giudici di Pace, laddove gli stessi hanno ritenuto che “.... la mancata contestazione immediata di violazioni accertate con la mera percezione sensoriale di pochi secondi impedisce un controllo obiettivo e rigoroso,…e conseguentemente …inidoneo ad incidere sull’efficacia probatoria dell’atto di accertamento....” [7].
Invece eventuali errori nell’indirizzo del contravventore debbono essere ritenuti sanabili se la notifica nei confronti dello stesso comunque avviene, perché il diritto alla difesa non viene comunque leso[8].
Normalmente, qualora le figure del contravventore e dell’obbligato in solido non coincidano, la violazione può essere contestata anche successivamente nei confronti dell’obbligato in solido, a mezzo del servizio postale, ovvero con le modalità di seguito meglio specificate.
Per «obbligato in solido», infatti, si intende, rispettivamente: l’armatore, il proprietario, l’usufruttuario, l’utilizzatore (se il bene è concesso in leasing); il titolare di un diritto personale di godimento (della cosa utilizzata per commettere la violazione, veicolo, unità, attrezzo da pesca, ecc.); la persona rivestita dell’autorità (per minori, incapaci e inabilitati, conducenti del veicolo,del natante, ecc.); incaricata della direzione o vigilanza (per le imprese, soggetti iscritti ex art. 68 Cod. nav.; armatori, comandanti di nave, ecc.); l’imprenditore; ente o persona giuridica (per fatti commessi da rappresentate o dipendente nell’esercizio delle proprie funzioni , assistente bagnante; marinaio; ecc.); il datore di lavoro per violazioni commesse dall’autista suo dipendente (combinato disposto art. 196 C.d.S. e art. 6 L. 689/81).
Quanto sopra a meno che l’obbligato non provi che la circolazione (ovvero l’uso illecito del mezzo impiegato per compiere materialmente la violazione) è avvenuto contro la sua volontà (esibendo, ad esempio. una denuncia di furto) ovvero che, nonostante ogni precauzione adottata e la vigilanza esercitata, non sia stato materialmente possibile impedire il fatto.
Devono essere invece espressamente riportati in calce al processo verbale di accertamento dell’illecito le motivazioni che hanno precluso all’agente accertatore l’attività di immediata notifica nei confronti del trasgressore.
Infatti la mancata contestazione immediata, come pure l’aver omesso di riportare sul verbale le dichiarazioni eventualmente rese dal contravventore (le quali ultime andranno riportate integralmente anche utilizzando, se del caso, foglio stralcio del verbale), pur se non costituiscono espressa causa di nullità dell’atto medesimo, di fatto possono potenzialmente precludere nella fase iniziale del procedimento l’attività difensiva del contravventore[9], potendo conseguentemente costituire elemento per avanzare opposizione avverso il Giudice di Pace, e costituire comunque, se non adeguatamente motivata, omissione procedimentale passibile di rilevanza in sede disciplinare nei confronti dell’accertatore[10].
[1] Cass. Civ. – Sent. n° 17573 del 31.08.05
[2] Cass. Civ. – Sent. n° 22364 del 05.09.08
[3] Cass. Civ. – Sent. n° 14668 del 03.06.08
[4] Cass. Civ. – Sez. II^ - Sent. n° 8837 del 28.04.05
[5] Cass. Civ. – Sent. n° 18271 del 30.08.07 – conforme n° 263111 del 07.12.06; n° 7332/2005; n° 352/2005; n° 11971/2003; n° 2494/2001 )
[6] Cass. Civ. – Sent. n° 15324 del 21.07.05
[7] G.d.P. di Acerra – Sent. 19.11.07
[8] Cass. Civ. – Sent. n° 15030/2007
[9] Sent. Cass. Civ., Sez. III, n° 4010 del 03.04.2000
[10] Cass. Civ., Sez. III, n° 10036 del 01.08.2000, Sez. I, n° 6527 del 29.05.92 e n° 8356 del 26.07.93).
Un caso particolare di notifica è contemplato a seguito di violazione al Codice della Strada, in quanto se non è nota la residenza, domicilio o dimora del contravventore, la notifica nei confronti di quest’ultimo non assume carattere di obbligatorietà ma va effettuata nei confronti del solo obbligato in solido (intestatario dell’autoveicolo).
In ogni caso la notifica si intende comunque validamente eseguita quando effettuata presso la residenza, domicilio o sede del soggetto, risultante dalla carta di circolazione o dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso la Direzione generale della M.C.T.C. o dal P.R.A. o dalla patente di guida del conducente (art. 201 comma 3 C.d.S.).
Al riguardo sia la Corte Costituzionale (Ordinanza n° 185 del 12.06.07 ) che il Ministero dell’Interno (Circolare n° 300/A/1/264696/127/9 del 20.08.07) hanno stabilito che l’Amministrazione ha 150 giorni di tempo per notificare al contravventore l’ingiunzione di pagamento emanata.
In caso di infrazione commessa a mezzo autoveicolo, la posizione all’esterno della vettura di un «foglietto di preavviso» risponde ad una mera prassi, e non costituisce equipollente della contestazione dell’infrazione; per cui l’omissione di tale prassi è priva di effetti giuridici non costituendo obbligo per l’Amministrazione[1], essendo detto preavviso un mero atto prodromico alla successiva ordinanza e non assimilabile quindi né a questa, né al verbale di accertamento e contestazione, e conseguentemente non è impugnabile[2].
Si richiama al riguardo quanto disposto dalla Circolare n° 82/056963/II del 11.09.98 di Maricogecap sulla non impugnabilità del verbale, atteso che lo stesso costituisce atto preliminare che non lede direttamente alcun interesse del ricorrente, nonché la Sentenza n° 6485 emanata in data 19.05.2000 dalla Cass. Civ. – Sez. III^ in materia di applicabilità – per le violazioni in materia da diporto delle norme della L. 689/81 e non del C.d.S.
Quanto sopra potrebbe comportare l’annullabilità, in via di autotutela e giusta quanto disposto dalla Circolare n° 66 prot. n° M/2413 del 17.05.95 del Ministero dell’Interno, dello stesso preavviso, qualora effettuato nei confronti di un soggetto erroneo (art.386 Reg. Es. C.d.S.), senza necessità di inoltro alla Prefettura competente per l’emanazione di eventuale Ordinanza di Archiviazione (vedasi al riguardo Corte dei Conti – Sez. Giurisdizionale Centrale – Sent. del 02.09.98).
Qualora tuttavia si dovesse ricorrere a tale procedura, si avrà cura di fornire comunque idonea informazione al contravventore, specificando che a tale atto seguirà l’emanazione del relativo verbale di accertamento e contestazione amministrativa, unico provvedimento questo che assume valore di atto amministrativo secondo le formalità previste dalla L.689/81,ivi comprese le relative forme di tutela.
Decorso inutilmente il termine per il pagamento, verrà emessa la relativa Ordinanza - Ingiunzione la quale – analogamente alla sentenza di rigetto dell’eventuale ricorso emanata dal Giudice adito dal contravventore – costituisce titolo esecutivo per l’iscrizione a ruolo esattoriale e successiva esecuzione coattiva,secondo il disposto del D.P.R. n°602/1973 e del C.P.C.
L’eventuale cancellazione dal ruolo potrà essere quindi autorizzata solamente dall’Ente che ha originariamente imposta la sanzione mediante la relativa procedura di discarica esattoriale, che potrà essere legittimamente adottata solo qualora l’interessato dimostri di aver regolarmente effettuato l’oblazione in via breve, ovvero il pagamento della somma ingiunta con Ordinanza nei termini di legge.
[1] Sentenza Cassazione Sez. 1^ - n. 2683 del 02.06.1989
[2] Cass. Civ. , Sez. II^ - Sent. n° 5447 del 09.03.07 – conforme – Sez. I^ - Sent. n° 5875 del 24.03.04).
Per le sanzioni amministrative pecuniarie, il C.d.S. (art. 202) prevede la possibilità di addivenire al «pagamento in misura ridotta di una somma pari al minimo fissato per le singole norme», da effettuarsi entro 60 giorni dalla contestazione o notificazione del verbale (art. 202, comma 1).
La possibilità di pagamento in misura ridotta è preclusa quando il trasgressore non abbia ottemperato all’invito di fermarsi ovvero, si sia rifiutato di esibire il documento di circolazione, la patente di guida o qualsiasi altro documento che debba avere con sé.
In questo caso il Verbale di violazione deve essere trasmesso «entro 10 giorni», al Prefetto (art. 202, comma 3).
Non è consentito il pagamento a mani dell’agente accertatore. Per ogni pagamento in misura ridotta, deve essere compilata «apposita quietanza», mentre per i pagamenti a mezzo posta o banca, valgono le rispettive ricevute (art. 387 Regolamento C.d.S. ).
Nel caso di mancato pagamento, la riscossione coattiva viene effettuata con le modalità di cui all’art. 27 della citata legge 689/81.
Il trasgressore o le persone obbligate in solido, «entro 60 giorni» dalla contestazione o notificazione del Verbale, possono presentare ricorso al Prefetto del luogo di commessa violazione, con atto esente da bollo da trasmettersi al Comando accertatore.
Il responsabile del Comando o Ufficio accertatore, nei successivi 30 giorni trasmette il ricorso al Prefetto unitamente alle controdeduzioni e con la prova delle avvenute contestazioni o notificazioni (art. 203, comma 1 e 2 C.d.S.).
Il Prefetto, se ritiene fondato l’accertamento, entro 90 giorni[1] dal ricevimento de«l ricorso, emette «ordinanza-ingiunzione» per il pagamento di una somma non inferiore al doppio del minimo edittale, da pagarsi «entro 30 giorni» dalla notificazione dell’atto agli interessati. Nel caso in cui, invece, ritiene fondato il ricorso, dispone l’archiviazione.
A seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 20 giugno 1994, il ricorso avverso il Verbale di accertamento è altresì esperibile, nel termine di «30 giorni» dalla contestazione o notificazione, avanti all’Autorità Giudiziaria.
In deroga a quanto previsto dall’art. 17 della legge 689/81, nei casi in cui non sia intervenuto il pagamento in misura ridotta e non sia stato presentato ricorso, il “Verbale costituisce titolo esecutivo per una somma pari alla metà del massimo edittale oltre le spese di procedimento” (art. 203, comma 3 C.d.S. ).
Avverso l’ordinanza-ingiunzione del Prefetto è esperibile l’opposizione avanti all’Autorità giudiziaria, «entro 30 giorni» dalla notificazione del provvedimento. Allo stato attuale, l’opposizione va presentata al Giudice di pace del luogo della commessa violazione ed il procedimento è regolato dai disposti degli artt. 22 e 23 della legge 689/81.
[1] Termine modificato dall’art. 18 della Legge 24 novembre 2000, n. 340
Nel caso di mancato pagamento, la «riscossione coattiva» viene effettuata con le modalità di cui all’art. 27 della citata legge 689/81.
I Ruoli vengono resi esecutivi dallo stesso ente che li ha emessi (art. 24 legge 27 dicembre 1997, n. 449).
Nel caso di pagamento effettuato in misura inferiore a quanto dovuto, la somma versata non estingue l’illecito ma viene tenuta in acconto e l’eventuale importo da iscrivere a ruolo è dato dalla differenza tra la somma dovuta (metà del massimo edittale) e l’acconto fornito. La somma dovuta nel caso di pagamento effettuato oltre il termine di 60 giorni ma prima della formazione del Ruolo, è pari alla metà del massimo edittale oltre alle spese di procedimento (art. 389 Regolamento C.d.S. ).
In deroga al principio generale della non oblabilità nelle mani dell’agente accertatore, l’art. 207 C.d.S. prevede che quando la violazione alle norme del C.d.S. riguardi un veicolo immatricolato all’estero o munito di targa EE, il trasgressore possa essere ammesso ad effettuare il pagamento immediato. Nel qual caso l’Agente rilascerà apposita quietanza.
Se il trasgressore non si avvale di tale facoltà, deve versare all’agente accertatore una "somma a titolo cauzionale", pari alla metà del massimo della sanzione ovvero, fornire apposita "polizza fideiussoria" a garanzia della somma dovuta. Residualmente, mancando le forme di garanzia di cui sopra, viene disposta la misura cautelare del ritiro della patente di guida, mancando la quale trova applicazione il fermo amministrativo del veicolo.
Il diritto a riscuotere le somme dovute quali sanzioni pecuniarie, si prescrive nel termine di 5 anni dalla commessa violazione, calcolate le interruzioni a norma del codice civile.
Il Codice della Strada ha introdotto diverse fattispecie di «sanzioni accessorie» oltre a quelle pecuniarie – sanzioni che colpiscono:
Tali ultime sanzioni consistono, in particolare, in:
Le sanzioni disciplinari si applicano di diritto (art. 210 C.d.S.) e, così, come quelle pecuniarie, non sono trasmissibili agli eredi.
Provvedimento innovativo nell’ambito della disciplina sanzionatoria amministrativa che ha quale unico precedente simile, il sequestro amministravo a tempo determinato introdotto dalla Legge 11 gennaio 1986, n. 3 sul casco obbligatorio.
► Volendolo sintetizzare, possiamo rilevare nell’art. 214 C.d.S. tre diversi ipotesi operative:
Nel caso di accertata violazione alla quale consegue il «fermo amministrativo di un veicolo in genere» gli Agenti accertatori provvedono a far cessare la circolazione ed a far ricoverare il mezzo con le modalità previste dal Regolamento. Si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni sul sequestro, di cui all’art. 394 del Regolamento.
Trattandosi di provvedimento che si concretizza con l’affidamento in custodia del veicolo a terzi, nel caso di violazione agli obblighi di custodia trovano applicazione le norme contenute nel Codice penale.
Il «fermo amministrativo del ciclomotore» si effettua con ricovero presso il luogo indicato dal conducente o, in caso di impossibilità, presso l’ufficio o comando operante ovvero in depositeria.
Nel caso in cui ricorrano motivi ostativi di sicurezza stradale, il ciclomotore non viene affidato al conducente ma rimosso o ricoverato. Contestualmente si provvede al ritiro del certificato di idoneità tecnica.
Chiunque circola con un ciclomotore sottoposto a fermi amministrativo, soggiace alla sanzione amministrativa prevista dall’art. 214, comma 8. C.d.S. Viene disposta la custodia del veicolo in depositeria.
Quando sia previsto il provvedimento di «sospensione della carta di circolazione», consegue il fermo ai sensi dell’art. 214 comma 7 C.d.S.
Il veicolo sottoposto al ritiro della carta di circolazione per la successiva sospensione, è affidato al conducente il quale indica il luogo ove intende ricoverare il mezzo, mentre con il fermo del ciclomotore, visto in precedenza, viene immediatamente interrotta la circolazione del veicolo, con affidamento in custodia.
Nel caso di circolazione con veicolo avente la carta di circolazione sospesa e, conseguentemente, sottoposto a fermo, troverà applicazione la sanzione di cui all’art. 217 C.d.S.
Il ricorso e l’opposizione alla sanzione principale si estendono alla sanzione accessoria.
Il Verbale di fermo va notificato al proprietario se diverso dal conducente, ed ai genitori o chi ne fà le veci, nel caso di affidamento del veicolo al conducente minorenne.
Trascorso il periodo di fermo, il veicolo viene restituito all’avente diritto o, nel caso di trasgressore minorenne, a chi esercita la potestà dei genitori o a persona maggiorenne appositamente delegata.
Sanzioni accessorie che trovano applicazione nelle violazioni alle norme sulla sosta dei veicoli.
Quando sia prevista la «rimozione», l’Organo accertatore provvede affinché il mezzo sia trasportato e custodito in appositi siti, indicando l’applicazione della sanzione accessoria sul Verbale di contestazione. Per il trasporto, l’Organo di polizia utilizza veicoli di proprietà dell’amministrazione ovvero automezzi di diluite convenzionate, aventi le caratteristiche di cui all’art. 12 del Regolamento C.d.S.. Per l’applicazione del «blocco», con attrezzi a chiave utilizzati di tipo omologato dal Ministero del LL.PP., occorre che il veicolo in sosta vietata non crei, comunque, intralcio o pericolo alla circolazione. L’Organo procedente comunica l’avvenuta rimozione o blocco all’interessato. Qualora quest’ultimo giunga durante le operazioni, il veicolo può essere restituito immediatamente, previo pagamento delle spese.
I veicoli rimossi o bloccati sono restituiti agli aventi diritto dietro pagamento delle spese di rimozione e custodia, con redazione di apposito Verbale e possibilità di applicazione del «diritto di ritenzione» ai sensi dell’art. 2756 c.c.
Il ricorso avverso la sanzione principale si estende alla sanzione accessoria in esame.
Trascorsi 90 giorni dalla notificazione del Verbale di violazione senza che l’avente diritto si presenti a reclamarne la restituzione, il veicolo potrà essere alienato o demolito con le identiche modalità della confisca indicate in precedenza.
Nelle ipotesi in cui le norme del C.d.Ss. prevedono la sanzione accessoria in esame, i documenti vengono ritirati dall’organo accertatore contestualmente all’accertamento di violazione, ed inviati nei successivi cinque giorni agli uffici competenti (art. 216 Cds).
Documenti da sottoporre a ritiro |
Ufficio competente |
Carta di circolazione |
Dir. Gen. MCTC |
Certificato di idoneità macchine agricole |
Dir. Gen. MCTC |
Autorizzazione autotrasporto | Dir. Gen. MCTC |
Licenza autotrasporto |
Dir. Gen. MCTC |
Targa | Dir. Gen. MCTC |
Patente di guida | Prefettura |
Del ritiro viene fatta menzione nel Verbale di contestazione, ove è pure apposta la specifica annotazione prevista dall’art. 399 del Regolamento C.d.S. affinché l’utente possa raggiungere il luogo da lui stesso indicato. Nei casi di ritiro della targa, si provvede solo dopo che il veicolo sia stato depositato nel luogo indicato dall’avente diritto. In quest’ultimo caso, si procede a redigere apposito Verbale.
Nel caso in cui l’avente diritto non sia in grado di indicare il luogo di ricovero, l’Organo accertatore provvede alla custodia con le modalità di cui all’art. 394 del Regolamento, in quanto applicabili.
La restituzione del documento è richiesta dagli interessati quando abbiano adempiuto alle formalità omesse.
Il ricorso presentato avverso la sanzione principale, si estende alla sanzione accessoria che viene confermata in caso di rigetto del ricorso stesso.
Quando ad una violazione del C.d. S. consegua la sanzione accessoria della «sospensione della carta di circolazione», il documento viene ritirato dall’Organo di polizia che ne fa menzione sul Verbale di contestazione, rilasciando, a mezzo di annotazione sul medesimo Verbale, un «permesso provvisorio di circolazione» onde il conducente possa raggiungere il luogo da lui stesso indicato, per la via più breve.
Il documento viene inviato entro 5 giorni, unitamente a copia del Verbale di violazione, alla MCTC che, nei 15 giorni successivi, emette la «ordinanza di sospensione» nei limiti indicati dalla singola norma violata. L’ordinanza di sospensione viene comunicata al Prefetto ed il periodo di sospensione decorre dal giorno in cui è stato materialmente effettuato il ritiro del documento.
In caso di documento rilasciato da uno Stato estero, la MCTC sospende la validità al fine della circolazione in Italia e comunica al corrispondente ufficio estero per l’annotazione sulla carta di circolazione.
Nel caso in cui suddetta ordinanza non sia emessa entro il termine di 15 giorni, l’interessato ha diritto di ottenere la restituzione del documento da parte della MCTC.
Il documento viene restituito, sempre a cura della Motorizzazione, con comunicazione al Prefetto ed al P.R.A., al termine del periodo di sospensione.
Con l’ordinanza di sospensione gli interessati possono proporre autonomo ricorso al Prefetto.
Quando ad una violazione del C.d.S. consegua la sanzione accessoria della «sospensione della patente di guida», l’Agente accertatore ritira il documento facendone menzione nel Verbale di contestazione. Provvede, altresì, al rilascio del «permesso provvisorio di guida», mediante annotazione sul Verbale, onde consentire al trasgressore di raggiungere il luogo di custodia da lui stesso indicato.
Nei successivi 5 giorni, il documento viene inviato alla Prefettura del luogo di commessa violazione che, nei 15 giorni successivi, emette la «ordinanza di sospensione». Il periodo di sospensione decorre dal giorno del ritiro del documento.
Quando, invece, la sospensione della patente consegua a più violazioni della medesima disposizione, gli Agenti accertatori possono:
Avverso il provvedimento di sospensione della patente disposto ai sensi dell’art. 218 C.d.S., è ammesso ricorso al Giudice di pace.
La patente di guida è altresì sospesa a tempo indeterminato quando, in sede di accertamento sanitario per la conferma della validità o per la revisione disposta ai sensi dell’art. 128 C.d.S., si evidenzi che la perdita temporanea dei requisiti fisici o psichici ex art. 119 C.d.S. In questo caso la sospensione viene adottata dalla MCTC e contro il provvedimento è ammesso ricorso al Ministero dei trasporti.
La «revoca» quale sanzione accessoria di competenza del Prefetto, trova applicazione nella sola ipotesi di guida con la patente sospesa (art. 218, comma 6 C.d.S.).
L’art. 130 del C.d.S., invece, disciplina la revoca quale atto dovuto da parte della MCTC e conseguente al venire meno dei requisiti essenziali per il rilascio e la conferma della patente.
Nei casi in esame, il comando operante, nei 5 giorni successivi all’accertamento, da notizia al Prefetto del luogo di commessa violazione. Avverso il provvedimento che dispone la revoca è ammesso ricorso al Ministero dei trasporti, entro 20 giorni dalla comunicazione della relativa ordinanza.
Classico "provvedimento cautelare" finalizzato a consentire la sanzione accessoria della confisca amministrativa del veicolo (art. 213 C.d.S.).
Quando, appunto, sia prevista la confisca, l’Organo di polizia procede al sequestro, con conseguente rimozione del veicolo e ricovero presso la depositeria. A norma dell’art. 394 del Regolamento, come modificato dall’art. 222 del D.P.R. 610/96, il veicolo viene condotto nel luogo di custodia a cura del conducente e sotto la vigilanza dell’organo procedente ovvero, su percorso espressamente indicato dall’organo stesso.
La custodia del veicolo, ove non sia possibile presso l’ufficio o comando procedente, avviene presso la sede di uno dei soggetti pubblici o privati indicati nell’elenco annuale della Prefettura. Il titolare del sito è nominato custode giudiziario e degli obblighi conseguenti è fatto menzione nel Verbale di sequestro.
Nello stesso verbale deve darsi atto dell’eventuale apposizione dei sigilli, mentre si deve aver cura di segnalare la condizione di veicolo sotto sequestro mediante apposizione di uno o più adesivi, delle dimensioni di cm. 20 x 30, sulla parte anteriore o sul parabrezza, recanti l’indicazione “Veicolo sottoposto a sequestro” e gli estremi del provvedimento che lo ha disposto. Copia del Verbale deve essere consegnata al custode ed all’interessato il quale, ai sensi dell’art. 19 della legge 689/81 e degli artt. 203 e 213 C.d.S. può presentare ricorso al Prefetto avverso il solo provvedimento di sequestro, con atto esente da bollo.
Ovviamente, in caso di declaratoria di infondatezza dell’accertamento, l’ordinanza di archiviazione si estende anche alla sanzione accessoria.
Trascorsi 90 giorni dal rigetto del ricorso al Prefetto o dalla scadenza del termine per ricorrere o dalla scadenza del termine del sequestro, l’organo accertatore trasmette alla Direzione regionale delle entrate, copia del Verbale di sequestro, con la relativa ordinanza di confisca e prova delle avvenute notificazioni. Il predetto Ufficio cura l’alienazione o la distruzione dei veicoli.
La confisca non può essere disposta se il veicolo è di proprietà di persona estranea alla violazione.
► Fra le violazioni più comuni che comportano il sequestro e/o la confisca del mezzo si riportano le seguenti:
A tali disposizioni vanno aggiunte quelle specifiche - e relative disposizioni – di cui agli artt. 19, 20 e 21 della L. 689/81 – e segnatamente quest’ultimo per quanto concerne la circolazione di veicoli sprovvisti di copertura assicurativa, di cui all’art. 193, comma 4°.
Con Circolare n° 300/1/31772/101/20/21/4 del 10.05.04 e n° 300 del 21.09.07 il Ministero dell’Interno ha fornito disposizioni esplicative in materia di sequestro e custodia dei mezzi – e segnatamente sull’affidamento degli stessi, in via preferenziale, agli stessi contravventori, disponendone la custodia a cura del conducente o del proprietario, il quale, entro 30 gg. dall’emanazione del provvedimento di confisca, li trasferirà in un deposito autorizzato dal Prefetto. Analoghe disposizioni sono previste anche in caso di “Fermo amministrativo” del veicolo.
Il proprietario del veicolo sequestrato è comunque tenuto a pagare le spese di custodia del mezzo, anche se in precedenza lo stesso era incidentato, dal momento in cui questo, a seguito delle riparazioni, ritornava in condizioni di poter circolare [1].
Appare importante, al fine di tenere indenne l’Amministrazione da eventuali responsabilità al riguardo, che gli accertatori effettuino una accurata descrizione del veicolo oggetto di sequestro, e ciò per evitare possibili contestazioni all’atto di una eventuale contestazione, redigendo a tal proposito apposito verbale che ne dettagli le modalità esecutive e lo stato apparente all’atto del sequestro.
Per quanto concerne il sequestro dei veicoli reperiti sul "Pubblico Demanio Marittimo", può rilevarsi al riguardo quanto stabilito dall’Avvocatura Distrettuale de L’Aquila che, con Nota n° 20901 del 17.12.99 ha confermato come, se la rimozione del mezzo venga disposta ex art. 1161 Cod. nav., andranno parimenti seguite le modalità applicative di cui all’art. 215 C.d.S.
[1] Cass. Civ. – Sent. n° 7493/2007
L'espletamento dei servizi di "Polizia Stradale" spetta (art. 12 C.d.S.):
Il nuovo codice della strada (D.lgs. n. 285/1992 ha opportunamente preso in considerazione una fattispecie “sui generis” quale quella della «circolazione in porto», fissando il principio che, per quanto concerne le «strade interne all’uso pubblico», la competenza a disciplinare la materia spetti, con Ordinanza, al Comandante del Porto Capo del Circondario (art. 6 comma 7).
L’istituzione delle Autorità Portuali, e la conseguente cessione ad esse di molte delle attribuzioni amministrative precedentemente gestite dalle locali Autorità marittime, è andata ad incidere anche sulla “viabilità”, creando alcuni conflitti e molti dubbi interpretativi.
A tal proposito il Ministro dei trasporti è intervenuto per ribadire alcuni basilari concetti sulla differenziazione delle posizioni delle Autorità interessate peraltro avvallate da un importante parere dell’Avvocatura generale dello Stato. Coerentemente alla consueta direttrice amministrazione/polizia-sicurezza, il Dicastero, nell’ambito della suddivisione dei compiti, ha evidenziato come spetti all’Autorità Portuale, ad esempio:
All’Autorità Marittima, spetta adottare i provvedimenti relativi alla «disciplina della circolazione» concernenti:
La sovrapposizione di discipline concorrenti ha imposto un necessario distinguo delle aree portuali, coincidente con le finalità di utilizzo delle stesse, sulla base del quale applicare, in caso di violazione, sanzioni diverse.
In particolare nei porti si è distinto tra:
La riforma sulla “sicurezza in ambito portuale” (D.lgs. n. 22/99) ha apportato alcune significative modifiche in tema di disciplina stardale; in particolare:
Ciò ha inciso anche sull’aspetto sanzionatorio della materia, in quanto ai sensi dell’art. 57 comma 3 lettera c), quest’ultimo è soggetto ad arresto sino a 2 mesi o ad ammenda da 500.000 a 2.000. 000, in aggiunta alle disposizioni dell’art. 1174 cod. nav., operative per il conducente, ferma restante la possibilità di estinguere las contravvenzione sulla base dell’adeguamento alle prescrizioni fissate dall’organo di vigilanza (A.U.S.L.).
► Alcune considerazioni:
Alcuni problemi sono sorti per le ipotesi in cui le infrazioni fossero compiute all’interno delle “aree operative”: la ristrettezza delle fattispecie disciplinate dal Codice della navigazione ha fatto emergere la necessità di ampliare lo spettro sanzionatorio, mediante un rinvio al codice della strada.
Si pensi ai casi di veicoli circolanti ad una velocità superiore a 40 Km/h (constatabile mediante strumentazione tecnica per la corretta rilevazione delle infrazioni inerenti il superamento dei limiti di velocità imposti all’interno del porto) rispetto ai limiti fissati o privi dell’assicurazione obbligatoria. In tali casi la soluzione prospettata è quella di affiancare all’art. 1174 Cod. nav. le sanzioni accesorie indicate agli artt. 210 e ss. Del codice della strada ovvero contemplate in altre leggi (ad esempio, Legge n. 990/69). In questo modo il ritiro della patente, il sequestro del veicolo, l’eventuale rimozione forzata, risulterebbero analogicamente applicabili in situazioni identiche a quelle configurate dal D.lgs. 285/92. Rimarrebbe tuttavia il dubbio sull’Autorità competente a dirimere il possibile ricorso, data la non “omogeneità” tra sanzione principale (codice della navigazione – Capo del Compartimento marittimo) ed accessoria (codice della strada – Prefetto): si potrebbe prospettare una sorta di “scissione” procedurale, consapevoli comunque delle difficoltà che si genererebbero nel separare giudizi sorti per la medesima azione od omissione.
La ”specificità” del porto, anche dal punto di vista degli organi competenti ad irogare le sanzioni in materia di viabilità, è stata attentamente valutata dal legislatore che, all’art. 12 comma 3 lettera f) del codice della strada, ha espressamente indicato i militari della Capitaneria di porto, quali soggetti autorizzati all’accertamento delle violazioni, alla tutela ed al controllo dell’uso delle strade, limitatamente a quelle di competenza dell’Autorità marittima, previo superamento di un esame di qualificazione (art. 23 Reg. esec. Codice della strada).
Alla luce di quanto detto, la prevenzione e l’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale e la tutela e il controllo sull’uso delle strade possono, essere effettuati, previo superamento di un esame di qualificazione secondo quanto stabilito dal Regolamento di esecuzione al C.d.S., dai militari del Corpo delle Capitanerie di Porto (art. 12, n. 3 lettera f ), nell’ambito delle aree di cui all’art. 6, co. 7 C.d.S.
Ne consegue che nell’ambito delle aree portuali, la competenza a disciplinare la circolazione delle strade interne al porto aperte all’uso è riservata al Comandante del porto Capo di Circondario, il quale vi provvede a mezzo di «Ordinanza», in conformità alle norme del Codice della strada (le sanzioni previste per le violazioni delle Ordinanze a tal fine emanate sono quelle previste dal Codice della strada).
Abbiamo avuto modo di dire che l’art. 202 C.d.S. prevede che il trasgressore è ammesso a pagare, in via conciliatoria, entro 60 giorni dalla contestazione/notifica, una somma pari al minimo fissato dalle singole norme. Per alcune violazioni, tuttavia, il pagamento in misura ridotta non è consentito. In tali casi il Verbale di contestazione della violazione deve essere trasmesso al Prefetto entro 10 giorni.
Qualora la sosta si prolunghi oltre le 24 ore, la sanzione è applicata per ogni periodo di 24 ore per il quale si protrae la violazione.
Le violazioni delle norme che disciplinano, invece, la circolazione nel demanio (ad esempio: aree portuali nonaperte all’uso), sarà sanzionata ai sensi dell’art. 1174 Cod. nav. [1]
[1] Circolare Mintrasnav – Dir. Gen. Demanio e Porti – prot. 5203367 del 19 settembre 1995.
Le Capitanerie di Porto sono un Corpo tecnico-amministrativo della M.M., posto alle dirette dipendenze funzionali del Ministero dei Trasporti: in tale veste esplicano funzioni di Polizia Giudiziaria ed Amministrativa per i reati marittimi, quelli comuni (nel solo ambito portuale - art. 1235 Cod. nav.) e quelli infine previsti dalle Leggi speciali (quale il Codice della Strada nella parte in cui le violazioni in esso riportate assumano rilevanza penale).
Nello svolgimento di tali ultime funzioni di polizia il Corpo opera anche per il Ministero dell’Interno, il cui Organo periferico (Prefetto) è l’Autorità deputata a ricevere il «rapporto» di cui all’art. 17 L. 689/81), come di seguito meglio specificato.
Le funzioni di Polizia Stradale sono esercitate normalmente quale "Polizia Amministrativa di Sicurezza" nei modi e nelle forme di cui alla L. 689/81; per le violazioni penali previste dalle medesime leggi sono svolte invece quale attività di Polizia Giudiziaria applicando le forme ed i modi procedurali stabiliti dal Codice di Procedura Penale.
L’attività di Polizia Stradale, quindi, se esercitata quale Polizia Amministrativa (come avviene per gli ordinari controlli) costituisce quindi attività di Polizia preventiva e di sicurezza; se esercitata invece quale Polizia Giudiziaria (come avviene in caso di incidenti con feriti o vittime) concretizza pertanto attività di polizia successiva e repressiva.
La Polizia Stradale, pertanto, assolve sia funzioni di Polizia Amministrativa e di Sicurezza (consistenti nella regolazione del traffico, nella rilevazioni di incidenti, nell’accertamento della violazioni) che di Polizia Giudiziaria, la quale ultima si attiva automaticamente sia nella fase di accertamento delle violazioni al C.d.S. qualificate come reato (ad esempio, guida in stato di ebbrezza), sia qualora, a seguito di accertamento effettuato in via amministrativa, vengano accertati fatti penalmente rilevanti (ad esempio, lesioni o decessi a seguito di incidente stradale).
In quest’ultimo caso il personale preposto ad operare dovrà procedere – a norma dell’art. 220 C.d.S. – secondo le norme del Codice di Procedura Penale, in primis effettuando gli accertamenti e le indagini previste, e riferendo quindi senza indugio al P.M. competente (art. 347 C.P.P.).
L’espletamento dei servizi di Polizia Stradale per il personale del Corpo è disciplinato dall’art. 12, lett. f) del D.lgs 30.04.92, n° 285 (Nuovo Codice della Strada), sebbene le limitazioni all’ambito portuale poste dall’art. 6, comma 7° della medesima norma appaiono antitetiche rispetto alle attribuzioni del personale appartenente ad altre Amministrazioni dello Stato o di Enti locali, anche rivestente qualifiche funzionali inferiori, (ad esempio, cantonieri, dipendenti ANAS, ecc.) in possesso della medesima abilitazione ottenuta, ai sensi del D.M. 21.02.96, previo superamento dello stesso “corso” previsto dal D.P.R. 16.12.92, n° 495 (Reg. Es. C.d.S.) come modificato dal D.P.R. 16.09.96, n° 610.
Appare opportuno rilevare al riguardo come, sebbene il Pubblico Ufficiale abilitato all’espletamento di tali servizi ha la facoltà di derogare, giusta art. 177 C.d.S., ai divieti ed obblighi in materia di circolazione stradale, tale facoltà non esime comunque dall’obbligo di una guida improntata alle regole di comune prudenza e diligenza, dovendo in caso contrario, qualora a causa di ciò dovesse verificarsi un incidente, rispondere delle conseguenze patrimoniali dello stesso per ipotesi di danno erariale[1] .
Inoltre, in materia di reati connessi alla circolazione stradale, la Cassazione ha confermato l’attribuzione dei compiti di accertamento e prevenzione di tali reati anche agli “altri Ufficiali ed Agenti di P.G.”[2], stabilendo altresì la legittimità dell’azione penale qualora “la contestazione della violazione sia seguita da successivo rapporto all’Organo di polizia stradale competente per l’esecuzione dei necessari accertamenti”, dal che si può desumere un obbligo di riferire la violazione (il fatto) all’Organo competente alla relativa contestazione[3] .
Rilevasi tuttavia come, mentre l’accertamento e la repressione di ogni violazione penale ed amministrativa, punita quest’ultima ai sensi della L. 689/81, spetta genericamente ad ogni Ufficiale ed Agente di P.G. giusta art. 13 della stessa Legge, l’accertamento e la repressione delle violazioni al C.d.S. spetta esclusivamente ai soggetti indicati dall’art. 12 C.d.S.
In relazione a quanto sopra, sorge il problema di reprimere le violazioni al C.d.S. commesse in ambito portuale ed accertate “incidenter tantum” dal personale delle Capitanereie di porto che non possegga tuttavia l’abilitazione di cui all’art. 23 Reg. Es. C.d.S.
A tal proposito, può farsi ricorso all’istituto dell’analogia, e segnatamente al disposto degli artt.14, comma 2° lett. b) e 192, commi 5° e 6° C.d.S. così come richiamato dall’art. 22, comma 4° Reg. Es. C.d.S., che espressamente prevedono che “il personale militare di cui all’art. 12, comma 4° (scorta ai convogli) segnala agli Organi di cui al comma 1 (le Forze di Polizia) le infrazioni di chiunque non abbia ottemperato gli ordini impartiti dal personale militare suddetto”.
Tale considerazione è stata del resto recepita dal Comando Generale del Corpo che con la Circolare n° 82/4216 del 04.02.93 prevede l’invio del processo verbale di accertamento (che fa piena prova fino a querela di falso) ad una Forza di Polizia (come indicata dal comma 1° dell’art.12 C.d.S.) per la successiva contestazione da parte dell’Organo competente.
Si evidenzia tuttavia che – poiché la Capitaneria di Porto dispone comunque di personale abilitato ex art. 23, normalmente sarà lo stesso Comando cui appartiene il militare accertatore ad effettuare la prevista contestazione.
Quanto sopra a maggior ragione se il fatto accertato risulta penalmente sanzionabile (ad esempio, guida in stato di ebbrezza), in quanto l’obbligo di informativa di cui all’art. 1236 Cod. Nav. (la cui omissione è sanzionata con la denuncia di cui all’art. 361 c.p.), costituisce comunque atto dovuto, e ciò anche in funzione del disposto dell’art. 81 Cod. Nav. in materia di compiti e funzioni di P.S. esercitati in via surrogatoria dall’Autorità Marittima, nel caso di specie in esplicazione dei servizi di Polizia Stradale, e ciò al fine del normale svolgimento del traffico veicolare, onde permettere l’ordinato svolgimento delle operazioni portuali.
Al riguardo appare opportuno richiamare la Circolare n° 1729 del Commissario del Governo per la Provincia Autonoma di Trento, che ha stabilito come – su conforme parere del Ministero dell’Interno (vedasi Circolare del 02.12.04 di Mininterno) – la modulistica utilizzata per le contestazioni e per le sanzioni amministrative al C.d.S. – di cui all’art. 383 - non è utilizzabile: in tale ipotesi infatti – in applicazione del disposto dell’art. 220 C.d.S. – devono trovare applicazione le disposizioni di cui all’art. 347 c.p.p. che impongono all’organo accertatore di documentare le attività di indagine compiuta secondo le forme e le modalità indicate dal Codice di Procedura Penale.
Per quanto concerne invece le aree portuali, la violazione di una Ordinanza emanata ex art. 59 Reg. Es. Cod. nav. in materia di circolazione deve essere perseguita ai sensi dell’art.1174, comma 2° Cod. Nav., e ciò in virtù del sopra citato principio di specialità di cui all’art. 9, comma 1° L. 689/81, atteso che il provvedimento che si assume violato è finalizzato a garantire la sicurezza delle attività portuali in una zona che “strictu sensu” costituisce il “porto”.
Per completezza di informazione deve citarsi infine una particolare forma di regolamentazione della circolazione stradale - per motivi tuttavia esclusivamente di Polizia Giudiziaria oltre che di Pubblica Sicurezza e non ai fini della regolamentazione del traffico - quando viene sospesa la circolazione di persone e veicoli durante le operazioni di ricerca di latitanti,di armi o esplosivi su edifici o blocchi di edifici (art. 25 bis comma 2° D.L. 08.06.92, n° 306 convertito in L. 07.08.92, n°25.
[1] Corte dei Conti – Sez. Veneto – Sent. n° 968 del 19.09.08
[2] Cass. Pen., Sez. VI°, 29.03.71
[3] Cass. Pen., Sez. IV° - 06.06.61
Si premette come in tema di sanzioni amministrative, il principio secondo il quale, in materia di infrazioni al Codice della Strada, è consentita l’opposizione immediata in sede giurisdizionale avverso il "processo verbale di accertamento" non può essere esteso anche a violazioni soggette a sanzione penale.
Infatti il presupposto dell’eccezionale opponibilità del verbale di infrazioni al Codice della Strada risiede nella sua potenziale attitudine a divenire titolo esecutivo, ponendosi, per l’effetto, come atto terminale al procedimento sanzionatorio in luogo dell’ordinanza-ingiunzione (così giustificando l’immediata opposizione in sede giurisdizionale), mentre, nel caso delle suddette violazioni, il medesimo verbale di accertamento, con il quale gli organi accertatori si limitano a constatare il fatto, ma non procedono a contestazione, essendo, invece, tenuti a farne rapporto all’autorità giudiziaria inquirente, è privo di tale potenziale efficacia e non è, pertanto, direttamente impugnabile in sede giurisdizionale[1].
Trattasi di reati che, per la loro gravità, sono stati attribuiti dal legislatore alla competenza del Giudice Unico (in composizione monocratica) e sottratti quindi alla giurisdizione del Giudice di Pace.
Il D.lgs. 03.08.07, n° 117 ha depenalizzato, peraltro, il "rifiuto di sottoporsi ad accertamenti per l’assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti".
Prima di effettuare i test con l’etilometro, tuttavia, gli agenti accertatori devono informare, ai sensi degli artt. 354 e 356 c.p.p., della possibilità per l’interessato di farsi assistere da un legale[2]; tuttavia, l’obbligo di deposito dello scontrino del test con l’etilometro (accertamento urgente ex art. 354 c.p.p.) non è stato considerato dalla giurisprudenza quale “atto urgente” la cui mancata effettuazione comporti l’invalidità dell’accertamento[3].
[1] Cass. Pen. - Sez. I – Sent. n° 13207 del 20.06.05
[2] Tribunale de L’Aquila – Sent. del 22.11.04
[3] Cass. Pen. – Sez. IV° - Sent. n° 6014 del 16.02.06
L’art. 43, comma 3° C.d.S., l’art. 192 C.d.S. e l’ art. 24 Reg. Es. C.d.S. impongono all’automobilista di doversi arrestare qualora venga intimato il relativo «ordine» da parte dell’Agente accertatore in divisa, ovvero munito di paletta o regolari segni distintivi della propria funzione, secondo quando disposto dagli artt.181, 182 e 183 Reg. Es. C.d.S.
Contrariamente al Codice Penale, che punisce analoghe inottemperanze con l’art. 650, ovvero del Codice della navigazione che per analoghe fattispecie rende applicabile l’art. 1174 (norma amministrativa in bianco depenalizzata), il C.d.S. prevede solo una specifica sanzione amministrativa[1], non considerando quali esimenti eventuali giustificazioni di carattere sanitario esibite al riguardo[2], configurando in taluni casi la fuga dal posto di blocco il reato di resistenza a Pubblico Ufficiale[3].
In tal caso l’utente può evitare la relativa sanzione solo presentandosi tempestivamente presso un Comando di Polizia, essendo l’omissione di tale presentazione e non anche la delazione dell’effettivo conducente la condizione scriminante per evitare il relativo verbale[4]; ovvero trasmettendo il documento richiesto (patente) a detto ufficio anche a mezzo fax; mentre il segnalare la presenza di posti di blocco ad altri utenti può configurare il reato di “interruzione di pubblico servizio”[5].
I segnali che possono fare gli agenti del traffico sono disciplinati dall’art. 43 C.d.S., e dagli artt. 181 e 182 Reg.C.d.S.
In via amministrativa essi sono da qualificare quali “ordini di polizia” cioè un atto amministrativo posto in essere mediante segnali, alla cui inottemperanza si applicano delle sanzioni oltre a responsabilità sia civilistiche che penali per eventuali incidenti stradali causati dall’inosservanza delle segnalazioni medesime.
Analoga norma si applica con gli artt. 1164 e 1174 Cod. nav. per violazioni commesse sul pubblico demanio marittimo a mezzo autoveicoli, laddove in area portuale non risulta applicabile il Codice della Strada.
Pertanto in entrambe le fattispecie l’eventuale violazione è sanzionata soltanto in via amministrativa (essendo stati depenalizzati i relativi articoli del Cod. nav.), contrariamente ad altre fattispecie previste dalle leggi ordinarie che vedono punite penalmente tutte le situazioni in cui la violazione si concretizza in una inosservanza di un ordine dell’Autorità (art. 650 c.p.).
Si rammenta, nfine, come controlli e ispezioni di polizia giudiziaria sui veicoli e i loro occupanti possono essere fatti, oltre che per l’accertamento di tracce di reati, per accertare la presenza a bordo di:
[1] Cass. Pen. – Sez. I^ - Sent. n° 3943 del 24.01.08
[2] G.d.P. di Gemona del Friuli – Sent. del 13.10.05 e n° 134 del 20.12.05
[3] Cass. Pen. – Sent. n° 35826 del 01.10.07
[4] G.d.P. di Priverno – Sent. 13.06.06
[5] Cass. Pen.– Sent. n° 6890 del 19.12.07
Le procedure sanzionatorie e le fattispecie di illecito, rispettivamente contemplate dal Codice della Strada e dal Codice della Navigazione (queste ultime sanzionate ai sensi della L. 689/81), si distinguono fra loro sia per alcune tipologie di violazione, che pur se apparentemente simili risultano tuttavia disciplinate in modo diverso, sia per le procedure di contestazione e difesa, che nel C.d.S. appaiono più dettagliate e vincolate nelle rispettive fasi procedimentali.
A titolo meramente esemplificativo, si riportano di seguito alcuni istituti contemplati da entrambi i Codici, con i relativi elementi di raffronto:
► Autorità competente a ricevere il rapporto:
► Pagamento in misura ridotta:
► Pagamento immediato sanzione:
► Aumento istat sanzioni:
► Termini per ricorso avverso verbale:
► Modalità’ della mancata contestazione immmediata:
► Controdeduzioni accertatori per scritti difensivi:
► Ricorso al Giudice di pace contro il verbale:
► Importo sanzione irrogabile con ordinanza:
► Interruzione termini procedimento in caso di audizione:
► Termini per emanare l’ordinanza-ingiunzione:
► Obbligo instalazione segnaletica monitoria:
► Sequestro obbligatorio del mezzo:
► Gettito rifiuti in strada:
► Inosservanza di ordine di arresto mezzo:
Importante nell'ambito del diporto in generale è la nuova normativa sull'Assicurazione RC per i natanti. Infatti, è già entrato in vigore il Decreto Legislativo 7 settembre 2005 n. 209, concernente "il Codice delle Assicurazioni Private", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 239 del 13 ottobre 2005 - Supplemento Ordinario n. 163. Con l'entrata in vigore del nuovo Codice è stata espressamente abrogata la Legge 24/12/1969 nr. 990, che sino ad allora disciplinava le regole dell'Assicurazione RC per gli autoveicoli ed i natanti.
Attualmente, così, la materia di assicurazione di imbarcazioni e natanti da diporto e motori fuoribordo, risulta disciplinata in particolare dall'art. 123 del novello Codice[1], che prevede l'assicurazione obbligatoria per tutte le unità da diporto munite di motore in navigazione in acque ad uso pubblico o su aree a queste equiparate (1° comma); sono altresì soggette all'obbligo assicurativo tutti i motori amovibili di qualsiasi potenza, indipendentemente dall'unità ove vengono installati, risultando assicurato, in tal caso, il natante sul quale di volta in volta viene collocato il motore.
Alle unità da diporto, ai natanti ed ai motori amovibili così individuati, con l'entrata in vigore della suddetta normativa si applicano, in quanto compatibili, le norme previste per l'assicurazione obbligatoria per la R.C.A. derivante dalla circolazione dei veicoli a motore (4° comma dell'art. 123 T.U., art. 180 e ss. del Codice della Strada). In particolare, l'art. 193 del C.d.S. per la navigazione senza la copertura assicurativa, l'art. 180 del C.d.S. in caso si mancata presenza a bordo del tagliando assicurativo, l'art. 181 del C.d.S. in caso di contrassegno assicurativo non esposto a bordo.
Ciò è confermato dalla Circolare del 28 giugno 2006 del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, con cui dirime tutti i dubbio in materia ("...devono ritenersi applicabili alle unità da diporto in navigazione che risultino sprovviste di assicurazione le sanzioni previste dal nuovo Codice della Strada...").
Restano come prima le prescrizioni circa il combinato disposto degli articoli 13, 3° comma, e 21, 1° comma, della Legge 689/1981, in materia di sequestro obbligatorio e confisca del mezzo, ed in materia di fermo amministrativo del natante, quando ricorrano i presupposti dell'art. 127 del nuovo Codice.
Infine, è da tenere presente che, in linea, con le altre violazioni del Codice della Strada, le sanzioni devono essere adeguate secondo gli eventuali aumenti disposti dalle varie Leggi Finanziarie (come nel 2007).
[1] Art. 123. Natanti
1. Le unità da diporto, con esclusione delle unità non dotate di motore, non possono essere poste in navigazione in acque ad uso pubblico o su aree a queste equiparate se non siano coperte dall'assicurazione della responsabilità civile verso terzi prevista dall'articolo 2054 del codice civile, compresa quella dell'acquirente con patto di riservato dominio e quella del locatario in caso di locazione finanziaria, per danni alla persona. Il regolamento, adottato dal Ministro delle attività produttive su proposta dell'ISVAP, individua la tipologia dei natanti esclusi dall'obbligo di assicurazione e le acque equiparate a quelle di uso pubblico.
2. Sono altresì soggetti all'obbligo assicurativo i natanti di stazza lorda non superiore a venticinque tonnellate che siano muniti di motore inamovibile di potenza superiore a tre cavalli fiscali e adibiti ad uso privato, diverso dal diporto, o al servizio pubblico di trasporto di persone.
3. L'obbligo assicurativo è esteso ai motori amovibili, di qualsiasi potenza, indipendentemente dall'unità alla quale vengono applicati, risultando in tal caso assicurato il natante sul quale è di volta in volta collocato il motore.
4. Alle unità da diporto, ai natanti e ai motori amovibili si applicano, in quanto compatibili, le norme previste per l'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore.
Per lo specifico settore portuale e marittimo, la normativa generale sulla "Sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro" dettata con Decreto Legislativo n° 626 del 19/09/94 [68] e successive integrazioni e modifiche, è stata integrata con il Decreto Legislativo 27 luglio 1999, n. 271 [69] recante “Adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori marittimi a bordo delle navi mercantili e da pesca nazionali, a norma della legge 31 dicembre 1998, n. 485" e con Decreto Legislativo 27 luglio 1999, n. 272 [70] recante “Adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori nell’espletamento di operazioni e servizi portuali, nonché operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi in ambito portuale, a norma della legge 31 dicembre 1998, n. 485".
In particolare, il decreto n. 271/1999, ha lo scopo di adeguare la vigente normativa sulla sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, alle particolari esigenze dei servizi espletati su tutte le navi o unità mercantili, nuove ed esistenti, adibite a navigazione marittima ed alla pesca nonché alle navi o unità mercantili in regime di sospensione temporanea di bandiera, alle unità veloci e alle piattaforme mobili, in modo da:
Giusta quanto previsto dagli artt. 20 e ss del Decreto Legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 [71], allo scopo di eliminare la sanzione prevista per i reati in materia di "igiene e sicurezza del lavoro" puniti con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, l’Organo di vigilanza nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, impartisce ai contravventori un’apposita «prescrizione» fissando un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario alla regolarizzazione (art. 20).
Tale termine è prorogabile a richiesta del contravventore per la particolare complessità e per l’oggettiva difficoltà dell’adempimento: in nessun caso può superare i 6 mesi, anche se il contravventore può richiedere un ulteriore proroga di 6 mesi quando specifiche circostanze a lui non imputabili determinano un ritardo nella regolarizzazione.
Con la prescrizione, l’Organo di vigilanza può imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la salute o per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro.
Relativamente alla "estinzione" delle contravvenzioni previste dal D.lgs. 271/1999, l’Organo di vigilanza è la "Capitaneria di porto"; le "Aziende Sanitarie Locali" (ASL) per il procedimento diretto alla estinzione delle contravvenzioni previste dal D.lgs. 272/1999.
Resta comunque l’obbligo da parte dell’Organo di vigilanza di inoltrare la "notizia di reato" nei tempi prescritti dall’art. 347 c.p.p. all’Autorità Giudiziaria competente.
Qualora, il Pubblico Ministero prende notizia di reato di iniziativa ovvero la riceve da privati o altro Organo di polizia giudiziaria, ne dà notizia all’Organo di vigilanza per le determinazioni inerenti la prescrizione necessaria ad eliminare la contravvenzione.
In tale caso, lo stesso Organo di vigilanza informa entro 60 (sessanta) giorni dalla data di ricezione della comunicazione, il Pubblico Ministero delle proprie determinazioni.
Il procedimento penale per la contravvenzione è “sospeso” (art. 23) dal momento dell’iscrizione della notizia criminis nel Registro delle N.d.R. di cui all’art. 335 c.p.p. fino al momento in cui il Pubblico Ministero riceve, dall’Organo di vigilanza, una delle comunicazioni previste dall’art. 21 , commi 1 e 2 D.lgs. 758/1994, ossia:
Il procedimento penale riprende il suo corso qualora l’Organo di Vigilanza informa il Pubblico Ministero che non ritiene di dover impartire una prescrizione, ovvero alla scadenza del termine dei 60 giorni (art. 22, comma 2), se il predetto Organo omette di informare il P.M. delle proprie determinazioni inerenti alla prescrizione.
Il reato-contravvenzione "si estingue" se il contravventore adempie alla prescrizione impartita dall’Organo di Vigilanza nel termine ivi fissato e provvede al pagamento in via conciliatoria della sanzione prevista dall’art. 21. comma 2.
In fatti, in caso di adempimento della prescrizione imposta, entro 60 (sessanta) giorni dalla scadenza del termine così fissato, l’Organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare, in sede amministrativa, nel termine di 30 giorni, una somma pari al...
...quarto del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa
Entro 120 (centoventi) giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’Organo di vigilanza comunica al Pubblico Ministero competente l’adempimento della prescrizione, nonché l’eventuale pagamento della predetta somma.
Ai sensi dell’art. 40 del D.lgs. 271/1999, qualora l'Autorità marittima riscontri che a bordo dell'unità mercantile o da pesca nazionale vi siano "difformità" rispetto al "piano di sicurezza" approvato ed al relativo "Certificato di sicurezza dell'ambiente di lavoro" che comportino rischi per l'igiene e la sicurezza del lavoratore marittimo, provvede, ai sensi dell'art. 181, comma 3 del Codice della navigazione, non concedendo il "rilascio delle spedizioni".
[…]
Le spedizioni non possono essere rilasciate qualora risulti che l’armatore o il comandante della nave non ha adempiuto agli obblighi imposti dalle "norme di polizia", da quelle impartite per la "sicurezza della navigazione", nonché agli obblighi relative alle visite ed alle prescrizioni impartite dalle competenti Autorità.
Del pari le spedizioni non possono essere rilasciate qualora risulti che l’armatore o il comandante della nave non ha compiuto gli adempimenti sanitari, fiscali e doganali ovvero non ha provveduto al pagamento dei diritti portuali o consolari, al versamento delle cauzioni eventualmente richieste a norma delle vigenti disposizioni di legge o regolamenti, nonché in tutti gli altri casi previsti da disposizioni di legge.
L’art. 646 Codice della navigazione (Provvedimenti per impedire la partenza della nave) – Il Giudice competente alla adozione di misure cautelari, come il sequestro giudiziario e conservativo di navi e galleggianti ai sensi dell’art. 643 Cod. nav., e, ove ricorra l’urgenza il Comandante del porto o l’Autorità di polizia giudiziaria del luogo, nel quale si trova la nave, possono prendere i provvedimenti opportuni per impedire la partenza della nave.
I datori di lavoro, i dirigenti, i preposti, il medico competente ed i lavoratori sono soggetti, oltre alle particolari sanzioni previste dal Titolo IV del D.lgs. n. 272/1999, anche alle sanzioni previste dalla normativa generale sulla sicurezza ed igiene del lavoro e contenute nel Titolo IX del D.lgs. n. 626/1994 e successive modificazioni e integrazioni.
"Sicurezza e salute dei lavoratori marittimi a bordo”
Penale: arresto da 3 a 6 mesi o ammenda da 1.549 € a 4.131 € (art. 35 D.lgs. 271/99)
Penale: arresto fino a 1 mese o ammenda da 206 € a 619 € (art. 36 D.lgs. 271/99)
“Sicurezza e salute dei lavoratori nell’espletamento di operazioni e servizi portuali, nonché di manutenzione, riparazione e trasformazione di navi in ambito portuale marittimi a bordo”
Penale: arresto fino a 2 anni o ammenda da 258 € a 1.032 € (art. 57 comma 2 D.lgs. 272/99)
Per «demanio» in genere si intendono il complesso di beni mobili e immobili di proprietà dello Stato destinati, per natura o per legge, al soddisfacimento di una funzione pubblica e perciò sottratti al commercio, beni con i quali la collettività entra in rapporto di fruizione diretto e gratuito.
Ne fanno parte come prescrive l’art. 822 Codice civile il lido del mare, la spiaggia, le rade, i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi, le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, le opere destinate alla difesa nazionale, le strade statali, le autostrade, le strade ferrate, gli aerodromi, gli acquedotti, gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche, ecc.
Il demanio destinato a soddisfare gli «usi pubblici del mare» - quelli concernenti le attività in connessione diretta col mare (pesca, navigazione, traffico marittimo, ecc.) e quelli che presuppongono l'utilizzazione indiretta a favore della collettività (diporto, balneazione, ecc.) - rientra nella categoria del «demanio marittimo».
I beni demaniali marittimi fanno parte del "demanio necessario". Il demanio necessario comprende tutti quei beni immobili che devono essere demaniali ipso facto: sono in altre parole demaniali per natura.
La natura demaniale di tali beni si fonda, primariamente, sulla potenziale utilizzabilità degli stessi per i cosiddetti usi pubblici del mare (diporto, balneazione, pesca, ecc.) coerentemente con la loro naturale destinazione.
I beni del demanio marittimo costituiscono, per la vastità dell’estensione territoriale e la particolarità delle utilizzazioni, la categoria di beni pubblici di maggiore rilievo ambientale.
I beni facenti parte del demanio marittimo sono elencati nell’art. 28 del Codice della navigazione (generalmente considerato come una specificazione integrativa dell’art. 822 del codice civile).
Il «mare territoriale» non è incluso fra i beni demaniali. Tale esclusione, però, non costituisce ostacolo alla possibilità di concessione amministrativa (art. 524 norme trans. e complementari) per l'uso di quel mare (è un esempio di concessione al fine di produzione, in cui il bene demaniale si pone esso stesso come mezzo di produzione: concessioni di pesca, per lo sfruttamento del fondo marino, per l'estrazione e la raccolta di arena e di ghiaia, ecc.).
E’ comunque pacifica la natura demaniale del mare territoriale che in quanto res communis omnium, non può essere ritenuto di proprietà statale Il mare territoriale non rientrando tra i beni demaniali è da considerarsi nella sua totalità (acqua, fondo, sabbia, ecc.) «res nullius» (non costituisce furto l'esportazione di sabbia dal fondo del mare).
La dottrina più recente ha suddiviso il demanio marittimo in «demanio portuale» e «demanio costiero», individuando le differenze intercorrenti tra le due categorie nel carattere naturale del demanio costiero a fronte dell’artificialità e della strutturazione economico-imprenditoriale del demanio portuale.
I beni demaniali in quanto appartengono allo Stato e sono destinati, per natura o per legge, al soddisfacimento di una funzione pubblica e in particolare non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti da leggi specifiche per la materia in oggetto. Da ciò consegue la loro:
Possono tuttavia essere dati in concessione d’uso. L’attribuzione ai privati di diritti di godimento su beni del demanio marittimo si realizza attraverso provvedimenti unilaterali di "concessione", provvedimenti rientranti nell’ampio concetto di “provvedimenti di polizia amministrativa”, e non attraverso contratti di diritto comune; ed il loro godimento a scopi lucrativi (da parte dei privati) non può avvenire gratuitamente.
L'art. 36 del Cod. nav. prevede la possibilità di concessione dell'occupazione e uso, per fini compatibili con le esigenze dell'interesse pubblico, di zone del mare territoriale.
Le funzioni amministrative aventi finalità turistiche e ricreative, concernenti l’utilizzazione a tali scopi del demanio marittimo, sono state demandate alle Regioni a statuto ordinario dall’art.30 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616.
Con D.lgs. 3 marzo 1998, n. 112 (in attuazione della Legge Bassanini n. 59/97), tutta la gestione amministrativa dei beni demaniali marittimi è stata trasferita alle "Regioni a statuto ordinario" ad eccezione dell’amministrazione dei beni demaniali afferenti le “fonti di approvvigionamento di energia” che rimangono, sotto la gestione statale (ad esempio, concessione ad industrie petrolchimiche per occupazioni di aree demaniali e di specchi acquei, concessione per impianti di rifornimento carburante su area demaniale, ecc)
Dalla gestione regionale rimangono esclusi i beni che interessano la difesa dello Stato o la difesa del territorio nazionale.
I beni facenti parte del demanio marittimo sono elencati nell’art. 28 del Codice della navigazione (generalmente considerato come una specificazione integrativa dell’art. 822 del Codice civile).
La dottrina più recente ha suddiviso il demanio marittimo in «demanio portuale» e «demanio costiero», individuando le differenze intercorrenti tra le due categorie nel carattere naturale del demanio costiero a fronte dell’artificialità e della strutturazione economico-imprenditoriale del demanio portuale.
Non fanno parte del demanio marittimo, il "mare territoriale" (si estende per 12 miglia verso il largo a partire dalla linea di base, detta anche "linea verde" (carta ufficiale 330 L.B.) che, in quanto res communis omnium , non può essere ritenuto di proprietà statale, nonché i golfi, i seni e le baie (art. 2 Cod. nav.). Il mare territoriale non rientrando tra i beni demaniali è da considerarsi nella sua totalità (acqua, fondo, sabbia, ecc.) «res nullius» (non costituisce furto l'esportazione di sabbia dal fondo del mare). Ad ogni modo, per l’occupazione e l’uso di zone del mare territoriale (concessioni di pesca, sfruttamento del fondo marino, estrazione e raccolta di arena e di ghiaia, ecc.). e per l’esercizio della polizia sul mare territoriale si applicano le disposizioni del Codice della navigazione e del relativo Regolamento di esecuzione ((art. 524 norme trans. e complementari). Le rade demaniali, ai fini del diritto internazionale, sono classificate non come mare territoriale, ma come acque marittime interne (e così pure i porti e le acque comprese tra più isole).
Riguardo alla «gestione» del demanio marittimo, il Codice della navigazione detta norme di carattere generale atte a regolare l’estensione esatta fra questo ed i beni privati prevedendo il ricorso a specifici «procedimenti» per le più significative vicende dei beni demaniali marittimi.
Delimitazione: picchetti lapidei
Alla luce nel nuovo quadro normativo introdotto dalla riforma Bassanini...
L’originario quadro normativo, delineato sia dal Codice della Navigazione, sia dal Regolamento della navigazione marittima, è stato modificato sulla spinta dell’evoluzione socio-economica e politica dello Stato, che ha portato alla formazione di un complesso di leggi, che pian piano ha "svuotato" di contenuti il tradizionale principio posto dall’art. 30 Cod. nav. (“L’amministrazione delle Infrastrutture e dei Trasporti regola l’uso del demanio marittimo e vi esercita la polizia”) dell’esclusiva competenza dell’Autorità Marittima sulla gestione dei beni demaniali marittimi.
Con la riforma «Bassanini» (D.lgs. nn. 59 e 127 del 1997), passando per il D.lgs n. 112/98, per finire alla L. n. 172/2003, infatti, è profondamente mutano il regime della gestione dei beni demaniali marittimi, e tale cambiamento mal si concilia col vigente Codice della navigazione cui, tra l’altro, tali leggi dedicano poche norme e, tra queste, quelle dedicate al demanio marittimo sono appena accennate.
La disciplina dei beni demaniali marittimi, ed il conseguente esercizio degli svariati poteri di polizia amministrativa latu sensu (rilascio, revoca, decadenza delle concessioni e/o autorizzazioni, regolamentazione degli spazi demaniali, potere di ingiungere lo sgombero, emanazione di ordinanze di polizia marittima, ecc.), è oggi notevolmente variata a causa del conferimento di tali poteri alle Regioni e agli Enti locali cui ha fatto, inevitabilmente, seguito il delinearsi di una disciplina normativa ed amministrativa di non facile interpretazione.
L’art. 105 del D.lgs. n. 112/1998 (in attuazione alla legge Bassanini n. 59/1997) ha conferito tutta la gestione amministrativa dei beni demaniali marittimi dallo Stato alle «Regioni a Statuto ordinario» ad eccezione dell’amministrazione dei beni demaniali afferenti le “fonti di approvvigionamento di energia” (es. concessioni demaniali per industrie petrolchimiche, per piattaforme petrolifere, ecc.) e di quelli ricadenti nei “porti e nelle aree di interesse preminente nazionale” (individuate dal D.P.C.M. 21 dicembre 1995), che, quindi, rimangono sotto la gestione statale.
Le Regioni a Statuto ordinario e, per ulteriore delega ex art. 42 del D.lgs. n. 96/1999, i Comuni destinatari della riforma di cui si è detto, sono oggi chiamati a svolgere funzioni nuove e di vasta portata anche in termini di innovazione rispetto ai precedenti sistemi di gestione statale
Tutto ciò comporta inevitabili "conflitti d’attribuzioni" tra le diverse amministrazioni coinvolte (Autorità marittime, Autorità portuali, Autorità regionali ed Enti locali) e, di conseguenza, notevoli difficoltà che si ripercuotono nel concreto esercizio delle funzioni di polizia amministrativa dei beni demaniali, che non di rado si tramutano in problematiche operative sul piano dell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria.
Peraltro, occorre evidenziare che la suddetta riforma lascia ovviamente inalterate le funzioni di polizia giudiziaria in capo al personale militare del Corpo delle Capitanerie di porto, in virtù dei poteri ad esso conferiti dal Codice di Procedura Penale (artt. 55 e 57) e dal Codice della navigazione (artt. 1235 e ss.).
Solo dopo diverse pronunce della Corte Costituzionale, l'ultima in ordine di tempo la n. 344/2007, è stato definitivamente chiarito il nuovo quadro normativo, anche per quanto concerne i porti d'interesse regionale ed interregionale, a mente del quale spettano alle Regioni e per il principio di sussidiarietà ai Comuni, le competenze relative all'esercizio delle funzioni amministrative nei porti di 2^ categoria, classe III (porti di interesse regionale ed interregionale con funzione turistica e peschereccia).
La Corte Costituzionale, riprendendo i principi statuiti in altre sentenze (255/2007, 90/2006) ha stabilito infatti, che non spetta allo Stato affermare la propria competenza nella materia delle concessioni demaniali marittime portuali nei porti turistici e commerciali di rilevanza economica regionale ed interregionale, così come definiti dall'articolo 4 della legge 84/94: riferendosi, cioè a quei porti o specifiche aree portuali, che non sono finalizzati alla difesa militare o alla sicurezza dello Stato, ne sono sedi di Autorità Portuale. Quanto stabilito dal Giudice delle Leggi è la diretta conseguenza del nuovo impianto normativo, coltivato nel tempo e che è sbocciato nella Legge Costituzionale 3/2001 che ha modificato il Titolo V della Costituzione.
Diverse Regioni, con diverse leggi regionali, hanno conferito ai propri Comuni costieri l'esercizio di tutte le funzioni amministrative relative al demanio marittimo, intendendosi per beni demaniali – come si è avuto modo di dire - quelli elencati nell'art. 822 del c.c. e 28 del codice della navigazione. Ciò altro non è che il risultato del nuovo assetto costituzionale che, introduce una profonda ridislocazione di poteri dal centro alla periferia, e che hanno aperto la strada al potenziamento delle autonomie.
L'attribuzione ai Comuni delle funzioni amministrative sul demanio marittimo rientra in un principio di organizzazione dello Stato finalizzato ad avvicinare, nella massima possibile misura, la gestione della res pubblica ai cittadini, permettendo da un lato di adeguare l'azione degli amministratori alle specifiche e differenziate richieste della collettività sottostanti attraverso un più intenso dialogo tra cittadini e P.A., volto ad arricchire di contenuti partecipativi l'azione dei pubblici poteri, secondo i principi di una corretta e funzionale democrazia, e dall'altro di evitare l'accentramento burocratico ed il conseguente formarsi di una grossa burocrazia regionale.
Lo Stato mantiene le funzioni amministrative in materia di demanio solo nelle sottoelencate tipologie di Porti e zone del demanio marittimo:
Sono, infine, impregiudicate le competenze statali che riguardano tutte le attività che afferiscono agli aspetti dominicali, inerenti la configurazione giuridica dei beni demaniali, nonché la materia della polizia dei porti, che è del tutto peculiare e specifica, investendo il profilo tecnico-operativo della sicurezza della navigazione e portuale (materia, quest'ultima, distinta e separata dall'utilizzazione dei beni demaniali marittimi e dalle funzioni amministrative a questa attinenti), nonché tutte le altre competenze, eventualmente, escluse per effetto di specifiche disposizioni normative.
Oggi i Comuni sono titolari delle seguenti funzioni amministrative sul demanio marittimo:
Restano ascritti alla competenza statale ed in particolare al Corpo delle Capitanerie di Porto le funzioni relative a:
Gli abusi sul demanio marittimo possono configurarsi in molteplici modi e con diversa consistenza. Essi sono correlati alle differenti modalità di utilizzazione dei beni demaniali, nonché all’esistenza o meno del «titolo concessorio» ed al contenuto dello stesso.
Le fonti del diritto speciale che disciplinano il "rilascio di concessioni" di beni del demanio e di zone di mare territoriale (art. 524 trans.), l’autorizzazione alla "esecuzione di nuove opere" in prossimità del demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare oppure le occupazioni e le innovazioni abusive sono:
Atteso che compete comunque alla Amministrazione dei Trasporti, di regolare l'uso del demanio marittimo e di esercitarvi la “polizia” (=polizia demaniale), il potere dell'Amministrazione marittima, per quanto ampio, non è esclusivo: l'estrinsecazione dei poteri delle altre amministrazioni interessate deve essere in ogni caso sottoposta ad un'opera di coordinamento e di armonizzazione a cura della predetta Amministrazione.
L'Autorità amministrativa preposta, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l'occupazione e l'uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo (art. 36 Cod. nav.). Le concessioni sono generalmente «temporanee»; tuttavia, in circostanze speciali, possono anche essere «senza limiti di tempo».
Nel primo caso il rilascio della concessioni spetta all'Autorità amministrativa competente, mentre per le concessioni senza limiti di tempo occorre una legge. È opportuno premettere che il carattere demaniale del bene concesso presuppone sempre la «revocabilità» della concessione.
Chiunque intenda occupare per qualsiasi uso una zona demaniale o farvi una qualsiasi innovazione tendente a variare o modificare la proprietà demaniale, o ad indurre limitazioni o impedimenti agli usi per cui essa è destinata, ovvero a pregiudicare i diritti ad essa inerenti deve ottenete la “concessione“ dall'Amministrazione competente previa presentazione di opportuna domanda.
La materia degli "abusi" sul demanio marittimo è disciplinata, per quanto riguarda la parte amministrativa dall’art. 54 Cod. nav., per la parte relativa alle disposizioni penali dall’art. 1161, comma 1 Cod. nav. e ss. E per la parte privatistica delle norme sulla proprietà contenute nel Codice civile.
Si evidenzia che gli articoli 54 e 1661 Cod. nav. si applicano anche alle "innovazioni abusive" eseguite entro il limite dei 30 metri dal demanio marittimo (c.d. zona di rispetto), tale limite può essere aumentato, per ragioni speciali, in determinate località, qualora queste non siano previste in piani regolatori generali o particolareggiati già approvati dagli Enti Locali competenti, d’intesa con le Autorità Marittime ai sensi dell’art. 55 Cod. nav.
L’art. 54 Cod. nav. enuncia: “Qualora siano abusivamente occupate zone del demanio marittimo o vi siano eseguite innovazioni non autorizzate, il Capo del Compartimento Marittimo (o altra Autorità competente) ingiunge al contravventore di rimettere le cose in pristino stato entro il termine a tal fine stabilito e, in caso di mancata esecuzione dell’ordine, provvede d’ufficio a spese dell’interessato”.
Il «provvedimento ingiuntivo di sgombero» rappresenta, quindi, l’atto consequenziale rispetto all’azione preventiva di polizia, finalizzata alla vigilanza e alla repressione degli abusi sul suolo demaniale; mentre l’esecutorietà d’ufficio dell’ordine costituisce una forma di "autotutela" speciale alla quale fare ricorso, in via sostitutiva, per il ripristino della legalità venuta meno per l’effetto dell’abuso perpetrato in danno del pubblico demanio marittimo.
Nel caso in cui non sia possibile "individuare i contravventori", l’ordinanza di cui all’art. 54 Cod. nav., dovrà essere emessa “ad incertam persona”; questa potrà essere affissa sulla porta o sulle strutture dell’abusiva costruzione ed eventualmente, per maggior cautela, nell’Albo pretorio del Comune, ciò al fine di predisporre, comunque, un atto prodromico alla successiva procedura di demolizione di ufficio.
L’art. 1161 Cod. nav. tipicizza sostanzialmente le seguenti forme alternative di condotta penalmente rilevante:
L’art. 1164, comma 1 Cod. nav. stabilisce, infine, che nel caso di occupazione senza titolo di beni demaniali marittimi, di zone del mare territoriale e delle pertinenze del demanio marittimo, ovvero nel caso di utilizzazioni difformi dal titolo concessorio, il responsabile è tenuto alla corresponsione di un indennizzo: è punito, se il fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa di una somma da Euro 1.032 a Euro 3.098
Il personale del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera, ha tra i vari compiti, quello della vigilanza e del controllo sul demanio pubblico marittimo (art. 30 Cod. nav.- Uso del demanio marittimo; art. 27 Reg. Cod. nav. - Vigilanza)
Questi controlli vengono effettuati da personale del Corpo, in quanto Ufficiali ed Agenti di Polizia Giudiziaria (art. 1235 Cod. nav. - Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria).
I controlli inerenti il demanio pubblico marittimo sono molteplici e vanno dal controllo dei limiti della concessione demaniale, dei limiti sulla proprietà privata, dell’abusiva occupazione del suolo demaniale al rispetto dell’ordinanza balneare emessa dal Capo del Circondario Marittimo.
Si rappresentano di seguito, per una più facile interpretazione, alcuni controlli demaniali tipo, che posso presentarsi durante il servizio.
► Parte Amministrativa:
Il personale, giunto presso lo "stabilimento balneare", si reca dal concessionario, o da colui che ha in gestione la concessione (art. 45 bis - Affidamento ad altri soggetti delle attività oggetto della concessione - Il concessionario, in casi eccezionali e per periodi determinati, previa autorizzazione dell'Autorità competente, può affidare ad altri soggetti la gestione delle attività secondarie nell'ambito della concessione), dopo le presentazioni di rito, comunica allo stesso che deve effettuare un controllo per il rispetto dell’ordinanza balneare.
Durante detto controllo, viene compilato un apposito «questionario», in duplice esemplare del quale una copia viene rilasciata al concessionario.
Il controllo verte principalmente sulla "sicurezza", vengono quindi controllate le "dotazioni" prescritte dall’ordinanza quali:
Nel caso in cui vi fosse la mancanza di una delle dotazioni di sicurezza o si verificasse il non adempimento di uno degli articoli/punti dell’ordinanza, il concessionario incorrerebbe in una "sanzione amministrativa" per la violazione della stessa, punita dall’articolo 1164 comma 1 Cod. Nav (Inosservanza di norme sui beni pubblici); la sanzione è fissata tra un minimo di € 1.032 ed un massimo di € 3.098 (art. 10 Legge 689/81 - Sanzione amministrativa pecuniaria e rapporto tra limite minimo e limite massimo ) e per la stessa è ammesso il pagamento in misura ridotta pari al doppio del minimo o un terzo del massimo - quella più favorevole per il sanzionato ( art. 16 del Legge 689/81 Pagamento in misura ridotta ) in questo caso si applica un terzo del massimo quindi la sanzione è di € 1.032.
Nel caso in cui la violazione ad uno degli articoli/punti dell’ordinanza viene effettuata da una persona che si trova in spiaggia o in acqua per motivi ludico ricreativi (per esempio, giocare a pallone sulla battigia), l’articolo punitivo è il 1164 comma 2 Cod. Nav. (Inosservanza di norme sui beni pubblici); la sanzione è fissata tra un minimo di € 100 ed un massimo di € 1.000 e in questo caso si applica il doppio del minimo quindi la sanzione è di € 200.
Durante il corso dell’estate ci si può imbattere in una occupazione, da parte di un veicolo, del suolo demaniale marittimo.
Questo tipo di illecito è punito dal Codice della Navigazione in ottemperanza all’art. 1161 comma 2 (Abusiva occupazione di spazio demaniale e inosservanza di limiti alla proprietà privata); la sanzione è fissata tra un minimo di € 103 ed un massimo di € 619, in questo caso si applica il doppio del minimo quindi la sanzione è di € 206.
Lo stesso può essere regolamentato o dall’ordinanza balneare o da ordinanza della locale Amministrazione Comunale.
► Parte Penale:
Nel caso in cui venga abusivamente occupato uno spazio demaniale marittimo (art. 1161 comma 1 del Cod. Nav. ) gli accertatori di detto reato devono tempestivamente far cessare lo stesso contestandolo al suo autore l'illecito ed in seguito si provvede ad identificare la persona e ad invitarla in Ufficio.
► Azioni da intraprendere:
Successivamente viene emessa apposita «ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi» da parte del Capo del Compartimento entro un termine stabilito, ed in caso di mancata esecuzione della stessa, questi vi provvede d’ufficio a spese dell’interessato ex art. 54 Cod. Nav (Occupazioni e innovazioni abusive) .
Nel caso di un concessionario, i contesti in cui ci si può imbattere possono essere:
Nei casi su citati le azioni da intraprendere sono le stesse esplicate nel punto precedente.
In seguito, per le opere abusivamente realizzate/delocalizzate, viene elevato «processo verbale amministrativo» ex art. 1164 comma 1 Cod. nav., e successivamente viene emessa apposita ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi dal Capo del Compartimento entro un termine stabilito, ed in caso di mancata esecuzione della stessa, questi vi provvede d’ufficio a spese dell’interessato ex art. 54 Cod. Nav (Occupazioni e innovazioni abusive ). Per quanto riguarda il concessionario, lo stesso può presentare domanda di «sanatoria» per le stesse. Nel caso in cui la richiesta di sanatoria venisse accetta, si eseguirà in seguito un ulteriore "sopralluogo" durante il quale si provvederà a controllare, tramite la "relazione tecnica", le "planimetrie" e gli "indici di piano", che effettivamente quello chiesto in sanatoria coincida con lo stato dei luoghi.
Nel caso in cui durante il sopralluogo emergano degli ulteriori abusi, perpetrati dopo il primo sopralluogo, si dovrà dare inizio ad un ulteriore procedimento penale a carico del concessionario.
Può capitare che alcuni concessionari realizzino la struttura autorizzata da apposito titolo concessorio (Mod. 77), non con materiali di "facile rimozione" come prescritto dal Codice della Navigazione e come esplicato all’interno delle more del Mod. 77, bensì usando materiali (gettata in opera di pavimentazione o saldando tra di loro i pannelli prefabbricati in cemento armato vibrato) che rendono detta struttura di "difficile rimozione".
Nel caso in cui si verifichi tale situazione, bisogna interessare, l’Agenzia del Demanio (competente per provincia), il Genio delle Opere Marittime, l’U.T. del Comune ove si trovi la costruzione, l’Agenzia delle Dogane, e con appositi tecnici effettuare dei sopralluoghi mirati a constatare se la struttura è di facile o di difficile rimozione.
Dal sopralluogo, "ogni tecnico" dei rispettivi Organi menzionati, redigerà apposita «relazione» e, nel caso in cui la struttura risultasse di difficile rimozione, si darà inizio al procedimento per "l’incameramento" della struttura stessa, redigendo apposito «Testimoniale di Stato» (tale commissione può esprimersi favorevolmente in ordine alla proficuità dell’acquisizione ed incameramento della stessa tra le pertinenze del Demanio Marittimo, in quanto qualificata come opere inamovibile di difficile rimozione e, come tale, da acquisire allo Stato mediante la loro iscrizione nel “Registro Inventario dei beni immobiliari demaniali dello Stato" - Mod. 23.D1) (Art. 49 - Devoluzione delle opere non amovibili).
Tutte le opere di nuova costruzione che si trovano "entro una zona di trenta metri" dal demanio marittimo (c.d. linea verde) o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta all'autorizzazione (nulla-osta) del Capo del Compartimento.
Per alcune località, per ragioni speciali, in seguito all’emanazione di apposito Decreto del Presidente della Repubblica, l’estensione della zona entro la quale l'esecuzione di nuove opere è sottoposta alla predetta autorizzazione, può essere determinata in misura superiore ai trenta metri.
L' autorizzazione ad effettuare i lavori sopra menzionati, si intende accolta se entro 90 (novanta) giorni l'Amministrazione non ha rigettato la domanda[1] dell' interessato; la stessa non è richiesta quando le costruzioni che si trovano in prossimità del mare sono previste dai piani regolatori o di ampliamento già approvati dall'Autorità Marittima.
Nel caso in cui, all’interno della fascia menzionata si verifichi la costruzione abusiva di opere, si procederà allo sgombero e al ripristino dei luoghi ai sensi dell’art. 54 del Cod. nav. (Occupazioni e innovazioni abusive).
Sequestro di boe abusive
[1] Il silenzio dell'Amministrazione competente equivale a provvedimento di "accoglimento" della domanda senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima Amministrazione non comunica all'interessato, entro 90 giorni, il provvedimento di diniego (vedi in proposito la Legge 7 agosto 1990, n. 241 in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso, nonchè del D.P.R. 26 aprile 1992, n. 300).
Un particolare aspetto del "potere normativo" esercitato dal Comandante del Porto ex art. 59 Reg. Cod. nav., si ha nell’esercizio del potere-dovere di disciplina della circolazione stradale in ambito portuale, finalizzato, in questo caso, a disciplinare l’ordinato svolgimento della circolazione veicolare all’interno delle aree portuali.
Gli spazi portuali aperti alla circolazione delle auto sono quindi da intendersi quali “strade aperte all’ uso pubblico” ex art. 6, comma 7 C.d.S[1], intendendosi come tale sia la strada il cui uso è consentito a chiunque[2], sia quella il cui uso è limitato ad una sola determinata categoria di soggetti in possesso di idoneo titolo (es. biglietto di imbarco) ovvero rivestenti una determinata qualifica (es. spedizionieri, agenti marittimi) - e ciò trattandosi anche in questo caso, e nonostante la limitazione del fine, di “uso diffuso” [3].
Nell’area portuale si vengono pertanto a creare “due distinte zone” sulle quali esplicano i loro effetti due diverse norme; tuttavia, fra queste due zone, quella destinata a strada pubblica è funzionale a quella portuale, per cui le relative esigenze restano subordinate alle esigenze portuali – cosa delle quali il Capo di Circondario dovrà tenere conto nel disciplinare con propria Ordinanza la relativa circolazione stradale portuale.
Su tali aree il personale delle Capitanerie di porto in possesso della relativa «qualifica» esercita quindi il servizio di “Polizia Stradale” di cui all’art. 12 C.d.S., attività questa che può quindi qualificarsi come “Polizia di Sicurezza” secondo la definizione sopra indicata.
In base quindi alle suddette disposizioni, nonché alle "Circolari" interpretative ministeriali, sulla destinazione delle aree portuali in base all’utilizzo delle stesse, può rilevarsi quanto segue:
Nel primo caso, infatti, le eventuali infrazioni andranno ad incidere sulla esigenza, in senso tecnico, "di ordinate e sicure operazioni e manovre portuali" (così come richiamate dagli artt. 81 Cod. nav. e 59 Reg. Cod. nav); nel secondo caso, invece, l’esigenza da tutelare con la norma è quella di una "ordinata circolazione stradale" (e andrà applicato quindi il C.d.S.).
Infatti, in virtù del “principio di specialità” di cui all’art. 9 della Legge n. 689/81, le infrazioni commesse nelle c.d. “Aree Operative”, pur se commesse a mezzo autoveicol, poiché incidono comunque sulla "funzionalità di strutture ed attività portuali" (movimentazione mezzi meccanici, gru, carrelli elevatori, locomotrici di manovra, autoarticolati, ecc.), attraggono alla fattispecie concreta normalmente disciplinata dal Codice della Navigazione, alla quale si ricollega del resto la ancor più specialistica disposizione dettata dal D.Lgs. 272/99 in materia di "limitazione della velocità", rispettivamente, degli autoveicoli e dei mezzi meccanici.
Per analogia, anche il Ministero dei Trasporti[4] ha chiarito l’applicabilità del C.d.S. nelle aree private, in relazione alla natura ed alle funzioni degli spazi significando che il C.d.S. trova comunque applicazione nelle aree pubbliche e private soggette a pubblico passaggio che è tale quando “può circolarvi indiscriminatamente chiunque, escludendo invece tale fattispecie quando l’accesso sia limitato solo a particolari categorie”[5].
In concreto, quindi, la cogenza di tali norme realizza una sovrapposizione di discipline il cui ambito di applicabilità è individuabile con riferimento alle "finalità di utilizzo" delle singole aree demaniali nell’ambito della realtà fisica del porto, per cui negli spazi destinati «esclusivamente alla circolazione stradale» la disciplina sarà quella del Codice della Strada (ex art. 6, comma 7° e 14°- 2° periodo C.d.S.); mentre nelle aree destinate «esclusivamente ad attività portuali» la norma da applicare sarà quella di cui all’art. 1174, comma 2° Cod. nav.
[1] Giusta quanto richiamato dalla Circolare n° 82/1059/II del 22.01.99 del Comando Generale delle Capitanerie di Porto (Maricogecap)
[2] Cass. Civ. - Sent. n° 4603 del 11.04.2000
[3] Conforme parere del 1977 dell’ Avvocatura Generale dello Stato
[4] Nota n° 58836 del 19.06.07 confermata dal successivo Parere n° 16789/2008
[5] Cass. Civ. - Sentenza n° 4603 del 11.04.2000).
La prevenzione e l’accertamento delle violazioni in materia di «circolazione stradale» e la «tutela ed il controllo sull’uso delle strade»[1], possono essere espletati, previo superamento di un “esame di qualificazione” [2], secondo quanto stabilito dal Regolamento di esecuzionedel C.d.S. (D.P.R. 495/92), dal personale del Corpo delle Capitanerie di porto, nell’ambito delle aree di cui all’art. 6, comma 7 del C.d.S. (Regolamentazione della circolazione fuori dei centri abitati): nelle aree portuali, la competenza a disciplinare la circolazione delle strade interne aperte all’uso pubblico (=non operative) è riservata al Comandante di porto Capo del Circondario, il quale vi provvede a mezzo di Ordinanze, in conformità del C.d.S.).
Su tali aree il personale in possesso della relativa qualifica esercita quindi il servizio di “Polizia Stradale” di cui all’art. 12 C.d.S., attività questa che può quindi qualificarsi come “Polizia di Sicurezza” secondo la definizione sopra indicata.
Nel caso di violazioni delle norme che disciplinano la «circolazione» nelle aree portuali operative cc.dd. “aree portuali non aperte all’uso”, si applica l’art. 1174 comma 2 Cod. nav.
Nella pratica, il militare operante (es. del servizio N.O.I.P.), accertata l’infrazione, si limiterà a redigere l’apposito modulo di “Avviso di accertamento” che provvederà poi ad apporre, ad esempio, sul parabrezza del mezzo, documentando in un secondo momento, una volta raggiunto il proprio Comando, l’attività svolta, gli accadimenti con apposita “Relazione di Servizio” da presentare all’Ufficio competente a riceverla (es. sezione Contenzioso della Capitaneria di Porto) i cui addetti provvederanno a redigere il relativo «Verbale di contestazione» e a sottoscriverlo[3].
Copia del Verbale, unitamente alla relazione di servizio, all’avviso di accertamento e ad eventuali altri rilievi, è conservato presso l’Ufficio predetto.
[1] Per quanto concerne la definizione di “strada”, questa deve considerarsi quale “area ad uso pubblico destinata alla circolazione di pedoni, veicoli ed animali” (art. 2, c.1^ C.d.S.). Tale definizione viene integrata dal successivo art. 3, che distingue – oltre ai vari tipi di strada, anche le parti della stessa, quali ad es. le “banchine”, le “aree e bracci di intersezione”, le “corsie”, le “fasce di pertinenza e di rispetto”, le “carreggiate”, oltre alle definizioni di “corsia”, di “circolazione”, ecc.
[2] Abilitazione ottenuta – ai sensi del D.M. 21.02.96 - previo superamento dello stesso “corso” previsto dal D.P.R. 16.12.92, n° 495 (Reg. Es. C.d.S.) come modificato dal D.P.R. 16.09.96, n° 610.
[3] Cass. Civile Sez. I, Sentenze n. 12105 del 27 settembre 2001 e n. 10015 del 10 luglio 2002 – […] ne deriva, in relazione al caso di specie, l’accoglimento del profilo del motivo relativo alla (erroneamente) ritenuta nullità dell’Ordinanza di Ingiunzione per non essere stato il Verbale di contestazione sottoscritto dagli Agenti accertatori, non dovendo, come si visto, il Verbale di contestazione essere sottoscritto necessariamente da essi, ma (se non redatto con sistemi meccanizzati, nel qual caso non è affatto necessaria la sottoscrizione), da qualsiasi soggetto che faccia parte dell’Ufficio o Comando al quale appartiene l’organo accertatore a ciò abilitato…..
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L’Autorità Marittima esercita normalmente sia funzioni di "Polizia Amministrativa" in senso lato (cioè in forma normativa), sia di "Polizia di Sicurezza" (cioè in forma repressiva) in senso stretto.
Tradizionalmente dette funzioni sono ripartite secondo la seguente dicotomia :
Inoltre, il «Comandante del porto-Capo del Circondario Marittimo»[1]. pone in essere alcune specifiche attività che, pur essendo proprie dell’Amministrazione statale, di fatto incidono direttamente sui "rapporti fra privati", quali:
Infine l’Autorità Marittima periferica suddetta esercita direttamente altre attività amministrative, di natura sia concessoria, sia certificativa, sia ricognitiva, quali il rilascio, per esami e per titoli, di certificazioni ed abilitazioni incidenti sullo status dei privati, quali le abilitazioni alla condotta di unità da diporto, ed il rilascio di titoli professionali marittimi.
Il «potere normativo e regolamentare» attribuito al Comandante del Porto Capo di Circondario, quale Organo periferico dell’Amministrazione Marittima ed Autorità locale competente a disciplinare l’utilizzo del Pubblico Demanio Marittimo e portuale, si esplica mediante gli «atti tipici» che lo stesso emana, in base al Codice della Navigazione, quale appunto Amministrazione Marittima periferica, e cioè mediante:
Detto potere trova la sua fonte normativa, rispettivamente, nell’ art. 67 del Cod. nav. “Il Comandante del Porto regola e vigila…” ; nell’art. 81 “Il Comandante del Porto provvede...” (trattasi quindi di un potere-dovere); nell’art. 59 del Reg. Cod. nav. “il Capo del Circondario marittimo regola con propria Ordinanza, per i porti e le altre zone del demanio marittimo e del mare territoriale...qualora lo ritenga necessario...” (così assumendo tale regolamentazione un carattere di discrezionalità).
Tali poteri si sommano a quelli concessori – peraltro attualmente residuali dopo il passaggio della potestà concessoria dei beni demaniali con caratteristiche “turistico-ricreative” agli Enti locali, mediante appositi atti amministrativi (la natura contrattuale di tali atti è stata recentemente esclusa[2].
I provvedimenti così emanati dal Comandante del Porto costituiscono quindi, in virtù del potere normativo che la legge gli riconosce, atti amministrativi in senso formale a contenuto obbligatorio e vincolante per tutti i destinatari.
Al riguardo rilevasi come il legislatore del 1942 è andato ben oltre l’attribuzione di specifici poteri, introducendo, negli artt. 1164, 1174, 1231 Cod. nav., una norma "penale in bianco" (analoga al corrispondente art. 650 c.p.), che sancisce l’equiparazione alla norma di legge o di regolamento, ai fine degli effetti penali, dei provvedimenti legalmente dati dalle Autorità competenti, rispettivamente, in materia di demanio marittimo, polizia dei porti e sicurezza della navigazione.
Con la depenalizzazione introdotta nell’ordinamento nazionale prima dalla Legge n. 689/81 poi dalla Legge n. 205/99 e, infine, dal D.lgs. 507/99, tuttavia, le prime due fattispecie di illecito sono state derubricate ad illeciti amministrativi, mentre penalmente perseguibili sono rimaste le sole violazioni in "materia di sicurezza della navigazione" di cui al citato art. 1231, oltre alle altre violazioni tuttora penalmente rilevanti contemplate dal Codice della Navigazione.
Alla figura del “Capo di Compartimento Marittimo” quale Organo dell’Amministrazione periferica è attribuita inoltre una specifica «potestà sanzionatoria», giusta L. 689/81 e relativo Regolamento (art. 1 D.P.R. 29.07.82, n° 571), in alcune materie di specifica competenza, fra le quali rientra:
[1] Il circondario è il territorio rivierasco dove il Comandante del porto Capo del Circondario ha potere normativo, ossia il potere di emanare atti aventi forza di legge (Ordinanze). In deroga all’art. 59 del regolamento Cod. nav., le ordinanze di polizia marittima concernenti la "disciplina dei limiti di navigazione rispetto alla costa" e in materia di "pesca marittima" sono emanate dal Capo del compartimento marittimo (art. 8 della Legge 8 luglio 2003, n. 172 sulle “Disposizioni per il riordino e il rilancio della nautica da diporto e del turismo nautico”)
[2] Sentenza n° C-174/06 del 25.10.07 della Corte di Giustizia della Comunità Europea – Sez. II^.
Per poter esplicare le sue funzioni di controllo e disciplina delle attività svolte in ambito portuale e demaniale, l'Autorità Marittima non può prescindere da uno strumento di fondamentale importanza, quale la facoltà di emanare «atti normativi» aventi forza di legge.
Attraverso un tipico atto come l’ «Ordinanza di polizia marittima» [1] il Comandante del Porto-Capo del Circondario Marittimo, regola, integrando il corpo normativo in relazione alla necessità emergenti della situazione locale, le attività che si esercitano nei porti e nelle altre zone di sua generale, nell’ambito della propria circoscrizione marittima, disciplinando l’uso degli spazi portuali, del demanio marittimo e del mare territoriale[2].
Le "Ordinanze Marittime" sono l'espressione del "potere normativo" di polizia amministrativa portuale del Comandante del Porto (... regola e vigila – provvede). Sono atti a contenuto libero che creano obblighi e divieti, ed in sostanza impongono “ordini” e, per costituire “fonte di diritto”, devono avere carattere normativo, creare cioè regole generali ed astratte, che non possono tuttavia contrastare con la Costituzione e, di norma, con le leggi ordinarie, né contenere disposizioni penali.
Tali provvedimenti sono dotati di “autoritarietà” (possibilità di produrre unilateralmente nella sfera giuridica su terzi le modificazioni giuridiche previste dalle proprie statuizioni) e di “esecutorietà” (facoltà della Pubblica Amministrazione di eseguire coattivamente il provvedimento – solo nei casi previsti dalla legge).
Attraverso l’Ordinanza di polizia marittima il Capo del Circondario Marittimo, regola, integrando il corpo normativo in relazione alla necessità emergenti della situazione locale, le attività che si esercitano nei porti e nelle altre zone di sua competenza, per assicurare l’ordinato svolgimento delle attività portuali, marittime e demaniali evitando eventuali danni e pericoli che potrebbero derivare alla collettività da attività svolte arbitrariamente dai singoli.
Spesso si tratta di disposizioni legate a fatti limitati nel tempo o contingibili ed urgenti. Altre volte si stabiliscono regole destinate a durare, quali ad esempio la destinazione di accosti a banchine e calate, in questo caso l’Ordinanza può prendere la forma di approvazione di un regolamento ad essa legato come parte integrante dell’ordinanza stessa.
L’inosservanza delle disposizioni dell’Autorità Marittima e, quindi, anche il mancato rispetto delle suddette Ordinanze, costituisce, salvo che il fatto non sia perseguibile a titolo di reato, illecito amministrativo (ex. artt. 1164 e 1174 Cod. nav.) punito con sanzioni principali a carattere pecuniario e sanzioni accessorie di vario tipo; o sicuramente illecito penale nel caso di norme attinenti la sicurezza della navigazione (ex art. 1231 Cod. nav.).
Nell’ambito del concetto di "polizia marittima" le suddette disposizioni punitive, previste dall’art. 1164 Cod. nav. per i beni pubblici marittimi, dall’art. 1174 Cod. nav. per la polizia dei porti e dell’art. 1231 Cod. nav. per quanto attiene la sicurezza della navigazione, assurgono al rango di «norme in bianco» e, quindi, adattabili alle situazioni concretamente verificatesi.
La "struttura" di una Ordinanza Marittima - a prescindere dalla sua tipologia, costituisce un provvedimento complesso, che soggiace ad una precisa formulazione, ed enunciato normalmente con il seguente schema:
[1] In deroga all’art. 59 del regolamento Cod. nav., le ordinanze di polizia marittima concernenti la disciplina dei limiti di navigazione rispetto alla costa sono emanate dal Capo del compartimento marittimo (art. 8 della Legge 8 luglio 2003, n. 172 sulle “Disposizioni per il riordino e il rilancio della nautica da diporto e del turismo nautico”)
[2] L’art. 524 (Mare territoriale) delle norme transitorie e complementari cod. nav., stabilisce che per l’occupazione e l’uso di zone di mare territoriale e per l’esercizio della polizia sul mare territoriale si applicano le disposizioni stabilite per il demanio marittimo dal codice della navigazione e dal regolamento. Per le concessioni per allevamento di pesci, per coltivazione e deposito di mitili, il Capo del compartimento marittimo promuove il parere del medico provinciale per quanto concerne l’igiene e la sanità.
Le "Ordinanze", vengono numerate (con numero progressivo) per ogni anno solare da ogni singolo «Ufficio di Circondario» (Capitaneria di porto e Ufficio Circondariale marittimo) e si articolano in:
Per quanto concerne la «pubblicazione» di tali atti normativi, essa avviene mediante affissione all'Albo dell'Ufficio, prevista dall'art. 59 Reg. Cod. nav., ma è ormai prassi consolidata la diffusione dell'Ordinanza attraverso l'invio di copia di essa ai soggetti interessati allo svolgimento delle attività in questione ed agli organi di informazione.
Il termine «Ordinanza» è adoperato dalla dottrina per quegli atti del potere esecutivo (Pubblica Amministrazione e Governo), caratterizzati dalla "eccezionalità" e dalla "temporaneità" nella loro efficacia. In questo senso sono considerate "Ordinanze normative" anche i decreti-legge emanati dal Governo, ma si tratta di una classificazione astratta. Le Ordinanze "in senso stretto" son atti amministrativi, generali e particolari, non predeterminati quanto al contenuto, ed emanati in casi di particolare necessità e urgenza da Autorità amministrative diverse dal Governo.
Le Ordinanze sono figure atipiche, il cui contenuto cioè può essere il più vario possibile, esse sono amissibili solo in determinate materie (es. sanità e igiene pubblica, ecc.) e solo per particolari motivi di urgenza (es. pericolo di epidemia).
Possono anche modificare la legge ordinaria, a causa della loro eccezionalità, ma devono essere adeguatamente motivate, e perdono efficacia col venir meno dei presupposti di necessità e urgenza che le hanno richieste. Non possono mai derogare dalla Costituzione.
a) Ordinanze normative in senso lato - che a loro volta si dividono in:
In tal caso è la Legge 689/81 che determina tuttavia esattamente in quale forma detto potere può esplicitarsi. Le principali differenze con le altre Ordinanze emanate dall’Autorità Marittima sono:
Le «Ordinanze sanzionatorie» possono, a loro volta, dividersi in:
[1] T.A.R. Veneto, Sez. II^, Sent. n° 3807 del 30.11.07
[2] C.d.S. – Sez. V^ - Sent. n° 4448 del 13.08.07
[3] T.A.R. Liguria – Genova – Sez. I^ - Sent. n° 3 del 02.01.08 e T.A.R. Calabria – Catanzaro – Sez. I^ - Sent. n°692 del 27.04.05 in materia di Ordinanze sindacali
[4] T.A.R. Liguria – Sez. II^ - Sent. n° 1270 del 05.12.01.
[5] Da ultimo Cass. Civ., Sez. 1^ - Sent. n° 519 del 13.01.05
[6] Sebbene per le Ordinanze-Ingiunzioni prefettizie sia stata ritenuta ammissibile la sottoscrizione da parte di un Funzionario da questi delegato – Cass. n° 4861/2007; Giudice di Pace di Rivarolo Canadese (TO) – Sent. n° 144 del 14.06.08.
Le «Ordinanze sanzionatorie» possono, altresì, dividersi in:
[1] Cass. Civ. – Sez. I^ - Sent. n° 519 del 13.0105.
[2] Cass. Civ., - Sez. I^ - Sent. n° 3038 del 15.02.07 )
I «Regolamenti marittimi» sono provvedimenti c.d. ”delegati”, cioè quelli per i quali una disposizione legislativa autorizza una Autorità amministrativa a disciplinare, mediante norme regolamentari, una determinata materia.
Gli stessi sono parimenti connaturati dai requisiti di astrattezza e generalità, e servono generalmente per specificare attività già previste dall’Ordinanza, che assumono carattere «continuativo» (il che li distingue dall’Ordinanza che serve invece per disciplinare un evento occasionale o transitorio per il quale l’emanazione di un Regolamento sarebbe superfluo), e possono concernere una molteplicità di situazioni, quali quelle disciplinate dall’art. 49 Reg. Cod. nav.
Detti provvedimenti sono atti normativi (art. 14 D.P.R. 24.11.71, n° 1199), di natura formalmente amministrativa, emanati da Organi del potere esecutivo, aventi forza normativa in quanto ditetti ad innovare nell'ordinamento giuridico. Rientrano fra gli atti/provvedimenti tipici di alcune Amministrazioni, con i quali le stesse disciplinano le attività estrinsecatesi nei settori in cui dette Pubbliche Amministrazioni operano.
Gli stessi sono quindi espressioni di una potestà regolamentare (=amministrativa) attribuita all’Amministrazione, attraverso i quali vengono disciplinati in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolamentazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativi rispetto all’ordinamento giuridico esistente, a mezzo di precetti aventi carattere di generalità ed astrattezza[1].
Il potere regolamentare dell’Autorità Marittima discende dagli articoli 30, 62 e 81 Cod. nav., e segnatamente dall’esercizio della disciplina sulle attività che si svolgono nei porti, negli approdi e delle altre zone marittime della circoscrizione, per tutto ciò che attiene la sicurezza e la polizia delle strutture medesime (quindi anche in materia di circolazione stradale in ambito portuale).
I Regolamenti sono soggetti alla formalità della "pubblicazione" all’Albo dell’Autorità Marittima che li ha emanati (art. 59 Reg. Cod. nav.).
[1] Cass. Civ. a SS. UU. - Sent. n° 10124 del 28.11.94 e n°1 972 del 22.02.2000.
► Le «Autorizzazioni» consistono in provvedimenti amministrativi attraverso i quali si rimuove un limite all’attività esercitabile dal privato. Hanno quindi natura personale, sono necessariamente limitate nel tempo e sono soggette a decadenza.
Nella specie delle Autorizzazioni di Polizia costituiscono un particolare genus , risolventesi nella fattispecie quali atti di Polizia Portuale, intesi ad evitare che alcune manifestazioni dell’attività umana possano turbare l’ordinato e sicuro svolgimento delle attività portuali
Costituiscono, altresì, "Autorizzazioni di polizia", ad esempio:
- le “Licenze” (art. 8 Reg. Cod. nav. - Concessioni demaniali marittime) ;
- le “Approvazioni” (art.9, comma 2 Reg. Cod. nav. - concessioni ultraquadriennali);
- le “Iscrizioni” in appositi Registri (iscrizione art. 68 per esercitare attività demaniali).
Per analogia possono individuarsi quelle di cui all’art. 14 T.U.L.P.S. (che prevedono tuttavia l’esecuzione d’ufficio a mezzo della Forza Pubblica): licenze, iscrizioni in appositi registri, approvazioni, trasferiti in parte agli Enti Locali giusta art. 19 del D.P.R. 24.07.77, n° 616.
► Gli «Ordini di polizia» sono provvedimenti, emanati nell’ambito delle potestà di polizia, mediante i quali l’Autorità Marittima limita la sfera di libertà del singolo imponendogli un preciso dovere di condotta attraverso un comando o tramite un decreto (rispettivamente se trattasi di obblighi di facere (comandi) (vedi ad es. art. 192 C.d.S.) o di non facere (divieti) (vedi art. 212 C.d.S., e Cod. nav. artt. 50, 52, 65, comma 1, 66, 68, 77, casi specifici sono l’ordine di rimozione ex art. 73 e quello di cui all’art. 81).
La particolarità di detti atti amministrativi consiste nel fatto che gli stessi sono rivolti a destinatari già individuati, o comunque preventivamente determinabili in base a circostanze di fatto.
Ciò necessariamente comporta l’onere della notifica degli stessi, sia pure senza particolari forme ad substantiam come invece richiesto per altri atti o provvedimenti amministrativi; deve comunque essere impartito in forma scritta, deve essere adeguatamente motivato, deve comprendere il relativo termine di esecuzione dello stesso, e deve infine specificare le sanzioni previste a carico del soggetto inadempiente, fatte salve le situazioni di urgenza connesse con esigenze di sicurezza portuale e della navigazione (art. 63 Cod. nav. in materia di manovre di emergenza).
Costituiscono “Ordini di Polizia”, ad esempio:
Le sanzioni, corrispondenti all’art. 650 c.p., possono trovarsi negli art. 1164, 1174, 1231 Cod. nav., e nella parte sanzionatoria del Codice della Strada.
Una specie particolare di Ordini sono le «Segnalazioni»: trattasi di ordini impartiti anche in forma orale dall’Agente, concretizzandosi quindi in un atto amministrativo posto in essere mediante segnali.
L’attività di "polizia marittima" in corso di navigazione è disciplinata dal Capo III del Codice della Navigazione, e segnatamente dagli artt. 200 (Polizia esercitata dalle Navi da Guerra); 201 (Inchiesta di Bandiera) e 202 (Cattura di nave sospetta di tratta di schiavi).
A tali tradizionali disposizioni, dettate dal Codice del 1942, se ne aggiungono altre più recenti e più specifiche, connesse alla repressione di particolari e specifiche tipologie di illecito, quali il T.U. sugli «stupefacenti» (D.P.R. 309/90) ed il T.U. sulla «immigrazione clandestina» (D.lgs. 286/98).
Dette attività di polizia marittima, ognuna delle quali disciplinata da specifica norma, coinvolgono quindi direttamente anche le Unità del Corpo delle Capitanerie di porto qualora impegnate in specifiche attività ed azioni di polizia esercitate in "alto mare", quali:
[1] Vedasi anche L. 979/81 – Corte Appello Palermo n° 274 del 25.01.07 – Cass. Pen. – Sez. III^ - Sent. n° 31403 del 21.09.06 e n°12326 del 13.12.88
Ponte tra l'Europa e il sud del Mediterraneo, il nostro Paese è spesso una tappa obbligata per coloro che desiderano emigrare nell'Occidente più ricco e sviluppato, alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Ma l'Italia non è solo terra d'immigrazione. Essa ha conosciuto anche un lungo passato di emigrazione. Secondo i dati del ministero degli Affari Esteri, nell'arco di circa cento anni, dal 1876 al 1986, oltre 26 milioni di italiani hanno lasciato la propria terra per recarsi in altri Paesi. Due i momenti storici interessati in modo particolare all'esodo: l'epoca post-unitaria e il secondo dopoguerra.
I primi grandi flussi migratori si sono verificati infatti tra il 1875 e il 1900, ed hanno interessato inizialmente il Piemonte, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia, e solo in un secondo momento anche le regioni del meridione, Sicilia e Campania prime fra tutte. Tra le destinazioni principali le terre d'America e alcuni paesi europei e, solo in misura minore, anche l'Australia e l'Africa.
In seguito all'avvento della prima guerra mondiale, l'esodo di migranti italiani ha subito una fase di arresto ed è ripreso in modo significativo solo al termine della seconda guerra mondiale, diretto soprattutto verso l'Argentina, il Canada e il Venezuela.
Fra la metà degli anni cinquanta e gli anni settanta, il flusso è cresciuto notevolmente grazie ad accordi bilaterali tra il nostro Governo e alcuni Stati europei ed extraeuropei, e il numero di chi ha deciso di lasciare il nostro Paese arriva, tra il 1945 e il 1965, a quasi 6 milioni.
In questa fase, gli italiani che emigrano sono prevalentemente di origine meridionale e sono diretti soprattutto verso Paesi europei come il Belgio, la Svizzera o la Germania, che conoscono uno sviluppo più rapido del nostro e presentano una maggior offerta lavorativa nell'industria pesante, nelle miniere e nel settore edilizio.
Negli stessi anni, in seguito al boom economico, crescono anche le migrazioni interne di chi dalle regioni del Sud raggiunge le aree più industrializzate del Nord. Tra il 1951 e il 1974, sono più di 4 milioni i meridionali che emigrano verso il centro e il nord d'Italia, e di questi la maggioranza si stabilisce nel cosiddetto triangolo industriale: Torino, Milano, Genova.
Sul finire degli anni settanta lo scenario muta ancora, e da paese di emigranti l'Italia diventa "terra d'immigrazione". Verso le sue frontiere e le sue coste cominciano a dirigersi migliaia di persone provenienti prima dai Balcani, poi dal Sud del Mediterraneo e infine dall'Europa orientale. In questo periodo, l'immigrazione straniera si affianca all'emigrazione italiana, cominciando a catturare l'attenzione dell'opinione pubblica.
Nel corso degli anni settanta e ottanta, i flussi in ingresso nel Paese sono ancora di entità modesta. Si tratta in prevalenza di donne che dall'America Latina, dalle Filippine e dai paesi del Corno d'Africa vengono in Italia per lavorare come domestiche, e di braccianti, per la maggior parte provenienti dalla Tunisia, che lavorano stagionalmente in Sicilia.
Solo all'inizio degli anni novanta i flussi divengono più intensi e si trasformano in vere e proprie "ondate" migratorie. Mete principali sono soprattutto le coste delle regioni meridionali. Inizialmente è l'Albania il principale paese di origine del flusso migratorio, che si riversa sulle coste pugliesi attraverso il canale di Otranto. Ad esso, si affiancherà presto l'esodo dei profughi dall'ex Jugoslavia, che giungono in Italia attraverso i confini di terra a loro più vicini.
Successivamente, altri flussi più intensi provenienti dall'Africa mediterranea e sub-sahariana, diretti verso le coste siciliane, sostituiranno le migrazioni dalla regione balcanica. Ma queste non cesseranno mai del tutto e riprenderanno con forte intensità nel 1997, in coincidenza col dissesto economico e finanziario dell'Albania, e nel 1999 in occasione della guerra in Kosovo.
L'accresciuta collaborazione con l'Italia da parte delle Autorità di alcuni paesi di origine e di transito dei flussi migratori (in particolare Sri Lanka, Albania, Turchia ed Egitto), ha drasticamente ridimensionato il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare. Sono stati azzerati i flussi provenienti dall’Albania e dalla Turchia, diretti rispettivamente in Puglia e Calabria, ed il fenomeno interessa ormai unicamente Lampedusa e le coste siciliane.
Negli ultimi venti anni, la legislazione italiana ha cercato più volte di regolamentare il fenomeno dell'immigrazione e di affrontare le problematiche ad esso connesse.
Sono state così approvate diverse "leggi in materia", ma solo recentemente questo corpo di norme è stato armonizzato attraverso un testo che riordina tutta la normativa precedente, il "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", poi modificato dalla "Legge 30 luglio 2002, n. 189 [72]", meglio nota come legge Bossi-Fini.
Normativa italiana
Negli ultimi venti anni, la "legislazione italiana" ha cercato più volte di regolamentare il fenomeno dell'immigrazione e di affrontare le problematiche ad esso connesse. Sono state così approvate diverse leggi in materia, ma solo recentemente questo corpo di norme è stato armonizzato attraverso un testo che riordina tutta la normativa precedente, il "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", poi modificato dalla "Legge 30 luglio 2002, n. 189 [72]", meglio nota come legge «Bossi-Fini».
A partire dagli anni settanta è iniziata una graduale trasformazione del nostro Paese da terra di emigrazione a terra di immigrazione, verso cui si dirigono flussi sempre più intensi di immigrati. La legislazione italiana ha cercato di fronteggiare questo fenomeno, mettendo a punto una serie di interventi normativi che sono stati raccolti e riordinati solo con l'approvazione del "Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 [60]" (Testo Unico sull'Immigrazione). Obiettivo comune è sempre stato quello di governare le emergenze poste dai flussi migratori, garantendo al tempo stesso adeguate condizioni di vita al cittadino straniero che risiede nel nostro Paese, favorendone l'integrazione e l'inserimento socio-culturale.
I primi interventi in materia d'immigrazione risalgono agli anni ottanta, quando viene approvata la "Legge n. 943 del 1986", che disciplina le condizioni di lavoro dei cittadini stranieri, introducendo le prime forme di tutela e avviando la prima procedura di regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari. Negli stessi anni, aspetti come il soggiorno e le espulsioni sono ancora regolati dal Regio Decreto n. 733 del 1931, relativo alle norme di pubblica sicurezza. Solo a partire dagli anni novanta, di fronte all'intensificarsi del fenomeno migratorio, si cerca di dare maggiore organicità alle norme sull'immigrazione e si adottano misure più incisive.
A questo proposito, due sono le leggi che hanno caratterizzato la normativa sull'immigrazione nel corso degli anni novanta:
Successivamente all'approvazione del Testo Unico sull'Immigrazione, altri dispositivi di legge sono stati adottati in materia. Alcuni di essi hanno semplicemente dato attuazione alle disposizioni contenute nella Legge Bossi-Fini.
Nel settembre del 2002, è entrato in vigore il "Decreto Legge n. 195", poi convertito nella "Legge n. 222 dell'ottobre 2002", che reca "Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari". Questo provvedimento, nato con l'intento di accompagnare la Legge 189 con norme finalizzate all'emersione del lavoro nero, ha consentito di regolarizzare la posizione di tutti i cittadini stranieri che hanno dichiarato, congiuntamente ai datori di lavoro, la loro condizione di occupati irregolari. La procedura prevista non è stata rivolta alla generalità degli immigrati, ma solo ai lavoratori appartenenti alle categorie dei subordinati e dei collaboratori domestici.
Per fronteggiare il «fenomeno dell'immigrazione via mare», è stato emanato il " Decreto 14 luglio 2003 [75]", in cui viene configurata, con precisione, l’attività coordinamento, di vigilanza, prevenzione e contrasto via mare a tale fenomeno da parte dei mezzi aeronavali della Marina militare, delle Forze di Polizia e delle Capitanerie di Porto.
Per quanto riguarda l'anno 2004, sono stati emanati dal Governo i decreti relativi alla programmazione annuale dei flussi di stranieri, che secondo le disposizioni del Testo Unico stabiliscono il numero massimo di ingressi ammessi sul territorio italiano entro il 30 novembre di ogni anno.
Infine, il Dipartimento per la Pubblica Sicurezza del ministero dell'Interno ha emanato una "circolare" rivolta a tutte le Questure e alla Polizia di Frontiera, relativa alle procedure di espatrio per chi è in attesa di rinnovo del permesso di soggiorno. La circolare prevede che nel periodo compreso fra il 1° luglio e il 30 settembre, i cittadini extracomunitari possano lasciare il territorio nazionale, purché attraversino lo stesso valico di frontiera sia all'uscita che al rientro e non transitino per altri Paesi dell'area Schengen. Dovranno inoltre esibire la copia del permesso di soggiorno, la ricevuta della presentazione dell'istanza di rinnovo e un documento di viaggio valido.
Il 10 febbraio 2005 è stato pubblicato il nuovo "Regolamento di attuazione della Legge Bossi–Fini". Si tratta di un Decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334) che reca modifiche e integrazioni al Decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, in materia d’immigrazione.
In ultimo, la "Legge 15 luglio 2009, n. 94 [76]" recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, ha destinato un significativo numero di norme al fenomeno dell’immigrazione, modificando il D.lgs. 286/2009 e introducendo, tra l'altro, nuove ipotesi di reato (si pensi, tra tutte, a quella di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”, di cui all’art. 10 bis del T.U.) e prevedendo pene più severe per molte disposizioni penali già esistenti.
In Europa
In campo europeo, nel 2005, l’Italia ha anche recepito la "Direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003 [77]" recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. Il Decreto legislativo di attuazione della direttiva – Decreto Legislativo 30 maggio 2005, n. 140 [78] - ha lo scopo di stabilire le norme sull'accoglienza degli stranieri richiedenti il riconoscimento dello status di rifugiato nel territorio nazionale, in linea con gli standard europei e con il diritto internazionale dei rifugiati, in particolare la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
Il 9 novembre 2007, invece, il Governo italiano ha emanato i decreti legislativi di recepimento della "Direttiva 2004/83/CE [79]" recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale (c.d. "direttiva qualifiche"), nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta e della "Direttiva 2005/85/CE Del Consiglio" [80] recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (c.d. "direttiva procedure"). I due decreti modificano in maniera sostanziale le normative sull’asilo, abolendo, ad esempio, il trattenimento dei richiedenti asilo ed introducendo l’effetto sospensivo del ricorso contro il diniego della domanda d’asilo e la possibilità, anche per coloro cui è stata concessa una protezione umanitaria, di ottenere il ricongiungimento familiare.
Con la Legge 30 dicembre 1986 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine) viene disciplinato il "fenomeno dell’immigrazione straniera", anche in attuazione della convenzione internazionale dell’Organizzazione internazionale del lavoro del 24 giugno 1975, n. 143, ratificata con la legge 10 aprile 1981, n. 158.
La Legge n. 943/1986 contiene, quanto meno a livello di enunciazione di principio, i fondamentali elementi di garanzia per i lavoratori extracomunitari: all’articolo 1 si legge, infatti, che la Repubblica italiana garantisce i diritti relativi all’uso dei servizi sociali e sanitari, al mantenimento dell’identità culturale, alla scuola e alla disponibilità dell’abitazione, vengono istituite apposite commissioni presso il Ministero del Lavoro e della previdenza sociale e presso il Ministero degli Affari Esteri sia per quanto attiene le possibilità occupazionali che per quanto attiene ai flussi migratori. L’articolo 4 poi già prevede il diritto al ricongiungimento con il coniuge e i figli minori.
Peraltro, la disciplina, contenuta nel Titolo II della legge riguardante la programmazione dell’occupazione dei lavoratori subordinati extracomunitari, non appare concretamente volta a controllare i flussi migratori in stretta correlazione con le possibilità occupazionali. Infatti tale controllo è rimesso alla disciplina delle procedure per l’accesso all’occupazione: si prevede che l’ingresso in Italia per motivi di lavoro di extracomunitari è ammesso solo se lo straniero sia in possesso del "visto" rilasciato dall’Autorità consolare sulla base dell’autorizzazione al lavoro concessa dal competente ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione.
Come si vede il complesso normativo non prevede una vera e propria programmazione, bensì disciplina gli accessi, caso per caso, in relazione alle disponibilità occupazionali di volta in volta manifestatesi; le quali tra l’altro, sono subordinate al previo accertamento di indisponibilità di lavoratori italiani e comunitari aventi qualifiche professionali per le quali è stata richiesta l’autorizzazione.
La normativa del 1986 è piena di buoni propositi per garantire al lavoratore extracomunitario una piena parità di trattamento con quello nazionale (escluso evidentemente l’accesso al lavoro), nonché condizioni di vita idonee a un inserimento nella società, prevedendo riconoscimento di titoli professionali, corsi di lingua, programmi culturali, corsi di formazione e inserimento al lavoro).
Non è prevista una disciplina specifica dell’espulsione che viene invece genericamente rimessa ai principi di pubblica sicurezza.
Peraltro, con la Legge 943/1986, s’inaugura la serie delle regolarizzazioni a sanatoria, che esclude ogni forma di punibilità per illeciti pregressi a fronte della positiva volontà degli interessati, sia lavoratori che datori di lavoro, tesa a consentire l’emersione del fenomeno immigratorio clandestino.
Alla fine degli anni '80 il Governo italiano si rende conto in maniera più precisa dell’entità del fenomeno immigratorio, e cerca di dettare una disciplina più ampia della precedente, nel tentativo di ricomprendere in un corpus unitario la regolamentazione del fenomeno immigratorio extracomunitario.
La nota Legge 28 febbraio 1990, n. 39, cd. Martelli, si presenta formalmente come provvedimento in materia di rifugiati e profughi, argomento principale del testo di legge disciplinando sia il riconoscimento dello "status di rifugiato" che "l’ingresso" in Italia di cittadini extracomunitari per qualsiasi ragione, non limitatamente cioè ai motivi occupazionali: è previsto che detti cittadini possono entrare in Italia per motivi di turismo, studio, lavoro subordinato o autonomo, cura, familiari e di culto.
Il tentativo di un’effettiva programmazione dei flussi migratori per ragioni di lavoro si fa più serio – almeno nella disciplina legislativa – prevedendosi allo scopo decreti interministeriali a cadenza annuale che tengano conto sia dell’economia nazionale, che delle concrete disponibilità finanziarie e delle strutture amministrative volte ad assicurare adeguata accoglienza, che delle richieste di soggiorno per lavoro di cittadini extracomunitari già presenti sul territorio nazionale per altri motivi, e di quelli già iscritti nelle liste di collocamento.
La legge Martelli prevede due tipi di “filtro” per l’accesso in Italia di extracomunitari: il primo direttamente alla "frontiera", ove andrà valutata la regolarità dei documenti e l’insussistenza di cause ostative. Il secondo presso la "Questura" del luogo di dimora, ove l’Autorità valuterà se rilasciare il "permesso di soggiorno", in relazione ai motivi dell’ingresso in Italia, stabilendone anche la durata (ove non espressamente prevista dalla legge).
La legge 39/1990 comunque appare particolarmente significativa per avere introdotto nell’ordinamento la specifica procedura dell’espulsione del cittadino extracomunitario, disciplinando con una certa precisione le varie ipotesi e rimedi giurisdizionali; invero norme sul soggiorno e sull’espulsione degli stranieri erano già previste nella legislazione italiana (articoli 142 e seguenti del testo unico delle norme di pubblica sicurezza approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 e relative disposizioni di attuazione). Si trattava, tuttavia, di disciplina a carattere generale e non molto puntuale, abrogata dalla legge Martelli (articolo 13) anche a motivo del fatto che essa non poteva comunque più valere per i cittadini comunitari.
Nemmeno la legge 39/1990 è poi sfuggita alla logica della “sanatoria”, alla quale anzi è stato conferito particolare rilievo e interesse, disponendo modalità tese ad assicurare la più ampia diffusione per la conoscenza dei sistemi di regolarizzazione previsti dalla legge stessa.
Per quanto riguarda la lotta all’immigrazione clandestina, la legge Martelli introduce per la prima volta pene detentive e pecuniarie, aggravate dalla circostanza del concorso per delinquere. Pene lievi, se si considerano quelle attualmente in vigore: la reclusione fino a due anni o una multa fino a 516 €, aumentati a sei anni più una multa da 5.164 a 25.822 € in caso di concorso o lucro.
La legge Martelli fissa inoltre i parametri iniziali del meccanismo generalizzato dell’espulsione quale mezzo di controllo degli immigrati socialmente pericolosi o clandestini, mediante provvedimento del Prefetto disposto con decreto motivato. Esso si sostanzia nella intimazione ad abbandonare il territorio dello Stato entro il termine di quindici giorni, con l’accompagnamento alla frontiera solo in caso di violazione. La permanenza dello straniero sul territorio italiano viene subordinata al rilascio di un "permesso di soggiorno" da parte della Questura o del Commissariato di Pubblica sicurezza territorialmente competente, che indica il motivo della permanenza, dal quale dipende la durata del permesso, che va da un minimo di tre mesi a un massimo di due anni.
In materia di lavoro, la legge Martelli sembra più tesa a sanare la situazione pregressa che non a tracciare un quadro organico per il futuro, sostanziandosi con una moratoria atta a sanare le irregolarità a cui erano spesso sottoposti i lavoratori stranieri, per necessità più inclini a lavorare "in nero" e a salari più bassi.
Nonostante il poco respiro della normativa nel suo complesso, la legge Martelli ha comunque impostato la lenta e iniziale stabilizzazione dei migranti, attraverso i primi interventi volti all’integrazione e alla partecipazione alla vita pubblica.
Il rapido evolversi del fenomeno, conseguenza del mutamento degli assetti internazionali, ha tuttavia evidenziato nel giro di pochi anni l’inadeguatezza del testo in vigore, inducendo il parlamento all’emanazione di una normativa più esaustiva, la Legge 40/1998 c.d. Turco-Napolitano, confluita successivamente nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero (D.L. 286/1998). È questo l’assetto su cui l’intervento legislativo più recente, la Legge 189/2002 c.d. Bossi-Fini, è andato a incidere, in senso vessatorio e punitivo.
Nonostante la Bossi-Fini costituisca formalmente solo una modifica al Testo unico, che riprendeva l’impianto della Turco-Napolitano, essa vi introduce significative modifiche, da un lato rendendo più difficoltoso l’ingresso e il soggiorno regolare dello straniero e agevolandone l’allontanamento, dall’altro riformando in senso restrittivo la disciplina dell’asilo. Il meccanismo fondamentale di controllo dell’immigrazione rimane la politica dei flussi, quantificata annualmente dal governo mediante un decreto che fissa il numero di stranieri che possono fare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Chiaro l’intento, peraltro ereditato dalla normativa precedente, di controllare il fenomeno attraverso la limitazione numerica degli ingressi imposta dall’autorità.
A cadenza quinquennale, quasi regolare, interviene il Decreto legge 18 novembre 1995, n. 489 (Disposizioni urgenti in materia di politica dell'immigrazione e per la regolamentazione dell'ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei cittadini dei paesi non appartenenti all'unione europea) che tenta di riconsiderare la materia alla luce delle esperienze maturate, ma che s’innesta sul corpus più completo della legge Martelli, disciplinando aspetti specifici.
In primo luogo i "flussi d’ingresso" per lavori stagionali, che si è dimostrato fenomeno di rilevantissima portata, con la conseguenza però di una stabilizzazione a tempo indeterminato del cittadino extracomunitario sul territorio italiano; alcune particolari fattispecie in materia di ingresso e di soggiorno; e quindi con intervento di più ampia portata, una nuova regolamentazione delle "espulsioni".
Non poteva peraltro mancare una normativa sulle regolamentazioni, che contiene interessanti spunti per quanto attiene alle ipotesi di "ricongiungimento" ai familiari.
Come si può rilevare dall’excursus normativo delineato sin qui, la materia dell’immigrazione presenta molteplici aspetti, che riguardano istituti giuridici appartenenti a diverse discipline: così principalmente quelli prettamente giuslavoristici, relativi all’avviamento al lavoro e alla previdenza e assistenza; quelli penalistici, riguardanti le varie ipotesi di reato che rendono obbligatoria l’espulsione dal territorio nazionale, nonché l’attività di intermediazione di clandestini tale da configurare un loro sfruttamento; e anche aspetti rientranti nella disciplina del diritto amministrativo, per quanto riguarda i permessi di soggiorno, le espulsioni e i riconoscimenti dello status di rifugiato.
E anzi, può dirsi che sotto il profilo della tutela giurisdizionale, il giudice amministrativo risultato progressivamente nel tempo, quello maggiormente investito dalla problematica degli extracomunitari, sia verosimilmente come volume di contenzioso, che comunque come rilevanza delle questioni, avendo con la legge Martelli in particolare, assunto una competenza generale sui provvedimenti di espulsione, che configurano senz’altro il problema più importante per il cittadino non appartenente all’unione europea e residente nello Stato italiano.
Peraltro, sotto tale specifico motivo, il decreto legge rappresenta una certa inversione di tendenza, giacché introduce diverse ipotesi di espulsione di competenza del giudice penale, con conseguente incardinamento del possibile contenzioso nell’ambito della giurisdizione penale; contenzioso che, in relazione alle ipotesi previste di espulsione come misura di sicurezza, come misura di prevenzione ovvero a richiesta di parte, è destinato probabilmente ad assumere entità e rilevanza sempre più ampie.
Con la Legge 6 marzo 1998, n. 40, c.d. Turco-Napolitano (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) poi confluita nel Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico sull’immigrazione) è stato elaborato un provvedimento di più ampia portata rispetto a quelli assunti e sottoposti nel passato al Parlamento per disciplinare l’immigrazione e insieme, anche se non in modo esaustivo, la "condizione dello straniero".
L’esperienza concreta del periodo più recente – la difficile gestazione, prima, e la mancata conversione poi, del decreto legge del novembre 1995, l’intenso confronto parlamentare sul disegno di legge di salvaguardia degli effetti di quel decreto, e insieme, al di là delle vicende legislative, gli sviluppi reali del fenomeno – avevano d’altronde messo in piena evidenza l’insufficienza e la non riproponibilità di provvedimenti parziali e di emergenza e di ricorrenti sanatorie, la necessità di definire ormai un quadro normativo certo, generale e unitario.
Nel titolo I sono previste le disposizioni generali e di principio che definiscono l’ambito di applicazione della legge (art. 1), il trattamento dello straniero (art. 2), nonché uno strumento di programmazione dei flussi, alla base del sistema di governo del fenomeno dell’immigrazione che si propone (art. 3).
Quanto all’articolo 1, si segnala oltre alla definizione dei destinatari della legge, il richiamo alle norme comunitarie e internazionali più favorevoli agli stranieri comunque vigenti nel territorio dello stato e la qualificazione delle norme della legge, come principi fondamentali, ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione, al fine di indirizzare l’esercizio delle competenze legislative regionali.
Relativamente all’articolo 2, va precisato che i diritti fondamentali della persona umana sono riconosciuti indiscriminatamente, nel territorio dello stato, compresa la linea di frontiera, a tutti gli stranieri, indipendentemente dalla regolarità o meno dell’ingresso o del soggiorno.
Non c’è dubbio che fra i diritti fondamentali vanno considerati quelli relativi alla garanzia giurisdizionale in ordine ai provvedimenti che concernono i destinatari della presente legge.
E’ invece agli stranieri regolarmente soggiornanti che si assicura pienezza di diritti in materia civile nell’ambito della disciplina della legge e delle convenzioni internazionali, fino a configurare uno status particolare, comprendente la facoltà di partecipare alla vita pubblica a livello locale, per gli stranieri in possesso della “carta di soggiorno” disciplinata dall’articolo 7.
L’articolo 3 realizza un nuovo strumento di governo del fenomeno migratorio, costituito da un documento programmatico triennale per la politica dell’immigrazione, che il Presidente del Consiglio sottopone all’approvazione del Consiglio dei Ministri e presenta al Parlamento, e da uno o più decreti che definiscono annualmente, o per il più breve periodo relativo al lavoro stagionale, le quote degli immigrati per i quali è ammesso l'ingresso.
Il documento programmatico indica inoltre le azioni e gli interventi che lo Stato italiano si propone di attuare anche in cooperazione con altri paesi europei, con le organizzazioni internazionali, con le istituzioni comunitarie, e con le organizzazioni non governative.
Si prevede inoltre un ruolo attivo delle regioni, delle province e dei comuni e di altri enti locali, che concorrono alle iniziative volte a favorire l’integrazione e l’inserimento degli stranieri nel tessuto sociale. A tal fine sono stati istituiti, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per l’immigrazione, i Consigli territoriali per l’immigrazione, in cui sono principalmente rappresentati gli Enti locali, per il coordinamento e la promozione degli interventi da attuare a livello locale.
Il titolo II concerne l’ingresso, il soggiorno, il respingimento e le espulsioni.
Oltre alle norme sui visti (art. 4) e sugli ordinari controlli alla frontiera, sono precisate le modalità del rilascio del permesso di soggiorno (art. 5) con riferimento ai diversi motivi dell’ingresso e del soggiorno nel territorio dello stato (affari, turismo, lavoro stagionale, visite, studio e formazione, lavoro autonomo, lavoro subordinato, motivi familiari, ecc.). A questo proposito, il comma 1 dell’articolo 6 disciplina la facoltà di “conversione“ del titolo di soggiorno anche per gli studenti, riportandolo nell’ambito di quelle quote che costituiscono uno degli strumenti più innovativi e rilevanti della legge. Le altre disposizioni dell’articolo 6 riprendono, invece, la disciplina tradizionale dei controlli in materia di soggiorno.
E’ di rilievo, come si è detto, l’articolo 7 che disciplina il rilascio della “carta di soggiorno”, un titolo permanente, ancorché il documento comprovante possa avere durata periodica come gli altri documenti abilitativi e di riconoscimento, di cui potrà fruire lo straniero regolarmente soggiornante in Italia da almeno sei anni, purché immune da pregiudizi penali di rilievo o da provvedimenti di prevenzione di maggiore gravità. La “carta di soggiorno” consentirà allo straniero lo svolgimento di ogni attività lecita (con eccezione di quelle riservate al cittadino italiano), l’accesso ai servizi erogati dalla pubblica amministrazione e il diritto di elettorato attivo e passivo nelle lezioni comunali e circoscrizionali, secondo la particolare disciplina dell’articolo 38. La carta di soggiorno costituisce pertanto uno strumento essenziale per consolidare il percorso di cittadinanza prefigurato dalla nuova normativa.
Proprio in considerazione di ciò, la revoca della carta di soggiorno come l’espulsione nei confronti di coloro che ne sono in possesso può avvenire solo per gravi motivi.
Il capo II del Titolo II è integralmente dedicato alla materia del respingimento e delle espulsioni. In questa parte della legge trova espressione l’intento di rendere efficace la disciplina delle espulsioni prevedendosi, al contempo, la massima garanzia di controllo giurisdizionale.
L’articolo 8 prevede, in particolare, l’adozione del respingimento, oltre che sulla linea di frontiera, anche nei confronti di chi sia colto subito dopo l’ingresso in Italia in luoghi diversi dai valichi autorizzati e di coloro che siano ammessi nel territorio per interventi di pronto soccorso e assistenza. In tale eventualità trova applicazione il successivo articolo 12 concernente i centri di permanenza e di assistenza
Per quanto l’articolo 8 non ne faccia menzione, la ricorribilità dei provvedimenti di respingimento è assicurata dalla disciplina generale in materia di provvedimenti amministrativi, mentre il trattenimento nei centri è disciplinato nel ricordato articolo 12.
Gli articoli 9 e 10 intendono potenziare l’azione di contrasto delle immigrazioni clandestine, sia attraverso più incisive misure di controllo e di coordinamento, sia attraverso norme sanzionatorie più severe e articolate sul piano penale o amministrativo. Relativamente alla sanzione penale nei confronti di chi favorisce l’immigrazione clandestina e il traffico illecito di mano d’opera, va precisato che la norma (art. 10) non intende colpire in alcun modo l’intervento umanitario nei confronti di chi abbia varcato, sia pure illecitamente la linea di frontiera.
Con l’articolo 11 si disciplinano le espulsioni amministrative, ridotte a due ipotesi: la prima concerne l’espulsione disposta dal Ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato; la seconda è quella disposta dal Prefetto nei confronti del clandestino che è entrato nel territorio dello stato sottraendosi ai controlli di frontiera, ovvero nei confronti dell’irregolare che non abbia ottemperato agli obblighi previsti per il rinnovo del permesso di soggiorno, ovvero ancora nei confronti degli stranieri pericolosi per la sicurezza pubblica, secondo i tradizionali parametri stabiliti dalle norme vigenti per l’applicazione di una misura di prevenzione.
Anche in ottemperanza al Protocollo 7 aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 9 Aprile 1990, n° 98), l’espulsione è eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera in casi limitati (espulsione per motivi di ordine pubblico e sicurezza nazionale, espulsioni già disposte e rimaste indebitamente ineseguite, una volta esauriti i rimedi giurisdizionali), ovvero quando ricorrono circostanze obbiettive che fanno ritenere concreto il pericolo che l’interessato si sottragga al provvedimento.
Negli altri casi, l’espulsione è adottata mediante intimazione a lasciare il territorio nazionale entro 15 giorni.
Nelle ipotesi in cui lo straniero clandestino sia colto in fragranza di reato, si prevedono opportune forme di raccordo per assicurare sia l’effettività dell’espulsione, sia la garanzia del diritto di difesa dell’imputato, che può chiedere l’autorizzazione al rientro nel territorio dello stato al fine di partecipare al processo penale a suo carico.
In tutti i casi è assicurata la possibilità di ricorrere al giudice, con diritto al patrocinio gratuito dei non abbienti.
Trattandosi di misure amministrative, di per sé estranee al fatto reato si è ritenuto di attribuire la competenza al Tribunale civile, con un procedimento rapidissimo, destinato ad esaurirsi in quindici giorni, salvo ulteriore ricorso per Cassazione e senza escludere eventuali provvedimenti cautelari (la cosiddetta “sospensiva”).
La scelta a favore del giudice ordinario civile, quale autorità giurisdizionale competente a decidere sul ricorso contro l’espulsione, oltre che della legittimità della misura di cui all’articolo 12, risponde a criteri funzionali e sistematici. Sotto il primo profilo si osserva che solo il giudice ordinario, per struttura ed organizzazione diffuse sul territorio appare in grado di operare entro i termini brevi previsti dalla legge (48 ore per la convalida del provvedimento di trattenimento di cui all’art. 12, e 10 giorni per la decisione sul ricorso contro l’espulsione). In secondo luogo si osserva che la rigida ripartizione delle competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in presenza di ricorsi contro provvedimenti della pubblica amministrazione, appare più volte derogata da varie disposizioni (esempio, il ricorso al Tribunale avverso le sanzioni amministrative), e pertanto, la scelta operata a causa delle suddette ragioni funzionali, non trova particolari ostacoli dal punto di vista sistematico.
Solo nel caso di espulsione disposta dal Ministro dell’interno, per motivi di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, si è ritenuto di mantenere la tradizionale competenza del giudice amministrativo, trattandosi di provvedimenti a contenuto altamente discrezionale.
Per quanto specificamente riguarda la misura prevista dall’articolo 12, tendente ad assicurare l’effettività delle espulsioni disposte con accompagnamento alla frontiera e dei respingimenti, si prevede il trattenimento dell’interessato in appositi Centri.
La misura può essere disposta, nei casi tassativamente indicati dalla legge, quando è impossibile procedere con la necessaria immediatezza all’esecuzione dell’espulsione o del respingimento: in particolare, quando sia necessario procedere ad accertamenti supplementari o all’acquisizione di documenti e visti, ovvero quando debba predisporsi un vettore o un mezzo di trasporto non immediatamente disponibile.
I centri di permanenza ed assistenza temporanea a tal fine previsti, gestiti a cura dell’Amministrazione dell’interno, sono comunque estranei al circuito penitenziario, tant’è che è assicurata, oltre all’assistenza, anche la libertà di comunicazione con l’esterno, mentre l’azione di polizia – esterna ai centri – è esclusivamente finalizzata ad impedire eventuali tentativi di elusione della misura.
Nel rispetto del disposto dell’art. 13 della Costituzione, il provvedimento del questore che dispone il trattenimento deve essere trasmesso entro 48 ore al Tribunale e convalidato nelle 48 ore successive, sentito l’interessato. E’ favorita la contemporanea trattazione, nel merito, dell’eventuale ricorso contro il provvedimento di espulsione. La misura del trattenimento può avere durata massima di venti giorni ed è prorogabile per ulteriori dieci giorni qualora sia imminente l’eliminazione dell’impedimento all’espulsione o al respingimento. Trascorso tale termine il provvedimento perde efficacia.
La misura suddetta costituisce una novità per l’ordinamento italiano, ma trova un comune denominatore nella quasi totalità dei paesi europei ed un fondamento autorevolissimo - peraltro sorretto dall’articolo 10, primo e secondo comma, della Costituzione - nell’articolo 5, comma 1 lettera f) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. Tale norma, infatti, contempla la possibilità di misure custodiali provvisorie preordinate all’esecuzione del provvedimento di espulsione.
Con gli articoli 13 e 14, infine, sono disciplinate le espulsioni disposte dall’autorità giudiziaria: sia a titolo di misura di sicurezza – nel caso di rinvio a giudizio o di condanna per uno dei gravi reati previsti dagli artt. 380 e 381 del codice di procedura penale – sia nell’ipotesi di sostituzione della misura dell’espulsione alla detenzione, in caso di patteggiamento della pena ovvero di condanna per un reato non colposo punito entro il limite di due anni.
Al capo III sono introdotte per la prima volta, dopo la breve esperienza del decreto legge n. 477 del 13 settembre 1996, norme volte alla tutela delle vittime del traffico di clandestini, in modo particolare per sfruttamento sessuale. Tutti gli stranieri, donne, uomini e minori, che intendono sottrarsi alle condizioni di sfruttamento nelle quali sono costretti a vivere, non incorreranno nell’espulsione, ma potranno usufruire del permesso di soggiorno e partecipare a un programma di assistenza ed integrazione sociale. Si intende con questa norma aiutare le vittime e proteggerle da ritorsioni da parte dei loro sfruttatori, anche valorizzando le loro denunce in un quadro di più forte azione di contrasto alle organizzazioni criminali che sono all’origine di questi fenomeni.
Completano le norme contenute nel capo II le disposizioni a carattere umanitario che vietano l’espulsione nei confronti di particolari soggetti (es. minori, possessori di carta di soggiorno, donne in stato di gravidanza), e quelle che prevedono speciali misure di protezione temporanea (art. 18) per eventi eccezionali quali disastri naturali, conflitti armati e simili situazioni di grave pericolo.
Il titolo III riguarda la disciplina del lavoro che integra ed innova profondamente la legge n° 943 del 1986. Nell’ambito di questo titolo sono definite le modalità di ingresso in Italia per lavoro, sulla base delle quote di ingresso determinate nei decreti di cui all’art. 3, conseguenti al documento programmatico del Governo ivi previsto.
Gli ingressi in Italia per lavoro potranno avvenire dietro chiamata nominativa del datore di lavoro, con il tradizionale sistema della preventiva autorizzazione degli Uffici del lavoro, attraverso liste di prenotazione predisposte nel paese di origine e trasferite in Italia a cura delle autorità diplomatiche e consolari italiane, ovvero attraverso la garanzia di soggetti, individuali o collettivi, operanti in Italia.
L’articolo 21, infatti, prevede, che cittadini italiani o stranieri regolarmente residenti in Italia, enti o associazioni del volontariato, rispondenti ai criteri di idoneità da definirsi con le norme di attuazione, possano nell’ambito delle quote definite a norma dell’articolo 3, prestare idonee garanzie, cui si accompagna l’obbligo di provvedere all’alloggio ed ai mezzi di sostentamento necessari per lo straniero, per consentire a quest’ultimo di fare regolare ingresso in Italia per cercare lavoro, realizzando così la condizione occorrente per un positivo incontro fra domanda e offerta di lavoro. Inoltre viene regolamentato in via generale e permanente l’ingresso per lavori a tempo determinato e stagionale (art. 22), riconoscendo la priorità di reingresso a coloro che avranno fatto rientro nel paese di origine nei termini fissati nel permesso di soggiorno.
Per quanto concerne il lavoro autonomo (art. 24) si prevede che, per l’esercizio delle attività industriali, artigianali e commerciali, lo straniero che intenda stabilirsi in Italia debba fornire adeguate garanzie circa le risorse personali, quelle da impiegare nell’attività prescelta e circa la sua capacità imprenditoriale. E’ comunque necessario un attestato di disponibilità delle autorità amministrative competenti al rilascio delle autorizzazioni o licenze eventualmente necessarie. Nel caso di attività ambulanti competente è il comune.
Il titolo IV disciplina il diritto all’unità familiare e la tutela del minore. La materia dei ricongiungimenti familiari è stata rielaborata sotto la denominazione di “Diritto all’unità familiare e tutela dei minori”, tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 28/95, che ha aperto la strada alla configurazione del ricongiungimento familiare come diritto soggettivo.
Accanto ad alcune norme di principio (art. 26), il diritto a mantenere o a riacquistare le proprie relazioni familiari è tutelato in maniera piena a favore degli stranieri regolarmente soggiornanti per un periodo congruo, per lavoro autonomo, per studio, per motivi familiari, per residenza elettiva, o per asilo umanitario. La regola generale è che qualora la persona straniera soggiornante in Italia chieda l’ingresso dei familiari, questi hanno diritto al rilascio del visto di ingresso e di un permesso di soggiorno di durata equivalente. L’effettivo esercizio del diritto al ricongiungimento familiare è tuttavia condizionato alla disponibilità di un alloggio e di un reddito la cui entità è stabilita in misura crescente in rapporto al numero dei familiari da ricongiungere (art. 27).
E’ di particolare rilievo la norma (art. 27 comma 4 e 5) che prevede anche l’ingresso al seguito dei familiari, purché concorrano tutti i requisiti per il ricongiungimento.
La condizione giuridica del minore straniero è particolarmente tutelata (art. 29); essa segue quella del genitore convivente o la più favorevole fra quella dei genitori conviventi. Il minore è iscritto nel permesso di soggiorno del genitore fino a 14 anni. Successivamente può essergli rilasciato un permesso autonomo fino al compimento della maggiore età.
Particolarmente avanzata, nella tutela dei fanciulli, è la disposizione dell’articolo 29, comma 3, che prevede il rilascio del permesso di soggiorno, da parte del Tribunale per i minorenni, a favore di un familiare del fanciullo in difficoltà, quando assolutamente necessario per l’integrità psico-fisica del minore.
Il titolo V disciplina gli aspetti più rilevanti nella definizione di una condizione di godimento dei cosiddetti “diritti civili” o “diritti di cittadinanza per lo straniero presente in territorio italiano".
Il capo I, in materia di assistenza sanitaria, prevede l’equiparazione, ai fini assistenziali e contributivi, dei lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti, ai cittadini italiani che si trovano nella medesima condizione. Tuttavia, anche ai non iscritti al servizio sanitario nazionale e agli stranieri in posizione irregolare viene garantito il diritto alle cure urgenti ospedaliere per malattie, infortuni e maternità. Particolare rilevanza è dedicata alla tutela sociale della gravidanza e della maternità (come previsto dalle leggi n. 485/75 e 194/78) e alla tutela della salute del minore, in esecuzione della Convenzione di New York ratificata con legge n. 176/91. Infine sono anche disciplinate le modalità relative al soggiorno e all’ingresso in Italia per cure mediche, per le quali si richiede la dimostrazione di idonea capacità di pagamento delle cure medesime e sono regolamentate le attività professionali sanitarie. Le norme sull’istruzione, contenute nel capo II, prevedono innanzitutto l’estensione dell’obbligo scolastico ai minori stranieri comunque presenti nel territorio nazionale, con il corollario di tutte le disposizioni a garanzia del diritto allo studio. Oltre al coinvolgimento delle regioni e degli enti locali nell’attivazione di corsi per l’apprendimento della lingua italiana, si introducono disposizioni di principio sull’integrazione nelle scuole, sull’educazione alla multiculturalità e si rinvia al regolamento di attuazione (DPR n. 394/99) sulla realizzazione di progetti specifici a livello nazionale o locale per la realizzazione di corsi di formazione del personale della scuola e per il riconoscimento dei titoli di studio rilasciati nei paesi di provenienza.
Quanto all’istruzione universitaria si prevedono norme promozionali di attività di orientamento e di accoglienza nonché la possibilità dell’erogazione di borse di studio e di sussidi agli studenti stranieri da parte delle Università, nell’ambito dell’autonomia loro riconosciuta.
Al capo III, in riferimento all’accoglienza e all’accesso all’abitazione si prevedono sia misure disposte dalle regioni, in cooperazione con le associazioni e le organizzazioni di volontariato, ai fini della predisposizione di centri di accoglienza, sia la possibilità per gli stranieri regolarmente soggiornanti di accedere ad alloggi di edilizia residenziale pubblica, eventualmente ristrutturati con contributi regionali. L’accesso degli stranieri a strutture pubbliche e di alloggio, che non si configura come diritto soggettivo, risponde a una esigenza sociale primaria, anche al fine di prevenire situazioni di emarginazione e di deterioramento del tessuto sociale.
Il capo V introduce nuove disposizioni per l’integrazione economica e sociale degli immigrati, pur nel rispetto delle proprie culture e credo religioso e contro le attività discriminatorie: per quanto riguardale politiche di integrazione, l’art. 39 prevede che lo stato, le regioni, le province e i comuni, in collaborazione con le associazioni di volontariato e con le associazioni degli immigrati, mettano in atto ogni forma di attività volta a ridurre gli ostacoli che lo straniero incontra per una piena integrazione nel tessuto sociale e a preservare contemporaneamente le specificità culturali, linguistiche e religiose di ciascuno.
Al fine di promuovere con la partecipazione dei cittadini stranieri le iniziative idonee oltre le iniziative delle regioni e degli enti locali, si prevede l’istituzione presso il CNEL di un organismo consultivo, aperto alla partecipazione delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni di volontariato, con la funzione di monitorare l’applicazione della legge, presentare proposte per migliorare la condizione degli stranieri nel nostro Paese, favorire la loro partecipazione alla vita pubblica.
Per quanto riguarda le norme sulle discriminazioni razziali, gli articoli 40 e 41 tendono a definire i comportamenti discriminatori per motivi di razza, colore, ascendenza o origine nazionale od etnica, religione e a prevedere un’azione civile per la loro cessazione e per il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, con sanzioni penali nei confronti di chi elude i provvedimenti del giudice, individuato anche in questo caso dal Tribunale.
E’ prevista infine (art. 42) l’istituzione di un Fondo nazionale per le politiche migratorie destinato al finanziamento di programmi annuali o pluriennali dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali.
Pur se i provvedimenti più incisivi in materia di integrazione sociale degli immigrati sono prevalentemente di competenza delle regioni, delle Province e dei Comuni, l’intervento del Fondo è apparso necessario sia per il supporto finanziario occorrente, sia al fine di garantire omogeneità a livello nazionale degli interventi volti alla realizzazione di condizioni di pari opportunità per gli stranieri presenti sul territorio nazionale.
► Il Fondo può essere utilizzato per:
Il titolo VI (art, 43) è rivolto ai cittadini comunitari, con una delega al governo per la definizione unitaria e aggiornata delle disposizioni che li concernono, con particolare riguardo a quelle relative all’ingresso e al soggiorno in Italia e all’eventuale allontanamento.
Il titolo VII, infine, contiene le abrogazioni (art. 44), l’armonizzazione delle disposizioni tuttora vigenti del Testo Unico delle leggi di p.s. e della legge sui lavoratori migranti, nonché la delega per eventuali disposizioni correttive (art. 45) della legge entro due anni dalla sua entrata in vigore. L’articolo 46 contiene, da ultimo, la clausola di copertura finanziaria.
Negli ultimi venti anni, la legislazione italiana ha cercato più volte di regolamentare il fenomeno dell'immigrazione e di affrontare le problematiche ad esso connesse. Sono state così approvate diverse leggi in materia, ma solo recentemente questo corpo di norme è stato armonizzato attraverso un testo che riordina tutta la normativa precedente, il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, poi modificato dalla Legge n. 189 del 30 luglio 2002, meglio nota come legge Bossi-Fini.
Il Decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, è il principale testo di riferimento in materia d'immigrazione. Tale decreto regola la condizione degli stranieri in Italia e riunisce tutte le disposizioni di legge che dagli anni settanta in poi regolamentavano il fenomeno migratorio nel nostro Paese (Legge 40/98, Rd 773/31 Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, Legge 943/86 e Legge 335/95).
Questo decreto, meglio noto come "Testo Unico sull'Immigrazione", corrisponde ad un corpo di norme unico, coerente e organico, finalizzato ad assicurare un approccio integrato alla risoluzione dei problemi dell'immigrazione. Con esso, si è inteso dare risposta all'esigenza, emersa più volte, di armonizzare le molteplici norme prodotte in materia e di riorganizzare l'intera disciplina.
Le disposizioni del Testo Unico regolano i principali aspetti della politica migratoria in Italia. Ad esse, si aggiungono le integrazioni e le modifiche previste dalla successiva legge n. 189 del luglio 2002, meglio nota come legge Bossi-Fini.
Disposizioni in materia di ingresso. Il Testo Unico ha stabilito che possono entrare in Italia tutti i cittadini non comunitari in possesso di un "visto d'ingresso" e di documenti di viaggio validi, ad eccezione di coloro che sono stati dichiarati pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. La legge Bossi-Fini ha in seguito vietato l'accesso anche a coloro che sono stati condannati per i reati previsti dagli artt. 380 e 381 del Codice di Procedura Penale o per reati inerenti il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Disposizioni in materia di "permesso di soggiorno". Il Testo Unico ha disposto che possono richiedere il permesso di soggiorno tutti i cittadini stranieri che sono entrati regolarmente in Italia, prevedendo per coloro che risiedono da oltre un certo numero di anni anche il rilascio della "carta di soggiorno". La successiva legge Bossi-Fini ha stabilito che il cittadino straniero che richiede o rinnova il permesso di soggiorno venga sottoposto a rilievi fotodattiloscopici.
Disposizioni in materia di lavoro ai cittadini stranieri. Il Testo Unico ha inoltre disposto specifiche misure in materia di lavoro agli stranieri, ribadendo che il numero di lavoratori non comunitari ammessi in Italia resti vincolato alle quote fissate ogni anno dal "decreto flussi".
La legge Bossi-Fini ha previsto che tale decreto venga emanato entro il 30 novembre dell'anno precedente a quello di riferimento del decreto stesso. La stessa legge ha anche istituito un nuovo ufficio presso la Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo, che prende il nome di Sportello Unico per l'Immigrazione. Tale Sportello è responsabile per l'intero procedimento relativo all'assunzione di lavoratori subordinati stranieri a tempo determinato ed indeterminato, assunti secondo i criteri stabiliti nella nuova figura del contratto di soggiorno per lavoro subordinato.
Disposizioni in materia di diritti dei cittadini stranieri. Il Testo Unico tutela e riconosce al cittadino straniero una serie di diritti in parità con i cittadini italiani, come il diritto all'unità familiare, il diritto a ricevere assistenza sanitaria e sociale e il diritto a ricevere un' istruzione.
Il Testo Unico dispone inoltre alcune misure che intendono favorire l'integrazione sociale, quali l'istituzione di un Fondo nazionale per le politiche migratorie, con cui finanziare i programmi regionali o locali che sostengono l'inserimento sociale degli immigrati, e l'istituzione di una Commissione per le politiche di integrazione, che redige ogni anno un rapporto sullo stato di attuazione delle politiche a favore dell'integrazione sociale.
Il complesso normativo scaturito dal Testo Unico si muove nel rispetto della disciplina comunitaria e intende dare riconoscimento ad uno dei principi fondamentali dell'Unione Europea, il diritto alla libertà di circolazione delle persone. A tale riguardo, i principali riferimenti sono il "Trattato di Amsterdam", firmato nell'ottobre del 1997 ed entrato in vigore il 1 maggio 1999, e l'"Acquis di Schengen", applicato in Italia a partire dal 1997.
Il Capo II del Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero) è dedicato alle misure di contrasto all’immigrazione clandestina, alla repressione dello sfruttamento criminale dei flussi migratori, al respingimento dal territorio nazionale ed alle espulsioni.
La disciplina precedente in materia è stata fortemente innovata nell’intento di potenziare sensibilmente le misure di contrasto delle immigrazioni clandestine, anche in relazione ai doveri assunti dall’Italia nei confronti dei "partners" europei, per i quali l’Italia costituisce la "linea di frontiera avanzata", oltre che per meglio tutelare il lavoro e le condizioni di vita di coloro che - cittadini o stranieri - risiedono regolarmente nel nostro Paese.
Per tutte le nuove misure è stata prevista, al contempo, la massima garanzia del controllo giurisdizionale.
L’articolo 10 disciplina il «respingimento» prevedendone l’applicazione oltre che sulla linea di frontiera, ovvero nella sua area tradizionale di applicazione, anche sul territorio, nei confronti degli stranieri che non hanno titolo a varcare legittimamente i confini.
Da sottolineare il fatto che, nei casi in cui non sia possibile comprovare la stretta relazione causale e temporale fra il momento dell’ingresso clandestino e il momento dell’individuazione nel territorio, occorrerà procedere all’espulsione e non al respingimento.
Il respingimento non è comunque ammesso per i richiedenti asilo e per coloro nei cui confronti devono essere adottati provvedimenti di protezione temporanea.
L’articolo 13 disciplina, con profili spiccatamente innovativi, l’istituto della «espulsione amministrativa», mentre è rimasta sostanzialmente invariata l’espulsione per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, disposta dal Ministro dell’Interno, informando preventivamente il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro degli Affari Esteri.
Nel caso di persona sottoposta a procedimento penale occorre il nulla osta del Giudice competente (in relazione allo stato del procedimento), che è rilasciato salvo inderogabili esigenze processuali.
L’esecuzione dell’espulsione è curata dal "Questore". Essa avviene con accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica nei seguenti casi:
Secondo quanto stabilito da apposite circolari ministeriali, la competenza primaria all’«accompagnamento alla frontiera» dei cittadini stranieri nei cui confronti sia stato emesso un provvedimento di espulsione, ricade sulla Polizia di Stato, mentre l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza forniscono la loro collaborazione soltanto in ipotesi eccezionali, riferite a situazioni di particolare necessità ed urgenza, da valutare in seno al Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
In ogni altro caso, l’espulsione è eseguita mediante l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro il termine dei quindici giorni e ad osservare le prescrizioni per il viaggio e per la presentazione all’ufficio di polizia di frontiera.
Nei confronti dell’espulsione disposta dal Ministro dell’Interno è esperibile il tradizionale ricorso giurisdizionale al Tribunale Amministrativo del Lazio, sede di Roma, in osservanza delle disposizioni vigenti circa la tutela degli interessi legittimi e la competenza territoriale del Giudice amministrativo.
Avverso l’espulsione disposta dal Prefetto, per i motivi previsti dalla legge, è invece concesso il ricorso al Giudice Ordinario, secondo la procedura di cui all’articolo 737 e seguenti del Codice di Procedura Civile (procedimenti in camera di consiglio).
Viene, infine, stabilito un termine temporale al divieto di rientro sul territorio nazionale connesso all’espulsione (5 anni, a meno che il pretore con il provvedimento che decide sul ricorso non stabilisca un termine diverso, comunque non inferiore ai tre anni).
Particolare rilevanza assumono, poi, le disposizioni che riguardano il potenziamento e il coordinamento dei controlli di frontiera e l’apparato sanzionatorio introdotto per i delitti connessi all’immigrazione clandestina.
Per quanto concerne il primo aspetto, il 3° comma dell’articolo 11, prevede che nell’ambito e in attuazione delle direttive adottate dal Ministro dell’Interno, i Prefetti delle province di confine terrestre ed i prefetti dei capoluoghi delle regioni interessate alla frontiera marittima promuovono le misure occorrenti per il coordinamento dei controlli di frontiera e della vigilanza marittima e terrestre, d’intesa con i Prefetti delle altre province interessate, sentiti i Questori e i dirigenti delle zone di polizia di frontiera, nonché le Autorità marittime e militari ed i responsabili degli organi di polizia, di livello non inferiore a quello provinciale.
In materia penalistica, il Testo Unico prevede la punibilità di alcune condotte dirette a favorire o a trarre vantaggio dall’immigrazione clandestina.
In materia penalistica, il Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero) prevede la punibilità di alcune condotte dirette a favorire o a trarre vantaggio dall’immigrazione clandestina.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato violando le disposizioni di legge è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 15.493 €.
► La pena è aumentata:
Nei casi indicati è obbligatorio l’arresto in flagranza ed è disposta la confisca del mezzo di trasporto utilizzato per i medesimi reati, anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti.
Fuori dalle ipotesi sopra prescritte e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a 15.493 €. chiunque favorisce la permanenza nel territorio dello Stato in violazione delle norme di legge ovvero al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero.
In quest’ultimo caso, è evidente il riferimento a ipotesi di sfruttamento di tale condizione di illegalità (es. per lavoro nero, impiego in attività di traffico e spaccio di stupefacenti, prostituzione). La disposizione si pone idealmente in rapporto con quella dell’art.18 che tende ad agevolare, anche attraverso specifiche forme di protezione sociale, l’allontanamento dello straniero, oggetto di sfruttamento, dai condizionamenti dell’organizzazione delinquenziale.
Proprio allo scopo di contrastare il fenomeno del lavoro nero, il Testo Unico sull’immigrazione, nel disciplinare le modalità per l’instaurazione e l’esecuzione di rapporti di lavoro con i cittadini stranieri, prevede apposite sanzioni penali (arresto da tre mesi ad un anno o ammenda da 1.032 a 3.098 €) per il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze lavoratori stranieri in condizioni di irregolarità (artt. 22, comma 10, e 24 comma 6).
La legge (art. 12, 6° comma) ha, poi, previsto anche alcuni obblighi in capo ai "vettori" (marittimi, aerei o terrestri), i quali sono tenuti a:
In caso di inosservanza anche di uno solo dei citati obblighi, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 516 a 25.822 € per ciascuno degli stranieri trasportati. Nei casi più gravi, è disposta la sospensione da 1 a 12 mesi, ovvero la revoca della licenza, autorizzazione o concessione inerenti all’attività professionale svolta e al mezzo di trasporto utilizzato.
Relativamente ai poteri concessi alle forze di polizia per una più adeguata azione di contrasto, si segnala che gli Ufficiali e gli Agenti di p.s. operanti nelle province di confine e nelle acque territoriali possono procedere al controllo e all’ispezione dei mezzi di trasporto e delle cose trasportate, ancorché soggetti a speciale regime doganale, quando, anche in relazione a specifiche circostanze di tempo e di luogo, sussistono fondati motivi di ritenere che possano essere utilizzati per uno commettere uno dei reati sopra indicati. Dell’esito dei controlli e delle ispezioni è redatto processo verbale, da trasmettere entro 48 ore al Procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i presupposti, lo convalida nelle successive 48 ore.
Nelle medesime circostanze gli Ufficiali di polizia giudiziaria possono altresì procedere a perquisizioni, con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale.
Importanti novità sono state introdotte dal D.lgs.113/99 alla disciplina dei beni sequestrati e confiscati.
I beni sequestrati nel corso di operazioni di polizia finalizzate alla prevenzione e repressione dei reati in materia di immigrazione clandestina sono affidati dall’Autorità giudiziaria procedente in custodia giudiziale, salvo che vi ostino esigenze processuali, agli Organi di polizia che ne facciano richiesta per l’impiego in attività di polizia ovvero ad altri organi dello Stato o ad altri enti pubblici per finalità di giustizia, di protezione civile o di tutela ambientale.
I mezzi di trasporto non possono essere in alcun caso alienati, onde evitare che gli stessi possano, indirettamente, ritornare nella disponibilità delle organizzazioni criminali.
I beni acquisiti dallo Stato, a seguito di provvedimento definitivo di confisca, sono, a richiesta, assegnati all’amministrazione o trasferiti all’ente che ne abbiano avuto l’uso ovvero sono alienati. I mezzi di trasporto che non sono assegnati o trasferiti per le finalità indicate dalla legge non possono essere alienati e sono distrutti.
Per quanto riguarda le somme di denaro confiscate a seguito di condanna, nonché le somme ricavate dalla vendita, ove disposta, dei beni confiscati sono destinate al potenziamento delle attività di prevenzione e repressione dei medesimi reati, anche a livello internazionale mediante interventi finalizzati alla collaborazione e all’assistenza tecnico-operativa con le forze di polizia dei Paesi interessati.
Il cittadino straniero che desidera entrare e soggiornare in Italia, deve innanzitutto possedere un "visto d'ingresso" che viene rilasciato dal Ministero degli Affari Esteri e dalla sua rete di Uffici diplomatico-consolari italiani, presenti nei Paesi di origine dei cittadini che intendono emigrare in Italia. I cittadini dell'Unione Europea non devono munirsi di visto.
Il visto rappresenta l'autorizzazione a soggiornare o transitare nel territorio italiano o in un altro Paese concessa al cittadino straniero, e consiste in uno "sticker" applicato sul passaporto o su un altro documento di viaggio valido.
Per fare domanda di visto, è necessario rivolgersi alla "Rappresentanza diplomatico-consolare italiana" presente nel proprio Paese e presentare un modulo accompagnato da una foto formato tessera e un documento di viaggio valido. Occorre inoltre esplicitare la finalità del viaggio, elencare i mezzi di trasporto che si useranno, descrivere i mezzi finanziari di cui si dispone e le condizioni di alloggio. Per chi viene a lavorare in Italia, occorre presentare anche l'autorizzazione al lavoro e il nulla osta della Questura italiana.
Il visto non può essere applicato su documenti scaduti e la durata di validità del documenti di viaggio deve essere superiore di almeno tre mesi a quella del visto.
Dopo aver fatto domanda, la Rappresentanza provvederà ad eseguire i controlli previsti per legge, e nel caso di una valutazione positiva rilascerà il visto entro 90 giorni dalla richiesta. Il visto potrà essere negato nel caso di persone già espulse dall'Italia o da un altro Paese dello spazio Schengen o dichiarate pericolose per l'ordine pubblico e la sicurezza.
Il visto potrà inoltre essere revocato, se la Rappresentanza dovesse venire a conoscenza in ritardo di situazioni che avrebbero impedito l'autorizzazione al visto.
I visti che si possono richiedere sono di diverso tipo:
I cittadini extracomunitari che entrano regolarmente in Italia e desiderano soggiornare sul nostro territorio, devono in primo luogo richiedere il "permesso di soggiorno", cioè il documento con cui lo Stato italiano concede il diritto di soggiornare nel nostro Paese.
Per richiedere questo documento, è necessario presentarsi al Questore della Provincia in cui si intende risiedere, entro otto giorni dall' ingresso in Italia. Sono esenti da questo obbligo i frontalieri, i diplomatici, i funzionari di organismi internazionali e i militari della Nato.
A partire dall’11 dicembre 2006, inoltre, è in vigore una nuova procedura per il rilascio e il rinnovo del permesso e della carta di soggiorno, che assegna agli uffici postali, anziché le questure, il compito di ricevere le istanze per alcune tipologie di permesso.
Una volta in possesso dei requisiti richiesti, di sufficienti mezzi di sussistenza e di un alloggio, e se non ci sono ragioni contrarie di ordine pubblico o sanitario, il permesso viene rilasciato entro un termine ordinatorio di venti giorni, che decorrono dalla data in cui è stata presentata l'istanza.
Quando si richiede l'autorizzazione a soggiornare in Italia, è possibile usufruire di diversi tipi di permesso di soggiorno che variano a seconda dello durata e dei motivi per cui sono richiesti:
La durata del permesso di soggiorno, ad eccezione di quello per motivi di lavoro, coincide con la durata prevista per il visto d'ingresso rilasciato dalle Rappresentanze diplomatiche o consolari italiane presenti nei Paesi di appartenenza.
Al momento del ritiro del permesso, chi intende soggiornare per più di trenta giorni dovrà dimostrare di avere adempiuto agli obblighi in materia sanitaria, iscrivendosi al Servizio Sanitario Nazionale o stipulando una polizza assicurativa.
Una volta ottenuto, il permesso di soggiorno potrà essere revocato solo se verranno a mancare i requisiti previsti. Nel caso le Autorità preposte non abbiano concesso il permesso di soggiorno, entro sessanta giorni dalla notifica del provvedimento si può presentare ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (Tar) competente per territorio.
I cittadini stranieri che risiedono regolarmente in Italia da almeno sei anni possono richiedere il rilascio della "carta di soggiorno", che vale come documento di identificazione personale e autorizza il suo possessore a soggiornare sul territorio italiano per un periodo di tempo indeterminato.
La carta è soggetta a "vidimazione" su richiesta dell'interessato entro dieci anni dal rilascio. Deve perciò essere rinnovata su iniziativa del suo titolare. Come documento di identità, la validità è per soli cinque anni dalla data del rilascio o del rinnovo.
Con questa carta, si può entrare e uscire dall'Italia senza obbligo del visto, svolgere ogni attività lecita che non sia espressamente riservata ai soli cittadini italiani, accedere ai servizi della Pubblica Amministrazione e partecipare alla vita pubblica (anche se non consente di votare).
Se si possiedono i requisiti previsti la Questura rilascia la carta di soggiorno. Nell'eventualità di un rigetto della domanda, si hanno sessanta giorni di tempo dalla notifica per presentare ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale.
La carta può essere richiesta anche per il proprio coniuge e i figli minori. In questo caso, occorre dimostrare di avere un reddito sufficiente e un alloggio idoneo. Inoltre, è necessario presentare i certificati rilasciati dal Paese d'origine che attestino il grado di parentela dei propri familiari, tradotti e legalizzati dall'Autorità Consolare Competente.
In attuazione alle disposizioni di legge vigenti, entro il 30 novembre di ogni anno il Governo italiano fissa, con un apposito decreto, le quote massime di lavoratori stranieri dipendenti, autonomi e stagionali che possono entrare nel nostro Paese. Tale decreto prende il nome di "decreto flussi".
I dati su cui vengono calcolate queste quote vengono elaborati dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, tenendo conto dell'andamento dell'occupazione nazionale e della effettiva richiesta di lavoro sul mercato italiano a livello regionale e provinciale.
Parte di queste quote sono "quote preferenziali", in quanto riservate a categorie particolari di lavoratori. I cittadini di origine italiana che possono dimostrare una parentela di terzo grado in linea retta d'ascendenza con un cittadino italiano hanno diritto ad accedere a queste quote. Possono infatti iscriversi in apposite liste presso le "Rappresentanze diplomatiche o consolari italiane" nel loro Paese d'origine e specificare le loro qualifiche professionali.
Altre quote preferenziali sono riservate ai cittadini degli Stati che mostrano di collaborare con le istituzioni italiane nella lotta all'immigrazione clandestina, attraverso accordi che li impegnano a regolamentare i flussi d'immigrati e a favorire le procedure di riammissione dei propri cittadini. Sono invece previste restrizioni numeriche all'ingresso per i lavoratori di Paesi che non collaborano adeguatamente alle misure di contrasto dell'immigrazione illegale.
La Legge n. 189/2002 c.d. Bossi-Fini (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo) rivede sistematicamente la legislazione italiana concernente gli stranieri. Il provvedimento intende realizzare un intervento ampio e organico sui principali testi legislativi concernenti gli stranieri provenienti dai paesi non appartenenti all’Unione Europea (il testo unico 25 Luglio 1998, n° 286 ed il decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416).
L’esigenza di innovare profondamente l’attuale disciplina in materia di immigrazione, ad oltre tre anni dall’entrata in vigore del testo unico approvato con decreto legislativo 25 Luglio 1998, n. 286, costituisce oramai una necessità ineludibile, unanimemente avvertita, tra coloro che, a vario titolo, operano nelle istituzioni e nella società civile e che si trovano nell’impossibilità di offrire soluzioni adeguate alle problematiche che il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria ha assunto nel nostro paese.
La linea guida dell’intervento normativo è quella di giustificare l’ingresso e la permanenza sul territorio nazionale dello straniero per soggiorni duraturi solo in relazione all’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa sicura e lecita, di carattere temporaneo o di elevata durata. A questa condizione sono garantite adeguate condizioni di lavoro e di alloggio, collegando il contratto di lavoro ad un impegno del datore di lavoro nei confronti del lavoratore e dello Stato e restando sempre possibile il rientro volontario nel paese di origine, mediante una garanzia dei mezzi necessari.
► Gli "elementi qualificanti" della iniziativa legislativa concernono:
Infine, la Legge n. 189/2002 pone mano ad un vecchio problema ancora irrisolto. In attesa di una disciplina organica in materia di "diritto di asilo", che si ritiene comunque di rinviare a quando saranno definite le procedure minime – identiche per tutta l’Unione Europea – attualmente in discussione a Bruxelles, mutuando proprio le norme attualmente al vaglio del Consiglio Europeo, è stato ritenuto almeno di risolvere il problema costituito dalle domande di asilo realmente strumentali, ossia presentate al solo scopo di sfuggire all’esecuzione di un provvedimento di allontanamento ormai imminente. Finora la normativa vigente – l’articolo 1 della cd. legge Martelli – imponeva non solo la sospensione del provvedimento di allontanamento, ma anche la concessione di un permesso di soggiorno provvisorio in attesa del giudizi della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato che non sarebbe mai arrivato in quanto circa il novanta per cento dei presentatori di queste domande strumentali facevano poi perdere le loro tracce. La disciplina introdotta, invece, precedendo l’applicazione della direttiva in esame, instaura – per quelle domande che si ritengono manifestamente infondate – una “procedura semplificata” che si concluderà entro i tempi previsti per il trattenimento nei Centri di permanenza temporanei.
► La legge, composta di 38 articoli, prevede:
Il riconoscimento dello status di rifugiato è, infatti, ancora regolato dall’articolo 1 del decreto legge 30 dicembre 1989 n° 416, convertito nella legge 28 febbraio 1990 n. 39.
Tale normativa prevede che a chi presenti una domanda di asilo - indipendentemente dalla sua posizione di regolare, irregolare, sottoposto a procedimento di allontanamento o altro - sia concesso un permesso di soggiorno in attesa della definizione della richiesta.
Molte sono le istanze proposte da clandestini al solo scopo di procrastinare gli effetti o evitare del tutto - facendo perdere le tracce – il provvedimento di allontanamento.
In sede comunitaria è in discussione un progetto di direttiva che regola lo standard minimo delle procedure che gli stati membri devono adottare per il riconoscimento dello status di rifugiato. Tale progetto prevede, all’interno del principio generale della non trattenibilità dei richiedenti asilo per il mero fatto di esaminare la loro istanza, alcune eccezioni (articolo 11), nonché una c.d. procedura semplificata (art. 27 e segg.) per esaminare quelle domande che si presumono manifestamente infondate; l’esito sfavorevole di questa procedura semplificata, salvo l’obbligo di rispondere (art. 33, comma 3) – anche negativamente – all’istanza del richiedente asilo che chiede di rimanere sul territorio nazionale per tutta la durata dell’intero ricorso, non impone agli Stati membri di sospendere gli effetti di una decisione sfavorevole di primo grado, in attesa dell’esito del ricorso.
In attesa di una disciplina organica sul diritto di asilo, il disegno di legge intende correggere l’obbligatorietà della concessione del permesso di soggiorno contenuto nell’articolo 1 della legge Martelli, mutuando proprio dalla proposta di direttiva attualmente in discussione a Bruxelles i casi in cui è possibile trattenere il richiedente asilo (comma 1 dell’articolo 1 bis proposto), nonché la possibilità di allontanamento dopo il primo grado concessa dalla procedura accellerata (comma 5, dell’art. 1 ter proposto).
Vengono così disciplinati una serie di casi per i quali è possibile trattenere o continuare a trattenere i richiedenti asilo, sulla base di un procedimento – quale quello conseguente alla violazione delle norme di ingresso sul territorio – già avviato prima della richiesta di asilo. Il trattenimento dovrebbe durare fino all’esito della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato.
Ovviamente, perché la procedura funzioni, è necessario che la procedura accellerata si esaurisca prima dello scadere del termine previsto per il trattenimento. Per tale ragione appare comunque opportuno un potenziamento della Commissione centrale per la concessione dello status di rifugiato o la creazione di sue sezioni periferiche.
In base al Decreto del Ministro dell’Interno (di concerto con i Ministri della Difesa, dell’Economia e delle Finanze e delle Infrastrutture e dei Trasporti) del 14 luglio 2003 (Disposizioni in materia di contrasto all'immigrazione clandestina), emanato con un certo ritardo dall’entrata in vigore della Legge 189/2002, le attività di vigilanza, prevenzione e contrasto dell'immigrazione clandestina «via mare» sono svolte dai mezzi aeronavali della Marina militare, delle Forze di Polizia e delle Capitanerie di Porto. Il raccordo delle operazioni e l’acquisizione delle informazioni sono svolti dalla "Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere del Dipartimento della Pubblica Sicurezza".
Gli Enti e le Amministrazioni interessate comunicano con immediatezza alla Direzione Centrale tutte le informazioni e i dati relativi alle unità che, per comportamenti o altri indizi, possano ragionevolmente essere sospettate di essere coinvolte nel traffico o nel trasporto di migranti.
L’intervento è finalizzato all’attività istituzionale delle Forze di Polizia diretta alla repressione dei reati ed alla scoperta delle connessioni con le organizzazioni transnazionali che gestiscono l’illecito traffico, al fine di sequestrare e confiscare i patrimoni d’illecita provenienza.
L'attività di sorveglianza, orientata sulla base delle informazioni e delle situazioni oggettive che caratterizzano il flusso migratorio via mare, si articola, di massima, su:
Ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti in "acque internazionali" è assicurata una costante attività di sorveglianza finalizzata alla localizzazione, alla identificazione e al tracciamento di unità navali sospettate L’attività di identificazione è svolta prevalentemente con il concorso dei mezzi aerei.
La "fase di tracciamento" deve essere condotta, compatibilmente con la situazione contingente e con i sensori disponibili, in forma occulta al fine di non vanificare l'intervento repressivo nei confronti delle organizzazioni criminali che gestiscono l'illecito traffico.
Il Comando in Capo della Squadra Navale svolge la necessaria azione di raccordo delle fasi di pianificazione dell'attività in stretta cooperazione con il Comando Generale della Guardia di Finanza e con il Comando Generale delle Capitanerie di Porto.
Nella fase esecutiva ciascuna Amministrazione/Ente è responsabile dell'emanazione delle direttive attuative ai mezzi dipendenti, tenendo debitamente informati gli altri.
Ferme restando le competenze dei Prefetti dei capoluoghi di Regione nelle acque territoriali e interne italiane, le unità navali delle Forze di Polizia "svolgono attività" di sorveglianza e di controllo ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti. Le unità navali della Marina Militare e delle Capitanerie di Porto "concorrono" a tale attività attraverso la tempestiva comunicazione dell’avvistamento delle unità in arrivo o mediante tracciamento e riporto delle unità stesse, in attesa dell'intervento delle Forze di Polizia. Quando in relazione agli elementi meteomarini ed alla situazione del mezzo navale sussistano gravi condizioni ai fini della salvaguardia della vita umana in mare, le unità di Stato presenti provvedono alla pronta adozione degli interventi di soccorso curando nel contempo i riscontri di polizia giudiziaria.
Al fine di rendere più efficace l’intervento delle Forze di Polizia nelle acque territoriali è stabilita una "fascia di coordinamento" che si estende fino al limite dell'area di mare internazionalmente definita come zona contigua nelle cui acque il coordinamento delle attività navali connesse al contrasto dell'immigrazione clandestina, in presenza di mezzi appartenenti a diverse Amministrazioni, è affidato al Corpo della Guardia di Finanza.
L’azione di contrasto è sempre improntata alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona. Le unità navali procedono, ove ne ricorrano i presupposti, all'effettuazione dell' inchiesta di bandiera, alla visita a bordo, qualora sussista un’adeguata cornice di sicurezza, ed al fermo delle navi sospettate.
In acque internazionali, qualora a seguito dell'inchiesta di bandiera se ne verifichino i presupposti, può essere esercitato il diritto di visita. Nell'ipotesi di navi battenti bandiera straniera, l'eventuale esercizio di tale diritto sarà richiesto formalmente dal Ministro dell'Interno una volta acquisito, tramite Ministero degli Affari Esteri, l’autorizzazione del Paese di bandiera. Parimenti, l’esercizio del diritto di visita può essere richiesto formalmente dal Ministro dell' Interno anche nell’ipotesi di interventi da effettuarsi su unità prive di bandiera e dei quali non si conosce il porto di partenza.
Quando navi mercantili, a seguito di interrogazione da parte dei mezzi aeronavali in pattugliamento, appaiano ragionevolmente sospette sulla natura del carico, porto di partenza o di arrivo, la Direzione Centrale, immediatamente informata dalle Amministrazioni di appartenenza, intraprende le opportune iniziative per verificare l'attendibilità di tale notizie e per l’adozione di conseguenti misure.
Il 10 febbraio 2005 è stato pubblicato il nuovo "Regolamento di attuazione della Legge Bossi – Fini" (L.30 luglio 2002, n.189), entrata in vigore il 25 febbraio. Si tratta di un Decreto del Presidente della Repubblica (DPR. 18 ottobre 2004, n. 334) che reca modifiche e integrazioni al Decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, in materia d’immigrazione.
► Legalizzazione di certificati provenienti dall’estero.
Per i cittadini stranieri che devono utilizzare certificati provenienti dall’estero, ad esempio per il ricongiungimento familiare (certificato di nascita o di matrimonio), il regolamento precisa che in mancanza di autorità straniera riconosciuta, oppure, in caso di presunta inaffidabilità di documenti attestanti qualità che non possono essere oggetto di autocertificazione, provvede l’autorità diplomatica consolare con indicazione sostitutiva.
Ciò significa che, per esempio, di fronte a una procedura di ricongiunzione familiare - ovvero quando già il lavoratore straniero regolarmente soggiornante in Italia ha ottenuto il nullaosta alla ricongiunzione familiare da parte della questura o, d’ora in poi dello Sportello Unico presso la Prefettura, nel momento in cui presso l’Ambasciata italiana del paese di provenienza bisogna documentare con certificati di quel paese lo stato di famiglia, l’autorità consolare italiana ha la possibilità di limitarsi a presumere l’inaffidabilità dei documenti e dei certificati rilasciati dalle competenti autorità del paese d’origine dell’interessato.
In questo caso, se l’autorità consolare dubita dell’affidabilità di questi certificati può procedere in proprio a una verifica, che, per quanto riguarda la nascita e la maggiore età, potrà essere fatta con il test del DNA oppure con quello della densimetria ossea. Tutto questo dovrà avvenire a spese degli interessati.
► Comunicazioni allo straniero.
La comunicazione, sia pure in forma sintetica in lingua straniera, di tutti i provvedimenti può essere fatta legittimamente in lingua francese, inglese, spagnola, a scelta dell’interessato, solo nel caso in cui, però, non sia disponibile personale idoneo alla traduzione del provvedimento nella lingua madre dell’interessato.
Questo significa che gli stranieri hanno il diritto di ricevere comunicazione dei provvedimenti che li riguardano nella lingua madre, a meno che non sia possibile la presenza di un traduttore, nel qual caso è legittima la possibilità di ricevere la comunicazione in un’altra lingua scelta dall’interessato tra francese, inglese e spagnolo
► Documentazione dell’alloggio per l’ingresso in Italia.
Nel nuovo Regolamento di attuazione è stato inserito l’articolo 8 bis (Contratto di soggiorno per lavoro subordinato) relativo alla documentazione relativa all’alloggio per i lavoratori candidati all’ingresso in Italia per ragioni di lavoro. Questo prevede che il datore di lavoro, al momento della richiesta di assunzione di un lavoratore straniero, deve indicare con un'apposita dichiarazione inserita nella richiesta di assunzione del lavoratore straniero, nonché nella proposta di contratto di soggiorno, un alloggio fornito dei requisiti di abitabilità e idoneità igienico sanitaria, o che rientri nei parametri previsti dal testo unico, e deve impegnarsi, nei confronti dello Stato, al pagamento delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel Paese di provenienza.
Non sarà necessario fornire la documentazione relativa alla disponibilità dell’alloggio al momento della domanda di autorizzazione all’ingresso per motivi di lavoro, bensì solo nel momento in cui il lavoratore è giunto in Italia e deve stipulare il contratto di soggiorno presso l’Ufficio Territoriale del Governo (UTG).
► Ingresso per turismo.
In caso di soggiorno per turismo di durata non superiore a trenta giorni, gli stranieri appartenenti a Paesi in regime di esenzione di visto turistico possono richiedere il permesso di soggiorno al momento dell'ingresso nel territorio nazionale alla frontiera, attraverso la compilazione e la sottoscrizione di un apposito modulo. La ricevuta rilasciata dall'ufficio di polizia equivale a permesso di soggiorno per i trenta giorni successivi alla data di ingresso nel territorio nazionale.
► Iscrizione anagrafica in fase di rinnovo permesso di soggiorno.
L’articolo 14 del Regolamento introduce un’interessante disposizione che prevede per gli stranieri iscritti all’anagrafe l'obbligo di rinnovare all'ufficiale d’anagrafe la dichiarazione di dimora abituale nel comune, entro sessanta giorni dal rinnovo del permesso di soggiorno, corredata dal permesso medesimo e, comunque, l’iscrizione non decade nella fase di rinnovo del permesso di soggiorno.
Questo risolve una serie di problemi pratici, si pensi alla richiesta della patente ad esempio, per i quali si aveva la necessità di presentare la propria iscrizione anagrafica. Con la nuova normativa, il fatto che il permesso di soggiorno sia in fase di rinnovo non dovrebbe comportare più alcun problema relativamente alla continuità di iscrizione all’anagrafe della popolazione residente presso un determinato comune.
► Il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato.
L’art. 12 del Regolamento (che modifica l’art. 13 del dpr 393/99) prevede che il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro è subordinato alla sussistenza di un contratto di soggiorno per lavoro, nonché alla consegna di autocertificazione del datore di lavoro attestante la sussistenza di un alloggio del lavoratore.
► Variazioni del rapporto di lavoro, variazione del contratto di soggiorno.
Sempre in riferimento al rinnovo del permesso di soggiorno è stato aggiunto l’art. 36 bis che dispone per l'instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro, fermo restando quanto previsto dall'articolo 37, la sottoscrizione di un nuovo contratto di soggiorno per lavoro, anche ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno. Il datore di lavoro deve comunicare allo Sportello Unico, entro 5 giorni dall'evento, la data d'inizio e la data di cessazione del rapporto di lavoro con il cittadino straniero, ai sensi dell'articolo 37, nonché il trasferimento di sede del lavoratore, con la relativa decorrenza
Secondo la nuova normativa, quindi, non è più sufficiente che uno straniero si presenti presso la questura alla scadenza del permesso di soggiorno, ma deve farlo anche nel caso in cui per qualsiasi causa – dimissioni, licenziamento, riduzione di personale – perda il lavoro prima della scadenza del permesso di soggiorno. Dovrà presentarsi presso l’UTG per formalizzare il nuovo contratto di soggiorno e, in pratica, per rinnovare il permesso di soggiorno anche se ancora valido.
La Legge 5 luglio 2009, n. 94 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, destina un significativo numero di norme al fenomeno dell’immigrazione, modificando il D.lgs. 286/2009.
Il legislatore, in detta materia, ha introdotto nuove ipotesi di reato (si pensi, tra tutte, a quella di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”, di cui all’art. 10 bis del TU imm.) ed ha aggravato le pene di molte disposizioni penali già esistenti.
Sono state modificate le "condizioni di ingresso" dello straniero nel nostro territorio (art. 4 T.U. imm.) ed è stato previsto, altresì, il nuovo istituto dell’ “accordo di integrazione”.
Con riferimento alle condizioni di ingresso dello straniero, tale ingresso non è ora consentito nel caso in cui questi non “abbia i mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno” e per il rientro nel Paese di provenienza; nel caso in cui “sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato”; nel caso, ancora, in cui sia stato condannato per taluni reati, tassativamente specificati (tra cui quelli relativi a stupefacenti, alla libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina).
l legislatore della novella ha poi deciso di istituire un “doppio binario” con riferimento alla gravità del fatto di reato.
Mentre, infatti, l’applicazione della pena su richiesta delle parti e la condanna con sentenza non definitiva per una serie di reati più gravi costituisce ragione ostativa all’ingresso nel territorio dello Stato; per ottenere lo stesso effetto impeditivo, occorre, invece, una condanna definitiva con riferimento ad alcuni reati “meno gravi”, relativi alla tutela del diritto d’autore, per il reato previsto dall’art. 473 c.p. (contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali) o per il reato di cui all’art. 474 c.p. (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi).
La legge introduce un nuovo reato rubricato “ingresso e soggiorno illegale nello Stato”, attraverso l'inserimento del nuovo art. 10-bis nel Testo Unico sull'Immigrazione (d.lgs. 286/98), che punisce con l'ammenda da € 5.000 a € 10.000 lo straniero che fa ingresso o si trattiene illegalmente nel territorio dello Stato.
In conseguenza di questa previsione, qualunque straniero che venga soggetto a controlli sulla regolarità del suo status, potrà essere sottoposto a procedimento penale, dinanzi al Giudice di pace, e condannato. L’espulsione potrà essere eseguita comunque, anche in pendenza del procedimento penale (che però si estinguerà una volta eseguita l’espulsione), e con un canale preferenziale e, in quanto, per questo reato, non è necessario attendere il nulla osta dell’Autorità giudiziaria. Derogando alle disposizioni del codice penale, tale reato (previsto come contravvenzione) non si può estinguere mediante pagamento in misura ridotta (oblazione).
Aggravante clandestinità
Se chi commette un reato si trova illegalmente sul territorio nazionale le pene sono aumentate di un terzo. La nuova aggravante di clandestinità viene applicata sia agli immigrati extracomunitari che ai cittadini di stati membri dell’unione europea irregolarmente entrati in Italia.
Carcere da sei mesi a tre anni per chi, a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio a uno straniero privo di titolo di soggiorno in un immobile di cui abbia disponibilità, o lo cede allo stesso anche in locazione. Con la condanna scatta anche la confisca del bene.
Il trattenimento nei C.I.E. (Centri di identificazione ed espulsione, ex CPT) può raggiungere i 180 giorni (contro i 60 di prima)
La procedura prevede dapprima la richiesta di autorizzazione al trattenimento di ulteriori 30 giorni dopo i primi 30 concessi.
Successivamente, trascorsi altri 60 giorni al termine dei quali, in caso di mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi, può essere concessa un’ulteriore proroga di 60 giorni.
Tale obbligo per l’accesso ai servizi pubblici, pertanto, impedisce il compimento di atti di stato civile fondamentali, primi fra tutti la richiesta delle pubblicazioni per il matrimonio e la stessa formazione degli atti di nascita dei minori stranieri, con grave pregiudizio per la certezza dei rapporti familiari e di stato civile.
In linea con la previsione del punto precedente, il decreto sicurezza esclude espressamente per lo straniero privo del permesso di soggiorno la possibilità di contrarre matrimonio con effetti civili, limitando gravemente i diritti della comunità familiare.
Per inoltrare la domanda occorrerà attendere che siano decorsi 2 anni (e non più sei mesi, come prima) dalla data di iscrizione nell’albo dei residenti , ovvero tre anni se il matrimonio sia stato celebrato all’estero. I tempi sono tuttavia dimezzati in presenza di figli nati o adottati dai coniugi.
Inoltre, in generale, viene introdotto il pagamento di un contributo, consistente in non meno di 200 euro, per ogni tipo di domanda/istanza relativa alla cittadinanza.
In mancanza della disponibilità di un alloggio dotato di idonea certificazione dei requisiti igienico-sanitari è previsto tale divieto, sia per i residenti italiani che per quelli stranieri regolarmente soggiornanti.
La legge ha introdotto il pagamento di una tassa (da 80 a 200 euro) per chiedere il rinnovo/rilascio del permesso di soggiorno.
Il rilascio del permesso di soggiorno è subordinato alla stipula di un accordo di integrazione, articolato in crediti con cui lo straniero si impegna a conseguire non meglio specificati obiettivi di integrazione, pena la perdita dei punti/crediti e la successiva espulsione. Unica eccezione alla stipula dell’Accordo sono i cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno per richiesta asilo, asilo, protezione sussidiaria, protezione umanitaria, motivi familiari, permesso di soggiorno di lungo periodo, carta di soggiorno per familiare straniero di cittadino dell’Unione europea.
In relazione al permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, ex carta di soggiorno è
divenuto obbligatorio il superamento di un test di lingua italiana, ma non sono dettate le modalità di effettuazione del test, che dovranno essere individuate da un futuro provvedimento ministeriale.
Per la conversione del permesso di soggiorno alla maggiore età, la legge chiede ora espressamente che sussistano congiuntamente i requisiti dell’affidamento (ovvero della sottoposizione a tutela) e della frequenza di un progetto di integrazione per almeno 2 anni essendo entrati in Italia almeno 3 anni prima del compimento dei 18 anni, mentre in precedenza la legge li prevedeva come alternativi.
I sindaci sono autorizzati ad avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini al fine di segnalare alle forze di polizia eventi che possano recare danno alla sicurezza urbana, ovvero
situazioni di “disagio sociale”. I presupposti, compiti, limiti, modalità d’azione di tali iniziative private non sono ancora stabiliti, essendo demandati a provvedimenti successivi.
La legge 94 del 2009 nella parte relativa alle norme sull’immigrazione è chiaramente ispirata alla necessità ed alla volontà di scoraggiare i flussi migratori illegali a contrastare coloro i quali, cavalcando il bisogno del cittadino straniero di emigrare, lasciandosi alle spalle storie di povertà, violenza e disperazione, rendono possibile il sogno della fuga, garantendo il viaggio verso un paese, anche a costi di doverne attraversare diversi. Il tutto quasi sempre a fronte del pagamento di un corrispettivo.
L’azione di contrasto all’immigrazione clandestina ed ai fenomeni criminali ad essa connessi posta in essere dall’Italia e, più in generale, dai Paesi dell’Unione Europea ha subito nell’ultimo decennio un profondo mutamento a seguito dell’introduzione di uno specifico corpus normativo, maturato in ambito comunitario, costituito dall’Accordo di Schengen e dalla relativa Convenzione di Applicazione.
L’Accordo prevede, in estrema sintesi la "soppressione dei controlli di polizia alle frontiere interne" (cioè le frontiere terrestri comuni tra i Paesi Schengen, nonché gli aeroporti ed i porti adibiti al solo traffico interno) e la "libera circolazione delle persone - sia cittadini comunitari che extracomunitari regolarmente entrati e soggiornanti in uno Stato membro - nell’ambito del territorio di tutti gli Stati contraenti".
Al riguardo, la "Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen" firmata il 19 giugno del 1990 (composta da 142 articoli, suddivisi in otto titoli), prevede che:
Negli aeroporti i controlli dovranno essere effettuati solo dove arrivano e partono aerei da e per Paesi terzi (art. 4);
Il controllo alle frontiere esterne viene rafforzato e applicato seguendo principi uguali per tutti gli Stati Schengen (art. 6):
L’abolizione di ogni verifica alle «frontiere interne» e, quindi, la libera circolazione delle persone ha comportato come necessaria conseguenza l’attuazione di un controllo più efficace nei confronti di chi attraversa le frontiere esterne, al fine di evitare una diminuzione del livello di sicurezza per i cittadini, mentre nel momento in cui l’attraversamento delle frontiere interne (non costituisce più l’atto che dà origine al controllo, questo intervento dello Stato viene a trasferirsi con una maggiore attenzione sul territorio nazionale).
A questo riguardo, la stessa Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen fa del resto salva la possibilità, da parte di ogni Stato membro di derogare "per esigenze di ordine pubblico e di sicurezza nazionale alla soppressione dei controlli alle frontiere interne".
Il passo successivo è stato quello di adottare, insieme all’abolizione dei controlli alle frontiere interne, «misure di accompagnamento» volte ad assicurare adeguati standard di sicurezza attraverso il controllo dell’immigrazione dai Paesi terzi, la lotta contro il terrorismo, la criminalità ed il traffico di stupefacenti.
Nel 1997, lo spazio senza controlli alle frontiere interne si è esteso anche all’Italia, determinando importanti cambiamenti sia nella struttura organizzativa facente capo alla c.d. polizia di frontiera, sia nelle concrete metodologie e strumenti di contrasto.
L'obiettivo della disciplina europea è quello di contribuire alla creazione effettiva di uno "spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia", all'interno del quale le persone possano circolare liberamente, così come previsto dall'Acquis di Schengen, che rappresenta l'insieme di disposizioni e misure comuni adottate dagli Stati membri in materia di ingresso e concessione dei visti, diritto d'asilo, controllo delle frontiere esterne e cooperazione fra Polizie e dogane.
Gli atti che costituiscono questo insieme di disposizioni sono gli Accordi di Schengen del 1985, ma anche la Convenzione di applicazione degli Accordi del 1990 e tutti i successivi protocolli di adesione firmati dagli Stati partecipanti (l'Italia ha aderito nel 1990, ma ha iniziato ad applicare gli accordi solo a partire dal 26 ottobre 1997, per concludere la soppressione dei controlli alle frontiere terrestri e marittime il 31 marzo 1998).
Al fine di riconoscere questo "spazio di libertà", il Trattato di Amsterdam ha previsto, in un suo protocollo finale, l'integrazione dell'Acquis di Schengen nella normativa comunitaria.
In questo modo, i Paesi europei firmatari hanno accettato di eliminare progressivamente i controlli alle frontiere comuni e di introdurre un regime di libera circolazione per i propri cittadini.
L'insieme dei territori di questi Paesi costituisce oggi lo spazio o area Schengen, formato da Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia, Islanda e Norvegia.
Nell'imminente futuro, tuttavia, l'ingresso di nuovi Stati membri nell'Unione Europea lo scorso 1 maggio, lascia prevedere che questo spazio verrà ulteriormente allargato.
Monumento in onore degli Accordi di Schengen
La "Polizia di frontiera" è quella parte della polizia di sicurezza che ha lo scopo di garantire l’osservanza delle norme di diritto pubblico internazionale e delle convenzioni multilaterali o in vigore con singoli Stati, delle disposizioni contenute negli atti normativi della Comunità Europea, nonché delle leggi italiane di emigrazione e di polizia che regolano il traffico delle persone e delle cose attraverso le linee del confine terrestre e negli scali marittimi ed aerei.
Il servizio di polizia di frontiera, regolato dal D.M. 2 agosto 1977, è posto sotto l’egida ed alle dipendenze del "Ministero dell’Interno – Dipartimento della P.S. – Direzione Centrale per la polizia stradale, ferroviaria, di frontiera e postale".
L’espletamento del servizio è affidato, in primo luogo, agli agenti della Polizia di Stato, organizzati in apposita "specialità", e in via concorsuale all’Arma dei Carabinieri e alla Guardia di Finanza che agiscono sempre sotto la direzione dei funzionari di p.s..
Al riguardo, sussiste una ripartizione dei valichi terrestri, marittimi ed aerei fra le tre Forze di Polizia ispirata a criteri di razionalizzazione delle risorse al fine di evitare duplicazioni sul territorio.
In particolare:
Il "controllo di polizia alla frontiera" consiste nell’esame dei documenti dei viaggiatori, al fine di verificarne l’identità ed accertare che essi soddisfino i requisiti previsti dalla Convenzione di Schengen, la quale prevede che possano essere autorizzate ad entrare nel territorio per un breve soggiorno le persone che non beneficiano del diritto comunitario (ovvero soggetti provenienti da Paesi che non aderiscono all’Accordo di Schengen) le quali:
Ove non sussistano le predette condizioni, l’ingresso nel territorio dello Stato deve essere rifiutato.
Il controllo delle persone che attraversano i valichi di frontiera autorizzati non comprende soltanto la verifica dei documenti di viaggio o delle altre condizioni di ingresso, di soggiorno, di lavoro e di uscita, bensì anche l’eventuale adozione di misure per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico delle Parti contraenti. Il controllo riguarda anche i veicoli e gli oggetti in possesso delle persone che attraversano la frontiera.
Nell’esercizio di questi compiti, gli agenti hanno competenza di Polizia di frontiera e competenza generale, definita in conformità alla legislazione nazionale.
Quanto alle modalità del controllo può distinguersi un «controllo minimo» ed un «controllo più approfondito», qualora se ne ravvisi la necessità.
Il controllo minimo consiste nell’accertare l’identità della persona in base ai documenti di viaggio presentati o esibiti e nel verificare in modo semplice e rapido la validità del documento che consente di attraversare la frontiera e la presenza di indizi di falsificazione o contraffazione.
I controlli più approfonditi comprendono un esame più attento dei documenti o dei visti, la verifica che la persona disponga di mezzi di sussistenza necessari sia per la durata prevista del soggiorno, sia per il ritorno o per il transito verso un Paese esterno, ovvero se detta persona sia in grado di ottenere legalmente tali mezzi.
Si procede poi alla consultazione immediata dei dati (relativi alle persone e agli oggetti di cui agli articoli da 95 a 100 della Convenzione) nel "Sistema di Informazione Schengen" e negli archivi nazionali di ricerca. Nel caso in cui questa prima "interrogazione" dia esito positivo, si procede ad una seconda interrogazione, questa rivolta agli Uffici S.I.RE.N.E. acronimo di Supplementary Information Request at the National Entry., che forniscono all’operatore di frontiera un «supplemento di informazione», cui consegue una certa condotta da seguire.
Nell’ambito del controllo approfondito si dovrà poi verificare che la persona, il suo veicolo e gli oggetti da essa trasportati non costituiscano un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale.
Ma al fine di prevenire ingressi abusivi nel territorio dell’Unione Europea – è logico che le persone in difetto ben raramente cercano di attraversare la frontiera per i varchi autorizzati, dove andrebbero incontro ad un sicuro controllo ma tentano di passare per l’aperto confine – le Forze di Polizia svolgono, altresì, una importantissima azione di vigilanza alle frontiere esterne, al di fuori dei valichi di frontiera.
Tale azione è assicurata da unità mobili che svolgono i loro compiti sotto forma di pattuglie o di postazioni in posti riconosciuti o su posti "sensibili", allo scopo di fermare le persone che attraversano illegalmente la frontiera. Per contrastare al massimo tale attraversamento illegale e combattere la criminalità transfrontaliera che organizza questo traffico clandestino, la sorveglianza è eseguita con cambiamenti frequenti e improvvisi della zona controllata, in modo da rendere l’attraversamento non autorizzato della frontiera un rischio permanente.
In tale contesto, assume particolare rilievo l’attività della Guardia di Finanza che, nel settore della vigilanza lungo la linea di confine terrestre c.d. "ideale" (cioè priva di ostacoli), ha un ruolo pressoché esclusivo.
Infatti, i reparti della G. di F. hanno tra i compiti istituzionali proprio quello di assicurare la vigilanza del confine "aperto" per finalità anticontrabbando, nonché per contrastare altri traffici illeciti che avvengono all’atto dell’attraversamento della frontiera.
Altrettanto fondamentale per impedire e reprimere l’ingresso clandestino di persone è l’azione svolta lungo il confine "aperto" marittimo. Infatti, il dispositivo di controllo alle frontiere terrestri è ulteriormente integrato da specifici piani di vigilanza in mare e sulle coste che vedono la partecipazione di tutte le forze di Polizia (Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza) nonché delle Capitanerie di Porto e della Marina Militare, impegnate con uomini e mezzi nell’attività di contrasto al fenomeno dell’immigrazione illegale.
Sulla specifica materia è intervenuta, di recente, un’apposita direttiva del Ministro dell’Interno avente l’obiettivo di realizzare il migliore impiego delle risorse disponibili per l'azione di polizia sul mare, tenuto conto del rilievo delle condotte illecite ivi perpetrate (contrabbando, traffici di stupefacenti e di armi, emigrazione e immigrazione clandestina, ecc.) e, soprattutto, dell'accresciuta responsabilità dell'Italia a tutela della frontiera esterna comune dei Paesi aderenti all'accordo di Schengen.
Al riguardo, il provvedimento ministeriale prevede che, fermi restando i compiti e le relative responsabilità operative di ciascuna Forza di Polizia, le risorse navali della Guardia di Finanza concorrono con quelle della Polizia di Stato e dell'Arma dei Carabinieri all'espletamento di servizi coordinati di controllo del territorio e di sicurezza delle frontiere marittime sul mare, nell'ambito delle pianificazioni operative predisposte dal Dipartimento della pubblica sicurezza, a norma dell'articolo 6 della legge n. 121 del 1981, e delle conseguenti direttive.
L'art. 92 e segg. della Convenzione di Schengen ha previsto la creazione di una «banca dati informatizzata» accessibile a tutti gli Stati contraenti (c.d. Sistema d’informazione Schengen - SIS) contenente un complesso di informazioni idoneo ad agevolare i controlli di frontiera, di polizia e di dogana (e relativo fra l’altro alle persone ricercate per l’arresto a fine di estradizione, agli stranieri segnalati per motivi di ordine pubblico, alle persone implicate nella criminalità organizzata, ai beni ricercati a fini di sequestro personale).
Gli organi nazionali di collegamento con il S.I.S. sono denominati S.I.RE.N.E., acronimo di Supplementary Information Request at the National Entry., che forniscono all’operatore di frontiera un «supplemento di informazione», cui consegue una certa condotta da seguire.
Il S.I.S. è costituito da una sezione nazionale presso ciascun Paese aderente all’accordo (indicata come N-SIS) e da un’unità di supporto tecnico situata a Strasburgo (ed indicata come C-SIS). Ciascuna struttura (sia N-SIS che C-SIS) possiede una copia identica della base informativa. La base informativa del C-SIS costituisce il riferimento di tutto il sistema. È proprio il C-SIS che coordina e controlla l’aggiornamento in tempo reale di tutte le altre basi informative a partire dalla richiesta di un N-SIS.
L’unità N-SIS italiana dipende dal Ministero dell’Interno e coinvolge nel suo funzionamento i Ministeri di Grazia e Giustizia e degli Affari Esteri. Coerentemente alla struttura di ogni altro N-SIS, anche quello italiano è integrato da un Ufficio S.I.RE.N.E., dipendente dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale di Polizia Criminale.
Si tratta, in sostanza, di una struttura operativa che impegna il personale delle tre forze di polizia (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza) in funzione 24 ore su 24.
Migliaia di terminali permettono nell'Area di Schengen di accedere in qualsiasi momento
al Sistema di Informazione (Keystone)
L’articolo 41 della Convenzione di Schengen consente di continuare sul territorio di un altro Stato contraente l’inseguimento di un evaso ovvero di una persona colta in flagranza o imputata di un grave reato (omicidio, stupro, incendio doloso, estorsione, sequestro di persona, tratta di persone, traffico di stupefacenti, di armi e di esplosivi).
L’inseguimento può essere effettuato anche in assenza di una preventiva autorizzazione da parte delle Autorità dello Stato sul cui territorio esso avviene; queste ne vanno però informate immediatamente (e comunque non oltre il momento in cui è attraversata la frontiera) e possono disporne la cessazione.
Se ne fanno richiesta gli agenti impegnati nell’inseguimento, le Autorità localmente competenti sono peraltro tenute a fermare la persona inseguita per verificarne l’identità e, se del caso, procedere al suo arresto.
L’inseguimento può avvenire attraverso la frontiera terrestre o marittima e non consente l’ingresso nei domicili e nei luoghi non aperti al pubblico.
In via generale, la Convenzione, che vieta agli agenti impegnati nell’inseguimento di procedere autonomamente al fermo dell’inseguito, consente di derogarvi quando ricorrono situazioni particolari, che, tra l’altro, non consentono alle autorità locali di intervenire tempestivamente.
In merito, la disciplina relativa alle modalità di esecuzione - in applicazione dell’articolo 3, paragrafo 2, del citato Accordo di Adesione e, comunque, limitatamente al solo diritto di inseguimento attraverso la frontiera comune italo-francese -, è stata prevista nei rapporti tra Italia e Francia secondo due dichiarazioni unilaterali dei rispettivi Governi, di contenuto sostanzialmente identico, in virtù delle quali:
Anche quando è consentito, il fermo ha comunque effetto solo fino al momento in cui le Autorità locali non hanno potuto verificare l’identità della persona inseguita o hanno proceduto al suo arresto.
Nell’ipotesi di fermo, gli agenti "inseguitori" possono far uso di manette, sequestrare gli oggetti in possesso del "fermato" ed effettuare la sua "perquisizione di sicurezza".
Per la Guardia di Finanza, secondo gli artt. 2 e 3 dell’Accordo di Adesione alla Convenzione, l’esercizio dell’osservazione e dell’inseguimento è stato limitato agli illeciti relativi alla falsificazione di denaro, al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope, al traffico di armi e esplosivi nonché al trasporto di rifiuti tossici e nocivi, mentre per la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri è stata considerata una competenza piena per i reati previsti dagli artt. 40 e 41 della Convenzione.
Nel corso degli ultimi anni, la crescita intensa dei flussi migratori verso gli Stati europei ha messo in evidenza la necessità di adottare una politica comune in materia di immigrazione e asilo e di avviare un processo di cooperazione tra i vari Paesi.
Le basi di tale politica comune sono state poste durante il "Consiglio Europeo di Amsterdam", tenutosi nel giugno del 1997. In quella occasione, con la stesura del Trattato omonimo, sono state introdotte alcune novità che hanno portato alla redazione del Titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità Europea (Trattato CE), dedicato a Visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone (artt. 61-69).
Le nuove disposizioni prevedevano che entro un periodo di cinque anni a decorrere dall'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam (cioè a partire dal 1 maggio 1999), il Consiglio dell'Unione Europea definisse norme e procedure minime, comuni a tutti gli Stati membri, in materia di controllo delle frontiere esterne (cioè con Paesi terzi, ossia qualunque Stato diverso da quelli aderenti a Schengen), ingresso, soggiorno (sia di breve sia di lunga durata), contrasto all'immigrazione clandestina e rimpatrio dei cittadini irregolari. Era inoltre prevista l'adozione di norme comuni relative alla politica di asilo e alla cooperazione giudiziaria e amministrativa.
In seguito agli eventi dell' 11 settembre 2001, tuttavia, la scadenza fissata ad Amsterdam è stata rivista e gli obiettivi inizialmente previsti sono stati ridefiniti. La priorità della lotta al terrorismo ha imposto di riservare maggiore attenzione al contrasto dell'immigrazione clandestina e al controllo delle frontiere esterne, e ha collocato in secondo piano tutti gli altri interventi, che sono ancora in fase di definizione.
I flussi di immigrazione illegali
Il nostro Paese, come ben sappiamo, per la sua posizione centrale nel Mediterraneo è un naturale crocevia di traffici, leciti ed illeciti, che si dispiegano lungo le rotte marittime. In particolare è il traffico di clandestini che si sta configurando come il più lucroso ma anche il più infimo, in quanto sfrutta la disperazione della gente. I flussi migratori sono oggi un fenomeno molto preoccupante, in quanto “le migrazioni clandestine si svolgono quasi sempre con modalità e mezzi tali da mettere in pericolo la vita stessa di coloro che, per necessità, cercano fortuna al di fuori del loro paese”.
La quasi totalità degli ingressi clandestini (a parte il caso del confine italo-sloveno e di pochi ingressi tramite via aerea) avviene infatti sulle nostre coste a bordo delle cosiddette “carrette” del mare. Il crescente flusso migratorio clandestino che attraversa le nostre frontiere marittime richiede quindi al personale del Corpo delle Capitanerie di Porto, unitamente alle FF.AA. e alle Forze di polizia, un ulteriore sforzo per fronteggiare i conseguenti problemi di soccorso e ordine pubblico.
Per fronteggiare la situazione il Comando Generale delle Capitanerie di Porto ha disposto l’impiego di numerosi mezzi navali. Di recente, in base a quanto disposto in materia di contrasto all’immigrazione clandestina dal D.M. 14 luglio 2003 (Disposizioni in materia di contrasto all'immigrazione clandestina) è stata configurata con precisione l’attività di vigilanza, prevenzione e contrasto via mare a tale fenomeno.
L’art. 1 della legge assegna le «attività di vigilanza, prevenzione e contrasto dell'immigrazione clandestina via mare», a norma dell'art. 12 del Testo Unico di cui al D.lgs 25 Luglio 1998, n. 286, di seguito denominato «testo unico» ai mezzi aeronavali della marina militare, delle Forze di polizia e delle Capitanerie di porto, lasciando però il raccordo degli interventi operativi in mare e i compiti di acquisizione ed analisi delle informazioni alla direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del Dipartimento della Pubblica Sicurezza.
Nell’art. 2 vengono delineate le «fasi» attraverso cui si sviluppa l’attività di prevenzione e contrasto, prima di tutto si cerca di intervenire diplomaticamente direttamente nei Paesi di origine dei flussi con l’obiettivo di prevenire il fenomeno. In acque internazionali invece si interviene attraverso l’esercizio dei "poteri di polizia dell’alto mare", diretti al monitoraggio, alla sorveglianza, alla individuazione, al controllo degli obiettivi navali in navigazione ed all’accertamento di flussi migratori clandestini utilizzando i mezzi aeronavali della Marina Militare, del Corpo delle Capitanerie di Porto e della Guardia di Finanza.
Nelle "acque territoriali" infine, l’intervento è diretto all’attività istituzionale delle forze di polizia, diretta alla repressione dei reati ed alla scoperta delle connessioni con le organizzazioni transnazionali che gestiscono il traffico illecito, ed è svolto con unità e mezzi navali in servizio di polizia, con il concorso se necessario della marina Militare.
Nel caso cui dovesse presentarsi la necessità di intervenire in soccorso di una di queste unità, sempre l’art. 2 riafferma le competenze del Corpo delle Capitanerie di Porto in materia di salvaguardia della vita umana in mare e conferma il coordinamento degli interventi di soccorso. C’è da notare che, purtroppo, questo aspetto ha portato a situazioni in cui, sempre più spesso, ogni unità che effettui il traffico di clandestini si dichiari in stato di emergenza, trasformando così l’immigrazione clandestina in una situazione SAR (Search and Rescue) a cui solo il Corpo delle Capitanerie di porto è chiamato per legge ad intervenire per prestare soccorso.
Quest’ultimo è attribuito in via prioritaria alle Forze di polizia secondo i piani regionali, di coordinata vigilanza nelle acque territoriali ed interne, aspetto questo abbastanza contorto in quanto, esistendo già il Corpo delle Capitanerie di Porto che svolge anche funzioni di polizia giudiziaria e può intervenire per espletare funzioni di P.G., non si riesce a capire per quale motivo altri corpi di polizia debbano svolgere quest’attività in un ambiente a loro poco congeniale, come quello marino.
In acque internazionali, l’art. 5 della legge ci dice che deve essere “assicurata una costante attività di vigilanza” per localizzare, identificare e tracciare le unità sospette, per far ciò bisogna ricorrere principalmente ai mezzi aerei che garantiscono la copertura di una più vasta superficie e grazie anche ai sistemi moderni di tracciamento una maggiore riservatezza.
In questi casi è CINCNAV che assume il coordinamento operativo, svolge l’attività di raccordo delle fasi di pianificazione dell’attività con il Comando Generale delle Capitanerie di Porto (Centrale Operativa) e dirama ai mezzi coinvolti le direttive di intervento, difatti i mezzi aeronavali delle Capitanerie di Porto e delle altre Forze di polizia, devono stabilire collegamenti radio con le unità della marina.
Nelle acque territoriali e nella zona contigua l’attività di vigilanza, controllo e contrasto al traffico di clandestini, ai sensi dell’art. 6 della legge, viene svolta dalle unità delle Forze di polizia, mentre le unità della marina e delle Capitanerie di Porto concorrono a tale attività con la tempestiva comunicazione dell’avvistamento di unità in arrivo, in attesa dell’intervento delle Forze di polizia.
Nell’art. 7 della legge vengono infine delineate, al verificarsi di una delle qualsiasi operazioni citate, nel caso che la nave sospetta sia in effetti malintenzionata, un caso di "inseguimento transfrontaliero", principalmente se ci si trova in acque internazionali dove, lo ricordiamo, può essere esercitato il “diritto di visita”, previa autorizzazione del paese di bandiera. Si tratta comunque di una eventualità remota, perché sappiamo che i cosiddetti scafisti abbandonano le loro vittime prima di raggiungere la costa o per sfuggire alla cattura si mimetizzano con gli altri clandestini, comunque le unità con cui essi giungono sulle nostre coste, soprattutto negli ultimi anni, non sono quasi mai idonei alla navigazione, tantomeno per un inseguimento.
L’illecito consiste nel detenere a bordo di una nave mercantile (nella cui nozione rientrano ovviamente le unità della flotta lusoria) sostanze stupefacenti o psicotrope al fine di fabbricarle, distribuirle, trasportarle, trasbordarle o venderle. Esso è, come naturale, perseguibile nelle acque marittime interne, nelle acque territoriali e nella zona contigua secondo la legislazione nazionale dello Stato costiero; la sua commissione in queste zone giustifica anche l’esercizio del «diritto di inseguimento».
In alto mare tale illecito non costituisce viceversa, allo stato attuale del diritto internazionale, un illecito internazionale (crimen juris gentium) con la conseguenza che non è perseguibile né dalle navi da guerra, né dalle navi in servizio governativo, né dagli aeromobili militari aventi bandiera diversa della nave che effettua il traffico di droga.
Poteri di intervento in alto mare, in presenza di casi del genere, sono invece riconosciuti alle "unità militari", soltanto ove ciò:
Un‘iniziativa concreta intesa a rafforzare gli sforzi della comunità internazionale per contrastare il traffico di droga in mare è stata assunta dal Consiglio d’Europa con l’Accordo di Strasburgo del 31 gennaio 1995, «Agreement on Illicit Traffic by Sea, implementing article 17 of the United Nations Convention against Illicit Traffic in Narcotic Drugs and Psychotropic Substances» riportato in Annesso E.
Esso è applicativo dell’art. 17 della Convenzione di Vienna del 1988 e, senza introdurre sostanziali varianti al regime consensuale del diritto di visita codificato nella Convenzione del Diritto del Mare del 1982, si limita a introdurre misure per facilitare la cooperazione tra i Paesi aderenti al Consiglio d’Europa (Organizzazione garante della sicurezza democratica basata sul primato del diritto, che è distinta dall’Unione Europea ma di cui fanno tuttavia parte tutti i Paesi che compongono l’Unione).
Di rilievo sono le disposizioni dell’Accordo che prevedono la possibilità per gli Stati parte di:
La legislazione italiana sulla disciplina degli stupefacenti (D.P.R. 9.10.1990, n.309, art. 99) stabilisce in materia, nel quadro della normativa suindicata, che:
Particolare importanza assume, nell’ambito dell’attività investigativa volta alla risoluzione, nel caso di «rinvenimento di un cadavere», l’attività tecnico-scientifica diretta a stabilire l’epoca della morte.
La «Tanatologia» (dal greco θάνατος, thànatos - "morte", e λόγος, lògos - "discorso" o "studio") ha il compito di studiare i fenomeni della morte ed i cambiamenti di ordine fisico, chimico e morfologico che si svolgono sul cadavere. In particolare, la “tanatologia forense” è quel capitolo di tale disciplina che studia il cadavere in relazione alle esigenze giudiziarie, amministrative e professionali connessi all’avvenimento stesso della morte.
Si tenga presente che la morte non è un atto che si completa nell'immediato, ma è prolungata nel tempo, con la vita che continua in organi e apparati anche a decesso avvenuto, in modo a noi impercettibile. È proprio su questo principio che si basa la progressione dei fenomeni cadaverici.
Tali cambiamenti fenomenici avvengono nella struttura del corpo e, quando possono essere osservati dall'esterno, come avviene in sede di sopralluogo e autopsia, vengono definiti «segni».
I fenomeni cadaverici comprendono l’insieme dei cambiamenti della struttura organica e dello stato fisico-chimico, cui va incontro il corpo dopo la morte. A scopo didattico essi vengono suddivisi in tre gruppi:
I fenomeni sono detti «abiotici» quando dipendono dalla cessazione delle attività vitali; ecco perché i segni che li rivelano all'osservatore sono "negativi".
Si differenziano dai fenomeni «trasformativi», che determinano modificazioni importanti del cadavere. I segni che li rivelano sono pertanto detti "positivi".
Di seguito, uno schema riassuntivo del loro significato e del periodo di comparsa, tenendo sempre presente che ci sono molte variabili, intrinseche (del corpo) ed estrinseche (dell'ambiente) che si combinano tra loro in vario modo, così da non rendere sempre attendibile la cronologia riportata (da intendersi dunque come parametro medio a condizioni standard).
► Classificazione dei fenomeni cadaverici
Abiotici immediati:
Abiotici consecutivi:
Trasformativi distruttivi:
Trasformativi speciali:
I «fenomeni abiotici immediati» fanno parte integrante della fenomenologia della morte e rappresentano i primi segni esteriori della morte stessa, mostrando lo stato in cui viene a trovarsi il corpo subito dopo la cessazione delle attività vitali. I fenomeni sono detti "abiotici" quando dipendono dalla cessazione delle attività vitali; ecco perché i segni che li rivelano all'osservatore sono «negativi».
La "perdita della coscienza" e delle "altre facoltà cerebrali superiori" è il primo e più evidente dei fenomeni che si manifestano al momento della morte.
La "abolizione della sensibilità generale e specifica" è un altro aspetto indicativo del cessare della funzione autonoma del sistema nervoso centrale e pari significato hanno la "perdita della motilità volontaria" e il "rilassamento del tono muscolare".
L’arresto della respirazione polmonare e dell’attività cardio-circolatoria, con la fenomenologia che ne consegue, completa il quadro dei segni indicativi della realtà della morte.
Tali quesiti, di regola, vengono risolti dal Magistrato inquirente al perito Medico legale. L’ Ufficiale di polizia giudiziaria, tuttavia, deve conoscere la sintomatologia ed i procedimenti che consentono di fornire la risposta ai quesiti proposti in modo da poter intervenire efficacemente nelle prime indagini rilevando i dati (immediati) utili agli accertamenti medico-legali, che in genere sono successivi.
Nonostante la constatazione di questi fatti di rilievo immediato, dei dubbi più o meno fondati possono comunque sorgere sulla realtà della morte. Può esistere, infatti, la possibilità di stati "catalettici" che possono ridurre le più appariscenti manifestazioni vitali a minime espressioni di difficile rilievo ma dai quali l’organismo potrebbe riaversi.
Sono, invece, sintomi reali di morte i fenomeni "abiotici consecutivi" (il raffreddamento, la disidratazione, l’ipostasi,
l’irrigidimento muscolare) e quelli "trasformativi" (la putrefazione, la macerazione, la saponificazione e la mummificazione).
I fenomeni cadaverici comprendono l’insieme dei cambiamenti della struttura organica e dello stato fisico-chimico, cui va incontro il corpo dopo la morte.
Sono sintomi reali di morte i fenomeni «abiotici consecutivi» (il raffreddamento, la disidratazione, l’ipostasi, l’irrigidimento muscolare). I fenomeni sono detti "abiotici" quando dipendono dalla cessazione delle attività vitali; ecco perché i segni che li rivelano all'osservatore sono «negativi».
Con il cessare delle atttività produttive di calore (termogenesi), il cadavere va incontro ad un progressivo abbassamento della temperatura, la quale si disperde attraverso la superficie del corpo, fino a livellarsi con quella dell’ambiente esterno. Il raffreddamento inizia, in genere, dopo alcune ore dal decesso mediante la perdita di un grado ogni ora. Verso la 22° - 23° ora dal decesso il cadavere raggiunge la temperatura dell’ambiente. Questa osservazione può permettere di determinare approssimativamente l’ora della morte (entro le prime 24 ore) mediante il rilievo della temperatura del cadavere con appositi termometri rettali a squadra in dotazioni ai Comandi delle Forze di polizia.
Non è di questa sede lo studio analitico della c.d. curva di raffreddamento del cadavere, dato che numerose condizioni estrinseche ed intrinseche al cadavere possono determinare sensibili modifiche all’andamento della curva stessa.
Tra le condizioni estrinseche (ossia dipendenti dall’ambiente) si pone la temperatura, l’umidità ambientale e l’acqua, la ventilazione, l’inverno e l’estate mentre tra quelle intrinseche (es. stato febbrile, l’adiposità, l’ipertonia, gli stati algidi, l’età -cadaveri dei bambini si raffreddano più rapidamente) in cui si trovava il soggetto al sopraggiungere della morte.
In alcuni casi, poi, il raffreddamento si può trasformare dal fenomeno abiotico consecutivo in fenomeno abiotico immediato. In tali casi il cadavere si raffredda immediatamente subito dopo il decesso (es. morte per scannamento a causa della perdita di sangue; morte per anemia acuta).
L’arresto della circolazione sanguigna e linfatica fa sì che i tessuti non vengono riforniti di liquidi e ciò porta all’essiccamento della cute e di altri tessuti.
L’essiccamento cutaneo compare alcune e dopo la morte dove l’epidermide è più sottile come lo scroto, le pinne nasali e le labbra.
Evidenze della disidratazione sono le modificazioni del bulbo oculare (tanatoftalmologia) apprezzabili dopo 12-24 ore dalla morte:
È tra i fenomeni della vita residua. La perdita di questa proprietà fondamentale dell’organismo vivente costituisce un fenomeno cadaverico abiotico, di comparsa consecutiva. La perdita dell’eccitabilità neuromuscolare è collocabile tra i segni certi della morte, mentre meno sicuri sono i criteri di tanatocronologia fondati su tale fenomeno.
Nell’organismo vivente i tessuti ed i liquidi hanno reazione leggermente alcalina. Nel cadavere, invece, la reazione dei liquidi e dei tessuti diviene nettamente acida, fenomeno significativo che è dovuto all’arresto delle ossidazioni organiche e nell’accumulo di cataboliti nei tessuti, particolare dell’acido lattico che deriva dalla glicolisi post-mortale.
L’acidificazione inizia assai presto e si completa tra le 4 e 7 ore dopo la morte. L’acidità cadaverica cessa con il sopraggiungere della putrefazione, che provoca l’alcalinità dei tessuti.
Col cessare della circolazione il sangue per forza di gravità, si sposta nelle regioni declivi del cadavere e riempie i vasi del derma che si dilatano passivamente facendo comparire nella cute una colorazione rosso vinosa (Vedi figura).
La sede delle ipostasi (macchie ipostatiche) varia a seconda della posizione del corpo: nella posizione supina, esse, si formano alla nuca, alle orecchie, al dorso e alla faccia posteriore degli arti; nella posizione prona, le ipostasi sono ventrali; nel decubito laterale esse compaiono nell’emisoma venuto a trovarsi in posizione declive.
Negli impiccati si formano nelle parti distali degli arti, disposte a guanto o a calzino.
Si formano anche le ipostasi paradosse (in sede epistatica) per spostamento dl sangue dovuto alla residua attività contrattile delle arteriole.
Il tempo di comparsa è variabile. In genere le postasi iniziano a comparire circa mezz’ora dopo la morte ma sono ancora tenui, scarse e rosa pallido; cominciano a confluire e a rendersi evidenti dopo 4-6 ore e raggiungono la massima estensione e intensità tra la 12° e la 18° ora. Sono precoci ed intense negli stati di fluidità del sangue (asfissie acute, morte improvvisa, avvelenamento da anticoagulanti); sono tardive e scarse nella rapida coagulazione del sangue (ustioni), nelle disidratazioni, e nella morte per dissanguamento.
Il colore delle ipostasi, normalmente rosso vinoso, assume tonalità cianotica nelle morte asfittiche, rosso vivo nell’avvelenamento da CO, per formazione di carbossi-emoglobina, rosso acceso nell’avvelenamento da cianuri.
Le ipostasi sono rosso rosee nei cadaveri di annegati, di sommersi, di assiderati; quando sopraggiunge la putrefazione le macchie ipostatiche assumono colore verdastro; negli stati putrefattivi più avanzati divengono brunastre per la trasformazione dell’emoglobina in metaemoglobina e in ematina.
Subito dopo la morte la muscolatura scheletrica perde il tono vitale e l’intero corpo assume un atteggiamento di completo abbandono.
La rigidità cadaverica compare in genere dopo tre/quattro ore dal momento della morte. Evidenziandosi, dapprima, nei muscoli della mandibola ed in quelli mimici del viso, poi nei muscoli della nuca, in quelli degli arti superiori e del tronco ed infine nei muscoli degli arti inferiori, pur non essendo rare possibili anomalie nella diffusione del c.d. rigo mortis. Come già detto a proposito del raffreddamento del cadavere, anche qui influiscono fattori intrinseci (grado di sviluppo muscolare, età dell’individuo, il genere di morte, ecc.) ed estrinsechi (temperatura ambientale, umidità e ventilazione).
Agli effetti dell’indagine giudiziaria è necessario tener presente che l’instaurazione progressiva del fenomeno permette di individuare tre periodi distinti: La rigidità cadaverica segue infatti un ordine nell’insorgenza e nella scomparsa attraverso tre fasi secondo la legge di Nysten:
Secondo i moderni orientamenti la rigidità cadaverica è ritenuta una forma speciale di contrazione muscolare in cui avrebbe un ruolo determinante all’ATP: quando questo componente scompare dopo la morte si avrebbe la gelificazione dei filamenti di miosina e di actina con la formazione di un’acto-miosina insolubile che manterrebbe le fibre muscolari in uno stato di rigidità. La risoluzione spontanea della rigidità cadaverica si avrebbe quando l'autolisi post-mortale e l'iniziale putrefazione provocano la lisi dei miofilamenti e il distacco dell'actina dalla miosina, col risultato di un completo e definitivo rilasciamento della rigidità post-mortale.
La rigidità cadaverica può essere influenzata da numerosi fattori :
La rigidità cadaverica, vinta meccanicamente forzando il movimento delle articolazioni, si ripristina dopo le prime ore dalla morte, poi non più: ciò può accadere per le manipolazioni impresse al cadavere durante le manovre di trasporto o di vestizione.
I fenomeni cadaverici comprendono l’insieme dei cambiamenti della struttura organica e dello stato fisico-chimico, cui va incontro il corpo dopo la morte. I fenomeni «trasformativi» determinano modificazioni importanti del cadavere. I segni che li rivelano sono pertanto detti "positivi".
L’autolisi prende avvio quando cessano nella cellula le attività della vita residua e comincia l'acidificazione del mezzo ambiente. Questa autodistruzione avviene a opera degli enzimi endocellulari, contenuti nei lisosomi, i quali distruggono le strutture fondamentali della cellula, modificandone l'aspetto.
Al microscopio è possibile osservare: vacuolizzazione e granulosità del citoplasma, picnosi e disfacimento del nucleo nonché rottura della membrana cellulare. L'autolisi è presente in tutti gli organi, ma in particolare la mucosa gastrica, il pancreas e la midollare surrenale.
Oltre l'autolisi, nel cadavere avvengono processi di autodigestione vera e propria, dovuta ai fermenti proteolitici e lipolitici contenuti nei succhi gastrico e pancreatico. Avvenuta la morte, questi succhi attaccano le cellule devitalizzate iniziando dagli organi in cui essi sono prodotti e poi interessando quelli vicini.
Questo dato tanatologico si evidenzia come fenomeno di trasformazione cadaverica dovuto all’attività di particolari fattori che distruggono la materia organica, così da scinderla in composti chimici più semplici quali l’acqua, l’anidride carbonica. In determinate circostanze la putrefazione viene sostituita da anomale trasformazioni del cadavere, quali:
Il meccanismo putrefattivo consiste nella degradazione e decomposizione dei tessuti ad opera di germi anaerobi e aerobi, i cui enzimi provocano la fermentazione putrida dei tessuti stessi con formazione di gas.
I germi, in prevalenza anaerobi, sono per gran parte ospiti abituali dell’intestino, dove vivono come saprofiti; altri batteri provengono dall'esterno e penetrano nel cadavere attraverso le aperture naturali o le eventuali soluzioni di continuo della cute.
I principali microrganismi della putrefazione appartengono al gruppo dei B. perfrigens, dei putrifici, dei clostridi, dei protei, dei cocchi e dei coli, i quali, superata la parete intestinale, si diffondono a tutto il corpo.
Per azione dei germi vengono scisse le proteine, che sono degradate a peptidi, aminoacidi, amine libere e gas (idrogeno solforato, ammoniaca, azoto e altri gas putrifici). Dalla decomposizione putrefattiva delle sostanze organiche si formano, composti basici azotati, dette ptomaine.
► La putrefazione è influenzata da fattori di diversa natura:
Tra i fattori intrinseci si ricordano: l’età, (la putrefazione è rallentata nei feti per la sterilità del canale digerente); la costituzione fisica (la putrefazione è più rapida nei soggetti pletorici rispetto a quelli magri poiché la quantità di liquidi nei tessuti).
Importante è il genere di morte poiché la putrefazione è precoce e rapida nei soggetti defedati ed in deceduti a seguito di infezioni settiche.
Anche le morti asfittiche accelerano i processi putrefattivi poiché lo stato fluido del sangue favorisce la moltiplicazione e la diffusione dei germi.
Per contro, vi sono cause di morte che ritardano la putrefazione (morte per anemia acuta, terapia antibiotica ).
Tra i fattori estrinseci va ricordata la temperatura ambientale: quella compresa tra i 25° e i 35 °C è ottimale per lo sviluppo dei germi putrefattivi. L'influenza delle condizioni ambientali, climatiche e stagionali è stata compendiata nella regola seguente: il grado di putrefazione raggiunto in un'ora nel periodo estivo equivale a quello di un giorno nel periodo invernale.
È nota la formula (x = 1,2,8) enunciata così da Casper: se il grado di putrefazione di un cadavere esposto all'aria in condizioni medie richiede tempo 1, questo tempo sarà del doppio quando il cadavere è stato sott'acqua e sarà 8 volte maggiore se il cadavere è stato sotto terra.
► Il processo della putrefazione viene suddiviso in quattro periodi o stadi:
Periodo Cromatico: detto così a causa della colorazione verde assunta dalla superficie cutanea del cadavere. Il processo colorativo inizia in sede iliaca destra, corrispondente all'intestino cieco, dove maggiormente pullulano i germi putrefattivi. La macchia verde compare mediamente tra le 18 e le 36 ore dalla morte. La colorazione verde putrefattiva è dovuta alla presenza di idrogeno solforato, prodotto dalla scissione delle sostanze proteiche, il quale si diffonde nei tessuti e si combina col pigmento ematico liberato dalla lisi dei globuli rossi, formando la solfometaemoglobina, cui è dovuta la tinta verde.
Dalla sede ileo-cecale la macchia verde si estende alla parete addominale, poi al tronco, alla testa e agli arti, seguendo il decorso dei vasi venosi superficiali, che si rendono evidenti in forma di arborizzazioni di colorito rosso scuro e poi verdastro (reticolo venoso putrefattivo) alla cui formazione contribuisce lo sviluppo dei gas che dilata i vasi e spinge il sangue verso le aree periferiche.
Periodo Enfisematoso: (3-4 giorni d’estate, 7 giorni d’inverrno) così definito per la formazione dei gas putrefattivi (azoto, idrogeno libero e solforato, anidride carbonica, etc.) ad opera dei germi anaerobi.
In tal modo il cadavere è sottoposto a una distensione notevole, che ne modifica profondamente l'aspetto esteriore. L'addome è tumido, timpanico e di forma batraciana; il volto è tumefatto, le palpebre e le labbra sono rigonfie, i bulbi oculari e la lingua protrudrono (facies negroide). A questo punto l'intero cadavere assume un volume enorme (aspetto gigantesco). La cute conserva in parte il colorito verdastro, poi vira verso il bruno - nerastro; lo strato corneo è scollato e sollevato da vescicole contenenti sierosità e si distacca a larghi lembi alle mani e ai piedi formando stampi a guisa di guanto o di calza (epidermolisi putrefattiva). Anche i capelli si staccano a ciocche. La pressione dei gas provoca lo spostamento del sangue dentro i vasi (circolazione post-mortale), il sanguinamento delle ferite, la perdita di feci, il prolasso del retto e della vagina e, nelle donne morte gravide, l'espulsione del feto (il c.d. parto nella bara).
Periodo Colliquativo: esso consiste nella fusione putrida dei tessuti, già imbibite rammolliti dai precedenti stadi della putrefazione (malacia cadaverica). Tale processo inizia assai precocemente ma si rende evidente col passare del tempo, cioè dopo 2-3 settimane dalla morte in estate e dopo alcuni mesi in inverno.
Gli organi e i tessuti, attaccati dai processi distruttivi, colliquano non contemporaneamente ma in tempi variabili secondo la struttura parenchimatosa o fibrosa. Gli organi interni perdono la loro elasticità naturale e divengono flaccidi, friabili, pastosi, ridotti di volume e di colorito rosso-scuro o bruno- verdastro. La maggiore resistenza alla putrefazione è offerta dai tendini, dai legamenti, dalle fasce aponeurotiche e dai grossi vasi arteriosi alla cui distruzione possono occorrere 3 - 5 anni. La colliquazione dei tessuti molli richiede minore tempo (come accade nelle surrenali, nella milza e nel pancreas). La prostata e l'utero a riposo colliquano tardivamente, per la loro compatta struttura fibro-muscolare (importante per identificare il sesso del cadavere in avanzata putrefazione).
Periodo della Scheletrizzazione: la riduzione scheletrica del cadavere si completa in media dopo 3-5 anni. Avvenuta la distruzione delle parti molli, scompaiono poi i tessuti fibrosi, tendinei e cartilaginei e restano le sole ossa, isolate dalla primitiva impalcatura scheletrica. Col passare del tempo le ossa si liberano anche dai più piccoli residui i parti molli ancora adesi, essiccati o incrostati. Dopo molti anni avviene la decalcificazione che rende i resti ossei leggeri, porosi, friabili e suscettibili di polverizzazione al minimo contatto. In particolari condizioni, grazie a lenti processi di mineralizzazione, le ossa possono fossilizzare.
Alla distruzione del cadavere, oltre i processi ordinari della putrefazione, possono partecipare la «fauna», rappresentata da animali di varia specie (larve di insetti, insetti, crostacei, uccelli, mammiferi roditori e carnivori) e la «flora» (miceti) che attaccano le parti molli dei cadaveri abbandonati all'aperto, immersi nell'acqua o inumati a poca profondità.
La «fauna cadaverica» è costituita soprattutto da insetti i quali, nei cadaveri esposti all'aria, si avvicendano a «squadre», attratti dai prodotti organici della decomposizione post-mortale. Già nel periodo cromatico compare la prima squadra, formata da ditteri, cioè la comune mosca domestica, la calliphora e la curtoneura.
Quando inizia l'enfisema putrefattivo, compare la seconda squadra di mosche, del genere Lucilia, Sarcophaga e Cynomya. Dopo 3-6 mesi interviene la terza squadra, composta da coleotteri e lepidotteri.
In seguito, attratta dai liquami putridi, interviene la quarta squadra, costituita da altre specie di mosche e da alcuni coleotteri, che invade il cadavere dopo circa un anno dalla morte.
Una volta iniziata la colliquazione putrida, si presentano altre specie di ditteri e di coleotteri, formanti la quinta squadra, quali i generi Tyreophor, Ophyra.
Quando è stata distrutta gran parte della materia organica, entra in campo la sesta squadra, formata da acari prosciugatori che assorbono la maggior parte dei liquami cadaverici.
Le parti molli così disseccate vengono attaccati dalla settima squadra, composta da alcuni coleotteri e lepidotteri, cioè farfalle e scarafaggi che provvedono alla riduzione scheletrica operando a distanza di circa 1-3 anni dalla morte.
Gli ultimi resti di sostanza organica ancora presenti vengono eliminati dalla ottava squadra, formata da piccoli coleotteri, che dal quarto al quinto anno completano la scheletrizzazione.
L'ordine di successione dei cosiddetti «lavoratori della morte» può essere utilizzato, con le dovute cautele,tenuto conto delle regioni e dei climi, per dedurre l'epoca a cui risale la morte.
La «flora cadaverica», è rappresentata da talune specie di funghi che possono colonizzare nel cadavere inumato o tumulato, interessa la tanatologia. Queste muffe, tipo aspergilli, penicilli, chenomiceti, trichoderma, ecc., limitano la loro azione ai piani superficiali della cute perciò il potere distruttivo esercitato sui tessuti cadaverici è minimo.
Qualche interesse può avere lo studio delle diverse colonizzazioni fungine per fissare l'epoca della morte.
È un processo trasformativo che consiste nell'imbibizione idrica dei tessuti quando il cadavere soggiorna in ambiente liquido.
La forma di macerazione tipica, in assenza di germi putrefattivi, è quella subita dal feto morto nell'utero, il quale ha il canale digerente ancora sterile ed è immerso nel liquido amniotico, a membrane integre.
Negli stadi iniziali il liquido imbeve l'epidermide, che rigonfia, si solleva in pieghe e in bolle e si distacca in larghi lembi, mettendo a nudo i tessuti sottostanti, che appaiono di colore rosso-roseo, umidi e viscidi. I feti macerati, rimasti nell'utero da una a tre settimane e più, mostrano l’accentuazione dei fenomeni di macerazione cutanea, gli organi e i tessuti fortemente imbibiti e infiltrati di sierosità ematica (feto sanguinolento).
Il cervello è ridotto a una massa poltigliosa; le cavità celomatiche sono piene di liquido tinto in rosso pallido; i polmoni e il fegato sono molli e friabili. Nel feto avviene il riassorbimento della parte liquida; in un secondo tempo, sui tessuti disseccati si possono formare precipitazioni calcaree trasformando il feto in litopedio, calcificatosi per la lunga ritenzione nell'utero.
La macerazione, nel cadavere annegato, si rende evidente nell'epidermide, specie dove questa è spessa e callosa (palmo delle mani e pianta dei piedi) la quale, già dopo qualche ora di permanenza in acqua, rigonfia, rammollisce, diviene bianca, viscida e grinzosa. Dopo vari giorni di sommersione il rivestimento cutaneo comincia a distaccarsi a modo di guanto o di calza.
La mummificazione consiste in un processo di essiccamento dei tessuti del cadavere, i quali, in determinate condizioni ambientali, subiscono una rapidissima disidratazione e si prosciugano assumendo aspetto e consistenza coriacei. Questo fatto priva i tessuti cadaverici dell'acqua necessaria allo sviluppo dei germi della putrefazione, che viene perciò inibita (Vedi figura).
Le condizioni naturali che favoriscono la mummificazione sono, in primo luogo, la temperatura elevata e la buona ventilazione dell'ambiente, che rendono secca l'aria e agevolano in tal modo l'evaporazione e la sottrazione dei liquidi dal cadavere. La mummificazione avviene anche in ambienti freschi, purché molto asciutti e ventilati, ad esempio, nel buio delle caverne e dei sotterranei. Si conoscono località (cimiteri, chiostri, chiese, cripte, ecc.) nelle quali i cadaveri vanno incontro alla mummificazione in modo quasi costante.
Le condizioni individuali sono altrettanto importanti, poiché la mummificazione avviene più facilmente nei cadaveri di persone magre, denutrite, morte per cachessia, per profuse emorragie o in stato di disidratazione.
Tranne le mummificazioni molto rapide, avvenute dopo alcune settimane, o dopo 2-3 mesi, il processo si completa generalmente entro un anno e tale si mantiene per decenni o per secoli.
È nota la mummificazione cui può andare incontro il feto morto entro l'utero in presenza di scarso liquido amniotico, così detto feto papiraceo, i cui tessuti assumono aspetto pergamenaceo.
La saponificazione, come dice il nome, consiste nella formazione dei saponi ad opera di batteri che producono enzimi (lecitinasi) capaci di scindere i grassi del cadavere, trasformandoli in adipocera.
L' adipocera è costituita in parte da acidi grassi liberi (oleico, palmitico, stearico) e in parte da saponi insolubili (acidi grassi del cadavere si combinano coi sali di calcio, di sodio e di magnesio presenti nell'acqua o nel terriccio).
Secondo ipotesi recenti non si avrebbe la saponificazione vera e propria dei tessuti, bensì avverrebbe l'idrolisi dei trigliceridi (in massima parte di acido palmitico) con trasformazione degli acidi grassi insaturi in acidi saturi e in altri composti oleici (ossiacidi, idrossiacidi, ecc.). L'adipocera si presenta come una sostanza biancastra, untuosa, viscida, più o meno consistente, di odore rancido simile a quello del formaggio alterato.
La corificazione, cioè la trasformazione in cuoio, è un fenomeno che si osserva nei cadaveri chiusi ermeticamente in casse foderate con rivestimento metallico di zinco o di piombo. In queste condizioni si ha un notevole rallentamento dei processi putrefattivi (dovuto probabilmente all'azione chimica di composti metallici) e si verifica una singolare modificazione della cute, la quale si prosciuga alquanto ma senza essiccarsi, mantiene elasticità e morbidezza e assume l'aspetto gialliccio del cuoio di concia recente. La cute corificata, si retrae e si modella sul cadavere, si infossa a barca sull'addome e pone in evidenza le salienze dello scheletro.
I visceri, preservati dalla putrefazione e protetti dall'involucro corificato, sono asciutti, ridotti di volume e di consistenza pastosa.
Il processo di corificazione, già palese dopo un anno di permanenza nella cassa metallica, si completa nel corso del secondo anno di morte. A processo ultimato, residua sul fondo della cassa un liquame bruno e torbido.
Mummificazione: processo di essiccamento dei tessuti del cadavere
Il personale del Corpo delle Capitanerie di porto - a seguito della segnalazione della presenza di un cadavere in prossimità del lido o di una spiaggia - può imbattersi in un'attività di indagine rivolta alla sua "identificazione" e alla sua "ispezione".
Un'apposita disposizione di attuazione del Codice di rito (art. 116 - Indagini sulla morte di una persona per la quale sorge sospetto di reato) prevede, in generale, che spetta al Pubblico Ministero competente procedere alla identificazione e alla ispezione del cadavere oltre all'accertamento delle cause della morte. Così come al medesimo compete anche ordinarne la rimozione e darne nulla-osta per la sepoltura. Trattandosi di persona sconosciuta, ordina che il cadavere sia esposto nel luogo pubblico a ciò designato e, occorrendo sia fotografato.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che la Polizia Giudiziaria (ad esempio, il personale del Corpo delle Capitanerie nel caso in cui ne abbia avuto per prima notizia) non possa svolgere, a iniziativa o su delega, attività di indagine rivolta alla identificazione e alla ispezione di un cadavere oltre che all'accertamento delle cause della morte.
La Polizia Giudiziaria può infatti procedere "a iniziativa" al compimento di rilievi e ispezioni sul cadavere quando sussistono i «presupposti» che legittimano l'accertamento urgente (art. 354 commi 2 e 3 c.p.p.).
Su delega del P.M. e quando questi non ritiene di intervenire la Polizia Giudiziaria può poi procedere a "rimuovere il cadavere". Quando non ricorrono i presupposti dell'accertamento urgente (art. 354 c.p.p.) oppure manca l'autorizzazione del P.M., la Polizia Giudiziaria non può autonomammente procedere alla rimozione del cadavere.
Tra i rilievi che la Polizia Giudiziaria autonomamente o su delega può compiere sul cadavere non rientra «l'autopsia». Questa rientrando tra gli "accertamenti tecnici non ripetibili" (art. 360 c.p.p.) può essere compiuta solo dal P.M. e non è delegabile alla Polizia Giudiziaria in quanto incompatibile con l'attività di polizia giudiziaria.
Rinvenimento di cadavere
Links:
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[2] http://www.nonnodondolo.it/edit%2311
[3] https://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/10/30/codice-di-procedura-penale
[4] http://www.siconolfibroker.com/info/codice_della_navigazione.pdf
[5] http://www.nonnodondolo.it/edit%2322
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[7] http://www.nonnodondolo.it/edit%231
[8] https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1982-12-31;979
[9] http://www.arpae.it/cms3/documenti/acqua/l82_979.pdf
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[28] https://it.wikipedia.org/wiki/Ammiraglio_ispettore
[29] https://it.wikipedia.org/wiki/Decreto_del_presidente_della_Repubblica
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[31] https://it.wikipedia.org/wiki/Ammiraglio_di_squadra
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[46] http://www.nonnodondolo.it/content/norme-giuridiche-e-sanzioni
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[49] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=6&ved=0ahUKEwj7se3coezbAhVDzxQKHRYpB7kQFgiAATAF&url=https%3A%2F%2Fwww.studiocataldi.it%2Fnormativa%2Fcodice-della-navigazione%2F&usg=AOvVaw3Ls77zBpuYm62lisVldli1
[50] http://www.nonnodondolo.it/../1/edit%2322
[51] http://www.nonnodondolo.it/../1/edit%231
[52] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0ahUKEwjg-7X-pOzbAhXCuxQKHWGjD0IQFggoMAA&url=https%3A%2F%2Fwww.studiocataldi.it%2Fcodiceprocedurapenale%2Fcodiceprocedurapenale.asp&usg=AOvVaw2eQ0jcjxikR4QIsJoEqP84
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[59] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=5&ved=0ahUKEwiB_beThu_bAhUJvRQKHQuXCj4QFgheMAQ&url=http%3A%2F%2Fwww.edizionieuropee.it%2FLAW%2FHTML%2F46%2Fzn81_03_001.html&usg=AOvVaw3j2cQXGKzzlW6vPCHdAcGb
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[69] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=3&ved=0ahUKEwjz5si44fHbAhVJSBQKHdlBCaoQFghFMAI&url=http%3A%2F%2Fwww.gazzettaufficiale.it%2Feli%2Fid%2F1999%2F08%2F09%2F099G0350%2Fsg&usg=AOvVaw0FSiwWk9IDv60UopVeMpjF
[70] http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1999/08/09/099G0351/sg
[71] http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario;jsessionid=I91WLmFmrSra4z+ZfSAN7g__.ntc-as2-guri2b?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1995-01-26&atto.codiceRedazionale=095G0039&elenco30giorni=false
[72] http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2002/08/26/002G0219/sg
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[74] http://www.camera.it/parlam/leggi/98040l.htm
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[77] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=10&ved=0ahUKEwjxoZjb8_bbAhVJXhQKHYe0CIcQFgiJATAJ&url=http%3A%2F%2Funipd-centrodirittiumani.it%2Fpublic%2Fdocs%2FDirett2003_9_CEaccoglienza.pdf&usg=AOvVaw1CSJinWILqXGZ6dggVUnq4
[78] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0ahUKEwiY_Yvq9PbbAhUH7xQKHRK0AYkQFggpMAA&url=https%3A%2F%2Fwww.unhcr.it%2Fwp-content%2Fuploads%2F2015%2F12%2FD.Lgs_30_maggio_2005_n._140.pdf&usg=AOvVaw2SuUec-yoai0YOQFjOxfO5
[79] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0ahUKEwjAyZm09fbbAhUCaxQKHSrWDuMQFggoMAA&url=http%3A%2F%2Feur-lex.europa.eu%2FLexUriServ%2FLexUriServ.do%3Furi%3DOJ%3AL%3A2004%3A304%3A0012%3A0023%3AIT%3APDF&usg=AOvVaw1jG6wkzAFLv0YYDXOIWsll
[80] http://unipd-centrodirittiumani.it/public/docs/Dirett2005_85_CEprocedure.pdf