In tale categoria rientrano tutti quei reati commessi in danno della Pubblica Amministrazione da soggetti estranei al suo apparato organizzativo.
Oggetto specifico è la tutela dell’interesse della Pubblica Amministrazione alla libertà di decisione dei Pubblici Ufficiali, cioè a che i Pubblici Ufficiali decidano quali atteggiamenti, relativi al servizio, debbano assumere senza essere in alcun modo influenzati dagli estranei.
Di essi i principali sono:
► Violenza o minaccia a un Pubblico Ufficiale (art. 336 c.p.)
Commette questo reato chiunque usa violenza o minaccia a un Pubblico Ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per costringerlo:
E’ necessario sottolineare che l’attività a cui l’agente mira deve essere "futura". Qualora infatti essa fosse già in corso ed il reo mirasse ad opporvisi con violenza o minaccia si configurerebbe l’ipotesi ex art. 337 c.p. (Resistenza).
► Resistenza a un Pubblico Ufficiale (art. 337 c.p.)
Commette tale reato chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un Pubblico Ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza.
L’elemento oggettivo richiede una «violenza» o «minaccia» esercitata contestualmente al compimento dell’atto d’ufficio da parte del Pubblico Ufficiale.
Non è necessario che la violenza o la minaccia sia esercitata direttamente sulla persona del Pubblico Ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio per impedirgli il compimento di un atto del suo ufficio o servizio, ma è sufficiente che essa si estrinsechi su cose, purché anche in tal caso si ponga come ostacolo al concreto compimento dell’attività. Neppure è necessario che la violenza o minaccia pongano in pericolo l’incolumità fisica del Pubblico Ufficiale bastando che esse impediscano l’esercizio dell’atto d’ufficio (Cass. 20.10.1997, n. 9442).
Non integra né violenza né minaccia la c.d. «resistenza meramente passiva» e, quindi, essa non integra il delitto in esame, neppure nel caso in cui il funzionario sia costretto ad usare la forza per vincerla.
Discusso è il problema se e quando la «fuga» possa configurare resistenza a Pubblico Ufficiale. Pacifico è che la semplice fuga a piedi non può mai configurare il reato in esame, in quanto in essa non è ravvisabile né violenza né minaccia (Cass. 13.10.1986, n. 10813).
► La giurisprudenza ha precisato, comunque, che costituisce resistenza a Pubblico Ufficiale:
► Oltraggio a Pubblico Ufficiale (art. 341bis c.p.)
Commette questo reato chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni .[1] [1]
Abrogato dall’art. 8 Legge 25 giugno 1999 n.205 e introdotto dall’art. 1 comma 8 della Legge 15 luglio 2009, n. 94, l’art. 341 bis c.p. nonostante il dettato di cui ai citati articoli, sanziona penalmente, con la reclusione fino a tre anni, la condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio, a causa o nell’esercizio delle sue funzioni. Viene dunque delimitato il locus commissi delicti - in luogo pubblico o aperto al pubblico - e vengono tutelati onore e prestigio, non alternativamente come nel dettato di cui all’abrogato art. 341 c.p..
La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, così come nel precedente art. 341 c.p. una analoga previsione aggravava la pena prevedendo la reclusione da uno a tre anni. Il reato si estingue nel caso in cui l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima.
In simmetria con quanto ex art. 596 c. IV c.p. se la verità del fatto è provata o se, per esso, l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile.
► Millantato credito (art. 348 c.p.)
Commette tale reato chiunque, millantando un credito presso un Pubblico Ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un o impiegato o di doverlo remunerare.
Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente ottiene la dazione e la promessa.
Il reato può concorrere con quello di "truffa" qualora il millantato credito sia uno dei raggiri utilizzati per indurre in errore.
[1] [1] Art. 594 (Ingiuria) e 61 n. 10 c.p. (circostanze aggravanti comuni)
Links:
[1] http://www.nonnodondolo.it/../1/edit%231