Le «cause di giustificazione» del reato o di leicità o di esclusione della responsabilità penale (=scriminanti) sono tassativamente individuate dalla legge ed escludono l’antigiuridicità di una condotta che, in loro assenza sarebbe penalmente rilevante e sanzionabile. Sono situazioni normativamente previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico.
In presenza di tali circostanze, infatti, una condotta (altrimenti dalla legge punibile), diviene lecita e ciò in quanto una norma, desumibile dall’intero ordinamento giuridico, la ammette e/o la impone.
Le cause di giustificazione sono desumibili dall’intero Ordinamento giuridico e, pertanto, la loro efficacia non è limitata al solo diritto penale ma si estende a tutti i rami del diritto (civile e amministrativo).
Al realizzarsi di una scriminante, il bene giuridico che la norma penale intende preservare, non è più tutelato poiché in concreto vi sono altri interessi di superiore o pari livello che vengono conseguiti attraverso la condotta tenuta.
Le cause di giustificazione trovano la loro applicazione nell’intero ordinamento giuridico (non solo quindi nell’ambito della legge penale), il che comporta l’inapplicabilità anche delle sanzioni civili o amministrative, altrimenti applicabili al fatto criminoso.
Uno dei problemi più avvertiti da chi svolge attività di polizia giudiziaria è quello relativo alla individuazione delle proprie responsabilità penali in caso di interventi che comportino danni (o pericolo di danni) a cose o persone.
E’ altrettanto vero, però, che egli non ha compiuto un fatto socialmente dannoso, ma ha agito, anzi, nell’interesse della società. Più precisamente nell’adempimento di un dovere impostogli dall’art. 352 c.p. e ancor prima dall’art. 55 c.p.p. che gli prescrive di impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, ricercare gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova.
La condotta del soggetto agente è perciò lecita perché compiuta in presenza di una «causa di giustificazione» (adempimento di un dovere, art. 51 c.p.) espressamente stabilita.
E’ anzi da dire che, se l’agente si fosse comportato diversamente pur trovandosi di fronte ad una situazione che gli imponeva una perquisizione, egli poteva esser chiamato a rispondere, fra l’altro e quantomeno, del reato di cui all’art. 328 c.p., “rifiuto di atti d’ufficio (omissione)”.
Va detto allora che, in casi come quelli descritti, l’operato apparentemente illecito, della polizia giudiziaria è scusato (o giustificato) ed impedisce che il reato si perfezioni e possa essere addebitato a colui che ha compiuto il fatto.
Chi agisce nell’esercizio di un suo diritto, resta immune da colpa anche se commette reato. La norma prevede poi che “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”.
Secondo la norma quindi non commette reato neanche chi pone in essere una condotta (considerata criminosa dal codice penale), in adempimento di un suo preciso dovere. Secondo tale disposizione quindi, l’agente non commette reato quando non ha alcuna facoltà di scelta e deve porre in essere la condotta “criminosa” in adempimento di un preciso obbligo impartitogli. Del fatto risponderà eventualmente il superiore gerarchico. La norma tende a far prevalere la tutela dell’interesse di chi agisce esercitando un diritto/dovere rispetto alla tutela degli interessi eventualmente configgenti.
Pertanto, nella ipotesi in esame i fatti eventualmente commessi nell’adempimento di un dovere non sono punibili quando il dovere è imposto da una «norma giuridica» o da «un ordine legittimo» (art. 51 c.p.).
► Il dovere può derivare:
Per il primo tipo di legittimità devono esistere i presupposti richiesti dalla legge, pertanto, non si deve dare esecuzione ad un ordine manifestamente criminoso.
► Per la legittimità formale dell’ordine è invece richiesto che:
Se l’ordinanza contiene i suddetti requisiti, l’U.P.G. andrà comunque esente da pena anche se nell’eseguire l’ordinanza stessa ha commesso fatti che, in astratto, potrebbero costituire reato (come il «sequestro» delle persone nei cui confronti la misura è stata applicata; la «violazione del domicilio» per procedere alla sua cattura; la «violenza privata» per ammanettarla.
L’adempimento di un dovere derivante da un ordine legittimo della Pubblica Autorità presuppone un rapporto di subordinazione nascente dal diritto ed un conseguente dovere di obbedienza.
Dalla dizione della legge appare chiaro che la scriminante in tal caso è ammessa solo se l’ordine è legittimo. Il che implica l’esercizio di una facoltà di sindacato sia pure limitata alla legalità esteriore dell’ordine ricevuto e cioè alla forma, alla competenza dell’autorità da cui promana e alla attinenza o meno alle funzioni del subordinato. Questi, infatti, ha, di regola, tale facoltà e, se non l’esercita, agisce a suo rischio e pericolo, come si ricava dal primo e secondo capoverso dell’art. 51 c.p. dove è stabilito che se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde non solo il che ha dato l’ordine ma anche chi lo ha eseguito, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.
In via generale, il subordinato può andare esente da pena solo se ha esercitato il potere e il dovere di controllare la legittimità dell’ordine impartitogli.
Quando l’ordine è illegittimo e, malgrado ciò, viene eseguito, del reato commesso rispondono sia chi ha impartito l’ordine sia chi vi ha dato attuazione.
La scriminante tuttavia è ammessa oltre che nel caso dell’errore di fatto di cui si è detto, anche nel caso del subordinato al quale la legge non consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine come accade per i militari e gli appartenenti alle forze di polizia che sono tenuti per legge a una obbedienza particolarmente pronta e rigorosa, ai sensi del dell’ultimo capoverso dell’art. 51 c.p.
In questi casi il subordinato non può sindacare la legittimità dell’ordine e, pertanto, non è punibile per il reato eventualmente commesso in esecuzione dell’ordine medesimo.
Il subordinato, cioè, può invocare a propria scusa il fatto di avere agito nell’adempimento di un dovere e del reato risponderà solo chi ha impartito l’ordine (salvo che si tratti di un ordine palesemente delittuoso - art. 4 Legge 11/7/1979, n. 382 (sulla disciplina militare) ... «il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e informare al più presto il superiore», e art 66 Legge 1/4/1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza)... «l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza al quale viene impartito un ordine la cui esecuzione costituisce manifestamente reato, non lo esegue e informa immediatamente i superiori».
Questa scriminante rappresenta un residuo di «autotutela» che l’Ordinamento riconosce al cittadino nei soli in casi in cui l’intervento dell’Autorità non può risultare tempestivo. Affinché la condotta non venga punita occorre che vi sia un «pericolo attuale» (per sé stessi o anche per altri) derivante da un’aggressione ingiusta posta in essere da un terzo e che non vi siano altri modi per evitarla, sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa.
In questi casi l’Ordinamento riconosce al soggetto che ha agito una forma di tutela autorizzandolo a reagire nei confronti dell’aggressione con un’azione che normalmente è considerata reato dal Codice Penale. L’azione deve quindi essere necessaria e proporzionata all’offesa. L’Ordinamento precisa che per aggressione si intende qualsiasi offesa di un diritto (personale e/o patrimoniale), ingiusta (contraria al diritto) che si concretizzi in un pericolo attuale. La reazione deve poi essere necessaria (non deve essere possibile un’altra forma alternativa di reazione che sia meno dannosa per l’aggressore) e proporzionata all’offesa (secondo la dottrina più recente la proporzione deve sussistere tra il male minacciato e quello che verrebbe inflitto).
Nei casi previsti dall’art. 614[1], 1° e 2° comma c.p., sussiste il rapporto di proporzione di cui all’art. 52, 1° comma c.p. se taluno legittimamente presente su in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo di coazione, idoneo al fine di difendere:
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale[2].
Purché vi sia un pericolo attuale per il proprio, ovvero per l’altrui diritto (c.d. soccorso difensivo), il soggetto può agire nei confronti dell’aggressore, con un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che tale reazione sia assolutamente necessaria per salvare il diritto minacciato e sia proporzionale all’offesa.
Perché l’esimente della legittima difesa sia ammissibile occorrono perciò due presupposti essenziali, e cioè:
[1] Art. 614 c.p. (Violazione di domicilio) – Chiunque si introduce nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero si introduce clandestinamente o con inganno, è punito con la reclusione fino a 3 (tre) anni. Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro la espressa volontà di chi ha diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. Il reato è punibile a querela della persona offesa […]
[2] Questo comma è stato aggiunto dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59.
Perché l’esimente della legittima difesa sia ammissibile occorrono perciò "due presupposti" essenziali, e cioè:
L’art. 52 c.p. indica in quali casi l’aggressione può definirsi "ingiusta" e la reazione "legittima".
► Perché l’aggressione possa definirsi "ingiusta" è necessario che:
► Requisiti della "reazione" perché ricorra tale scriminante, sono:
La reazione è certamente proporzionata e perciò legittima quando il male provocato all’aggressore è inferiore o appena superiore a quello subito.
La proporzione deve sussistere fra il male minacciato e quello inflitto nonché fra i mezzi a disposizione e quelli da lui usati.
In via di approssimazione, può dirsi che:
E’ difficile stabilire in astratto se dall’esempio appena fatto sia o meno applicabile la causa di giustificazione della legittima difesa.
C’è da chiedersi: ma il bene della ”incolumità” del Comandante di motovedetta della Guardia Costiera doveva davvero soccombere rispetto al diritto alla “vita” dello scafista ?
A voi la risposta !!
[1] E’ un primo elemento che distingue tale scriminante dallo «stato di necessità» che richiede un danno esclusivamente di natura personale.
Tale scriminante ha natura sussidiaria e si applica solo quando non può trovare applicazione la legittima difesa e l’adempimento di un dovere. Per poter beneficiare della scriminante occorre essere un «Pubblico Ufficiale».
Il Pubblico Ufficiale appartenente alla forza pubblica, è autorizzato a far uso delle armi e degli altri mezzi di coazione fisica (sfollagente, cani, idranti, gas lacrimogeni) quando (art. 53 c.p. e art. 14 Legge 22/5/75, n. 152):
L’art. 53 c.p., consente infatti l’impiego della forza fisica solo in presenza di alcuni reati ovvero di violenza o resistenza. Il mezzo deve essere, cioè, sempre necessario e proporzionato.
Quella prevista dall’art. 53 c.p. è una causa di giustificazione «propria», nel senso che la possono invocare solo i soggetti da essa stessa indicati.
In primo luogo possono invocarla solo i Pubblici Ufficiali, e neppure tutti: poiché, infatti, come vedremo, la scriminante opera solo quando il Pubblico Ufficiale fa uso delle armi per adempiere ad un dovere del suo ufficio, in pratica possono invocarla solo quei pubblici Ufficiali che, per motivi di ufficio, possono portare armi senza licenza. E cioè i soggetti indicati nell’art. 73 del Regolamento al T.U.L.P.S. (R.D. 6 maggio 1940, n. 635)[1]
Oltre al Pubblico Ufficiale che può portare armi senza licenza, l’uso legittimo delle armi è applicabile anche a tutti i soggetti che, su legale richiesta del Pubblico Ufficiale, gli prestino assistenza: la richiesta del Pubblico Ufficiale al privato è legale quando è stata fatta nei limiti e nei casi previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p.
Il legislatore ha, dunque, sancito una «riserva di competenza» a favore del circa le situazioni in cui è legittimo il ricorso all’uso delle armi o da altro mezzo di coazione fisica. In ogni caso la richiesta deve essere formulata espressamente dal Pubblico Ufficiale e deve avvenire prima dell’uso delle armi. Non scrimina, dunque, l’eventuale consenso prestato «a posteriori».
La causa di giustificazione opera sia nel caso in cui il Pubblico Ufficiale abbia personalmente fatto uso delle armi, che nel caso in cui egli abbia ordinato ad altri a far uso delle armi; tuttavia, mentre il Pubblico Ufficiale che fa direttamente uso o ordina di far uso delle armi è scriminato in base all’art. 53 c.p., chi ne fa uso per ordine del superiore è scriminato in base all’adempimento del dovere se ed in quanto ne sussistono i presupposti.
Condizioni di applicabilità (necessità e resistenza):
La prima condizione richiesta per la sussistenza dell’uso legittimo delle armi è che il soggetto sia determinato dal fine di adempiere un dovere del suo ufficio: l’uso legittimo delle armi deve essere diretto ad eliminare un ostacolo che si è frapposto tra lui e il dovere da adempiere[2].
Inoltre il soggetto deve essere costretto a far uso delle armi dalla «necessità»: con l’espresso richiamo alla necessità il legislatore ha voluto chiarire che, in ogni caso, l’uso delle armi costituisce l’extrema ratio, cui si può fare ricorso soltanto quando il fine non può raggiungersi in altro modo, salvaguardando sempre l’integrità fisica degli individui (ad esempio, ricorrendo all’uso di idranti, lacrimogeni, ecc.).
► L’uso delle armi viene ritenuto necessario nei casi in cui occorre:
Vi è «violenza» da respingere, quando nei confronti del Pubblico Ufficiale viene impiegata una forza fisica o morale diretta a costringerlo a compiere un atto contrario ai suoi doveri di ufficio o ad omettere il compimento di un atto di ufficio. Non è richiesto che essa configuri il reato previsto dall’art. 336 c.p. (violenza o minaccia a ), essendo sufficiente una qualsiasi violenza, anche fine a se stessa purché si concretizzi in un atteggiamento minaccioso in atto.
Vi è, invece, «resistenza» da vincere, quando da parte di terzi, viene tenuto un atteggiamento diretto ad impedire od ostacolare il Pubblico Ufficiale mentre compie un atto del suo ufficio
Si discute se nell’ambito della "resistenza" rientri oltre quella «attiva» (che si concreta nell’effettiva opposizione di una forza illegittima) anche quella «passiva» quale l’inerzia o la fuga per impedire al Pubblico Ufficiale di adempiere un dovere di ufficio.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente la «fuga» costituisce una ipotesi tipica di «resistenza passiva», per cui, in linea generale, si elude il ricorso all’uso delle armi. In tale caso infatti manca un rapporto di proporzione fra l’uso delle armi e il carattere non violento della resistenza opposta.
La giurisprudenza infatti sostiene che l’uso delle armi contro chi si sottrae con la fuga ad una intimidazione o all’arresto non è legittimo, salvo le eccezioni previste da specifiche disposizioni di legge quali quelle in materia di contrabbando, passaggio abusivo delle frontiere, custodia dei detenuti.
L’art. 53 c.p. prende poi in considerazione anche un’altra ipotesi di uso legittimo delle armi. Essa si verifica per impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona (secondo parte della dottrina tale ipotesi ha dato addirittura alla forza pubblica la «licenza di uccidere»).
L’ipotesi è stata introdotta con l’art. 14 della Legge 22 maggio 1975, n. 152 (Legge Reale). Di uso legittimo può parlarsi solo quando tali reati hanno raggiunto la soglia del tentativo e non si è ancora consolidata la lesione degli interessi da essi offesi.
L’ultimo comma dell’art. 52 c.p. richiama gli altri casi in cui la legge consente l’uso delle armi.
[1] I Pubblici Ufficiali appartenenti alla Forza Pubblica: polizia giudiziaria, pubblica sicurezza nonché militari in servizio di pubblica sicurezza.
[2] Vengono esclusi dalla previsione di legge non solo quei casi in cui il soggetto abbia di mira un fine privato (ad esempio, uno scopo di vendetta), ma anche i casi in cui il soggetto abbia per fine l’adempimento di una facoltà e non di un dovere del proprio ufficio.
L’ultimo comma dell’art. 52 c.p. richiama gli altri casi in cui la legge consente l’uso delle armi.
In tali casi, naturalmente, l’uso delle armi è legittimo quando ricorrono le condizioni indicate nelle stesse norme che lo prevedono, senza che siano richieste anche le condizioni di cui all’art. 53 c.p.. In particolare, in materia di contrabbando, passaggio abusivo di frontiere e custodia di detenuti, l’uso delle armi è legittimo anche chi si sottrae con la fuga ad un’intimazione di fermarsi o all’arresto (Cass. 4 febbraio 1982, n. 3722).
Si rileva come il personale del Corpo delle Capitanerie di Porto rientra fra le categorie previste dal D.M. 24.03.94, n° 371, che è esentato – in ragione del rischio professionale cui è esposto - dal pagamento della tassa di concessione governativa per porto d’armi, di cui all’art. 42 del T.U.L.P.S.
Il T.U.L.P.S. e le successive disposizioni in materia di armi contemplano alcune ipotesi di esenzione dall’obbligo di denuncia che normalmente grava a carico di chiunque – a qualsiasi titolo – detenga delle armi.
Al riguardo le unità mercantili rientrano fra le “altre istituzioni” che – a norma dell’art.10 della Legge n. 110/75 – sono esentate dall’obbligo di denuncia delle armi di bordo (ivi comprese le pistole Very).
Tale facoltà si evince dal disposto dell’art. 170 comma 6° Cod. nav. laddove riporta che il "Ruolo Equipaggio" (Parte B) deve contenere la descrizione delle armi e munizioni in dotazione alla nave (vedasi altresì Circolare n° 3102710 del 07.09.77 di Maricogecap).
Pertanto tale descrizione dovrebbe essere parimenti riportata nel "Registro Copia Ruoli", ove lo stesso riporta le annotazioni contenute nel Ruolo Equipaggio.
Per quanto concerne invece l’acquisto delle armi medesime, occorre comunque il Nulla-Osta del Questore ai sensi dell’art. 35 T.U.L.P.S.
In ogni caso l’Autorità di P.S. può disporre al riguardo verifiche e controlli nonché le misure cautelari ritenute necessarie a tutela dell’ordine pubblico (art. 38 T.U.L.P.S.).
La detenzione e l’uso in navigazione di pistole lanciarazzi very, i razzi di segnalazione ed altri artifizi usati a bordo per soccorso ed agli stessi assimilabili sono invece disciplinati dall’art. 2 della Legge 18.04.75, n° 110; mentre la vendita degli stessi è sottoposta alle disposizioni di cui all’art. 5 della Legge 08.08.77, n° 533, che pone in carico al Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti i criteri per l’abilitazione alla vendita dei suddetti artifizi in ambito portuale.
Quanto sopra oltre alle eventuali norme e disposizioni portuali locali in materia di security.
Per quanto concerne gli "spettacoli pirotecnici" effettuati nell’ambito del demanio pubblico marittimo o all’interno dei bacini portuali, i soggetti che esplicano tale attività devono possedere,rispettivamente:
In presenza di un pericolo attuale di un grave danno alla persona, il soggetto interessato può compiere, in danno di un terzo, un fatto previsto dalla legge come reato.
Ai fini della esclusione del reato, occorre che tale comportamento sia necessario per salvarsi, che sia proporzionato al pericolo e che non sia stato posto in essere e/o provocato dal soggetto agente.
Si differenzia dalla legittima difesa per il bene tutelato (solo diritti personali) e per il fatto che il danno non viene provocato all’aggressore ma a un soggetto terzo incolpevole.
L’articolo 2045 c.c. “stato di necessità” stabilisce che “quando chi ha compiuto un fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice”. Il primo comma prevede anche la fattispecie del cd. soccorso di necessità che ricorre quando l’azione lesiva di un interesse protetto proviene non dal soggetto minacciato ma da un terzo soccorritore.
La scriminante consente, quindi, a chi si trova in una situazione di grave pericolo di uscirne, anche e addirittura, commettendo reati a scapito di terzi innocenti (e non aggressori).
Ricorrendo il pericolo attuale di un danno grave alla persona (il bene della vita o della incolumità personale) e purché la situazione di pericolo non sia stata causata dallo stesso soggetto (con dolo o colpa), il soggetto può compiere in danno di un terzo un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che questa sia assolutamente necessaria per salvarsi e sia proporzionata al pericolo, e sempre che il soggetto non abbia un particolare dovere di esporsi al pericolo stesso (art. 54 c.p.).
► Perché ricorra lo stato di necessità occorre, dunque:
Come nella legittima difesa anche nell’ipotesi dell’art. 54 c.p. l’azione necessitata può essere determinata dall’esigenza di preservare oltre che un diritto dell’agente un diritto di un terzo.
L’art. 54, 3° comma estende l’ambito della scriminante anche all’ipotesi del costringimento psichico che si ha allorché un soggetto commette un reato perché indotto dalla altrui minaccia.
► Tale scriminante si differenzia, però, dalla legittima difesa perché:
L’ultimo comma dell’art. 54 statuisce che, se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.
Tutte le cause di giustificazione hanno perciò limiti di ammissibilità, eccedendo i quali il reato torna a sussistere.
La considerazione introduce ad un tema più generale che è quello del rapporto fra i diritti e i doveri spettanti e incombenti su chiunque svolge funzioni o servizi pubblici.
Lo svolgimento di tali funzioni e servizi dà luogo ad un complesso di «diritti privilegiati», ma, nel contempo, di «obblighi più stringenti».
Ma è proprio per questo motivo che, all’inverso, il codice punisce più gravemente alcuni fatti se commessi dal anziché dal privato oppure prevede come reati condotte che non sono tali se tenute dal semplice cittadino.
[1] Si parla di «indennizzo» e non di «risarcimento», in quanto l’azione compiuta in stato di necessità è un’azione lecita. L’obbligo di risarcimento, invece, si ricollega al compimento di atti illeciti.
Le «cause di giustificazione» (o esimenti) vanno distinte dalle «cause di esclusione della colpevolezza» (o scusanti) e dalle «cause di non punibilità» in senso stretto.