L'attività di polizia giudiziaria militare, proprio perché collegata all'accertamento ed alla repressione di un reato militare già commesso, si colloca all'interno del «procedimento penale». Di solito, anzi, ne costituisce il primo momento poiché il procedimento sorge quando la Polizia Giudiziaria (o anche, ma in concreto assai più raramente, il Pubblico Ministero) acquisisce la notizia di un reato compiuto o in atto. Tale informazione sul reato può giungere alla Polizia Giudiziaria da una fonte esterna (la denuncia o la querela della vittima del reato o di un qualsiasi privato; un referto medico; la segnalazione di un Pubblico Ufficiale), ma può anche dipendere da una iniziativa autonoma della stessa Polizia Giudiziaria: poiché a questa spetta isituzionalmente il compito di ricercare anche di propria iniziativa tali informazioni.
Una volta acquisita la notizia di reato commesso, la Polizia Giudiziaria è tenuta a svolgere indagini ed a riferirne (al più tardi entro 48 ore) al Pubblico Ministero Militare cui spetta, da quel momento, la direzione delle indagini stesse. Le indagini svolte dalla Polizia Giudiziaria e dal Pubblico Ministero si denominano «indagini preliminari» perché servono a stabilire se la notizia di reato è fondata o meno e, in caso positivo, a consentire al Pubblico Ministero di esercitare l'azione penale a carico di colui al quale il reato è attribuito (imputato).
Il Pubblico Ministero esercita l'azione penale quando ritiene di aver acquisito durante le indagini elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Se ritiene invece che tali elementi non siano idonei a sostenere l'accusa e che, pertanto, non essendo essa dimostrabile il processo avrebbe, come esito scontato, l'assoluzione dell'imputato, il Pubblico Ministero non esercita l'azione penale, ma chiede al Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) l'archiviazione del procedimento penale (artt. 55, 326, 405, 408 c.p.p.).
Nel corso della fase iniziale del procedimento penale, la Polizia Giudiziaria svolge dunque un ruolo fondamentale in stretto e continuativo contatto con il Pubblico Ministero. Ed è fuori dubbio che dalle modalità di conduzione delle indagini preliminari dipende, nella gran parte dei casi, l'esito dell'intero procedimento.
Alla Polizia Giudiziaria ed al P.M. spetta, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, compiere ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti all’azione penale. Le indagini sono svolte unitariamente dalla P.G. e dal P.M.: questi dispone direttamente della prima e ne ha la direzione.
Per la realizzazione dei propri compiti istituzionali, la Polizia Giudiziaria è stata strutturata in «Sezioni» e «Servizi»: fermo restando che, ad un primo e più ampio livello, i magistrati possono servirsi di qualsiasi organo di polizia giudiziaria. Si sottolinea che nel contempo tutti gli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria appartenenti a tutte le forze di polizia e ad altri organi sono obbligati per legge di svolgere indagini a seguito di una notizia di reato.
I compiti istitutivi della Polizia Giudiziaria sono riportati, come si è detto in precedenza, nell’art. 55 del Codice di procedura penale: “prendere notizia dei reati, impedire che gli stessi vengano portati a conseguenze ulteriori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quanto altro possa servire per l’applicazione della legge penale”.
Il c.p.p. Vassalli parla di “fonti” di prova, in quanto la “prova” si forma nel dibattimento. Cioè, solo il Giudice del dibattimento deve accertare i fatti come “prove”.
La Polizia Giudiziaria si distingue in due aree:
Per ciò che concerne l’ordinamento militare, le persone che svolgono i compiti di Polizia Giudiziaria militare sono indicate, in ordine di priorità, dall’art. 301 c.p.m.p.:
L’art. 301 c.p.m.p. è compatibile con il nuovo Codice di procedura penale, perché si limita, come sopra descritto, ad indicare le persone che esercitano le funzioni di Polizia Giudiziaria militare, precisandone l’ordine di precedenza.
Il Comandante di Corpo, che occupa la prima posizione quale Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare (UPGM), è l’ufficiale preposto, come abbiamo avuto modo di dire in precedenza, al comando o alla direzione di una unità organica dotata di autonomia nel campo dell’impiego, in quello logistico e in quello tecnico ed amministrativo.
La qualifica di UPGM del Comandante di Corpo è ribadita anche dall’art. 22, punto del RDM, secondo cui il Comandante di Corpo “esplica, inoltre, le funzioni di Polizia Giudiziaria militare secondo le leggi e i regolamenti vigenti nei riguardi dei propri dipendenti”.
Condizione legittimatrice essenziale per le funzioni di Polizia Giudiziaria Militare (P.G.M.) è il riferimento dei relativi atti a reati militari soggetti alla giurisdizione militare. Dal momento che - come abbiamo detto in precedenza - la giurisdizione militare si esercita solo sui militari, i Comandanti militari e gli altri Ufficiali di P.G.M. possono svolgere le loro funzioni in materia penale solo in presenza di reati militari commessi da militari.
Ad adiuvandum:
[…]
Art. 361 c.p. (Omessa Denuncia di reato da parte del Pubblico Ufficiale)
Il Pubblico Ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all’Autorità Giudiziaria, o ad un’altra Autorità che a quella abbia l’obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nelle’esrcizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da € 30 a 516 €.
[…]
Unica eccezione alla predetta regola generale, è costituita da quanto previsto nella Legge 26 giugno 1990, n. 162 (Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicopendenza, citata in nota all’art. 446 c.p.) concernente il fenomeno della droga ed i reati ad essa connessi. L’art. 89-bis, comma 8, di tale legge stabilisce infatti che «le funzioni di polizia giudiziaria ai fini della prevenzione e repressione dei reati previsti dalla presen te legge, commessi da militari in luoghi militari, spettano ai soli Comandanti di Corpo con grado non inferiore ad Ufficiale superiore».
I Comandanti militari svolgono, quindi attualmente, per effetto non dell’art. 301 c.p.m.p., ma dell’art. 89-bis citato, funzioni di polizia giudiziaria per reati comuni, quali sono quelli in materia di stupefacenti: la competenza dei Comandanti di Corpo ai sensi dell’art. 89- bis non potrebbe tuttavia intendersi come esclusiva, ma, nonostante l’equivoca disposizione della norma, come concorrente con quella delle altre persone cui agli artt. 55 e ss. c.p.p. attribuiscono le funzioni di polizia giudiziaria. Ciò che importa maggiormente, in tali circostanze, è la responsabilità del Comandante, l’immediatezza, la funzionalità e la globalità dei suoi interventi. Questo spiega la deroga che il Legislatore ha voluto fare rispetto alla regola generale, attribuendo al Comandante funzioni di Polizia Giudiziaria per i reati di droga. In materia di tossicodipendenza, il Comandante di Corpo, oltre ai rapporti con la Magistratura competente, è tenuto anche ad interessare le autorità sanitarie ed il Prefetto.
Tornando ai compiti generali del Comandante di Corpo quale UPGM, si rileva che, nell’ambito del suo Ente, egli è la prima Autorità in materia di Polizia Giudiziaria. Esercita quindi la titolarità nei rapporti con la Magistratura: ne consegue che le singole attività delegate ai Carabinieri devono poi essere fatte proprie dal Comandante, che deve comunque redigere “Verbale”, per ogni attività di Polizia Giudiziaria svolta. Questa è un’ulteriore garanzia, voluta dal nuovo Codice di procedura penale, che stabilisce anche le modalità relative alla compilazione di detti verbali.
La Legge n. 356/92 ha introdotto sostanziali modifiche legislative al Codice di procedura penale, comprese la facoltà e gli obblighi della Polizia Giudiziaria ordinaria e di quella militare. La principale innovazione, rispetto al codice Vassalli del 1988, consiste nel fatto che la comunicazione della notizia di reato (art. 347 c.p.p.) non va più fatta entro 48 ore, ma con immediatezza.
La notizia di reato va fatta anche in forma orale, eventualmente con fax, quando c’è urgenza. Successivamente seguirà la comunicazione scritta.
Il Comandante di corpo, “distaccamento”[ [1]1] [1] o “posto”[ [1]2] [1] di qualsiasi grado, esercita, come si è gia avuto modo di dire, le «funzioni» di polizia giudiziaria per i reati soggetti alla giurisdizione militare. In presenza del Comandante di Corpo, di distaccamento o di posto, gli altri Ufficiali di polizia giudiziaria eventualmente presenti (così come quelli meno elevati in grado, essendo presenti più Ufficiali di polizia giudiziaria tra quelli elencati nel c.p.p.) sono, con riferimento ai reati militari di cui vengano a conoscenza, esonerati dallo svolgimento delle funzioni di polizia giudiziaria militare e dai relativi obblighi (invio della comunicazione della notizia di reato, assicurazione delle prove, eventuale arresto in flagranza del colpevole, ecc.) nonché dalla connessa responsabilità penale per le eventuali omissioni.
Pertanto, avuta notizia della commissione di un reato militare (nell'ambito del generale compito di informarsi o perché è stata presentata denuncia da parte di un militare o a seguito di relazione di servizio compilata da un dipendente), è fatto obbligo al Comandante di corpo (o di distaccamento o di posto) riferire per iscritto senza ritardo al P.M, gli elementi essenziali raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute e trasmettendo la relativa comunicazione. Tale adempimento (che sostituisce il rapporto giudiziario previsto dal vecchio c.p.p.) comprende anche, quando è possibile, le generalità e quanto altro valga all'identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.Se vi è urgenza, la comunicazione della notizia del reato è data immediatamente anche in forma orale. In ogni caso deve essere indicato il giorno e l'ora in cui è stata acquisita la notizia del reato.
La violazione degli obblighi d'informativa costituisce il reato di “omessa denuncia aggravata” (art. 361, comma 2, e 363 c.p.). L'obbligo della comunicazione ha il fine di consentire al P.M. di assumere tempestivamente la direzione delle indagini nonché di far decorrere il termine delle indagini preliminari. Esso sorge anche nel caso in cui sia conosciuta la notizia, ma non ancora l'autore del reato. Non si ha, invece, quando si è in presenza di un generico sospetto di reato e nelle ipotesi in cui sono necessari accertamenti volti a definire la rilevanza penalistica di informazioni apprese.
Alcune considerazioni:
Per un ottimale svolgimento delle funzioni di polizia giudiziaria militare (senza incorrere in omissioni disciplinarmente o penalmente rilevanti) è pertanto indispensabile, da parte dell'Ufficiale di polizia giudiziaria, un continuo aggiornamento giurisprudenziale soprattutto al fine di conoscere quando scatta l'obbligo di invio al Procuratore Militare della “comunicazione della notizia di reato”.
Così, a titolo di esempio e riprendendo alcuni dei quesiti che con maggiore frequenza mi vengono posti in aula dai frequentatori del “Corso Servizio d’Ordine”, devo ricordare che, anche per i reati perseguibili a richiesta del Comandante di Corpo ai sensi dell'articolo 260 del c.p.m.p. (tale norma concede al predetto Comandante la facoltà di richiedere o meno, entro trenta giorni da quando ne ha avuto notizia, il procedimento penale nei confronti del militare che appare responsabile), deve comunque essere inoltrata al Pubblico Ministero militare la comunicazione (=o informativa) di notizia di reato, essendo quest'obbligo escluso solo per i reati perseguibili a querela della persona offesa, condizione di procedibilità, quest'ultima, non prevista nel c.p.m.p.
In materia di “disobbedienza”, poiché la norma descrive un reato istantaneo, che si perfeziona nel momento stesso del "rifiuto" opposto dal militare a un ordine impartitogli, ne consegue che il reato sussiste anche se successivamente al rifiuto il militare cambi idea ed esegua l'ordine; parimenti in materia di rifiuto opposto alla firma delle note caratteristiche, giurisprudenza consolidata afferma la sussistenza del reato, essendo tale sottoscrizione prevista da norme regolamentari e non costituendo acquiescenza al contenuto delle note, contro le quali è comunque possibile proporre ricorso.
Per quanto riguarda i fatti di ”insubordinazione” e di “abuso di autorità”, è stato affermato che il dolo consiste nella cosciente volontà di pronunciare parole o compiere gesti di univoco significato offensivo, essendo irrilevanti moventi e finalità particolari stante lo speciale rigore cui sono improntati i rapporti della disciplina militare: costituisce pertanto offesa all'onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore e anche il tono arrogante (che nel diritto penale comune non viene preso in considerazione) perché contrari alle esigenze della disciplina militare, in base alla quale il superiore deve essere tutelato non solo nell'espressione della sua personalità umana, bensì anche nell'ascendente morale di cui ha bisogno per poter esercitare degnamente l'autorità del grado e le funzioni di comando.
Costitutiva del reato di insubordinazione con ingiuria è stata ritenuta la frase "lei non è un comandante ma un comandante Padreterno... lei è un illuso... lei è un maleducato ". È stata ritenuta integrare gli estremi dell'abuso di autorità con ingiuria la frase "avete proprio rotto le scatole", la quale costituisce espressione volgare con significato spregiativo, di attribuzione all'interlocutore di un comportamento petulante e provocatorio tale da offendere il prestigio dell' inferiore.
Rilevante ai fini della sussistenza in capo al Comandante di Corpo della facoltà di richiedere procedimento penale ai sensi dell'art. 260 del c.p.m.p. è l'accertamento se la condotta posta in essere integri la fattispecie della “violata consegna” oppure il reato di “omessa presentazione in servizio”: dovrà essere ritenuta realizzata l'una o l'altra ipotesi a seconda che i fatti avvengano nel corso di un servizio già intrapreso.
[ [1]1] [1] Unità minore separata permanentemente o temporaneamente dalla sede del Comando di corpo a cui appartiene)
[ [1]2] [1] Posto di guardia, di blocco, ecc.),
Fino a quando il Pubblico Ministero non ha impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini, le persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria militare raccolgono ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole.
Esse, in particolare, procedono:
Dopo l'intervento del P.M. la Polizia Giudiziaria eseguirà gli atti ad essa “specificatamente delegati”, fra i quali non possono essere compresi l'interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e i confronti con la medesima (riservati esclusivamente al Magistrato).
Nell'ambito degli atti d'iniziativa sopra richiamati assumono rilievo:
In Particolare:
L'Annotazione costituisce documentazione del tutto informale, destinata a servire da ausilio esclusivamente investigativo. Il Verbale contiene la menzione del luogo, dell'anno, del mese e del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, l'indicazione della descrizione di quanto fatto o costatato e di quanto è avvenuto alla presenza del verbalizzante, nonché le dichiarazioni ricevute.
Per ogni dichiarazione e indicalo se essa e stata resa spontaneamente o previa domanda. Se la dichiarazione e stata dettata dal dichiarante o, se questi si è avvalso dell'autorizzazione a consultare noie scritte, ne o falla menzione. II verbale deve essere sottoscritto alla fine di ogni foglio da chi lo ha redatto e dagli intervenuti: se questi ultimi non possono o non vogliono sottoscrivere ne è fatta menzione.
Delle operazioni compiute deve essere redatto "Verbale" che deve essere trasmesso al P.M. entro le 48 ore successive per la convalida. Data la vasta giurisdizione militare è consigliabile dare comunque immediata notizia per le vie brevi, ad operazioni effettuate, al P.M..
L' art. 357 c.p. come novellato dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 e n. 181 del 1992, definisce il «Pubblico Ufficiale» colui che "esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa" (Cass. 4.6.1992, n. 6685). E' pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della Pubblica Amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Sono norme di diritto pubblico quelle che sono volte al perseguimento di uno scopo pubblico ed alla tutela di un interesse pubblico.
Il “potere autoritativo” è quel potere che permette alla P.A. di realizzare i suoi fini mediante veri e propri comandi, rispetto ai quali il privato si trova in una posizione di soggezione. Si tratta dell'attività in cui si esprime il c.d. potere d'imperio, che comprende sia i poteri di coercizione (arresto, perquisizione, ecc.) e di contestazione di violazioni di legge (accertamento di illeciti amministrativi, ecc.), sia i poteri di supremazia gerarchica all'interno di pubblici uffici.
Il “potere certificativo” è quello che attribuisce al certificatore il potere di attestare un fatto facente prova fino a querela di falso.
Secondo recente giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 11.7.1992, n. 7958), nel concetto di «poteri autoritativi» rientrano non solo quelli coercitivi, ma anche tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di un potere discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su un piano non paritetico rispetto all’Autorità. Rientrano nel concetto di «poteri certificativi» tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria (=Verbali), quale che ne sia il grado. Dalla definizione legislativa si deduce che l’elemento che caratterizza il Pubblico Ufficiale è l’esercizio di una “funzione pubblica”, intesa come ogni attività che realizza i fini propri dello Stato. Tuttavia, poiché ancor oggi la dottrina pubblicistica non ha fornito una nozione univoca e sicura di pubblica funzione, vi è in concreto, in dottrina e giurisprudenza, molta incertezza circa l’esatta definizione in astratto del Pubblico Ufficiale, per cui vi sono, al riguardo, molteplici teorie.
Nella indicata categoria rientrano, pertanto, il "Comandante di Corpo”.
Ad adiuvandum:
Giurisprudenza:
Gli Ufficiali di Polizia Giudiziaria Militare (UPGM) sono legittimati a compiere, sia pure per accertare solo determinate categorie di reati, tutti gli atti di polizia giudiziaria. Va peraltro rilevato che mentre gli Ufficiali di polizia giudiziaria possono svolgere qualsiasi atto, gli Agenti possono compierne alcuni e non altri [1] [2].
In particolare gli UPGM. possono procedere:
[1] [3] A quest’ultimo proposito, le disposizioni dettate dal Codice di rito e dalle norme di attuazione stabiliscono che, gli atti di polizia giudiziaria possono essere compiuti, indistintamente, dagli Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria e che alla regola si fa eccezione solo per quegli atti il cui compimento è espressamente “riservato” agli ufficiali di polizia giudiziaria in via assoluta o relativa. La riserva è assoluta quando l’atto, per la sua complesità e delicatezza, può essere compiuto dagli Ufficiali di polizia giudiziaria e cioè dai soggetti che, per le qualifica rivestita, sono titolari di più collaudate capacità tecnico-professionali. La riserva è relativa quando l’atto può essere compiuto anche dagli Agenti di polizia giudiziaria nei casi di particolare necessità e urgenza, cioè a dire, nei casi che esigono l’immediato svolgimento di attività operativa (art. 113 att.). Nelle ipotesi di riserva relativa, la necessità e urgenza che legittimano l’intervento degli Agenti di polizia giudiziaria non devono essere espressamente motivate, ma possono essere desunte anche da elementi collegati alla concreta situazione di indagine. L’agente che compie un atto in assenza di una situazione di necessità e urgenza può rispondere disciplinarmente. Nell’ipotesi di riserva assoluta, l’atto compiuto da Agenti di polizia giudiziaria è invece considerato illegittimo (Cass. 4408/98).
Gli appartenenti alla Polizia Giudiziaria militare non formano un corpo o ordine a sé stante, poiché l’attribuzione di dette funzioni non comporta alcuna modificazione in merito alla loro appartenenza alle Forze Armate e in ordine alla normale catena di dipendenze gerarchiche.
Il rapporto tra Ufficiale di Polizia Giudiziaria militare e Procuratore militare della Repubblica è un rapporto funzionale, che determina una dipendenza funzionale. Nel caso in cui un Comandante di Corpo esegua solo in parte o negligentemente le sue funzioni o ritardi l’esecuzione di un ordine dell’Autorità Giudiziaria Militare, il Procuratore Militare ne riferirà al Procuratore Generale militare presso la Corte di Appello del distretto ove opera il Comandante, che promuoverà l’inflizione di un provvedimento disciplinare a carico di detto Comandante di Corpo, interessando i competenti superiori gerarchici (art. 16 e ss. att. c.p.p.).
Abbiamo avuto modo di vedere alcune delle problematiche attinenti allo svolgimento delle attività di polizia giudiziaria militare sul territorio dello Stato, mentre per quanto riguarda l'espletamento di tali attività all'estero le soluzioni si presentano più complesse.
Ricordiamo che il Codice di rito ricollega inscindibilmente l'espletamento delle funzioni di polizia giudiziaria all'applicazione della legge penale mentre il c.p.m.p. disciplina l'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria militare con riferimento ai reati soggetti alla giurisdizione militare. Mentre la legge penale comune e quella militare si applicano a tutti i fatti-reato commessi nel territorio dello Stato e, in specifici casi e con numerose limitazioni, anche a fatti commessi all'estero, l'attività di polizia giudiziaria - manifestazione di un principio di sovranità statale che si estrinseca con atti di coercizione personale e reale, garantiti nel loro svolgimento dalla tutela penale - non può, in tempi normali, esplicarsi oltre i confini dello Stato se non “eccezionalmente”, a seguito di specifici accordi internazionali, come nel caso previsto nell'articolo 41, paragrafo 1 (inserito nel Capitolo relativo alla cooperazione tra forze di polizia), della Convenzione ratificata con la Legge 30 settembre 1993, n. 388, di esecuzione del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all'Accordo Schengen del 14 giugno 1985[1] [4] (cui hanno aderito 9 dei 12 Stati membri della Comunità Europea, quale importante misura tra quelle volte a garantire adeguati livelli di sicurezza), nel quale è disposto che le forze e gli organi di polizia di una delle Parti contraenti che nel proprio paese inseguono una persona colta in flagranza di commissione di uno dei reati di cui al paragrafo 4 (es. terrorismo internazionale, criminalità organizzata internazionale, traffico illegale di stupefacenti in associazione a delinquere, favoreggiamento di immigrazione clendestina, ecc.) o di partecipazione alla commissione di uno di tali reati, sono autorizzati a continuare l'inseguimento (c.d. inseguimento transfrontaliero) senza autorizzazione preventiva nel territorio di un'altra Parte contraente quando le Autorità competenti dell'altra Parte contraente non hanno potuto essere previamente avvertite dell'ingresso in detto territorio, data la particolare urgenza, mediante uno dei mezzi di comunicazione previsti o quando tali Autorità non hanno potuto recarsi sul posto in tempo per sostituirsi nell'inseguimento; tuttavia al più tardi nel momento di attraversare la frontiera gli agenti impegnati nell'inseguimento dovranno avvertire le Autorità competenti della Parte contraente nel cui territorio l'inseguimento avviene e questo deve cessare non appena la Parte contraente nel cui territorio esso si sta verificando lo richiede.
Che l'attività di indagine in territorio estero - anche finalizzata all'accertamento di fatti di reato realizzati in Italia - non possa, in tempi normali, essere svolta dalle nostre forze di polizia appare evidente anche al profano che abbia seguito le recenti e meno recenti questioni in materia di rogatorie[2] [5] internazionali e di collaborazione giudiziaria.
Tale soluzione, tuttavia, comporta un notevole rallentamento delle indagini e, quando l'apparato giudiziario e di polizia del paese rogato non funzionano o si trovano nel pieno di una guerra, può divenire praticamente inutile.
Pertanto, il C.S.M. ha avviato un'indagine per verificare se siano effettivi e adeguati gli strumenti di cooperazione giudiziaria tra Stati per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo internazionale, rogatorie comprese, anche allo scopo di suggerire possibili interventi al Parlamento.
Dalle prime audizioni sono emersi che i tempi medi per avere risposta a una rogatoria internazionale sono pari a 4-5 anni, con punte massime di dieci anni; ma i problemi non vengono solo dalle rogatorie, in quanto è stato rilevato che le difficoltà nelle indagini oltre frontiera sono legate soprattutto alle diversità delle legislazione tra Stati. Occorre quindi risolvere il quesito se in siffatti ambienti operativi eccezionali nei quali si esercita anche sul territorio estero la sovranità italiana attraverso il mezzo più incisivo, l'uso delle armi, la vigente normativa è idonea a fornire una tutela penale sia con riferimento a fatti criminosi commessi dai militari italiani a danno di militari di altre nazioni operanti oppure di civili locali, sia per i reati commessi a danno di militari italiani; e ciò sia per quanto riguarda l'ordinamento penale e processuale penale, sia per quanto riguarda la reale possibilità di procedere, per mezzo della Polizia Giudiziaria, all'accertamento dei fatti e all'individuazione dei colpevoli.
Per il Comandante di Corpo, di distaccamento o di posto e per gli altri Ufficiali di polizia giudiziaria militare inseriti in un Contingente che opera nel Paese straniero si pone il problema di qualificare penalmente un fatto - in primo luogo distinguendo se comune o militare - del quale sono venuti conoscenza per decidere eventuali provvedimenti coercitivi da adottare, se svolgere o meno indagini, se inviare oppure no la comunicazione della notizia di reato al competente Procuratore Militare: si tratta, pertanto, di definire quali sono le norme penali, comuni o militari, sostanziali e processuali, applicabili alla fattispecie concreta posta in essere.
In buona sostanza, se in territorio estero un Ufficiale di polizia giudiziaria militare si trova presente nel momento in cui un militare del contingente italiano sta commettendo un furto, una rapina, ecc., ha l'obbligo di intervenire per impedire l'evento ?
Deve arrestare in flagranza il responsabile e deve inviare la comunicazione della notizia di reato al PM (ordinario o militare) ?
E se l'autore di quegli stessi fatti è un estraneo alle Forze Armate italiane che sta agendo contro un cittadino o un militare italiano ?
In mancanza di applicazione della legge penale militare di guerra l'Ufficiale di polizia giudiziaria militare potrà solo, trattandosi di reati comuni:
[1] [6] [6] L’Accordo di Schengen prevede altre misure di carattere generale, come la cooperazione tra le forze di polizia, l’assistenza giudiziaria, l’estradizione, la lotta contro la droga. Schengen quindi costituisce il primo tentativo europeo di dare una risposta comune a questioni che superano ormai il quadro nazionale ma, soprattutto, costituisce il primo passo verso la creazione di una spazio europeo di libertà e di sicurezza. Lo scopo principale dell’Accordo di Schengen è quello di realizzare uno spazio di libertà eliminando progressivamente i controlli alle frontiere interne, adottando le necessarie misure compensative e sviluppando la cooperazione doganale e di polizia. L’accordo di Schengen, firmato nel 1985 da Francia, Germania e Benelux, ed al quale hanno successivamente aderito Italia (1990), Spagna e Portogallo (1991), Grecia (1992), Austria (1995), Danimarca, Svezia e Finlandia (1996), benché copra, attualmente, tutto il territorio dell’Unione Europea (eccezion fatta per Regno Unito e Irlanda), non è un accordo «comunitario» ma un accordo intergovernativo. Per accordo comunitario, si intende un accordo che viene realizzato ed eseguito all’interno del quadro istituzionale comunitario. L’accordo di Schengen, invece, è un accordo intergovernativo di tipo classico, negoziati dai governi e ratificato dai parlamenti di stati che, allo stesso tempo, fanno parte dell’Unione europea. Di recente poi, due stati non membri dell’Unione europea si sono associati all’accordo di Schengen (Norvegia e Islanda).L’Italia è in una condizione particolare: aderente a Schengen fin dal 1990, non è riuscita a partecipare alla prima fase attuativa (marzo 1995) causa la mancanza di una legge di tutela della riservatezza rispetto all’uso dei dati. Ora questa legge è stata approvata e si prevede che nell’ottobre prossimo anche il nostro Paese parteciperà all’attuazione degli accordi.
[2] [7] [7] Con questo termine si fa riferimento alla richiesta che una Autorità Giudiziaria rivolge ad una Autorità Giudiziaria di altra sede perché proceda in sua vece all’assunzione di mezzi di prova. Si tratta in sostanza di una delega. E’ possibile rivolgere rogatorie alle Autorità straniere e ai consoli italiani nonché riceverle dalle stesse in materia civile che in materia penale.
L’argomento di maggiore interesse, ai fini del presente lavoro, è quello delle potestà del “Comandante di Corpo” nel quadro delle attività di polizia giudiziaria militare. L’art. 57 c.p.p., dopo aver individuato, ai commi 1 e 2, una serie di soggetti che sono Ufficiali ed Agenti di polizia giudiziaria, al comma 3 dispone che «sono altresì Ufficiali e Agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del “servizio” cui sono destinate e secondo le rispettive “attribuzioni”, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’art. 55 c.p.p.».
Tra le molteplici ipotesi in cui leggi e regolamenti attribuiscono a determinati soggetti le funzioni di polizia giudiziaria, l’art. 301 c.p.m.p. (in linea con quanto previsto dall'art. 57, n. 3, del c.p.p.) stabilisce che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria, per i reati soggetti alla “giurisdizione militare”, oltre agli Ufficiali di polizia giudiziaria indicati nel Codice di procedura penale, e con priorità su questi, i Comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle varie Forze Armate.
La nozione di "Corpo" si ricava dall'art. 726 del R.D.M.. "Distaccamento" è unità minore (rispetto al corpo), separata permanentemente o temporaneamente dalla sede del comando di corpo dal quale dipende. "Posto" è il luogo determinato, isolato e distanziato dalla sede del comando da cui dipende, dove un certo numero di militari è stato assegnato per l'espletamento di un compito di servizio (posto di guardia di un deposito di munizioni, posto di blocco, ecc.). Ne consegue che il comandante del posto (anche se sottufficiale, graduato o soldato) esercita, per legge, le “funzioni di polizia giudiziaria militare”.
E’ da segnalare, per completezza, il disposto dell'art. 36 comma. 4, del R.D.M.: ogni militare, richiestone anche verbalmente da appartenenti alla polizia giudiziaria, deve prestare loro il proprio concorso.
La nostra attenzione, peraltro, si estenderà anche ad istituti di particolare rilievo, connessi con tali attività, come la “richiesta di procedimento”, che si configura quale atto amministrativo con “valenza giudiziaria”, nell’ambito delle potestà disciplinari e correttive del Comandante di Corpo.
Ciò premesso, si evidenzia che non si può parlare delle potestà del Comandante di Corpo, se prima non viene inquadrato nella giusta ottica il concetto di “responsabilità”.
Il concetto giuridico di «responsabilità» è strettamente compenetrato nel concetto di diritto, ossia l'insieme delle norme obbligatorie che regola la civile convivenza e che, in relazione alle complesse esigenze della realtà sociale, tendono a moltiplicarsi. Il termine "responsabilità" spesso, nel linguaggio comune, é adoperato per indicare un canone organizzatorio che, propriamente, è la "competenza", cioè la porzione di attribuzione nell'esercizio di una pubblica potestà. In senso tecnico giuridico, invece, la responsabilità è la soggezione agli effetti reattivi dell'ordinamento giuridico connessa con l'inadempimento di un dovere di fare o di astenersi da una certa attività.
Pur avendo un comune fondamento etico, il concetto di responsabilità è, pertanto, suscettibile di plurime qualificazioni, secondo le varie branche del diritto cui la condotta antidoverosa inferisce: civile, penale, amministrativa (quest'ultima distinta in disciplinare e patrimoniale). I principi e i criteri dei vari tipi di responsabilità non sono comuni né tanto meno intercambiabili, anche se spesso una sola azione o omissione da’ luogo a responsabilità a diverso titolo.
Delineato tale quadro d'insieme, ci soffermeremo, in particolare, sulla responsabilità penale e sugli adempimenti previsti per i superiori gerarchici. In ambiente militare accadono fatti costituenti reati comuni o reati militari.
Il sistema normativo attuale presenta contraddizioni ed illogicità (per vicende legislative che non è possibile sintetizzare in questa sede) sì che occorre procedere con metodo formale. Per semplicità espositiva, alla distinzione si perviene enucleando i reati militari, che si concretano in qualunque violazione della legge penale militare.
Può, in concreto, accadere (concorso apparente di norme coesistenti) che uno stesso fatto sia previsto dalla legge penale comune e dal c.p.m.p.: in tal caso, per il principio di specialità (art. 15 c.p.) si applica la norma speciale, cioè quella compresa nel c.p.m.p., ricorrendone i presupposti. La distinzione non è meramente teorica, ma comporta adempimenti differenziati da parte dei superiori militari. Il principio della perseguibilità d'ufficio in materia penale, con le eccezioni relative alla querela e alla richiesta di procedimento, comporta l'obbligo, per il Pubblico Ufficiale e per l'incaricato di un pubblico servizio, di denunciare, senza ritardo, al Pubblico Ministero (P.M.) o ad un Ufficiale di polizia giudiziaria, la notizia di un reato perseguibile d'ufficio, appresa nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio (art. 331 c.p.p.).
Il Comandante di corpo è l’ Ufficiale preposto al comando o alla direzione di Unità o Ente o servizio organicamente costituito e dotato di autonomia nel campo dell’impiego e in quello logistico, tecnico ed amministrativo (art. 726 del R.D.M. approvato com D.P.R. 15.3.2010, n. 90). Egli è direttamente responsabili della disciplina, dell'organizzazione, dell'impiego, dell'addestramento del personale nonchè della conservazione dei materiali e della gestione amministrativa e del compito di curare il benessere morale e materiale dei militari, di imprimere vivacità, puntualità ed ordine alla vita di caserma, di disciplinare i servizi interni ed esterni.
L’esercizio delle proprie funzioni disciplinari, intese nel senso più ampio, riguarda in modo particolare i seguenti ambiti di attività:
Alcuni reati militari espressamente indicati, sono perseguibili solo a richiesta del Ministro (art. 94 e dal 103 al 112 c.p.m.p.).
Secondo l'art. 55 del c.p.p., la Polizia Giudiziaria ha l'obbligo, anche di propria iniziativa, di prendere notizia dei reati, d’impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, di ricercarne gli autori, di compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale. Referente principale della polizia giudiziaria è l'ufficio del pubblico ministero. La legge distingue, per quanto attiene alla legittimazione, tra ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, con differenziati poteri.
La nozione di ufficiale di polizia giudiziaria, quindi, comprende, ma è più ampia di quella di pubblico ufficiale.
Per i reati militari soggetti alla giurisdizione militare, l'art. 301 c.p.m.p. (in linea con quanto previsto dall'ari 57, e, 3, del nuovo c.p.p.) estende ai comandanti di corpo, di distaccamento o di posto l'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, stabilendo un ordine di precedenze.
Il procedimento penale è essenzialmente la dialettica conflittuale tra il diritto di libertà dell’inquisito e la pretesa punitiva dello Stato. Il modello accusatorio astratto contempla la presunzione di non colpevolezza dell’inquisito (art. 27. Comma 2 Cost.), sicché prima della sentenza irrevocabile di condanna dovrebbero essere inammissibili meccanismi limitativi o privativi della libertà personale dell’inquisito, innocente in forza di legge.
II modelli accusatori positivi, tuttavia, in varia misura, consentono la limitazione anticipata dello stato di libertà, con misure cautelari, per:
Il Codice di rito prevede:
Le misure cautelari possono essere raggruppate in misure “coercitive”, che sono, in vario modo, privative o limitative della libertà di locomozione, ed in misure “interdittive”, che si limitano ad intaccare talune facoltà giuridiche o diritti, ma non incidono sulla libertà dell’individuo. Come quelle personali, anche le misure cautelari reali (sequestro preventivo e sequestro conservativo) hanno natura solo giurisdizionale.
In particolare, l’arresto in flagranza e il fermo di indiziato di delitto rappresentano i tipici provvedimenti provvisori (misure pre-cautelari) limitativi della libertà personale. cui possono procedere, in caso di necessità e urgenza, Autorità diverse dal Giudice (Pubblico Ministero e Polizia Giudiziaria). Entrambe le misure di polizia giudiziaria mirano a realizzare, in casi eccezionali e di urgenza (art. 13, comma 3 Cost.), una funzione anticipatrice delle corrispondenti misure cautelari custodiali riservate poi al Giudice, ed hanno, quindi, rispetto ad esse, un ruolo pre-cautelare, anche cronologicamente.
Le misure cautelari giurisdizionali hanno per presupposto una delle tre tipiche funzioni cautelari: pericolo di «inquinamento delle prove», «pericolo di fuga» o «pericolo per esigenze di difesa sociale» (art. 274).
Tuttavia è da ritenere che tali parametri siano tutti presuntivi della sussistenza di esigenze cautelari. Conferma se ne trae dalla previsione dell’obbligo del Pubblico Ministero di rimettere in libertà l’arrestato e il fermato quando non ravvisi esigenze cautelari (art. 121 disp. att.). D’altra parte, il fermo e l’arresto, aventi durata massima di 96 ore, possono essere tramutati in misure cautelari personali, solo se sussistono esigenze, appunto, cautelari (art.391 c.5).
La differenza saliente tra arresto e fermo, è il requisito della flagranza del reato: questa occorre per l’arresto, ma non per il fermo.
Una generale riconsiderazione s'impone in materia di misure restrittive e limitative della libertà personale. Secondo l'articolo 13 della Costituzione, la libertà personale è inviolabile e non è ammessa forma alcuna di detenzione, d’ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
Tuttavia, in casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente, possono essere adottati provvedimenti provvisori da Autorità diverse dal Giudice, che devono essere, però, comunicati entro 48 (quarantotto) ore all'Autorità Giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive 48 (quarantotto) ore, s’intendono revocati e privi di ogni effetto.
Tale norma-base ha ricevuto un'articolata disciplina attuativa dal Codice di procedura penale, con connotazioni più garantiste rispetto all'abrogato Codice del 1930 e delle successive modificazioni ad esso apportate. Ma anche rispetto alla disciplina comune, inefficace dal 24 ottobre 1989, il Codice penale militare di pace, presentava in materia marcati tratti differenziali rimessi all'esame della Corte costituzionale[1] [8] [8].
Secondo l'art. 308. 1 comma, c.p.m.p., le persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria militare "devono procedere o far procedere all'arresto di chiunque è colto in flagranza di un reato militare, punibile con pena detentiva o con pena più grave". Tale norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 503 del 26 ottobre, pubblicata il 15 novembre 1989, perché in stridente ed inconciliabile contrasto con i principi generali in materia di restrizioni della libertà personale, ricavabili dall'art. 13 della Costituzione giudiziaria militare in materia di detenzione, trova nel dettato costituzionale, come sole eccezioni consentite, i casi di necessità e di urgenza, oggetto di tassativa previsione legislativa.
A fronte di tale quadro di riferimento, l'art. 308 c.p.m.p. presentava una sfera derogatoria talmente ampia da collocarsi agli antipodi di ciò che s'intende per eccezionalità, tanto da tradursi, immotivatamente, in criterio assoluto e onnicomprensivo.
Con il venire meno della disposizione, alla determinazione dei casi di arresto in flagranza per reati militari soccorrono gli articoli 380 e 381 c.p.p.[2] [9], applicabili in virtù del rinvio generale sopra indicato (art. 261 c.p.m.p.), che disciplina le ipotesi in cui l'adozione dei suddetti provvedimenti provvisori, da parte della Polizia Giudiziaria è, rispettivamente, obbligatoria o facoltativa.
La nozione di "flagranza" è data dall'articolo 382 c.p.p.: è in stato di flagranza chi viene colto nell'atto di commettere un reato (flagranza in senso proprio) o chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima (casi di quasi flagranza). Nei reati permanenti (ad esempio, quelli d'assenza dal servizio), lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza.
[1] [10] [10] La Corte Costituzionale è intervenuta due volte nella materia in titolo: la prima volta, con sentenza n. 74/85, la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.m.p., che conferiva al Comandante di Corpo la potestà di adottare la c.d. “detenzione in via disciplinare” fuori dei casi di flagranza e in assenza di ordine o mandato di cattura, senza prevedere particolari limitazioni, per il Comandante stesso, in ordine alla durata del provvedimento di detenzione. La Corte, poi, è tornata sull’argomento con la sentenza n. 503/89, dichiarando l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 308, 1° comma, c.p.m.p., che imponeva all’Ufficiale di p.g.m. l’obbligo di procedere ad arresto nella flagranza di qualsiasi reato militare. E’ in stato di flagranza colui che viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero, subito dopo il reato, è inseguito dalla Polizia Giudiziaria o viene colto con cose o tracce da cui traspaia la commissione del reato (=quasi flagranza). Entrambe le sentenze poggiano sulla violazione dell’art. 13 della Costituzione. Esso afferma che l’adozione di provvedimenti cautelari di restrizione della libertà personale da parte della Polizia Giudiziaria deve aversi solo in casi di necessità ed urgenza tassativamente indicati dalla legge, fermo restando l’obbligo di comunicazione all’Autorità Giudiziaria entro 48 ore e la convalida degli stessi provvedimenti entro le successive 48 ore. Abrogato, quindi, lo specifico istituto penale militare dell’arresto in flagranza, sono le disposizioni degli artt. 380 e 381 del c.p.p. a determinare i casi di arresto obbligatorio o facoltativo, in flagranza per i reati militari commessi dai militari. Fuori dei casi di flagranza, si può applicare, ai militari autori di reati militari, il fermo di Polizia Giudiziaria, previsto dall’art. 384 c.p.p., che determina anche tutte le condizioni legittimanti il fermo stesso.
[2] [11] [11] Nel caso di arresto facoltativo deve esistere la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
a) gravità del fatto (luogo, causali, danno provocato, mezzi utilizzati, modalità dell’azione);
b) pericolosità del soggetto (precedenti penali, condotta successiva al reato, condotta di vita individuale).
Singolare nel nostro sistema processuale è l’obbligatorietà per la Polizia Giudiziaria di procedere, in determinate ipotesi, all’arresto, mentre il Giudice ha sempre discrezionalità nella emissione iniziale, nelle stesse ipotesi, della corrispondente misura cautelare custodiale, sicché l’indagato che riesca a sfuggire all’esecuzione dell’arresto obbligatorio di P.G. può anche non essere assoggettato dal Giudice alla analoga misura giurisdizionale. L’apparente contraddizione è spiegata dalla normale immediatezza di intervento della Polizia Giudiziaria rispetto al fatto-reato, che giustificherebbe in ogni caso la immediata e drastica reazione pre-cautelare e, quindi l’automatico arresto in flagranza.
► L' arresto obbligatorio configura un tipico potere-dovere per le persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria, comune e/o militare, e si fonda sulla necessità di provvedere alle esigenze di difesa sociale per i reati che sono compresi nella tipologia dell'articolo 380 c.p.p.. L'arresto è stabilito per reato non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 5 (cinque) anni o nel massimo a 20 (venti) anni, nonché per altri delitti tassativamente indicati nella disposizione citata. E' da aggiungere che quando ricorre una di tali ipotesi, ai sensi dell'art. 383 c.p.p. (facoltà d'arresto da parte dei privati), ogni persona è autorizzata a procedere all'arresto in flagranza, purché non si tratti di reati soggetti a condizioni di punibilità e/o procedibilità, come la querela o la richiesta di procedimento. La persona che ha eseguito l'arresto deve, senza ritardo, consegnare l'arrestato e le cose costituenti il corpo del reato alla polizia giudiziaria, la quale redige il verbale della consegna e ne rilascia copia.
Riassumendo:
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► L' arresto facoltativo in flagranza di reati comuni ricorre nei casi previsti dall'articolo 381 c.p.p,: reato non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a 3 (tre) anni ovvero colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 (cinque) anni. Si prescinde da tali limiti di pena per i reati indicati nel secondo comma della disposizione (peculato mediante profitto dell'errore altrui, corruzione, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, lesione personale, furto ecc.), quando ricorre la necessità di interrompere l'attività criminosa. Ma in tutti i casi sopra indicati, con riferimento sia alle pene edittali sia alla tipologia considerata, occorre anche l'esistenza di precisi presupposti: la gravità dell’atto o la pericolosità del soggetto.
Riassumendo:
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A fattor comune dell'arresto obbligatorio e di quello facoltativo si applica il secondo comma dell'articolo 308 c.p.m.p., non investito dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale sopra indicata: occorre compilare processo verbale dell'eseguito arresto e porre l'arrestato immediatamente a disposizione del Procuratore Militare della Repubblica, custodendolo, preferibilmente, in luogo militare.
E’ da segnalare, inoltre, che l'applicazione dell'articolo 383 c.p.p. (facoltà d’arresto da parte dei privati) si rivela utile soprattutto nei casi di gravi reati comuni commessi in ambito militare, rispetto ai quali i Comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle Forze armate non sono legittimati alle funzioni di polizia giudiziaria (tranne, ovviamente, che si tratti d'Ufficiali, Sottufficiali o Graduati dell'Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di Finanza, ecc.).
Altro provvedimento provvisorio, che può essere eseguito dalla Polizia Giudiziaria, è costituito dal "fermo di indiziato di delitto", previsto dall'articolo 384 c.p.p..Esso può ritenersi applicabile anche per i reati militari per il venir meno dell'articolo 309 c.p.m.p. (che vietava l'arresto fuori dai casi di flagranza e poneva il divieto del fermo), a seguito della declaratoria di illegittimità della disposizione, da parte della Corte costituzionale, con la sentenza n. 74 del 19 marzo 1985.
Secondo l'indicata disposizione comune, prima che il Pubblico Ministero abbia assunto la direzione delle indagini, gli Ufficiati e gli Agenti di polizia giudiziaria procedono al fermo della persona gravemente indiziata di un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 2 (due) anni e superiore nel massimo a 6 (sei) anni, ovvero di un delitto concernente le armi da guerra e gli esplosivi.
La Polizia Giudiziaria procede inoltre al fermo di propria iniziativa qualora sopravvengano specifici elementi che rendano fondato il pericolo che l'indiziato stia per darsi alla fuga e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del Pubblico Ministero.
Va precisato, in via preliminare, che il Comandante di Corpo, come U.P.G.M., potrà procedere direttamente al fermo in presenza di reato militare commesso da un militare prima che il Procuratore Militare abbia assunto la direzione delle indagini (nel qual caso è il Procuratore a disporre il fermo).
Debbono, comunque, ricorrere tutte le condizioni legittimanti il fermo, e cioè:
Non sono, quindi, sufficienti indizi vaghi o notizie superficiali riportate.
Il Comandante di Corpo, in caso di arresto o di fermo, è tenuto ad una serie di adempimenti:
Entro le 48 ore dall’arresto o dal fermo, il Procuratore Militare, qualora riconosca fondato il provvedimento, richiede la convalida al Giudice per le Indagini Preliminari (G.I.P.).
In presenza di reato comune, ad eccezione dei reati connessi alla detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, pur sussistendo tutti i requisiti, il Comandante non potrà eseguire l’arresto o il fermo, poiché in tali casi non può esercitare funzioni di polizia giudizizria ordinaria.
Egli deve limitarsi a trasmettere la “notizia del reato” (cioè, la denuncia) all’Autorità Giudiziaria competente, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., ferma restando la necessità, nei casi più gravi, di fare intervenire tempestivamente la Polizia Giudiziaria Ordinaria (primi fra tutti, i Carabinieri a disposizione dell’A.M.) per eventuali provvedimenti cautelari d’urgenza.
L'arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima. ovvero in presenza di una causa di non punibilità (es. legittima difesa, uso legittimo delle armi, stato di necessità).
Se risulta evidente che l'arresto o il fermo è stato eseguito per errore di persona o fuori dei casi previsti dalla legge o se non interviene la convalida entro 96 ore, la liberazione è disposta, prima dell'intervento del P.M., dalla stessa persona che ha effettuato l'atto.
Data l'estrema delicatezza della materia, è necessario mettersi in contatto per le vie brevi con la Procura Militare competente per avere direttive in materia e, in caso di difficoltà, richiedere la consulenza dei Carabinieri.
Mancano, infatti alto stato necessarie disposizioni di più preciso raccordo con le disposizioni comuni, sì che le anzidette misure restrittive devono applicarsi mediante operazioni di difficile ortopedia interpretativa. E stato sottoposto all'esame del Parlamento un disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 17 novembre del 1988, concernente la delega legislativa al Governo per l'emanazione del nuovo Codice penale militare di pace. Due "direttive", previste in tale progetto, attengono specificatamente alla parte procedurale: una riguarda l'uniformità del processo penale militare al processo penale comune nelle parti in cui la specialità dell'ordinamento o della materia non suggerisca l'opportunità di una diversa disciplina; l'altra propone il riesame delle disposizioni concernenti la polizia giudiziaria militare, prevedendo la possibilità di istituire “Sezioni” di polizia giudiziaria militare, in modo da sollevare i Comandanti di corpo dalle funzioni predette. Ma, com'è evidente, tutto ciò concerne il futuro: oggi si applica l'art. 301 c.p.m.p., che comporta gli adempimenti sopra indicati.
A fronte del principio secondo il quale la perseguibilità dei reati, comuni o militari, è obbligatoria, mediante l'esercizio dell'azione penale, si collocano una serie di "istituti derogatori", che costituiscono condizioni di punibilità e/o di procedibilità (artt. 336-344 c.p.p.):
Nell'ambito della legge penale militare assume particolare rilievo la “richiesta di procedimento”, prevista dall'art. 260 c.p.m.p., mentre non trovano espressa previsione la querela e l'istanza della persona offesa, ritenute estranee allo speciale sistema.
Tali atti - che in questa sede si fornisce una meramente trattazione - non possono essere confusi con la comunicazione di reato (=Informativa) e con la denuncia ad opera di un Pubblico Ufficiale o di un privato, che costituiscono mere manifestazioni di conoscenza.
► La Querela (art. 336 e segg. c.p.p., è la dichiarazione, raccolta in un atto o resa oralmente, con il quale la persona offesa dal reato oppure un suo legale rappresentante manifesta la volontà che si proceda ad un fatto previsto dalla legge come reato (fa richiesta di punizione). La richiesta di punizione assume rilevanza nei soli casi in cui la legge penale subordina la punibilità del reato alla volontà dell’offeso (reati procedibili a querela).
In ordine alle formalità di presentazione, la dichiarazione di querela può essere proposta per iscritto in carta non bollata o anche oralmente alla P.G.[1] [12] [12]o anche al P.M.. In quest’ultimo caso viene redatto processo verbale, che va sottoscritto anche dal querelante o dal procuratore speciale (munito di mandato rilasciato per atto pubblico o scrittura privata autenticata da allegare alla querela). Può anche essere spedita in piego raccomandato, per posta ma in tal caso la sottoscrizione deve essere autenticata.
Per esigenza di certezza in ordine alla provenienza dell’atto, va sempre identificato dal Pubblico Ufficiale il soggetto che propone, rimette o accetta la remissione di querela. Il soggetto legittimato a proporla è la persona offesa o legale rappresentante dell’ente o associazione. Se la persona offesa è un minore degli anni 14 o inferma di mente, la querela è presentata dall’esercente la potestà dei genitori, dal tutore ovvero da un curatore speciale all’uopo nominato dal Giudice su richiesta del P.M. (art.121 c.p. e 338).
In ordine al termine, il diritto di querela va proposto, entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato[2] [13] [13],altrimenti è priva di effetti. Il termine è di 6 mesi quando si tratta di delitti contro la libertà sessuale[3] [14](violenza sessuale) o atti sessuali con minorenne.
Il diritto di querela si estingue per:
In quanto disponibile, la querela può essere rimessa dopo la sua presentazione (art. 380) ovvero essere oggetto di rinuncia prima della sua presentazione (art. 339). Nel caso di reati perseguibili a querela di parte, in mancanza della querela, che può sopravvenire (entro tre mesi), possono essere compiuti "solo atti di indagine preliminari" necessari per assicurare le fonti di prova (art. 346 c.p.p.).
La remissione di querela è la dichiarazione (scritta o orale) con la quale la persona offesa dal reato (=querelante) o chi la rappresenta propone la revoca della querela precedentemente proposta. Per essere efficace (e produrre la estinzione del reato), la remissione deve essere "accettata" dal querelato. Poiché la persona querelata (=autore del reato) ha interesse, se innocente, a dimostrare, attraverso il processo, la sua completa estraneità al fatto-reato che le è stato addebitato nella querela, la remissione di questa non produce effetto se il querelato la ha tacitamente od espressamente ricusata: vale a dire se alla remissione non è seguita la sua accettazione. Le spese del procedimento sono a carico al querelato, salvo che nell’atto di remissione sia stato diversamente convenuto (art. 13 Legge 25.6.1999, n. 205)- La remissione non è consentita per i delitti contro la libertà sessuale. In tale ipotesi, quindi la querela, una volta proposta, non può essere più revocata. Anche per la querela non è richiesta l’adozione di alcuna formula sacramentale purché in essa risulti con sufficienza chiarezza la volontà del querelante.
► La Istanza (art. 341 c.p.p.) consiste nella domanda con la quale il privato, persona offesa, chiede che si proceda contro i responsabili di taluni reati comuni (non politici) commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero che, se fossero stati commessi nel territorio dello Stato sarebbero perseguibili di ufficio. La mancanza dell’istanza di procedimento precluderebbe l’instaurarsi del procedimento penale: essa realizza, infatti, una condizione di procedibilità L’istanza segue le forme di proposizione della querela: come questa non è legata all’uso di formule sacramentali e può essere diretta anche contro ignoti.
Come la querela, l’istanza di procedimento può essere presentata al Pubblico Ministero o alla Polizia Giudiziaria o anche ad un Agente consolare all’estero, sempre entro tre mesi dalla ricezione della notizia del fatto-reato ed entro tre anni dalla presenza dell’autore a cui il fatto è addebitato sul territorio dello Stato. A differenza della querela, è irrevocabile. Suo contenuto essenziale è la manifestazione di volontà punitiva in ordine ad un determinato fatto-reato, anche se sommariamente indicato.
► La Richiesta di procedimento (art. 342), è come la querela e l’istanza, consiste anch’essa in una manifestazione di volontà punitiva, e si estende di diritto a tutti i responsabili. E’ un atto (amministrativo e discrezionale) con il quale l’Autorità pubblica (generalmente il Ministro di Giustizia e nell’ipotesi dell’art. 260 comma 1 e 2 c.p.m.p., il Ministro dal quale il militare dipende o il comandante del corpo), elimina, spinto da opportunità politiche, un ostacolo procedurale permettendo così il perseguimento di determinati reati commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero.
In ordine alla forma, la Pubblica Autorità (in genere il Ministro di Giustizia) redige richiesta scritta, fatta pervenire direttamente al P.M., e non anche ad un Ufficiale di P.G. Tale richiesta deve essere sottoscritta personalmente da Ministro o da funzionario da lui delegato (Cass. 23.5.1994) e formulata, come la querela e l’istanza di procedimento, entro tre mesi dalla notizia del fatto costituente reato, a pena di inefficacia.
Non è consentita rinunzia, preventiva o successiva, in quanto la richiesta è irrevocabile (art. 120 c.p.).
[1] [15] [15] Eccezionalmente, in caso di flagranza di delitto che impone o consente l’arresto (artt. 380 co.3 e 381 co.3), la querela può essere proposta (anche con dichiarazione orale) a un Agente di P.G. (anziché a un Pubblico Ufficiale) presente nel luogo. Della dichiarazione di querela va dato atto nel verbale di arresto.
[2] [16] Costante è l’affermazione per cui per notizia del fatto che costituisce reato, ai fini della decorrenza del termine per proporre querela, deve intendersi la piena conoscenza di tutti gli elementi indispensabili per la valutazione dell’esistenza del reato, cioè la notizia completa, diretta, precisa e certa del reato stesso; pertanto uno stato soggettivo di sospetto e di dubbio inordine alla sussistenza del reato non è sufficiente per far decorrere i termini per la presentazione della querela (Cass. 30.10.1982)
Il Comandante di corpo ha il potere discrezionale, circa il perseguimento della via disciplinare o di quella penale davanti al Giudice militare, per le fattispecie di reati militari punibili con un massimo di 6 mesi di reclusione (art. 260 c.p.m.p.), in quanto spetta al suo insindacabile giudizio decidere le modalità con cui punire i reati meno gravi. La mancata richiesta di procedimento, nei casi in fattispecie, determina l’archiviazione dei procedimenti penali avviati dalla Procura Militare in base alla sola segnalazione di reato.
Non è preclusa la richiesta di procedimento penale da parte del Comandante di corpo quando, per lo stesso fatto, sia già stata inflitta la sanzione disciplinare della "consegna di rigore" (Sent. N. 406/2000, Corte Costituzionale). Infatti, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la consegna di rigore non ha un contenuto afflittivo omologo alla sanzione penale in quanto, lungi dal concretare una misura restrittiva della libertà personale, essa si traduce in un mero obbligo giuridico di rimanere, fino a 15 giorni, entro un apposito spazio militare o nel proprio alloggio.
La richiesta di procedimento è atto di natura processuale e pertanto è sottratta all’applicazione dell’art. 3 della Legge n. 241/90 (non è richiesta “la motivazione”) ed è irrevocabile (art. 129 c.p.).
La titolarità per la proposizione della richiesta è duplice:
► il Ministro da cui il militare dipende per reati militari espressamente indicati
► il Comandante di corpo o di altro Ente superiore per i reati di danneggiamento di edifìci militari e di distruzione o deterioramento di cose mobili militari e per tutti gli altri reati militari per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi-
In particolare, la richiesta di procedimento è un “atto amministrativo” che il Comandante di corpo pone in essere nei confronti del Procuratore Militare della Repubblica, per esprimere delle valutazioni di carattere discrezionale in merito all’avvio di un procedimento penale militare, a carico di un militare alle proprie dipendenze. In altri termini, il Comandante di Corpo ha la facoltà, attribuitagli dalla legge penale militare, di far continuare in sede penale l’istruzione di un fatto-reato.
Ma questo non vale, come anzidetto, per tutti i reati militari, bensì solo per quelli la cui pena edittale non superi nel massimo i 6 (sei) mesi.
La natura giuridica della richiesta di procedimento è molto controversa: la dottrina prevalente ritiene comunque che essa sia un atto amministrativo (e non processuale) che ha effetti sul processo penale militare. Data la sua natura amministrativa, la richiesta di procedimento è “condizione di procedibilità” e nel contempo manifestazione di volontà. I suo caratteri sono: discrezionalità e irrevocabilità.
Il termine di presentazione è quello di 1 (uno) mese dal giorno in cui l’Autorità ha avuto notizia del fatto.
La richiesta di procedimento non va confusa con la denuncia, cioè con la comunicazione di reato (che comunque va fatta, e con immediatezza, come vuole la legge). Anche se il Comandante decida di procedere solo disciplinarmente, deve darne ugualmente comunicazione alla Procura Militare.
In definitiva, possiamo dire che la richiesta di procedimento si applica a quei reati militari (definiti da alcuni “minori”) che, a causa della scarsa rilevanza dell’interesse militare leso, sono perseguiti penalmente solo a richiesta dal Comandante di Corpo, che si avvale della facoltà prevista dall’art. 260 c.p.m.p. In tali casi il Comandante di corpo (con esclusione del Comandante di distaccamento o di posto) ha la facoltà discrezionale (ma discrezionalità non equivale a capriccio o arbitrio) di limitare nell'ambito disciplinare la repressione difatti aventi modesta lesività. La pena che deve essere considerata ai fìni dell'applicazione dell'istituto è quella edittale, senza tener conto dell'aumento o della diminuzione derivanti da circostanze aggravanti o attenuanti, salvo che, per effetto della circostanza, 1a pena sia determinata dalla legge in modo autonomo.
La “richiesta” deve essere presentata per iscritto e sottoscritta (pertanto non è valida se proposta a mezzo fonogramma) entro 1 (un mese) dalla commissione del fatto di reato o dalla data in cui il Comandante ne è venuto a conoscenza.
Essa è irrevocabile e si estende a tutti coloro che hanno commesso il reato.
Anche nel caso in cui non si ritiene di presentare richiesta, sussiste l'obbligo della comunicazione di reato. Non sono previste formule precise ed inderogabili, purché risulti palese la volontà di chiedere l'instaurazione di un procedimento penale per un fatto, anziché perseguirlo solo in via disciplinare.
E sufficiente scrivere:
….."Avvalendomi della facoltà prevista dall'ari. 260 c.p.m.p., chiedo (o non chiedo) che si proceda penalmente a carico di... per il reato di... e per tutti i reati militari ravvisabili nel fatto e perseguibili a richiesta”. |
L’ art. 15, comma 3°, della legge n. 382/78 prevede che “in caso di necessità ed urgenza il Comandante di Corpo può disporre, a titolo precauzionale, l’immediata adozione di provvedimenti provvisori, della durata massima di 48 ore, in attesa che venga definita la sanzione disciplinare”.
Ciò stante, la Procura Generale Militare presso la Corte di Cassazione, con un suo autorevole e specifico intervento, ha chiarito ed evidenziato la correttezza di provvedimenti disciplinari cautelari del Comandante nei casi in cui, pur mancando i rigidi presupposti legittimanti l’arresto o il fermo, il reato (comune o militare) commesso dal militare sia di gravità e rilevanza tali da giustificare ampiamente l’opportunità di una tempestiva “misura” di carattere provvisorio.
Al riguardo, la Procura Generale Militare ha citato, come esempio, il grave caso dell’omicidio tra pari grado che, essendo reato comune (il C.P.M.P., infatti, considera e punisce come reato militare solo l’omicidio dell’inferiore e quello del superiore), non rientra tra le fattispecie per le quali il Comandante agisce in veste di Ufficiale di Polizia Giudiziaria, con facoltà di arresto o fermo.
Infatti - come precisato dalla stessa Procura Generale - le misure disciplinari prese dal Comandante ai sensi dell’art. 15 L. 382/78 non violano l’art. 13 Cost., in quanto limitate ad un massimo di 48 ore, e non contrastano neppure con il principio della sospensione disciplinare in pendenza dell’azione penale, in quanto la commissione di un reato giustifica comunque l’inizio di un procedimento disciplinare di corpo, nel qual caso, prima dell’intervento dell’Autorità Giudiziaria, è consentita l’adozione dei necessari ed urgenti provvedimenti provvisori (fermo restando il divieto di adottare sanzioni definitive).
Ovviamente, trattandosi di fatto-reato, il Comandante deve fare immediato comunicazione (=rapporto) alla competente Autorità Giudiziaria, che interviene subito e pone in essere a tutte le attività di sua pertinenza.
Al termine del procedimento penale, sarà ripreso e concluso l’esame disciplinare sospeso con l’intervento dell’Autorità Giudiziaria.
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